1. Il diritto minorile e l’ordinamento
italiano.
Negli ultimi anni i quotidiani hanno
riportato eventi di reati terribili commessi da minori: omicidi, violenze
sessuali, rapine e atti di violenza, portando l’attenzione ed un allarme
sociale in crescendo sulla relazione tra criminalità e mondo minorile.
A tale proposito è necessario però
sottolineare subito come la criminalità minorile non sia affatto in aumento
rispetto al passato. In realtà i minori italiani denunciati, nei confronti dei
quali l’autorità giudiziaria ha dato seguito all’azione penale, nel 1991 sono
stati 27.223 mentre nel 2000 si sono ridotti a 17.535, indicando un chiaro
decremento. Tanto meno si è registrato un incremento dei reati più gravi. A
partire dagli anni novanta si è registrato una maggiore partecipazione di
minori stranieri ad azioni criminali. Gli omicidi che nel 1977 sono stati 80,
sono scesi a 62 nel 1980, a 50 nel 1981, 41 nel 1990 per divenire 47 nel 1998 e
53 nel 2000,
così come i numeri di rapine,
estorsioni e sequestri di persona sono o stabili o in decremento: se vi sono
state 1454 denunce nel 1990 e 1.486 nel 1991, alla fine degli anni novanta si è
registrato un incremento, 1970 denunce nel 1998, e un decremento nel 2000 con
1.509 denunce[1].
L’attuale generazione di giovani vive
un’epoca che li vede coinvolti in una vita sotto alcuni aspetti più adulta
rispetto le generazioni passate, complessa, articolata, fatta di tensioni e
ruoli da rivestire, in un tessuto sociale ed economico vario e mutevole e che
non sempre riesce a dare una risposta matura e idonea da parte del mondo degli
adulti.
Questo squilibrio ha portato per molti
una maggiore difficoltà nel processo di sviluppo e maturazione individuale,
tanto che solo apparentemente il giovane è più capace che nel passato di
compiere coscientemente scelte libere, a seguito dei molti condizionamenti che
gli
impediscono o rendono più difficile
l’acquisizione della capacità di libera determinazione.
Il passaggio all’età adulta si
manifesta con la realizzazione della personalità che non si limiti all’adesione
a modelli esterni conformisti, che non sia non ripiegata su di sé e sulle
proprie esigenze, non condizionata, e non solo con l’uscita dalla casa dei
genitori. Significa cioè strutturare una personalità capace di superare le
ansie, i fallimenti, le rinunce, avere una propria e autonoma chiave di lettura
della realtà.
In riferimento a quanto sopra possono
essere presi in considerazione i fenomeni del bullismo e delle baby-gang,
sebbene risulta utile fare alcuni cenni sugli elementi tipici del diritto
minorile per meglio comprendere la loro rilevanza ed il loro rapporto con la
giustizia minorile, soprattutto in materia penale.
Il diritto minorile si discosta dal
diritto penale ordinario sotto molteplici aspetti.
Oltre al Tribunale Minorenni chiamato a
giudicare i minori autori di reato, tutto l’ordinamento tende a una concezione
del minore più attenta alla particolare fase dell’età evoluta in cui si ritrova
il soggetto.
In passato il concetto di colpa, ovvero
di una cosciente e piena responsabilità morale in chi ha violato la legge, e il
concetto di punizione-riparatrice attraverso la sofferenza derivante dalla
privazione della libertà personale, costituivano le basi del sistema penale non
solo per l’adulto. Ancora nel secolo scorso, infatti, anche il sistema penale minorile,
pur prevedendo pena inferiori e la possibilità di rinuncia alla pretesa
punitiva, si radicava ancora nella convinzione che alla base del comportamento
illecito ci fosse il ‘traviamento’ del soggetto secondo il
principio malizia supplet aetatem e
che la segregazione coattiva anche temporanea del reo fosse il solo modo di
intervento e correzione.
Il primo importante intervento di
cambiamento è stato posto in essere dalla Costituzione che afferma all’art. 27:
“La responsabilità penale è personale. L’imputato non è colpevole sino alla
condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato…”
sottolineando la
funzione rieducativa che la pena deve
avere e abbandonando il principio dell’esclusiva funzione punitiva o contenitiva.
In tal modo, accertato il fatto, la
persona che lo ha commesso e la possibilità del suo recupero sociale divengono
fulcro dell’azione giudiziaria, portando alla formulazione di vari istituti
quali pene sostitutive e alternative alla sanzione detentiva o modulazione
della pena nel corso della sua esecuzione in relazione alle prove di recupero
del condannato.
In ambito minorile a maggior ragione si
è iniziato a prendere in considerazione le difficoltà che l’adolescente o il
bambino possono incontrare lungo il proprio itinerario di personalizzazione e
socializzazione, i condizionamenti e le
suggestioni che possono inquinare un regolare processo formativo.
Il sistema penale minorile tende quindi
a superare il binomio ‘colpa-sanzione’ per giungere al binomio ‘irregolarità-recupero’.
Parlare di colpa in senso tecnico
risulta difficile in riferimento ai minori poiché molti comportamenti pur penalmente rilevanti non
sono espressione di una inclinazione o di un fallimento del processo di socializzazione,
ma solo momenti occasionali di sbandamento tipici
dell’età adolescenziale. In questa fase
evolutiva infatti il soggetto è portato a voler sperimentare e dominare ogni
cosa, a valutare e mettere in discussione se stesso e i valori che gli sono
stati trasmessi, a verificare le proprie capacità e le proprie valenze.
E’ un momento di ribellione che è stato
definito ‘quasi fisiologico’ ai fini dell’acquisizione di autonomia, che nel
passaggio dalla condizione di dipendenza causa sofferenza e ansie.
Il procedimento penale minorile è
disciplinato dal D.P.R. 33 settembre 1988, n. 448 e dalle norme di attuazione,
coordinamento e transitorie del D. Lgs. 28 luglio 1989, n. 272.
Tale disciplina è autonoma rispetto al
procedimento ordinario al fine di garantire e realizzare lo scopo di tutela del
minore imputato per il qual è necessario accertare nel corso del processo
l’esistenza o meno della sua imputabilità, valutandone la capacità di intendere
e volere.
Tra le peculiarità del procedimento
bisogna evidenziare le caratteristiche rilevanti all’argomento qui trattato:
a) come tutti i soggetti istituzionali
che son parte del procedimento minorile i giudici minorili hanno una
particolare specializzazione “effettiva e specifica preparazione e
professionalità di tutti i soggetti istituzionali che operano nel processo
minorile” (Reg. Prog. Prel. Proc. Min. 210) e si caratterizzano inoltre per
la composizione ‘mista’ facendo parte dell’eventuale collegio, giudici non
togati o anche detti ‘laici’, quali psicologi, in modo tale da garantire non
solo la legalità, ma anche la multi-disciplinarietà delle complesse valutazioni
sulla personalità
dell’imputato. Proprio a tale fine
l’udienza preliminare a differenza del procedimento ordinario si svolge di
fronte ad organo collegiale composto di tre, un giudice togato e due onorari.
b) il processo deve avere come
obiettivo la realizzazione di una ripresa dell’itinerario educativo del minore
che il compimento dell’atto criminoso dimostra essersi interrotto o aver
deviato, ma prevede che lo stesso processo si articoli in modo tale da poter
contribuire allo svolgimento di questo itinerario avendo esso stesso valenze
educative, tanto che “tutte le disposizioni devono essere applicate in modo
adeguate alla personalità e alle esigenze educative del minorenne” tenendo
conto anche dell’esigenza di non interrompere i processi educativi in atto
(art. 19 comma 2).
Ne sono esempio l’art. 9 D.P.R. 448/88,
Accertamenti sulla personalità del minorenne, dispone che “Il
P.M. e il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e risorse personali
familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne
l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del
fatto, nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti
civili. Agli stessi fini il PM e il giudice possono assumere informazioni da
persone che abbiano avuto rapporti con il minorenne e sentire il parere di
esperti anche senza alcuna formalità” e l’art. 27 comma1, Sentenza di
non luogo a
procedere per irrilevanza del fatto, che prevede che durante le indagini preliminari, “se ritenuta
la tenuità del fatto e la occasionalità del comportamento, il PM chiede al
giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto quando
l’ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del
minorenne”.
Il minore è destinatario di
disposizioni di favore sia in relazione ai provvedimenti limitativi della
libertà personale, sia in ordine alle procedure di definizione anticipata del
procedimento e al giudizio dibattimentale secondo il principio detto favor
minoris, non lasciando dominare un senso punitivo del Tribunale.
Alla luce di tutto questo l’ordinamento
italiano si trova a misurarsi con la realtà della devianza e della criminalità
minorile che cambia a seguito della mutevolezza sociale e culturale sia della
popolazione in Italia sia secondo le caratteristiche dell’età giovanile stessa.
Il termine devianza, utilizzato per la
prima volta negli Stati Uniti negli anni trenta al fine di comprendere con un
unico concetto una serie di problemi sociali, è stata introdotta in Italia solo
negli anni sessanta allo scopo di superare distinzioni troppo rigide e troppo
cariche di valenza negativa quali pazzia e criminalità.
Il concetto di devianza comprende
situazioni molto diverse, se sempre di opposizione a regole di varia natura,
non sempre assimilabili o comunque sempre indicative di un radicale
contrapporsi a fondamentali valori sociali tali da suscitare nella collettività
forti reazioni di censura, tanto che spesso diversità o marginalità sono state
o ancora sono sinonimi di devianza.
La nozione di devianza nel settore
minorile in particolare ha reso possibile prendere in considerazione tutte
quelle difficoltà nel processo di personalizzazione e di socializzazione che
non sempre si esprimono in comportamenti penalmente sanzionabili, ma che si
estrinsecano anche in modi di vita ancor più gravemente sintomatici di
posizioni autodistruttive o laceranti il tessuto sociale.
Devianza non è soltanto il radicato
rifiuto dei valori o passaggi sociali prescritti, ma anche violazione di norme
fondamentali che consentono lo sviluppo della persona e la convivenza sociale,
e pertanto si distingue da disadattamento e disagio.
Il disadattamento è
l’espressione di difficoltà del soggetto di comunicare con se stesso, con il
mondo delle cose, delle persone e dei valori in maniera adeguata. E’ la
conseguenza di gravi difficoltà relazionali personali e/o sociali e di
insufficiente strutturazione del proprio “io” individuale e sociale.
Il giovane in un certo senso è sempre
un “disadattato” poiché il suo processo di identificazione e socializzazione è
in corso e quindi la strutturazione non è ancora avvenuta. Ovviamente il disadattamento fisiologico’ del giovane è ben
diverso da uno più accentuato in cui, in risposta a condizioni di vita
educativamente inadeguate, si vanno consolidando atteggiamenti tendenzialmente
lesivi o illeciti.
Il disagio è invece una
situazione di difficoltà, ambientale o relazionale, che rende meno lineare il difficile percorso di sviluppo.
Si deve riconoscere che disagio,
disadattamento e devianza possono costituire fasi diverse di un unico percorso
involutivo e pertanto è necessario intervenire sin dall’emergere della
situazione di disagio per risolvere problemi che se non affrontati possono
portare a forme sempre più gravi di disadattamento prima e devianza poi.
Il comportamento del deviante può
sfociare in comportamenti sanzionabili penalmente poiché portano il soggetto
alla realizzazione di delitti, sebbene non tutte le devianze si esprimono
sempre in comportamenti penalmente sanzionati.
Nel caso in cui la devianza si
manifesti in comportamenti non sanzionati penalmente dal nostro ordinamento il
magistrato minorile può adottare misure di recupero definite rieducative.
Nello specifico l’art. 25 delle legge
sui minori dispone che le misure rieducative possono essere disposte solo nei
confronti di minori che diano “manifeste prove di irregolarità della
condotta o del carattere”.
Per irregolarità della condotta si
intende un insieme di comportamenti posti in essere che evidenziano, senza
dubbio, una grave difficoltà nel seguire i ritmi della crescita attraverso
comportamenti regressivi e dimostrativi di un rifiuto ad aderire al principio
di realtà.
Varcellone ha definito i casi in cui è
intervengono le misure succitate:
quando sussiste un grave pericolo per
il minore a seguito del suo comportamento che lo porta a situazioni gravemente
pregiudizievoli per la sua salute psico-fisica; nel caso in cui in cui sussiste
una situazione di plagio da parte di adulti che rende necessario intervento per
spezzare cerchio di paura e violenza; quando minori commettono reati che per qualità
o quantità mostrano che il minore si va strutturando secondo modelli criminali[2].
In ambito di intervento penale, il
sistema minorile è divenuto oggi più duttile e funzionale ad un integrale
recupero del deviante.
Risulta evidente come molti
comportamenti penalmente rilevanti non sono nel minore espressione di una
inclinazione o di un fallimento del processo di socializzazione, ma sono
soltanto momenti occasionali di sbandamento del minore nel difficile momento
della crisi adolescenziale di cui già sopra. In queste condizioni di vita il
minore può porre in essere
comportamenti oggettivamente illeciti
ma che soggettivamente non sono affatto indice di asocialità o antisocialità.
Al riguardo bisogna ricordare come il
diritto processuale minorile preveda due istituti di rinuncia all’applicazione
di una sanzione penale, in particolare la ‘irrilevanza del fatto’ ed il
‘perdono giudiziale’.
Tra i fenomeni di maggior rilievo
appare il forte incremento della violenza nelle scuole e negli stadi.
Nel caso della scuola tale fenomeno
risulta in crescita nelle scuole elementari e medie, non ha alla base il solo
rifiuto dell’autorità scolastica.
Le condizioni sociali, familiari,
economiche e culturali vanno valutate per come sono vissute dal ragazzo, per la
visione del mondo che questi si costruisce interagendo con esse.
L’intervento risolutivo va perciò centrato
non sulle situazioni o comportamenti esteriori quanto sulla loro ricaduta sul
vissuto del ragazzo.
2. Bullismo e mediazione
Il fenomeno del bullismo a scuola è una
realtà da molto tempo, anche se uno studio attento del fenomeno ha avuto
origine solo nel corso degli anni ’70 specialmente in Scandinavia. Dalla fine
degli anni ottanta e nel corso del decennio successivo però il bullismo è stato
oggetto di
attenzione in diverse nazioni tra cui
Giappone, Regno Unito, Olanda, Canada, Stati Uniti e Australia.
Senza dubbio i dati relativi al
bullismo in Nord Europa sono più allarmanti rispetto all’Italia. Tra le
motivazioni rientra anche quella della diversità di culture educative, che al
nord sono fondate sui detto ‘codici paterni’. Tali codici sono fondati sulla
formazione di sé attraverso la
conquista, l’avventura, il mettersi in
gioco, l’affermarsi, elementi psichici che contribuiscono lo scontro tra
maschi. Nei paesi del bacino e di cultura mediterranea vigono al contrario i
‘codici materni’ contraddistinti da un senso protettivo implicito che determina
una minore pressione sul versante della sfida, per cui le madri tendono a
smussare il senso di duello interpersonale fra i maschi con la paura che si
facciano male o il pericolo[3].
Il bullismo è un fenomeno che è
caratteristico dell’età più giovane coinvolgendo bambini durante gli anni della
scuola elementare, media per poi diminuire durante gli anni delle scuole
superiori, ma in molti casi ha avuto effetti dirompenti sulle vittime, tanto da
determinare molti casi di suicidio. Caratteristica
fondamentale è il rifiuto di ogni tipo di regole.
Il bullismo si realizza in varie
realtà, ma senza dubbio ha grande rilevanza nella scuola che proprio per il suo
ruolo unico per i ragazzi di quella età è necessario fermare o limitare per
quanto possibile. Occhiogrosso sottolinea la necessità di considerare il
fenomeno nel
contesto di altri fenomeni di disagio
giovanile al fine di comprenderne la vera valenza, collocandolo nell’ambito del
fenomeno noto come ‘malessere del benessere’ ovvero ‘teppismo per noia’ che sta
emergendo in tutta Italia a partire dagli anni novanta, per la sua aggressività
gratuita[4].
Ulteriore elemento caratterizzante,
l’ingresso nella devianza del cosiddetto ceto medio poiché coinvolge ragazzi
appartenenti a status sociali diversi.
Il termine inglese ‘bullying’ da cui
l’italiano bullismo, è ormai utilizzato a livello internazionale , e secondo la
definizione di Olweus (1986, 1991) “uno studente è oggetto di azioni di
bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto,
ripetutamente nel corso del tempo,
alle azioni offensive messe in atto da
parte di uno o più compagni”[5] o come “un’azione che
mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare; spesso è persistente ed è
difficile difendersi per coloro che ne
sono vittima” (Sharp e Smith 1995).
L’azione offensiva si realizza quando
una persona infligge intenzionalmente o arreca danno o disagio a un’altra,
anche tramite l’uso delle parole, minacce, rimproveri o ingiurie e prese in
giro, altre volte tramite la forza o il contatto fisico, picchiando, spingendo
malmenando, sbeffeggiando ecc. Il bullo compie azioni, individuali o
collettive, che mirano a ferire, in un comportamento duraturo nel tempo,
giorni, settimane, mesi se non anni, ed alla sua base c’è essenzialmente un
abuso di potere, un desiderio di intimidire e dominare, assumendo espressioni e
forme diverse: verbali (es. derisione o indulti), fisiche (pugni, rovina di
beni personali) o indirette (es. pettegolezzi).
Anche un solo avvenimento può essere
considerato episodio di bullismo e può essere rivolto sia contro un singolo
individuo sia un gruppo. Per poter parlare di bullismo è però necessario che vi
sia un’asimmetria nella relazione. Lo studente esposto ad azioni offensive ha difficoltà
nel
difendersi e si trova, in qualche modo,
in una situazione di impotenza contro colui o coloro che lo molestano.
I bulli infatti hanno un atteggiamento
spesso istintivo, vantano la propria superiorità, la loro tolleranza della
frustrazione è piuttosto bassa, oltre ad una grande difficoltà nel rispettare
le regole e nel tollerare le contrarietà e i ritardi. Agiscono in un
atteggiamento positivo verso la violenza ed hanno una buona considerazione di
sé. Il rendimento scolastico diminuisce negli anni con una parallela crescita
di rifiuto e atteggiamento negativo verso la scuola. Si parla anche di bulli
‘passivi’ che non partecipano attivamente agli episodi ma lo appoggiano e
condividono.
Il bullismo si distingue in ‘diretto’,
che si manifesta in attacchi relativamente aperti nei confronti della vittima,
e ‘indiretto’ che consiste in una forma di isolamento sociale e in una
intenzionale esclusione dal gruppo.
Gli studenti prevaricati per un certo
periodo di tempo, tendono ad esserlo per diversi anni, così come gli studenti
aggressivi tendono a esserlo anche successivamente a distanza di tempo, come
emerso da diversi studi condotti in Inghilterra e America.
Sebbene a volte si tenda a riconoscere
caratteriste esteriori ‘negative’ caratterizzanti le vittime, quali obesità o
capelli rossi, in realtà ricerche condotte su gruppi di ragazzi non confermano
tale teoria (Olweus 1973a, 1978). Nel complesso infatti le vittime non
presentano caratteristiche esteriori anomale rispetto al gruppo di controllo
dei ragazzi non prevaricanti.
Unico contrassegno esteriore è la
differenza di forza fisica, essendo di solito le vittime più deboli dei ragazzi
in generale, mentre i bulli sono più forti della media dei ragazzi ed in
particolare delle vittime.
Si possono però indicare alcune
caratteristiche comuni per coloro che vengono identificati quali vittime passive
o sottomesse: sono più ansiosi e insicuri degli studenti in genere, cauti,
sensibili e calmi, se picchiati piangono o si chiudono in sé, hanno scarsa
autostima e opinione negativa di sé, si considerano fallite, poco attraenti,
stupidi e timidi, a scuola vivono una condizione di solitudine e abbandono e
non sono aggressivi, confermando il principio secondo il quale il bullismo non
è provocato dalle vittime.
Sembra che il comportamento e
l’atteggiamento delle vittime passive segnalino agli altri l’insicurezza,
l’incapacità, nonché l’impossibilità o difficoltà di reagire di fronte agli
insulti ricevuti. Sono cioè caratterizzate da un modello reattivo ansioso o
sottomesso, associato, nei maschi, alla debolezza fisica.
Parte della dottrina sostiene che
queste vittime abbiano avuto nei primi anni di vita un rapporto molto stretto
con i genitori, in particolare con la madre e spesso gli insegnanti parlano di
iper-protezione che sembra essere sia causa sia conseguenza del bullismo.
Le cosiddette vittime provocatrici sono
caratterizzate da una combinazione di entrambi i modelli reattivi, ansioso ed
aggressivo, e presentano problemi di concentrazione, tengono comportamenti causa
di irritazione e tensioni, ed alcuni possono essere definiti iper-attivi.
Le dinamiche del bullismo connesse alla
presenza di vittime provocatrici differiscono in parte da quelle che
coinvolgono vittime passive.
In genere il bullo ha un atteggiamento
aggressivo indifferentemente verso coetanei ed adulti, atteggiamento più
positivo verso la violenza e l’uso di mezzi violenti, contraddistinto da
impulsività e forte bisogno di dominare, scarsa empatia nei confronti delle
vittime, hanno un’opinione relativamente positiva di se stesso e se maschi sono
fisicamente più forti dei coetanei.
Un’opinione diffusa tra psicologi e
psichiatri è che gli individui con un modello di comportamento aggressivo e
ostile sono al di là delle apparenze ansiosi e insicuri, ma i risultati di
alcuni studi condotti tramite metodi indiretti come la rilevazione degli ormoni
dello stress (adrenalina e noradrenalina) e tecniche proiettive confutano tale
tesi e al contrario sostengono una tendenza opposta: i bulli mostrano poca
ansia e insicurezza e non offrono di scarsa autostima, sebbene tali conclusioni
si riferiscono ai bulli come gruppo il che non esclude che possano esserci singoli
bulli sia aggressivi che ansiosi (Olweus).
In conclusione quindi i bulli
rispondono a un modello reattivo aggressivo associato alla forza fisica. Tra
le possibili cause psicologiche che soggiacciono al comportamento del bullo, si
possono segnalare: un forte bisogno di potere e dominio per cui sembra trarre
soddisfazione nel controllare e nel sottomettere gli altri; lo sviluppo di un
certo grado di ostilità verso l’ambiente, in concomitanza di inadeguate
condizioni familiari; infine una componente ‘strumentale’ in considerazione dei
vantaggi che derivano dal sopruso quali ad esempio denaro, sigarette, birra o altri
oggetti di valore.
Il bullismo può anche essere visto come
aspetto di un più generale comportamento antisociale caratterizzato dalla
mancanza di rispetto delle regole, ovvero disturbi della condotta.
Da questo punto di vista è naturale
aspettarsi che i giovani aggressivi e prevaricatori incorrano più facilmente
nel rischio di essere coinvolti in altri comportamenti problematici, quali la
criminalità o l’abuso di alcool.
Di fatto una serie di studi conferma
questa tesi (Loeber e Dishion 1983). Alcun ragazzi non aggressivi partecipano
ad episodi di bullismo per una induzione del senso di responsabilità
individuale che a seguito di un’azione offensiva può ridursi considerevolmente
quando più persone ne prendono parte. Ciò porta ad una ‘diffusione’ o ‘diluizione’
della responsabilità che riduce il senso di colpa dopo l’episodio e col trascorrere
del tempo possono verificarsi dei cambiamenti nella percezione della vittima da
parte dei compagni di scuola.
A volte si verifica un indebolimento
del controllo e dell’inibizione nei confronti delle tendenze aggressive,
secondo il principio fondamentale per il quale l’osservazione di un modello,
‘ricompensato’ per il comportamento aggressivo manifestato, porta alla
diminuzione delle
inibizioni dell’osservatore nei confronti
della propria aggressività. Di contro se l’azione di colui che funge da modello
viene ‘punita’, ciò porta a rafforzare tale inibizioni. Nel bullismo questo
meccanismo opera per il fatto che il modello, il bullo, viene ricompensato
dalla vittoria riportata sulla vittima.
Molto spesso al comportamento del bullo
corrispondono scarse conseguenze negative da parte di terzi , insegnanti,
genitori e compagni.
Questo contribuisce ad indebolire il
controllo delle tendenze aggressive negli osservatori neutrali stimolandoli a
partecipare ad azioni di bullismo.
Inoltre con il trascorrere del tempo
possono verificarsi cambiamenti nella percezione della vittima da parte dei
compagni di scuola. In seguito ai continui attacchi e commenti dispregiativi,
la vittima può essere gradualmente percepita come una persona incapace, che per
questo merita di essere picchiata o molestata.
Come appare evidente da quanto sopra
numerosi sono i fattori che possono concorrere a determinare l’adesione ad atti
di bullismo da parte di bambini o adolescenti, fattori che a volte svolgono
un’azione in senso contrario. Gli atteggiamenti, abitudini e comportamenti
degli insegnanti ad esempio sono determinanti nella prevenzione e controllo di
azioni di bullismo così come nel trasformare tali azioni in forme socialmente
più accettabili. Lo conferma la correlazione negativa tra la supervisione esercitata
dagli insegnanti durante l’intervallo e il verificarsi di episodi di bullismo.
Nella realtà italiana il bullismo è
risultato essere ben più comune e diffuso di quanto immaginato o comunemente
ritenuto. I dati pubblicati nel 1995 nella rivista “Psicologia contemporanea”
relativi ai risultati parziali di un primo studio condotto a Firenze e a
Cosenza rivelano la valenza del fenomeno, dati emersi a seguito di ricerche
condotte e coordinate dalla Prima Cattedra di Psicologia dello Sviluppo dell’Università
di Firenze[6]. Dai dati è emerso un
livello di bullismo anche più elevato di paesi quali Inghilterra, Spagna,
Norvegia e Canada.
Relativamente alle caratteristiche del
detto atteggiamento ne sono state identificate alcune in comune con la realtà
culturale inglese: con l’avanzare dell’età l’atteggiamento verso i bambini
prepotenti diventa sempre meno comprensivo, aumentano la sensibilità ed il
sostegno a
coloro che subiscono atti di violenza,
le ragazze sono maggiormente critiche verso i compagni prepotenti, i bulli
tendono a sottovalutare gli effetti delle proprie azioni sui compagni,
dimostrandosi indifferenti o poco comprensivi.
Senza dubbio l’adesione a certi codici
di comportamento quali il bullismo e il tipo di relazione che ne conseguono
sono alla base spesso di futuri problema nella collettività.
Tra le risposte che si è cercato di
dare al fenomeno bullismo sono senza dubbio da segnalare le iniziative prese
dalle scuole, in particolare dalle scuole più a rischio, che hanno disposto ad
esempio iniziative di educazione alla legalità.
L’autorità governativa ha tentato il
coinvolgimento della forza di polizia cercando di rafforzare il rapporto con la
scuola e gli studenti, rendendo costante la presenza di macchine e poliziotti
all’uscite delle scuole ed organizzando momenti di incontro.
Poiché il principio di legalità e di
rispetto delle regole non può però essere solo imposto in modo autoritario, ma
deve essere compreso e condiviso anche dai più giovani, non può essere il
metodo punitivo-repressivo il solo modo di intervento, ancor più in ragione del
fatto che il
bullo è in realtà un soggetto debole.
Ricordando inoltre che il bullismo
coinvolge minori che prevalentemente frequentano scuole elementari e medie, e
per tanto n prevalenza minori di quattordici anni non sono imputabili per il
sistema penale italiano.
La mediazione allora risulta essere una
possibile e ottima soluzione per molti tipi di conflitto che sfociano in
episodi penalmente rilevanti.
La mediazione offre un approccio
culturale e metodologico relativamente nuovo per l’Italia alla gestione dei
conflitti che pone attenzione centrale all’autore e alla vittima del reato.
Suo obiettivo è facilitare la presa di
coscienza e responsabilizzazione dell’autore del reato e contemporaneamente
dare rilievo e riconoscimento alla vittima, poiché nel processo minorile questa
ultima ha spazi ben limitati riguardo alle istanze di ascolto e risarcimento
del danno.
La mediazione prepara il terreno per
giungere ad una conciliazione anche in termini riparativi, in un luogo
appositamente più vicino alla vittima,alla sua identità, ai bisogni e le paure.
La vittima viene considerata come “attore sociale” e non solo come testimone.
La mediazione consente all’autore del
reato un confronto diretto con il danno ed il dolore subiti dalla vittima
facilitando l’attribuzione di significato relazionale al reato ed eventuali
attività riparative.
Tale approccio può favorire l’azione
propositiva del minore individuabile in forme diverse di riparazione che
assolvono alla soddisfazione della vittima ed alla connessa alla connessa
estinzione del “debito sociale” con l’ulteriore effetto di allentare il senso
collettivo di insicurezza. La mediazione si propone sotto tre diversi profili:
a) la mediazione come particolare
tecnica di intervento realizzata tramite un terzo neutrale, il mediatore,
tendente al superamento o riduzione del conflitto tra due soggetti mediante il
loro incontro-confronto. Pertanto viene utilizzato nei casi più diversi, tanto
che nella normativa internazionale viene utilizzato in varie normative;
b) mediazione come nuova modalità di
intervento giudiziario, che prendendo atto della crisi del sistema retributivo-
riabilitativo propone una nuova risposta. In questo caso il termine
‘mediazione’ è abbinato molto spesso al
termine riparazione e viene pertanto un mediazione-riparazione;
c) mediazione come progetto sociale
globale ispirato ad una nova filosofia del rapporto-confronto dei due grandi
temi del diritto e della violenza. Restituisce un ruolo di protagonisti ai
soggetti coinvolti nel conflitto e quindi proviene dal basso non è quindi né autoritaria
né violenta come sono invece gli interventi tradizionali provenienti dall’alto.
Suo fine è realizzare la pace sociale come ricerca della società intera non
solo dello stato.
Nel diffuso clima di conflittualità
purtroppo vengono meno quelli che possono essere definiti “mediatori naturali”
così come spazi collettivi per rielaborare e stemperare le tensioni. Rimmel
scriveva nel 1951 “Un impulso aggressivo da solo non può spiegare il sorgere
di un conflitto. Il
comportamento nasce sempre su un
terreno sociale e il conflitto come fenomeno sociale può essere compreso solo
all’interno di un sistema di interazione”.
La mediazione non si pone a tal
proposito quale surrogato del processo legale, ma si basa su premesse di
libertà svincolate da regole precostituite e implica assunzione di
responsabilità.
Nel settore penale la mediazione
riguarda i conflitti tra vittima e reo e ha
come riferimento normativo il D.P.R.
448/88 che prevede che in ‘ogni stato e grado del procedimento l’autorità
giudiziaria si avvale dei servizi minorili dell’Amministrazione della
Giustizia. Si avvale altresì dei servizi di assistenza istituiti dagli enti
locali’; l’art. 9 prevede che il PM e il giudice acquisiscano elementi
relativi le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali
del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità e il grado di
responsabilità, valutare la rilevanza sociale dl fatto nonché disporre le
adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili; all’art.
12 prevede che al minore sia
assicurata l’assistenza dei servizi di
cui all’art. 6; l’art. 28 prevede che ‘con ordinanza di sospensione il
giudice affida il minorenne ai servizi minorili dell’amministrazione della
giustizia per lo svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali,
delle opportune attività di
osservazione, trattamento e sostegno’.
Il nuovo approccio della mediazione al
reato e alla risposta penale che si ricorda presentano un modello di giustizia
retributiva che si integra con quello di giustizia riparativa, ridefinendo in
tal modo il concetto di responsabilità e consapevolezza del reo. Vittima e reo
procedono insieme
in un percorso di responsabilizzazione
che, partendo dall’espressione della sofferenza causata dal reato si articola
in più momenti comunicativi che liberano emozioni, facilitano la comprensione
reciproca, danno significato concreto a tutte le forme di riparazione che
perdono, per il fatto stesso di essere concordate, il carattere puramente
simbolico e si qualificano come vera e propria
risposta al bisogno di giustizia.
Naturalmente compete al giudice
valutare la rilevanza che l’attività di mediazione deve assumere nel processo
in questione. Questa potrà variare a seconda del singolo caso sfociando nel
proscioglimento per irrilevanza del fatto (art. 27 D.P.R. 448/88) o
nell’estinzione del reato per positivo esito della messa alla prova (art. 28
DPR 488/88) o l’applicazione di misure sostitutive.
In ambito civile ed in particolare in
quello scolastico e sociale obiettivo della mediazione è abbassare la soglia
della conflittualità tra i ragazzi o tra ragazzi e adulti, a seguito delle
complesse relazioni determinante dai diversi valori dei contesti di provenienza
dei ragazzi non sempre condivisi da tutti. Si mira a ricostruire il dialogo
cercando soluzioni concordate e non violente. In tal senso si sviluppa il senso
di legalità e si rendono le parti consapevoli dell’importanza del rispetto
delle regole e degli altri.
A maggior ragione la mediazione può
pertanto offrire occasione per i soggetti coinvolti nel bullismo di ristabilire
alcuni equilibri venuti meno nel tempo.
Se il bullo può trovarsi di fronte alla
proposta, se non bivio, di dover riconoscere la validità di alcune regole
sociali, quali la convivenza ed il rispetto altrui, anche per la vittima può
essere occasione non solo di rivedere riconosciuto un danno ingiusto arrecato,
ma di riscattare anche la propria persona e ruolo.
Inoltre offre l’occasione per un
maggiore coinvolgimento della scuola nella tematica dei possibili interventi.
Negli Stati Uniti, dove già nel 1984
veniva costituita la National Association for Mediation in Education, la
mediazione in ambito scolastico ha avuto avvio nel corso degli anni settanta
per vedere la realizzazione di alcuni progetti nel 1985 (McCormick, 1985) per
poi trovare spazi nel mondo anglosassone.
Se in un primo momento la mediazione è
stata voluta per le modalità di composizione dei litigi tra gli studenti e al
mantenimento della disciplina.
Gli effetti che ne sono derivati sono
però stati a maggior raggio. Maxwell nel 1989 segnalava il successo della
mediazione nella crescita dell’autostima e dell’auto-regolazione, in
particolare nei ragazzi più grandi, della scuola media.
E’ dimostrato che le tecniche di
gestione dei conflitti possono essere insegnate ai bambini più piccoli (Levy,
1989; Johnson, 1992; Lane, Mcwhirter, 1992), e come la mediazione attuata da un
gruppo di pari può ridurre la conflittualità fra bande rivali (Burrell, Vogl,
1990) e i confitti su base razziale.
Pertanto oltre ad essere una grande
occasione per i fenomeni di bullismo, la mediazione, se inserita in un progetto
articolato e specializzato, potrebbe essere una risposta per le problematiche
connesse al più recente (per l’Italia) fenomeno delle bande giovanili, dette
anche Baby-gang.
3. Baby-gang e diritto.
Il fenomeno delle baby-gang da alcuni
anni trova un posto sempre maggiore nelle cronache italiane. Il fenomeno sta
assumendo dimensioni sempre più marcate sia da un punto di vista numerico sia
in relazione alla frequenza e tipologia di azioni criminali poste in essere dai
membri delle suddette.
Il fenomeno delle baby-gang riguarda in
modo macroscopico soprattutto le città del centro-nord Italia, essendo al sud
da tempo costituita una forma di criminalità minorile organizzata tristemente
nota da tempo per le connotazioni tipiche e per la sua filiazione alle realtà
di stampo mafioso avente un pieno controllo sul proprio territorio.
Inoltre il minor numero di immigrati
nelle regioni meridionali diminuisce fisiologicamente la possibilità di
costituzione e sviluppo di bande che nella maggior parte dei casi si compongono
di giovani provenienti da paesi diversi.
La nascita del fenomeno delle gang
giovanili è di data antica nella società americana ed anglosassone. In
particolare nelle metropoli degli Stati Uniti ed Inghilterra così come nei
paesi del Sud America.
In Sud America ed in America Centrale
il fenomeno delle bande ha raggiunto dimensioni più che significative
coinvolgendo migliaia di ragazzi e determinando una situazione di grave
emergenza per una situazione di massima violenza e criminalità.
Alcuni paesi del centro America hanno
disposto alcune previsioni legislative che hanno per oggetto il trattamento e
la disciplina applicabile in merito proprio alle baby-gang, sebbene nel
concreto si tratti di leggi molto dure ed intransigenti che poco tengono conto
dell’aspetto di
recupero e reinserimento dando al
contrario ampio spazio all’aspetto prettamente punitivo e contenitivo. Al
riguardo si parla di leggi ‘antibanda’.
Honduras, Guatemala ed El Salvador
infatti applicano misure difensive contro le bande senza però offrire
opportunità alternative e di reinserimento limitandosi spesso a giustificare il
proprio agire additando i membri dei detti gruppi quali responsabili della
maggior parte di omicidi e reati di violenza più gravi[7].
Non a caso, infatti, le prime bande in
senso proprio che si sono formate, ad esempio nella realtà genovese, sono
composte prevalentemente di minori provenienti da paesi sudamericani.
Ovviamente non vi è solo una ragione culturale alla base di tale evento. La
scelta e la necessita di molti adolescenti di legarsi a un gruppo entro cui
trovare una propria identità e la creazione di rapporti
interpersonali, nasce da una situazione di profonda solitudine, poiché le
famiglie sono solitamente inesistenti o poco presenti, spesso in seguito a
necessità lavorative delle madri, che per molti sono l’unico riferimento reale
familiare. Inoltre si può sottolineare la difficoltà di molti a
stabilire rapporti di amicizia stabili con coetanei italiani soprattutto in
alcune aree cittadine. Come noto le bande giovanili si contraddistinguono con
elementi esteriori ormai definiti: un nome proprio ed identificativo della
banda, sono legate ad una particolare
territorio urbano, e si caratterizzano per look e sembianze particolari che
accomunano e distinguono i propri membri quali abbigliamento, simboli
accessori, ad esempio particolari medaglie o fasce o cappelli o berretti, così
come tatuaggi.
Il rapporto tra i membri si definisce
secondo regole non scritte forti, come il legame della ’fratellanza’ e
l’obbligo di osservare il patto con il gruppo.
L’entrata nel gruppo è formalizzata
spesso con un rito di iniziazione a volte diversificato per maschi e ragazze. Problema
principale è che ormai non si tratta solo di una identità di gruppo o di appartenenza, ma sta
assumendo in molte città una connotazione di rilevanza penale poiché i membri
sono sempre più coinvolti in ‘circuiti criminali’ o in comportamenti penalmente
rilevanti.
In particolare, come emerge dalla
cronaca, i reati che più spesso ricorrono sono furto, rapina, rapina a mano
armata, aggressione, rissa, porto abusi di armi, traffico illegali di
stupefacenti. Inoltre è da evidenziare come alcuni tra i membri hanno ormai
raggiunto la maggiore età e si trovano sempre in più in contatto con realtà
criminali più organizzate.
Anche a livello governativo sta
emergendo la necessità di prendere in considerazione il fenomeno che si profila
senza dubbio complesso e di non solo rilevanza penale.
La Commissione parlamentare per
l'infanzia nella risoluzione 7-00879 Cavanna Scirea: ‘Forme di violenza di
gruppo da parte dei minori’ (baby-gang) riconosce, a seguito
dell'indagine conoscitiva sull'attuazione della Convenzione di New York sui
diritti del fanciullo in materia di
forme di violenza di gruppo da parte
dei minori, come “preso atto che il fenomeno può considerarsi riferibile a
ragazzi appartenenti a tutti i ceti sociali, sia pure con alcune differenze tra
le varie realtà geografiche del territorio e considerato tuttavia che il
fenomeno non è ancora così diffuso in Italia come in alcune grandi metropoli
americane o del nord Europa, né organizzato ad esempio "per etnie" o
come una vera e propria struttura criminale, con una progettualità specifica e predefinita,
né il più delle volte sembra esservi la consapevolezza di
delinquere; nella convinzione che il
fenomeno non debba essere enfatizzato, ma nemmeno sottovalutato, visto che allo
stato attuale molto può essere ancora realizzato in termini di prevenzione e
quindi di recupero delle devianze, ma al tempo stesso è necessario fornire
risposte concrete alle infrazioni commesse dai ragazzi, che non possono considerarsi
semplicemente "bravate"; considerato che allo stato attuale il
fenomeno appare riconducibile, a grandi linee, ad una sorta di disimpegno
morale che esiste nella società, negli adulti in particolare e di conseguenza
nei minori, che non hanno più forti riferimenti educativi
e culturali soprattutto a causa della
frammentazione delle esperienze educative, mentre una logica di possesso di
oggetti viene ad essere prioritaria rispetto al "possesso di valori";
considerato altresì che i riferimenti di base per il fanciullo e per
l'adolescente sono costituiti dalla famiglia e dalla scuola” impegna il governo italiano in iniziative volte “a
promuovere e valorizzare, nell'ambito del programma quinquennale di progressiva
attuazione della riforma sui cicli scolastici, e nel rispetto delle norme
sull’autonomia scolastica, di regola il tempo
pieno per quanto concerne la scuola di
base; a favorire nelle scuole, anche mediante specifici finanziamenti, attività
espressive, di socializzazione e di aggregazione e, ove possibile, attività
sportive; a sostenere la creazione di centri di ascolto nelle scuole, già
previsti nei progetti di educazione alla salute; a prevedere, nell'ambito della
prossima legge finanziaria il rifinanziamento della legge 19 luglio 1991,n.
216, recante "Primi interventi in favore dei minori soggetti a rischio di
coinvolgimento in attività criminose" con possibilità di prevedere interventi su tutto il territorio
nazionale. Una quota dei finanziamenti previsti dalla citata legge dovrebbe in
particolare essere destinata a progetti riguardanti i territori maggiormente
esposti ai rischi di devianza minorile e di coinvolgimento in attività
criminose. Nell’ottica poi di una progressiva chiusura degli istituti
penitenziari minorili, si dovrebbe sin d’ora pensare a misure alternative a
quelle tradizionali di natura restrittiva, volte a creare luoghi di educazione
al lavoro e al vivere civile; a prevedere la creazione, con particolare
riferimento alle aree più esposte ai problemi di devianza e di criminalità, di
osservatori sulle problematiche dell’infanzia articolati anche a livello
provinciale, che costituiscano una rete integrata tra gli operatori sociali
(prefettura, ASL, provveditorato agli studi, tribunale dei minori, servizi
sociali ecc.)che intervengono sui problemi dell’infanzia, ai fini di un
migliore e più efficace coordinamento tra i vari soggetti istituzionali; a
prevedere, anche in attuazione dell’ordine del giorno n. 9/4236/158 approvato
al Senato in sede di discussione della legge finanziaria per il 2000, l’assunzione
dei vincitori del concorso per assistenti sociali, da impegnare nei settori
della giustizia minorile e dei servizi sociali sul territorio, che potrebbe rappresentare
un primo segnale rispetto ad una maggiore e più attenta presenza sul territorio
di strutture a favore dell’infanzia; a prevedere un’organizzazione urbanistica
delle città idonea a favorire la realizzazione di spazi liberi dedicati alla socializzazione
e all’aggregazione dei giovani; a prevedere la presenza di uno psicologo nelle
scuole che, nel rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza della figura
dell’insegnante, possa tuttavia essere di ausilio e di sussidio in situazioni
di particolare disagio".
Nell’ordinamento italiano, a differenza
del Centro America, non esiste previsione giuridica che definisca o ponga una
disciplina precisa riguardo le baby-gang o l’appartenenza a queste. Nella
giurisprudenza più recente, infatti, non è possibile trovare alcun
provvedimento o riferimento né alle bande giovanili, né al bullismo.
Per il nostro ordinamento infatti il
soggetto deve porre in essere una azione antigiuridica esteriorizzata,
concreta, che andando a violare la normativa vigente viene prevista dalla legge
penale come reato e pertanto perseguibile.
Non è ammesso un giudizio sulla
persona, sul suo ‘essere’, sino al momento di esteriorizzazione della condotta
tramite azioni concrete. Il giudizio in caso contrario andrebbe a contrastare
contro i diritti e i principi tutelati dalla Costituzione stessa.
Pertanto oltre agli auspicabili
interventi di interesse sociale e di prevenzione della criminalità, i membri
delle bande si trovano ad essere giudicati solo in conseguenza del proprio
agire ponendo in essere azioni rilevanti penalmente, ovvero reati. Il giudice
viene chiamato a valutare la capacità a delinquere del colpevole, tramite la
valutazione dei motivi a delinquere e del carattere del reo esclusivamente al
fine di definire la gravità del reato ex. Art 133 c.p. Ad avviso della
scrivente una degli istituti processuali che possono aver maggior successo nei
casi di minori appartenenti alle bande è la messa alla prova.
Art. 28 D.P.R. 448/88, che disciplina
la sospensione del processo e messa alla prova, prevede che “il giudice,
sentite le parti, può disporre con ordinanza la sospensione del processo quando
ritiene di dover valutare la personalità del minorenne all’esito della prova
disposta a norma del co. 2. Il processo è sospeso per un periodo non superiore
ai tre anni quando si procede per reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo
o della reclusione non inferiore nel massimo a 12 anni; negli altri casi, per
un periodo non superiore a un anno. Durante tale periodo è sospeso il corso
della prescrizione. Con l’ordinanza di sospensione il giudice affida il
minorenne ai servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia per lo
svolgimento, anche in collaborazione con i servizi locali, delle opportune
attività di osservazione, trattamento e sostegno. Con il medesimo provvedimento
il giudice può impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato
e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato.
Omissis”.
L’art. 27 co. 2 D.L. 272/89 disciplina
il progetto di intervento elaborato dai servizi minorili e stabilisce che debba
prevedere: le modalità di coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare e
del suo ambiente di vita; gli impegni che il minore assume; modalità di
partecipazione al progetto; le modalità di attuazione eventualmente dirette a
riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne
con la persona offesa.
Il giudice deve essere informato sia
della attività sia dell’evoluzione del caso, potendone modificare i tempi,
prorogando o revocandolo. I servizi sono tenuti a presentare una relazione sul
comportamento del minore e sull’evoluzione della sua personalità.
La messa alla prova offre l’occasione
per il minore di essere coinvolto tramite il progetto in attività che possono
estrapolarlo dal contesto abituale di vita.
Poiché il progetto coinvolge il minore
ma anche il mondo che gli sta intorno può essere occasione di presa di
coscienza, forse delle proprie possibilità e valenze, forse anche del solo
fatto che a certe scelte ed azioni corrispondono certe conseguenze, avviando il
minore su un cammino di presa di consapevolezza e maturazione prima escluso.
L'istituto della sospensione del
processo con messa alla prova, che configura un'ipotesi di
"probation" dell'età evolutiva, è applicabile anche a un giovane che,
pur maggiorenne, risulti ancora immerso nel percorso evolutivo post -
adolescenziale; deve, invece, escludersi l'applicazione del meccanismo a
soggetto, minore all'epoca del fatto e in seguito divenuto maggiorenne, il
quale si presenti ormai strutturato e maturo (Tribunale minorenni Catania, 29
marzo 1995). La giurisprudenza ha più volte sottolineato l’importanza della considerazione
dello sviluppo della personalità del minore, tanto che pone come presupposto
per sospendere il processo e mettere alla prova l'imputato minorenne è la sua
imputabilità, tradotta nella serietà degli impegni che egli assume, senza la
quale esso andrebbe prosciolto ed il cui accertamento non va dilazionato, ma
eseguito con mezzi processuali e con riferimento al tempo del fatto. Oggetto di
conoscenza attraverso la messa alla prova non è l'imputabilità del minore al
tempo del reato, ma la successiva evoluzione della sua personalità. A maggior
ragione la sospensione del processo è pertanto da escludere allorché, oltre
alla non imputabilità, emerga la pericolosità sociale del minore (Trib. Min. Bologna,
10 settembre 1992).
[1] A. C. Moro, Famiglia Oggi, Marzo 2004,
n. 3, Ed. S. Paolo.
[2] Varcelloni,
Ragazzi, giudici, enti locali, Torino, 1980, pag. 374.
[3] D. Novara in Minorigiustizia,
Franco Angeli Ed., n. 2/2000, pag. 12
[4] F. Occhiogrosoo in Minorigiustizia,
Franco Angeli Ed., n. 2/2000, pag. 9 e ss.
[5] D. Olweus, Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi
che opprimono, Giunti Ed., Firenze, 1996, pag. 12.
[6] Dan Olweus, Bullismo a scuola.
Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti Ed., Firenze, 1996, pag. 108
[7] Al riguardo da
segnalare la denuncia emersa dalla Commissione Interamericana dei Diritti Umani
riunitasi a Washington nel marzo 2004 a seguito dell’analisi delle normative e
dai provvedimenti applicati di cui sopra, che denuncia come non sia rispettato
il principio generale dell’innocenza dell’imputato fino a prova contraria,
proprio del sistema penale dei paesi d’oltre oceano dove si applica il sistema
di common law, e soprattutto come non si osservi il principio della prova
poiché i minori appartenenti a tali bande vengono spesso giudicati e condannati
solo in ragione del loro appartenere ad una baby-gang.
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