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sabato 1 ottobre 2016

Cos'è IRC? La devianza e la marginalità. La specificità dell’approccio pedagogico.

Cos'è IRC?
Leggendo su ReteSicomoro l'articolo al link http://www.retesicomoro.it/  mi sono incuriosita ed ho cercato una definizione semplice di IRC.
IRC significa "Internet Relay Chat". È stato ideato da Jarkko Oikarinen nel 1988 e sviluppato in Finlandia, da allora è stato utilizzato in oltre 60 paesi nel mondo. IRC è un sistema di dialogo multiutente, nel quale le persone si incontrano su dei "canali" per parlare in gruppo, , o anche a due, in chat private dette query. Non c’ è alcun limite al numero di persone che possono partecipare ad una discussione o al numero di canali che è possibile creare su IRC. Un server può essere connesso a diversi altri server e a centinaia di client. Esistono molte reti IRC piccole e grandi. Su IRC differenti persone possono entrare sul medesimo canale per “parlare” tra loro. In funzione dell’argomento e dell’ora del giorno un canale può risultare più o meno affollato. I canali possono essere caotici o molto tranquilli. Possono essere aperti a tutti oppure privati: aperti solo a pochi amici. Sulle grandi reti IRC (es.: Azzurra) possono esserci centinaia di canali. I canali su IRC sono dinamici: chiunque può creare un nuovo canale in modo rapido e relativamente semplice ed il tutto è naturalmente gratuito…

Poichè l'argomento è molto interessante lo riporto integralmente nei due articoli pubblicati su ReteSicomoro: buone lettura!!
Alla luce di quanto detto, qual è la specificità dell’approccio pedagogico ai temi del disagio, della marginalità, della devianza? Tale specificità si declina lungo tre direttrici principali, la prima teorica, le altre due metodologiche.
La prima. L’ emancipazione della soggettività del minore disagiato o deviante dalle letture effettuate secondo i paradigmi del “deficit”. Deficit di natura biologica, psicologica, sociologica, criminologica. Ciò non equivale a sminuire l’importanza degli sguardi scientifici delle altre scienze umane o dei fattori familiari, psicologici o sociali nella comprensione dell’eziologia dei fenomeni di marginalità o devianza, ma nel riconoscere che le forme di deprivazione materiali, psicologiche o sociali non sono condizioni necessarie a spiegare perché un ragazzo arrivi a delinquere.
Significa riconoscere alla soggettività personale del minore disagiato, marginale o deviante, il potere di un riscatto e di un’emancipazione dipendente soprattutto dalla sua responsabilità e dalle attribuzioni di significato alla realtà e alle azioni che lo stesso soggetto compie: è lui stesso, insomma, la variabile imprescindibile del modello pedagogico di interpretazione della devianza.
Si tratta di una svolta epistemologica verificatasi dal punto di vista teorico intorno alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso e che fa leva su alcuni cardini di principio imprescindibili: la valorizzazione del soggetto, la promozione del senso di responsabilità, di un agire regolato della libertà, il ripensamento radicale del concetto di diversità, del ruolo attivo e collaborativo del territorio e di tutti i soggetti sociali implicati nel partenariato a una progettazione che incida attivamente sul fenomeno. Nessuno può infatti agire con efficacia da solo, né la scuola, né la famiglia, né le agenzie educative del territorio.
Va però detto che se la formalizzazione epistemologica dell’approccio pedagogico alla devianza e marginalità si fa risalire alla metà del secolo scorso, molte pratiche educative ne hanno anticipato il senso. Mi riferisco, solo per fare un esempio, all’educazione preventiva di don Bosco, testimone di quella pedagogia della ragione e dell’amorevolezza che è uno dei cardini ancora attuali di riferimento paradigmatico per gli educatori.
La seconda. La via perenne della pedagogia del dovere. Non è casuale ricordare la lezione perenne di don Bosco. Don Bosco sceglie di donare la sua vita ai giovani e in particolare a chi vive ai margini, ai ragazzi che i meccanismi dell’esclusione sociale destinavano sin dal XVII secolo al “grande internamento”, come definisce M. Foucault l’operazione di chiusura delle personalità “difficili” nei molti luoghi della correzione istituzionale11.
E’ allora che ha inizio la fase storica della patologizzazione della condizione di devianza e marginalità che finirà per legittimare tutte le pratiche, anche pedagogiche, di repressione, controllo sociale, “normalizzazione”. Nasce così culturalmente la categoria del “diverso”, sanzionata dalla predisposizione del trattamento repressivo-correttivo nonché da una codificazione linguistica minuziosa che etichetta i “tipi” di diversità: lo svantaggiato, l’incorreggibile, l’asociale, il criminale, il folle e così via.
Queste definizioni di ruolo si inverano nelle forme lessicali e linguistiche che alimenteranno la costruzione epistemologica e metodologica di alcuni saperi scientifici a partire dall’800, soprattutto quelli di marca clinico-sociale, che giustificano anzitutto culturalmente l’approccio alla devianza nell’orizzonte della normalizzazione sociale: la psichiatria ma anche la sociologia, la psicologia, la criminologia e parte di quel sapere pedagogico che finirà per ritrascrivere i modelli esplicativi del controllo e della repressione della devianza nel cospicuo armamentario di interdizioni e dispositivi di controllo col quale “trattare” i soggetti a rischio o manifestamente devianti.
In modo specifico la pedagogia ricava la giustificazione della sua collocazione epistemologica nell’orizzonte della normalizzazione dalla lezione herbartiana, che colloca il sapere pedagogico al confine fra etica e psicologia: la prima, con le idee morali, fornisce alla pedagogia i fini e il senso della sua riflessività; la seconda, come “scienza dei mezzi”, offre all’educazione le tecnologie di trattamento della devianza come patologia sociale e individuale insieme.
La strada che viene intrapresa sul piano delle prassi formative del recupero dei marginali e dei devianti specie minori è dunque, almeno sino alla prima metà del XX secolo12, soprattutto quella dell’affermazione della “microfisica del potere”: un potere che agisce in molti luoghi del sociale per trasformare la “devianza” in “convergenza” a modelli di “normalità” e di efficienza /produttività sociale nonché di docilità caratteriale.
In questa direzione il castigo diventa il necessario complemento del formare: si educa punendo, si educa per correggere. Del resto quella della “repressione” è un categoria educativa storica ampiamente declinata nelle istituzioni formative del secolo che fa da sfondo all’azione di don Bosco, l’Ottocento, e lo stesso Giovanni fa un’esperienza personale del metodo “repressivo” in un contesto lontanissimo da quelli manifestamente correzionali: il Seminario di Chieri, dove compirà i suoi studi filosofici e teologici.
Don Bosco invita continuamente gli educatori a saper riconoscere l’unicità, in se stessi e in chi educano, e poiché per essere unici occorre esistere ed essere dotati di libero arbitrio, la missione comune è quella di insegnare ai minori ad usare questa libertà con responsabilità per «farsi buoni cittadini in terra ed essere un giorno fortunati abitatori del cielo»13. Insomma, amorevolezza testimoniata attraverso premura, familiarità, dedizione affettuosa ma che non transige sul “codice dei doveri”: su questo non sono possibili negoziazioni di sorta.
Ed è proprio nella pedagogia del dovere che va rintracciata l’attualità della lezione di don Bosco che interpella problematicamente gli educatori e gli insegnanti del nostro tempo. Le spinte antropocentriche dell’età moderna, pur ridando forza alla soggettività e affermando l’autonomia dell’agire morale, hanno prodotto spaesamento tra i giovani e, qui il problema, li hanno privati di un orizzonte di senso e di valori di una qualche fondatezza.
E poiché i valori sono correlati alla dimensione affettiva e morale, la “depressione del sentimento”14 in atto oggi sta rendendo sempre più problematiche persino le evidenze etiche fondamentali, a tal punto da non far distinguere più chiaramente ai ragazzi ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è buono e ciò che è cattivo.
Per i giovani di questi anni i fini della vita sembrano non riguardare più né il potere, né l’impegno sociale o religioso, né il progetto di una qualche forma di umanità da realizzare, bensì la ricerca del massimo di libertà spaziale e materiale da perseguire al di fuori di qualsiasi senso di responsabilità. E anzi. È sempre più la fuga ad essere scelta. Fuga dissolvente l’appartenenza agli ordinamenti tradizionali del potere: famiglia, scuola, comunità. Fuga dal dovere e dalla responsabilità nei rapporti, che si fermano all’incontro e non giungono all’impegno.
Ecco perché, pur senza ignorare le grandi chance che comunque oggi sono offerte all’educazione dall’era della tecnica, in questo contesto si comprende bene quanto diventi importante recuperare modelli di formazione – e quello di don Bosco si colloca fra questi - che consentano ai giovani di “esperire” le dimensioni dell’affettività positiva, poiché è in queste che si radica ogni forma di altruismo, di responsabilità, di dedizione per l’altro, insomma, di valore. A questo proposito le categorie educative che possiamo trarre dalla modellizzazione di don Bosco in riferimento all’approccio alla marginalità e devianza sono diverse.
Ne indichiamo solo due. La prima recupera il concetto tradizionale di autorità educativa, oggi fortemente in crisi proprio in quei settori (e la scuola è fra essi), laddove l’autorità era stata sempre accettata come una necessità naturale, richiesta sia dall’evidente incapacità dell’educando di saper provvedere a se stesso, sia dall’esigenza di assicurare la permanenza della civiltà fornendo ai nuovi nati una guida per orientarsi in un mondo che li accoglie da analfabeti.
Ebbene, poiché l’autorità esige l’obbedienza, in seguito a un’interpretazione per lo più dogmatica di alcuni principi della psicologia moderna e di teorie pedagogiche progressive, a un certo punto essa è stata scambiata come un mero esercizio di potere, nei riguardi degli educandi, soprattutto dei meno dotati. Eppure l’autorità esclude qualsiasi forma di coercizione: laddove si impiega la forza, infatti, l’autorità ha fallito15.
Le conseguenze sono state che gran parte degli educatori, per evitare di incorrere in critiche, ha finito con l’abolire progressivamente tutti quei comportamenti equivocabili come autoritari (o autoritaristici): per esempio rinunciando ad applicare principi meritocratici di gestione dei gruppi-classe (perché imponenti sulla base dei talenti, una separazione materiale tra allievi bravi e non bravi inaccettabile entro una democrazia egualitaria quale la nostra); oppure annullando le distinzioni tra gioco e lavoro a tutto vantaggio del primo; o ancora consentendo agli studenti, col pretesto di volerne rispettare l’indipendenza e rinforzare l’autonomia, forme di autogoverno impossibili da gestire.
O, ancora, mettendo in atto concessionismi “fuori misura” per espungere dal percorso formativo qualsiasi forma di frustrazione e di sforzo. Concorrendo così ad alimentare un’impropria correlazione tra diritto allo studio e diritto alla promozione. E’ ovvio che tale processo di parificazione dei meriti e dei ruoli e di semplificazione degli itinerari formativi si è realizzato a spese dell’autorità dell’insegnante, che ha perso di credibilità.
Si tratta, dunque, di recuperare senza equivoci nella scuola il principio dell’autorità educativa che richiama, come è noto, quello della responsabilità nei confronti delle nuove generazioni anche perché, come scrive H. Arendt, «nell’educazione l’assumersi la responsabilità si esprime attraverso l’autorità»16. Cosa implica questo impegno sul piano delle concrete prassi educative? Anzitutto esso comporta il proporsi agli allievi come maestri di vita e testimoni del bene, il favorire nelle classi l’esperienza del valore e l’attestarla, mostrarla e indicarla, a cominciare dai propri comportamenti, come motivo d’azione.
Comporta il riabilitare lo sforzo nello studio e la fatica dell’apprendere; il riconoscere e dare il giusto compenso ai meriti; il premiare ma anche il punire; il dare direzione e sbocco alle forze emotive armonizzando adeguatamente gli spazi del dialogo con quelli della distanza emotiva. E ancora comporta il rispetto profondo, da parte dell’educatore, per la tradizione e la cultura perché, sovrattutto nell’infanzia, il rispetto per queste ultime risiede solo nel riconoscimento attribuitogli dalle persone che più si amano.
I ragazzi, infatti, apprendono ad amare o a rifiutare quanto viene amato o rifiutato dalle persone che sono loro più vicine. È per questo che autorità educativa e professionalità non sono identificabili. Si può diventare bravi insegnanti ma esseri pessimi educatori se non si riesce a radicare nei propri allievi il senso della vita, il che avviene solo se li si ama a tal punto «da non estrometterli dal mondo lasciandoli in balia di se stessi»17. La seconda categoria pedagogica che recuperiamo dalla lezione di don Bosco è quella della amorevole reciprocità.
Essa si configura in un impegno e in un’organizzazione educativi finalizzati ad aiutare l’allievo a fare l’esperienza relazionale della sollecitudine, con e per gli altri. Don Bosco ne fa fare esperienza concreta in tutte le comunità del suo sistema collegiale, da Valdocco a Mirabello Monferrato ecc. laddove l’amorevolezza diventa “amore dimostrato”18ovvero affettivo ed effettivo, attestato dai fatti, percepibile e “percepito”.
Ed è in base a questo principio che oggi il luogo dei valori non viene più situato nelle cose in sé (i cosiddetti “beni”) o nei soggetti in sé (e nei suoi desideri), bensì nelle relazioni, nei rapporti che affettivamente legano le persone e le rendono reciprocamente importanti.
Uno stile relazionale disconfermante, impositivo, colpevolizzante, ostacola il realizzarsi di un “clima” educativo favorevole per gli apprendimenti e la comunicazione, così come all’opposto, uno stile relazionale empatico, oblativo, coinvolgente, affettivamente pieno, orientato all’ascolto, incoraggia negli allievi il senso di sicurezza interiore, la fiducia in sé e negli altri, lo spirito di iniziativa e il consolidamento di sentimenti positivi.
E’ insomma una pedagogia del “possibile” quella di don Bosco, resa tale dal riferimento a categorie e stili che saranno ripresi e tematizzati da tante teorie novecentesche dell’educazione e che don Bosco pone a fondamento di un’azione basata sulla convinzione che è attraverso ragione ma anche relazione e amorevolezza che si educa.
Come si può constatare, dunque, l’educazione preventiva non è diversa dall’educazione in genere: le finalità restano identiche. E se per gli educatori le difficoltà si fanno senz’altro più gravi quando le condotte si configurano come reati, molto può essere fatto nella direzione del rimuovere tutto ciò che, in determinate circostanze, può condurre al comportamento deviante.
Ed è qui, nell’ambito della prevenzione che il ruolo della scuola si fa determinante: per evitare che disagio e marginalità finiscano col trasformarsi in devianza. È il modo in cui gli adolescenti sperimenteranno il processo di scolarizzazione che risulterà importante per “regolare” la futura intenzionalità del minore ad accettare le leggi e le autorità formali oppure ad uscire dal circuito dell’istruzione ed esporsi ai fattori di rischio che ne possono scatenare la condotta deviante.
Gli adolescenti che vivranno nella scuola un’esperienza poco gratificante svilupperanno un atteggiamento di sfiducia e di sfida prima nei confronti delle regole scolastiche, dopo nei riguardi di quelle sociali. In antitesi al sistema formale, che rifiutano, costruiranno con i coetanei che vivono le stesse esperienze una sorta di ambiente alternativo (anche all’interno della stessa scuola!) in cui vigono le regole elaborate dal gruppo e dove si assumono ruoli diversi, trasgressivi, lontani da quelli stabiliti dall’ordinamento sociale.
La terza. La delineazione chiara del compito della scuola e degli Idr, agire preventivamente nel rapporto fra il soggetto e l’ordine istituzionale: il rilievo della progettazione partecipata. Con le Leggi 285/97 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” e 328/2000: “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”, sono cambiate le regole della programmazione degli interventi per affrontare marginalità e devianza e si sono moltiplicati i soggetti che operano in termini di costruzione di politiche minorili integrate per il proprio territorio.
Se la prima legge ha inaugurato nel settore pubblico la modalità operativa della progettazione secondo una logica di rete, la legge 328 ha incrementato questa possibilità attraverso lo strumento della progettazione partecipata. Co-progettare significa essere partecipi in tutte le fasi di costruzione dell’itinerario di prevenzione: e infatti la progettazione partecipata si caratterizza come percorso circolare, fondato sulla continua interazione tra gli attori, sia nel prefigurare il percorso, sia nel valutarlo, sia nel ridefinirne gli obiettivi e riorientarne le attività.
Lo strumento principale per tale progettazione è il Piano di Zona: in esso si richiede di esplicitare e mettere in comunicazione tutto ciò che un territorio può offrire sul piano di una prevenzione delle condotte devianti e un posto di primo piano nell’analisi dei bisogni e nella indicazione di obiettivi lo occupa la scuola.
La coerenza dell’impegno professionale dell’Idr si sostanzia nelle fasi di delineazione degli obiettivi della progettazione partecipata, ribadendo la fedeltà alla fondazione antropologica che qualsiasi progettazione dovrebbe mantenere e, all’interno della scuola, nel contributo alla prevenzione secondaria che da quest’anno può giovarsi di una nuova risorsa curricolare: l’ambito disciplinare di Costituzione e Cittadinanza.
 Loredana Perla
 (articolo tratto da www.chiesacattolica.it) 

11 «E’ sorto il giorno in cui quest’uomo, partito da tutti i paesi d’Europa per uno stesso esilio verso la metà del XVII secolo, è stato riconosciuto come straniero dalla società che l’aveva cacciato e come irriducibile alle sue esigenze; egli allora è diventato, per il più gran conforto del nostro spirito, il candidato indifferenziato a tutte le prigioni, a tutti gli asili, a tutte le punizioni», M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, tr. it., Rizzoli, Milano 1992, p. 85.
12 Dobbiamo infatti arrivare al ‘900 perché il sapere pedagogico si liberi dal pregiudizio moralistico e cominci ad affrontare i fenomeni della devianza e della marginalità attraverso paradigmi interpretativi polireferenziali sul piano scientifico e non repressivi sul piano delle ricadute nelle prassi. Ancora nel 1934 la legge 1404 che istituisce il Tribunale per i Minorenni, pur esprimendo attenzione verso la realtà giovanile alla quale viene riconosciuta una problematicità specifica, è pur sempre la “cifra” ulteriore di una “visione” che subordina le funzioni rieducative a istanze di controllo e di repressione in quel momento rappresentate anche politicamente dalla dittatura del regime fascista. E’ solo nel 1956, con una modifica sostanziale della legge 1404 (il provvedimento n.888/1956) che comincia a cadere, almeno in linea di principio, la concezione ottocentesca di un intervento finalizzato essenzialmente al trattamento correzionale del minore, per accogliere gli esiti delle ricerche e degli studi che nel campo delle scienze umane avevano nel frattempo evidenziato la connessione tra ambiente sociale e comportamenti devianti. Si determina in tal senso un significativo passaggio sul piano degli interventi verso quel sistema di rieducazione che legittima il principio secondo cui non si può prescindere nell’azione educativa dalla valorizzazione del soggetto e del suo ruolo attivo in un processo di reinserimento che risulta inefficace quando basato soltanto su azioni coattive.
13 G. Bosco, Il giovane provveduto, pp. 5-8.
14 Ibidem, p. 666.
15 «L’autorità sui cuori ci è consentita, non la si estorce; e chi la pretende, non l’ottiene. Guai se chi educa lascia da alcun atto o da alcuna parola trasparire ch’egli vuol vincolare quel libero arbitrio, che è la proprietà nostra più cara; o avvilire quella dignità, che Iddio ha stampata in fronte all’umana natura! Contro così fatta propensione, anche solo temuta, solo anche immaginata, si sollevano le potenze tutte dell’educato, e si mettono a guardia della sua assalita indipendenza. Egli sa bene, o sente confusamente che l’autorità educatrice, com’io già diceva, è un’autorità che deve soccorrerlo e dirigerlo, non soggiogarlo: si sottomette volenteroso finché l’autorità si contiene fra’ suoi confini, e adempie (severa anco, ma non passionata) al suo ufficio nativo; si rivolta contro di lei, o non potendo rivoltarsi freme mordendo il freno, quando ella mira a signoreggiarlo, e cerca nel comando il diletto del soprastare […] Lasciate che la compiacenza di sottomettere, che l’orgoglioso disdegno di parere inferiore, che la superba insofferenza d’essere contraddetto, vi entri nel cuore; e vi so dir io, che non v’è speranza per voi di far vostro il cuore del fanciullo o del giovane che voi pretendete d’educare. Egli si è chiuso, egli vi ha scacciato da sé; vi considera come nemico e vi combatte. La vostra non è più una direzione paterna, è una contesa, nella quale voi sarete materialmente il vincitore, perché avete per voi la forza; ma sarete moralmente vinto, perché il vostro potere sulla volontà del giovane sarà distrutto […] Così dev’essere quando noi ammoniamo, consigliamo e comandiamo: il giovane deve anco allora cedere non alla nostra arbitraria volontà, ma alla stima che ha per noi, all’amore per la virtù e per il proprio bene: in una parola egli anche allora dee ponderare e volere. E nel far appunto ch’ei voglia quel che noi ragionevolmente vogliamo, sta veramente la notra morale autorità», R. Lambruschini, Dell’educazione, La Nuova Italia, Firenze 1943, pp. 64-65.
16 Ibidem, p. 247.
17 Ibidem, p. 255.
18 P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, vol. II, pp. 461-462, 471-472 citato in P. Braido, Prevenire non reprimere, LAS, Roma 2000,p. 292.

La specificità dell’approccio pedagogico.
Qual è la specificità dell’approccio pedagogico ai temi del disagio, della marginalità, della devianza? Tale specificità si declina lungo tre direttrici principali, la prima teorica, le altre due metodologiche...
Disagio, marginalità, devianza: si tratta di lemmi che ricorrono frequentemente nel linguaggio comune e nella letteratura scientifica con attribuzioni di significato plurime. Per tale ragione è opportuno avviare il discorso con un essenziale chiarimento terminologico-concettuale, al fine di ridurre le ambiguità interpretative.
Cominciano col termine marginalità. Esso viene da “margine”, indica dunque qualcosa che non è al centro, intendendo per “centro”, in senso latamente culturale (storico, sociale, pedagogico) il punto di riferimento e di orientamento delle condotte della maggioranza delle persone. Un centro costituito dall’insieme di saperi, valori, atteggiamenti, costumi, identità, modelli di comportamento che la storia della cultura tramanda di generazione in generazione attraverso l’educazione e l’istruzione dei giovani. L'“adeguamento” ai contenuti di questo “centro”,diversi a seconda delle culture, è strumento fondamentale per favorire lo sviluppo integrale del singolo ma anche per realizzare e mantenere la coesione e l’ordine sociali. Il marginale è colui che si trova in una condizione di esclusione da tale “centro”, o perché tale condizione è stata intenzionalmente scelta o perché vi si è ritrovato suo malgrado, magari a un certo punto dell’esistenza, senza averlo intenzionalmente voluto.
«A fronte della pagina principale, codificata (i marginali costituiscono, n.dr.) una pagina secondaria, disordinata, che segue criteri diversi e divergenti»1. La marginalità è dunque una mancanza di integrazione e, se la si deve studiare, occorre farlo considerandola come un fenomeno opposto a quello dell’inclusione. E le forme di mancata inclusione oggi sono tante, legate a variabili economiche, culturali, sociali, psicologiche, educative.
Vi sono ad esempio le marginalità sociali prodotte dall’uso indiscriminato del potere economico che crea povertà inattese in singoli Stati (come nei casi delle famiglie ridotte sul lastrico dalla crisi statunitense dei mutui subprime) o le marginalità presenti a livello globale nelle moltissime sacche di povertà del terzo e quarto mondo. O le marginalità diffuse trasversali a vari gruppi sociali non integrati come le comunità di immigrati clandestini o di immigrati “regolarizzati” ma di fatto esclusi dai processi di partecipazione politica che forniscono identità e riconoscimento. Vi sono poi le marginalità culturali prodotte dal mancato riconoscimento dei diritti e delle pari opportunità quali quelle che toccano la condizione femminile e dell’infanzia in innumerevoli luoghi del pianeta. Ed esistono le marginalità scolastiche dell’allievo “studioso” escluso dal gruppo perché troppo “secchione” o dell’allievo svantaggiato portatore di modelli sociali a rischio di devianza che cozzano con quelli proposti dalla scuola.
Questo solo per dire che la marginalità va considerata un concetto relativo. Non esiste una marginalità in sé, come condizione a sé stante, ma esiste una marginalità rispetto a qualche cosa: marginali lo si è rispetto a un determinato contesto, per cui il recupero del marginale può avvenire facendo leva sia sulla formazione dello stesso soggetto, sia sulla “correzione” di alcuni aspetti del contesto stesso che “espelle” il soggetto rendendolo vulnerabile e ponendolo in condizione, appunto, di marginalità.
Anche in relazione al disagio il discorso va declinato al plurale perché in una società complessa qual è la nostra il disagio si caratterizza sempre più per una varietà crescente di manifestazioni. In questa sede approfondiremo soltanto la condizione del disagio minorile o giovanile, alludendo chiaramente a una fase peculiare del ciclo di vita: quella che va dalla preadolescenza (10-14 anni circa) all’adolescenza (15-18) sino alla giovinezza (19-25 e oltre).
Entro queste fasce di età emergono infatti più frequentemente i segni del “disagio giovanile”, spesso già latente nell’età pregressa dell’infanzia, e che la condizione adolescenziale slatentizza facendo emergere manifestamente eventuali difficoltà a integrare e controllare pulsioni e conflittualità legati alla maturazione biologica e a vissuti remoti di esperienze negative.
L’esito positivo di questi conflitti, come insegna la riflessione psicanalitica, porterà alla formazione del carattere e dell’identità di genere ma nei casi di esito negativo, all’emergere di sintomi nevrotici, oggi più diffusi probabilmente anche perché è più difficile per gli adolescenti assumere i genitori come modelli validi di identificazione in ragione della crisi di testimonianza educativa che coinvolge il mondo degli adulti.
Di contro va pure detto che le letture un po’ stereotipate della condizione adolescenziale sono state messe in discussione a partire dagli anni ’60 dagli studi evolutivi che preferiscono descrivere quest’età come fase di transizione vissuta nell’impegno di superamento dei cosiddetti “compiti di sviluppo”2, piuttosto che come fase disagiata tout court implicante necessariamente crisi drammatiche di vario tipo.
Il disagio, dunque, sarebbe null’altro che l’irrequietezza e l’inquietudine effetto degli sforzi del giovane di rispondere ai suddetti compiti di sviluppo, inevitabili nella vita di qualsiasi adolescente, che con essi è obbligato a misurarsi:
a) “compiti di sviluppo in rapporto con l’esperienza della pubertà e il risveglio delle pulsioni sessuali;b) compiti di sviluppo in rapporto con l’allargamento degli interessi personali e sociali e con l’acquisizione del pensiero ipotetico-deduttivo;c) compiti di sviluppo in rapporto con la problematica dell’identità (o della riorganizzazione del concetto di sé).
La discussione sui compiti di sviluppo ha aperto la strada allo studio delle modalità di coping, cioè di quanto l’adolescente riesce a investire di sé per costruire la propria identità, “facendo fronte” ai compiti di sviluppo che incontra”3.Ciò non vuol dire negare la presenza di problematiche severe di disagio che il genitore o anche l’insegnante più preparato spesso si trovano a dover fronteggiare in solitudine e con senso di impotenza. A volte certi segnali non vengono riconosciuti. E invece possono essere segnali aspecifici di disagio da non sottovalutare. Qualche esempio:
1. un improvviso ed evidente peggioramento dell’andamento scolastico;2. mancata resilienza con incapacità di far fronte alle difficoltà quotidiane;3. un cambiamento marcato nel ritmo sonno/veglia o nell’alimentazione;4. lamentele sistematiche per piccoli problemi fisici (mal di testa, mal di pancia, etc.);5. persistenza di umore negativo;6. abuso di alcool o droghe;7. paura di ingrassare;8. incubi persistenti;9. minacce di comportamenti dannosi per sé o per altri;10. autolesionismo o comportamenti distruttivi;11. minacce di fuga o di suicidio;12. violazione di regole e dei diritti degli altri, opposizione all’autorità; furti o vandalismo.
Si aggiunga la tendenza della nostra società a disconfermare l’adolescente nel suo desiderio di essere adulto per lasciarlo spesso in una condizione di subordinazione e dipendenza prolungate. Ne derivano insicurezze, mancati sviluppi dell’autostima e della capacità di resilienza, ovvero della capacità di saper affrontare la frustrazione e i disagi che ne conseguono senza farsi travolgere dallo scoraggiamento.
Oppure di mancato sviluppo del sé reale4, per cui l’adolescente non matura la capacità di reagire alle sfide della realtà con atteggiamento assertivo e manifesta condotte da falso-sé: passività, ipercontrollo, eccessivo spazio lasciato agli altri ecc.
Spesso i prodromi di queste problematiche si palesano sin dalla scuola dell’infanzia, nei piccoli disagi legati all’incapacità del bambino di superare la separazione dalla mamma per inserirsi nel gruppo-classe o nel rifiuto totale della scuola. L’intervento preventivo che può contrastare lo sviluppo patologico di tali segnali comportamentali si colloca sempre nell’ordine della relazione incoraggiante,della modulazione sapiente dell’affettività, di un atteggiamento educativo che sappia dosare dolcezza e fermezza in modi tali da contenere l’angoscia ma anche da promuovere l’autonomia5. E veniamo al termine devianza. Il significato peculiare nella sua estensione massima è di “scostamento o trasgressione rispetto a tutto ciò che costituisce la ragione e la base di un ordinamento sociale”6.Il significato peculiare nella sua estensione relativa, invece, alla fascia di età minorile è quello di fenomeno riguardante ragazzi e ragazze le cui condotte risultano dissonanti rispetto a un certo modello di competenza sociale e che per questo marcano la diversità di chi ne è protagonista rispetto ad altri7.
Un deviante è generalmente chi non rispetta le norme del vivere civile, anche se può accadere che nei comportamenti etichettati come devianti possano ritrovarsi elementi di originalità non condivisi dalla pubblica opinione e poi, magari a distanza di tempo, riscoperti come innovativi o creativi (è il caso di molte produzioni artistiche). Alcune teorie sociologiche hanno però fatto chiarezza in proposito. In particolare la teoria delle minoranze attive (Moscoviti, 1976) distingue fra devianza distruttiva e devianza innovativa.
Perché ci sia devianza innovativa è necessario che un gruppo minoritario, a causa del proprio essere in polemica con l’ordine esistente, non si limiti a protestare ma elabori «una nuova e alternativa definizione di realtà impegnandosi ad agire per trasformarla in una realtà concreta.Fra l’azione della minoranza attiva e quella dei devianti tout court esiste una differenza radicale che riguarda l’atteggiamento verso i confini della moralità:mentre nel primo caso si mette in atto uno sforzo per spostare (modificare, to move) tali confini, nel secondo caso non si rispettano i limiti che pure sono conosciuti»8.
E dunque accade che un adolescente con un disagio si ritrovi a non saper più gestire le tante ambivalenze della sua età ed entri nel circuito della devianza distruttiva. Il reato a quel punto diventa lo strumento di comunicazione del malessere del percorso evolutivo di superamento di tali ambivalenze. Numerose sono le manifestazioni di condotte devianti.
Negli ultimi anni alla devianza di tipo tradizionale si sono aggiunte nuove tipologie: quella dei ragazzi della mafia e dei ragazzi stranieri da un lato; il malessere del benessere, il bullismo (nelle più recenti manifestazioni che fanno parlare di “nuovo bullismo”) le condotte degli ultras e dei naziskin dall’altro. In Italia l’intervento legislativo concernente il processo penale a carico di imputati minorenni, risalente al 1988 (D.P.R.448/88 e dlgs 272/89) coniuga il principio sanzionatorio con quello del recupero del soggetto: anche il processo dovrebbe costituire occasione di promozione e ri-educazione dei ragazzi “irregolari”.
Tutto questo per dire che il fenomeno della devianza adolescenziale non può essere accostato soltanto attraverso teorie esplicative psicologiche che tentano di spiegarlo nei termini di una sindrome da deficit di “regolatori interni” o teorie esplicative sociologiche che leggono il fenomeno come l’esito di una socializzazione non riuscita.
Tali teorizzazioni condividono un assunto di base che ne costituisce il “limite”: che la devianza sia il prodotto di forze alla quali il soggetto è incapace di resistere. E invece, come studi sempre più numerosi attestano, la devianza si origina da una scelta precisa di coerenza: «come chi opera nella legalità tiene ad apparire di fronte a tutti come un cittadino che rispetta la legge, l’individuo che si è identificato in un ruolo di deviante vuole mostrare al suo pubblico che non deflette dall’orientamento che ha preso»9.
Il deviante insomma, spesso sceglie di esserlo e la correlazione statistica fra devianza e appartenenza socio-culturale va circoscritta a un numero limitato di reati. Di qui la specificità dell’approccio pedagogico all’interpretazione della devianza che guarda al minore come persona della quale occorre anzitutto riconoscere la centralità e il contributo soggettivo nella costruzione della devianza10. Loredana Perla
(articolo tratto da www.chiesacattolica.it) 
S. Ulivieri, L’educazione e i marginali. Storia, teorie, luoghi e tipologie dell’emarginazione, La Nuova Italia, Firenze 1997, p.3.R.J. Havighurst, Human development and education, Longmans Green, New York 1953F. Montuschi, A. Palmonari, Nuovi adolescenti: dalla conoscenza all’incontro, Edizioni Devoniane, Bologna 2006, p. 34.J. F. Masterson, Il sé reale. Relazioni oggettuali, psicologia del sé, psicologia evolutiva, Astrolabio, Roma 19975 L. Perla, Educazione e sentimenti. Interpretazione e modulazioni, La Scuola, Brescia 20026 D. Izzo, A. MannucciI, M.R. Mancaniello, Manuale di pedagogia della marginalità e della devianza, Edizioni ETS, Pisa 2003P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze2004, p.108 N. Eemler, S. Reicher, Adolescenti e devianza, tr. it., il Mulino, Bologna 2000, p.IX.Ibidem, p.XV.10 P. Bertolini, L. Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento,cit., 34.




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