Formazione, soggetto, sentimenti: amore e dolore
Cambi F., contributo in F. Cambi (a cura di), NEL CONFLITTO DELLE EMOZIONI. Prospettive pedagogiche, Roma,
Armando Editore, 1988, pp. 133-148
1.
Formazione: una categoria-chiave della pedagogia
Se dovessimo individuare
la categoria più propria e più centrale nell’elaborazione pedagogica
dell’Occidente (ovvero il principio più alto e complesso, più costante e
organico, più perspicuo e eminente fissato dalla riflessione pedagogica
maturatasi tra la Grecia classica e la Modernità, assunta nella sua unità di
tradizione e nella sua articolata diacronia) dovremmo richiamarci alla
categoria di formazione, come “formazione umana”, cioè come il farsi del
cucciolo d’uomo specificamente uomo, e uomo in una cultura-storia- società che
lo innerva di una particolare identità, appunto, umana. L’educare, in
Occidente, nella sua accezione più ricca, culmina nel formare/formarsi:
nella acquisizione
strutturale, ma autonoma, di una forma che è, insieme, propria dell’individuo,
di quell’individuo, e comune alla specie, all’umanità di cui fa parte. La
formazione è un po’ il senso ultimo e la regola trascendentale dell’educare,
nel momento in cui si rende autonomo dall‘ethos sociale e vi si contrappone
come avventura/storia di un soggetto; anzi, è proprio il “fastigio” (o il
compimento) del processo educativo, che — in quanto tale — ne rivede e ne
ridescrive il percorso, in modo radicalmente nuovo, e secondo articolazioni
originali. Se l’educazione è legata, sempre, alla fine, a un soggetto, a quel
soggetto, essa — pur implicando altre forme e dimensioni: di socializzazione,
di apprendistato e di istruzione, etc. — si compie (si conclude e si fa completa)
nella tappa o dimensione della formazione, di quel travaglio di costruzione
dell’io che vede quel soggetto divenire il vero e proprio protagonista (attivo
e passivo) del processo.
Non solo, la categoria di
formazione anche storicamente è stata la categoria reggente della pedagogia
occidentale: in quanto è stata la più discussa e ripensata, ma anche la più
costante e trasversale. Forse è stata anche la categoria più originale di
questa tradizione pedagogica, diversa dalle altre presenti nella storia mondiale,
e originale proprio perché legata al soggetto, a quel principio che l’Occidente
ha ridefinito e riarticolato attraverso tutta la sua storia, ma anche
potenziato e valorizzato sempre più come “fondamento” di tutta una cultura, sia
sociale sia scientifica. A partire dalla Grecia classica, dalla svolta della
sofistica e dall’ avvento della metafisica (due eventi, ad un tempo, opposti e
paralleli) la formazione (come formazione umana del soggetto, che si fa
specchio in sé di tutto l’umano e, pertanto, si universalizza, si rende
protagonista e “sovrano” della cultura-storia e della sua stessa avventura
vitale e storica) è divenuta la categoria-chiave della pedagogia (teorica, ma
anche operativa, attraverso la scuola, ad esempio, o attraverso la costruzione
morale del sé, ancora ad esempio) e vi è rimasta per secoli e per millenni.
Ovviamente attraverso molte trasformazioni, molte varianti, molte
riarticolazioni, anche attraverso revisioni, opposizioni, perfino rifiuti.
Comunque — però — è rimasta al centro e da lì ha operato come “molla” teorica e
come referente critico, assumendo il ruolo di chiave di volta di tutta una
tradizione.
Studiosi come Jaeger o
Marrou lo hanno rilevato con forza per l’Antichità. La categoria di formazione
umana (paideia in greco classico) è il prodotto più alto e illustre, anche il
più complesso della civiltà classica, poiché in essa si sintetizza tutta la
cultura degli antichi, che voleva essere cultura di soggetti, rivissuta da
soggetti e quindi risolta sempre in formazione. E ancora: le stesse forme
istituzionali della cultura antica, dal teatro alla biblioteca, alla scuola,
erano luoghi e momenti in cui cultura e soggetto entravano in simbiosi,
comunque in collisione. Pertanto, il lavoro svolto dalla pedagogia antica
intorno alla paideia, al suo senso, al suo valore, ai suoi modelli, resta come
il lavoro genetico (per così dire) della pedagogia occidentale, dal quale
dobbiamo sempre ripartire per comprendere il senso della tradizione pedagogica
occidentale stessa. Al centro sta il richiamo di Aristotele, svolto nella sua
Fisica soprattutto, relativo all’ acquisir-forma: è processo intenzionato e
regolato dal di dentro, dal suo fine implicito. Tutto ciò, applicato all’uomo,
esige cura e coltivazione tale formazione non avviene spontaneamente vuole un
accordo di energheia e entelechia, un loro scambio/sostegno
reciproco.
E l’entelechia dell’uomo è
proprio l’umanizzazione attraverso la socializzazione e inculturazione di cui
la specie uomo è stata produttrice e di cui non può più fare a meno. Il che
implica lavoro, sforzo, orientamento, correzione, integrazione, etc., ovvero un
processo polimorfo e aperto, anche se, appunto, orientato. Nell’Antichità, poi,
l’idea di formazione (paideia) ha subito una serie di articolazioni, rispetto a
momenti e autori. Fermiamoci qui solo sui momenti. Sono stati, soprattutto,
tre.
L’età classica, l’età
ellenistica, l’età cristiana, a cui hanno corrisposto riprese e variazioni
della nozione di paideia. Nell’età classica si oscilla, in particolare, tra due
accezioni: una filosofica (con Socrate, Platone e Aristotele) che pone a volano
della formazione la teoria, la teorizzazione, il theorein; l’altra retorica, che pone al centro il linguaggio, la
persuasione e la comunicazione, anche legata agli affetti, e trova nella
letteratura il suo terreno esemplare. Se, nel primo caso, l’uomo vero è il
filosofo, nel secondo è il politico (colto). In ambedue i casi siamo davanti a
un uomo che nell’esercizio del linguaggio e della mente si realizza
compiutamente, e solo in tale esercizio. Nell’età ellenistica sarà invece il
saggio a rappresentare il vero uomo. Il saggio che conosce per vivere (e non
viceversa), che usa la conoscenza come strumento della cura di sé, così la
formazione si condensa e si conclude nell’etica, si lega intimamente all’etica,
a un’etica razionale ma appassionata, capace di vivere e di controllare le
passioni, elevando il soggetto alla dimensione dell’autodominio, della
costruzione del “carattere”: e qui appare in forma netta questa sub-categoria
della paideia, che avrà una fortuna plurimillenaria in Occidente, da Plutarco a
Kant, a Herbart e oltre.
Col cristianesimo è,
invece, l’uomo religioso ad essere il modello di umanità. Uomo colto, uomo
interiore sì, ma contrassegnato in profondità dal conflitto religioso così come
è proprio della religio cristiana:
legato al peccato, legato all’opposizione uomo/Dio, legato al travaglio della
“coscienza infelice”. E Cristo che si fa, ora, modello di paideia. La paideia
cristiana riprende i richiami classici alla cultura e all’etica, ma li rinnova
alla luce della paideia Christi, che
è una paideia della croce, della sofferenza interiore, del conflitto,
dell’inadeguatezza e, quindi, dell’incompletezza/incompiutezza.
Se Cicerone trascrisse in
latino la nozione di paideia con quella di humanitas, non solo ne fissò la
radice più profonda, ma anche le assegnò un ulteriore destino: quello di
legarsi alle humanae litterae che, da
Roma al Medioevo latino, su su fino all’Umanesimo e al Rinascimento, passando
per S. Agostino o per Dante e Petrarca, e arrivando fino alla Firenze del
Quattrocento e, ancora, fino a Comenio o ai Gesuiti, assumeranno il ruolo di
paradigma formativo per eccellenza; paradigma i cui echi sono vivi ancora oggi,
si pensi alla Riforma Gentile, per entrare nella storia della scuola, o alle
annotazioni sulla lingua tipiche di un Don Milani, tanto per concretamente
(anche un po’ troppo, forse) esemplificare.
Dal Settecento, poi, la
formazione riceve un rilancio/ripresa/variazione in Germania, con la nozione di
Bildung, che verrà rilanciata da letterati e filosofi e assumerà una
connotazione antropologico-storicistica: ci si fa uomini in quanto si
sintetizza persona/niente la cultura e di essa si dà una sintesi armonica
(pluralistica e equilibrata insieme), che può avere molti centri o nell’arte o
nella religione o nella filosofia o — anche — nella scienza o nella politica,
ma se e solo se ogni forma spirituale è animata dal circolo completo di tutta
la vita dello spirito (ovvero della cultura, che è “spirito oggettivo”, ossia
oggettivato). Da Schiller a Goethe, a Fichte, Hegel, Schleiermacher, a Herbart
e Marx, a Nietzsche, a Thomas Mann, da Dilthey a Simmel, da Banfi a Ortega y
Gasset, a Spengler, a Spranger, a Horkheimer, la Germania ha alimentato con la
sua teorizzazione filosofico-pedagogica una riflessione costante su tale
categoria e una sua modernizzazione in senso anti-tecnologico e
anti-alienazione, come pure connesso al soggetto-individuo-persona (o
soggetto-individuo che deve farsi sempre più persona) che sta al centro della
società attuale, capitalistico-avanzata ma anche tardo-borghese, anche se in
essa rischia di essere travolto, perdendo così la funzione di un punto di
resistenza e, quindi, di matrice di libertà.
Soprattutto attraverso l’eredità
del pensiero tedesco la formazione (=Bildung)
arriva nel dibattito contemporaneo, con una opposizione esemplificata al meglio
dal dissidio tra Luhmann e Habermas. Se il primo vede la Bildung come una
categoria obsoleta, resa inservibile dall’età della tecnica (si tratta di
apprendere e non di formarsi; si devono acquisire competenze e non
forme-d’anima), il secondo ne riconferma il valore come via — unica — di
formazione di un soggetto-individuo capace di autonomia e di dissenso, capace
di esercitare una resistenza critica e dialettica alle sirene dell’
“esistente”, e di un esistente così pervasivo e suasivo com’è quello
tecnologico-avanzato e neocapitalistico.
Ciò che va rilevato è 1)
la tenuta storica della categoria-formazione; 2) la centralità a livello di
riflessività pedagogica; 3) l’attualità che, essa, ancora possiede. Ma, ancora
di più, va sottolineato il carattere di saldatura tra formazione e soggetto che
tale categoria reclama. Pertanto è sul soggetto che ora dobbiamo fissare lo
sguardo.
2.
Le metamorfosi del soggetto e la sua “questione”
Quando parliamo di
soggetto dobbiamo subito sottolineare che lo “leggiamo” rientro la nicchia
della cultura occidentale. Il soggetto presso i popoli primitivi, presso le
culture orientali o quelle pre-greche è o era contrassegnato da altri
caratteri. Noi lo pensiamo — e necessariamente: è un inevitabile, anzi
funzionale, pre-giudizio — da sempre dentro la nostra tradizione, e non
possiamo fare (individualmente o collettivamente) altrimenti. Per noi il soggetto
è quello che ha prodotto la tradizione greco-cristiano-borghese (come si può e
si suole dire), quella tradizione che nasce in Grecia, si lega al logos
metafisico, si riconferma con poche varianti col Cristianesimo, passa poi alla
Modernità, laica e borghese, mantenendo una sostanziale identità. Quale? Quella
di un soggetto come io, come coscienza propria di un individuo e come individuo
che fa centro sulla propria coscienza, la quale è prima di tutto mente e quindi
teoria, quindi ordine/controllo/distacco, quindi autonomia: di conseguenza è
dominio di ciò che è confuso e inquieto (le passioni) e costruzione lineare di
progetti, assunti in proprio e che si gestiscono con responsabilità
(consapevolmente e rendendosi responsabili), di cui l’io è appunto il
regolatore; inoltre il contrassegno plurale del soggetto-io è l’autoregolazione
e il suo concreto esercizio nella costruzione di un “carattere”, di un proprio carattere.
Un tale modello di
soggetto — in linea si massima, è ovvio — appartiene ai Grandi Maestri della
Tradizione Occidentale. Lo si rileva in Platone, in S.Agostino, in Cartesio, in
Kant (per restare al solo ambito della filosofia, che gioca un ruolo di
autoriflessione regolativa dentro una cultura e quindi è terreno d’indagine
emblematico). Quanto a Platone è la teoria dell’anima che va sottolineata. La
metafora della “biga alata” è esemplare: il soggetto ha tre anime, due inquiete
(la concupiscibile, l’irascibile) e una razionale (l’auriga, la mente), tra le
quali c’è rapporto gerarchico, in modo che alla razionale spetti la funzione di
guida, e che solo essa può esercitare. L’uomo è conflitto tra ragione e
passioni, le passioni vanno dominate, imbrigliate, soffocate, e ciò accade se
la mente viene a dominare tutto il soggetto e a indicargli, con la pura
riflessione teoretica, il suo più perfetto modello: sereno, armonioso,
contemplativo, in quanto regolato dal theorein. Il dualismo dell’uomo
occidentale ha in Platone il più radicale interprete e il più esplicito
promotore. Anche il Cristianesimo postevangelico, ellenizzato, riprodurrà
questa aporia: S. Agostino insegni.
Le sue Confessioni sono
esemplari. Le passioni sono viste come un cancro dell’anima, una via di perdita
del sé più autentico e profondo, una condanna legata alla “carne”, ma in lotta
— costante e senza quartiere — con lo “spirito”, lotta che si compie, per il
cristiano, al cospetto di Dio, ma nella quale Dio è guida e garante di verità e
di vittoria. Perfino in epoca moderna
— e borghese — il modello
non cambia. Ora è l’individuo, l’io singolo, come coscienza di sé e del mondo,
ad essere posto al centro, ed è ancora un soggetto inquieto, insidiato dal
dubbio, dallo scetticismo. Cartesio, seguendo S. Agostino, ma anche Campanella
o Montaigne, ne ricompone l’identità:
quel soggetto è coscienza
di sé, atto di pensiero pensante, è cogito, e nel cogito quel soggetto ritrova,
ad un tempo, identità (io sono pensiero: res
cogitans) e verità (il cogito contiene l’evidenza, ergo il criterio di
verità). Così facendo, però, si separa il cogito dall’estensione, dalla
materia, dal corpo (dando vita al dualismo mente/corpo e al suo “rompicapo”
filosofico o problema irrisolvibile e falso), dalle passioni, che sono lasciate
ai margini, come effetti dell’intersezione (impossibile?) tra cogito e res
extensa, o corpo, sia pure effetti inquieti e inquietanti (si veda Le passioni
dell’anima). Dopo Cartesio il razionalismo eredita in pieno questo postulato,
se pure attaccato (in parte) dall’empirismo, e lo conduce fino a Kant, il quale
— pur riproblematizzando il nesso tra ragione pura e ragione pratica —
assegnerà ancora al theorein il ruolo di guida di tutta la vita del soggetto:
all’io puro spetta il ruolo di generatore delle forme a priori, all’imperativo
categorico (universale, necessario, a statuto conoscitivo) spetta la funzione
di guida della vita morale, al “carattere” viene assegnato il ruolo di
obiettivo formativo nell’antropologia/pedagogia. Dopo Kant l’enfasi del
soggetto — ora gnoseologizzato, ora eticizzato (tra Fichte e Hegel) — resterà centrale,
ma si tratterà sempre di un soggetto puro, a priori, visto come mente.
La decostruzione di questo
modello di soggetto interverrà solo più tardi, a metà Ottocento, attraverso la
reazione all’idealismo, attraverso la maturazione delle linfe romantiche,
attraverso una Kultur critico-radicale, legata ora al “pensiero negativo” ora
alla crescita delle scienze umane, dall’economia politica alla sociologia,
all’antropologia culturale. Se il coté filosofico,
con Kierkegaard, con Schopenhauer, etc. mette in crisi il soggetto
cristiano-borghese, richiamandosi ora al singolo e alla sua esistenza
(diversa/opposta alla sua essenza, carattere ancora cognitivo-gnoseologico),
ora agli istinti e alla “volontà”, scoprendo altre dimensioni del soggetto, le
scienze umane metteranno in luce i “trascendentali” storici che tramano il
soggetto, dal Linguaggio all’Inconscio, dalla Merce all’Ideologia, alle
Tradizioni, etc. Nel soggetto viene operandosi una doppia trasformazione: di
erosione della coscienza e di perdita dell’autonomia. Il soggetto come io-mente
viene relativizzato e della soggettività avanza un’altra immagine, più
complessa, più contraddittoria, meno centrata, più problematica. Sarà con
Nietzsche, a livello filosofico, con Freud, a livello psicologico, che tale
erosione/trasformazione si manifesterà in modo esplicito e programmatico.
Nietzsche — attraverso una genealogia del soggetto occidentale:
greco-cristiano-borghese — metterà in luce l’ideologia che lo sottende: legata
al “risentimento” verso i valori nobili, connessa all’oblio del tragico,
vincolata dalla metafisica e dalla religione.
La “morte di Dio” e la
fine della metafisica aprono spazi per un nuovo pensiero (più dinamico e più
realistico insieme, più vitale) e per un nuovo soggetto (l’uomo del nichilismo,
più istintuale e finito, nutrito di una coscienza più opaca e contraddittoria,
meno legato a un Ordine e a un Senso prestabiliti). Freud darà vita a una
visione del soggetto ancora più drammatica: coglie l’io come premuto
dall’inconscio e dal “principio di realtà”, spiazzato rispetto alla propria
coscienza, che diviene il luogo di mediazione di un contrasto dinamico e
inopprimibile, quindi regredisce da nucleo centrale dell’identità del soggetto.
Così, anche, tutta la storia di ogni soggetto si drammatizza, si lega a drammi
e conflitti, a repressioni, rimozioni, nevrosi. Di essi l’infanzia è il
crocevia.
Dal secondo
Ottocento-primo Novecento emerge una nuova immagine della soggettività, di cui
la cultura della Krisis si fa
interprete, e che mette al centro delle sue indagini: letterarie, artistiche,
scientifiche, filosofiche. Da Pirandello a Kafka, da Picasso a Dalì, da De
Saussure e il suo Corso di linguistica generale a Lévi-Strauss e alla sua
Antropologia strutturale, da Benjamin a Lévinas, la visione tradizionale del
soggetto viene rimessa in discussione e si apre quella “questione del soggetto”
che è ancora al centro della ricerca culturale contemporanea e che tende a
ri-definirlo secondo elementi e strutture sottratti al “giogo” della metafisica
e alla sua volontà di fondazione, di Ordine e di Senso. Il soggetto si è
rifatto problema e si viene ridefinendo per vie più plastiche, contraddittorie,
problematiche.
Non solo: anche
l’esperienza vissuta dei soggetti e l’immagine che essi hanno del proprio sé si
è fatta più complessa e inquieta, meno stabile e più contraddittoria. Ogni
soggetto è in quanto si dà e si fa in un processo non lineare e polimorfo,
attraverso un divenire scandito anche da rotture e rovesciamenti, da nuovi
innesti, da rivoluzioni e catastrofi, soggettive o storiche o culturali.
Da qui la nuova identità
del soggetto che è in marcia e che viene contrassegnata, in genere, dalla
“condizione postmoderna”, la quale è, a sua volta, caratterizzata da apertura, trasversalità, frammentazione,
disseminazione,etc.
3.
Alla radice del soggetto contemporaneo: i sentimenti.
…
Sono i sentimenti e le
passioni, gli affetti e le emozioni che costituiscono il “magma” originario
dell’io, i “mattoni” della sua identità o, detto altrimenti, l’elemento
“poggiante” della sua struttura, usando tale termine (“poggiante”) nel senso
usato da Hartmann nel suo testo sull’Ontologia dell’essere spirituale quando
parla di “spirito poggiante” in relazione allo “spirito oggettivo” hegeliano,
visto come punto di appoggio per la costruzione dell’identità spirituale
(culturale-psicologica) dei soggetti. Gli affetti sono gli elementi su cui
poggia il soggetto; non ne esauriscono — è ovvio — l’identità, ma la tramano e
la condizionano; quindi sono strutture pervasive e permanenti. Tutto ciò sposta
enormemente la teoria del soggetto: la incardina su questo fronte più inquieto
e magmatico, ma centrale, centralissimo, a prescindere dal quale si rischia di
delineare un soggetto astratto e irreale, o almeno — di comodo.
Alle “origini” del
soggetto stanno le emozioni, che sono reazioni organiche biologicamente
determinate, ma che, attraverso la cultura, l’elaborazione simbolica, il
linguaggio e la coscienza, si trascrivono in affetti, sentimenti, passioni:
nomi diversi per esperienze analoghe — e storicamente diversificati. Le
passioni sono le emozioni interpretate nella cultura classica, fino al
Seicento, tematizzate in primis dalla tragedia, come poi dalla filosofia; i
sentimenti sono le emozioni vissute dagli individui, dagli individui moderni,
che vengono sempre più riconoscendo la centralità del loro humus emotivo,
integrandolo con l’elaborazione razionale; gli affetti sono le emozioni
trascritte alla luce della psicologia-psicoanalisi, dove le emozioni sono
sottratte sia all’ideologia della morale sia a quella dell’individuo borghese
(l’uomo privato).
Gli affetti — assumiamo
qui questa dizione, considerandola più attuale e più generale — “dominano” il
soggetto, in quanto lo irrorano e lo strutturano. Quindi, studiare gli affetti,
valorizzarli, riconoscerli è un compito della cultura contemporanea, in ogni
suo ambito: dalla psicologia alla filosofia, passando per l’antropologia, per
la sociologia, per la pedagogia. Anzi, la centralità degli affetti sta
ridescrivendo tutto l’orizzonte delle scienze umane, ne sta rielaborando i
reciproci e i comuni punti di forza, impegnandole su una frontiera, in buona
parte, nuova. Il soggetto che emerge da questa ricognizione è, ancora, un
soggetto plastico, multiplo, aperto, ben in sintonia con quei caratteri di
postmodernità a cui ho fatto cenno. Proprio il soggetto “affettivo” li
interpreta e li legittima, in forma — forse — più radicale, poiché più sfumato,
dinamico, trasversale, etc.
Che su questa frontiera di
riconoscimento del ruolo (primario) delle emozioni/affetti si stia oggi
lavorando con impegno ce lo rivelano alcuni testi che hanno avuto, nei vari
ambiti, una funzione rivelativa ed hanno lasciato il segno. Faccio solo due
esempi: Intelligenza emotiva di Goleman; Affetti, un volume curato da Dazzi e
Ammanniti. Sono due testi “psicologici”, ma collocato il primo sul fronte del
“cognitivismo”, il secondo su quello psicodinamico. In entrambi la centralità e
imprescindibilità degli affetti nella crescita del soggetto sono sottolineate con
forza, contrapponendosi a una visione cognitivistica (=mentalistica) del
soggetto e reclamandone un ridimensionamento e una integrazione. Sono testi che
hanno sottolineato la svolta in atto nella psicologia, diretta a interpretare
il soggetto a partire dalla sua dimensione emotiva.
Anche nell’ambito della
pedagogia questa “rivoluzione” legata al riconoscimento degli affetti ha ed ha
avuto un peso decisivo, per rinnovare metodi, obiettivi e modelli della
formazione, ricollegando la formazione al soggetto e questo, anche, alle sue
dimensioni affettive. Basta anche solo considerare alcune voci della pedagogia
italiana, affermatesi con più vigore negli ultimi anni, per riconoscere che
siamo davanti a una frontiera sì in movimento della ricerca, ma anche già
decantata e definita, e autorevolmente definita. Da Massa e la sua “clinica
della formazione” alla Contini e la sua “pedagogia delle emozioni”, da
Bertolini e la sua “enciclopaideia” di origine fenomenologica, dalla Pinto e
Frabboni, teorici di una pedagogia come scienza critico-dialettica, ai teorici
dell’ermeneutica, perfino a un post-empirista come Laporta, tutto un c6té della
pedagogia nazionale è attento e impegnato a confrontarsi con questi problemi, a
superare il classico “dualismo tra mente e affetti”, a delineare soluzioni
teoriche e operative in vista di una ricomprensione dialettica di un soggetto
più completo e integrale.
Nell’ambito della
formazione si è riconosciuto che 1) gli affetti sono sempre alla base di ogni
formazione e vi permangono come un Leitmotiven; 2) il soggetto contemporaneo ha
bisogno di superare il dualismo tradizionale (mente/affetti), rimettendo in
circolo le dimensioni affettive, abituandosi e riconoscerle, a riviverle, a
giocarle; 3) i modelli di formazione devono oggi tener conto anche di questa
dimensione; 4) la pratica educativa — perfino nella scuola — non può trascurare
questa componente, che può agire in forma patologica (da scoprire, da “curare”)
o in forma “normale” (cioè corretta, o più corretta possibile, legata al
criterio della maggiore “trasparenza” possibile); 5) la formazione dei
formatori (insegnanti in primis) non può avvenire senza che questa dimensione
affettiva degli obiettivi come dei condiziona- menti venga affrontata, per vie
diverse ma con un traguardo specifico: creare anche una professionalità
comunicativa nei formatori, capaci di far loro leggere le potenzialità o i
blocchi/rischi delle variabili emotivo-affettive.
Il primo obbligo, però,
che corre alla pedagogia è di mettere in luce la formatività (o capacità
formativa) degli affetti: la loro capacità di creare formazione, di orientare la formazione, di illuminare i processi di formazione.
Tutto ciò può essere meglio (e al meglio) colto proprio negli affetti vissuti e
più estremi, o più densi, più alti, più coinvolgenti. Lì tale formatività si
mostra in pieno e meglio può essere fissata nelle sue dinamiche, poiché lì gli
affetti vissuti da un soggetto, i sentimenti quindi, manifestano esemplarmente
il ruolo che sono capaci di svolgere nella formazione e come e per quali vie lo
svolgono. Basta soffermarsi a studiare (=analizzare) l’Amore e la Sofferenza, i
due sentimenti, forse, più intensi e coinvolgenti, e estremi tra loro, per
cogliere la capacità formativa (e la qualità, anche) che è inerente ai sentimenti,
quindi agli affetti quando si fanno vissuti e operano sul soggetto. Da questo
studio risulterà sia che non c’è formazione senza coinvolgimento affettivo, sia
che gli affetti sono veramente paradigmatici dei processi di formazione.
4.
Analisi dell’amore
Nessun sentimento è come
l’amore pervasivo e tensionale, avvolgente e dotato di autoreferenza, di
potenzialità proiettiva e di autosufficienza insieme. Inoltre, l’amore forma in
quanto trasforma, ri-descrive il soggetto, ne spezza i vincoli consueti, lo
ri-orienta e gli fa assumere una dominante. Tale potere di formazione è stato
riconosciuto, fin dalle origini, nelle varie culture, ma in particolare in
quella occidentale che dell’amore ha fatto una categoria privilegiata,
dilatandola oltre il vissuto e lo psicologico, verso l’ontologico e il
teologico. In Occidente non solo possediamo una ricchissima fenomenologia
dell’amore, da Saffo a Platone, da Catullo agli stilnovisti, da Andrea
Cappellano a Rousseau, a Barthes, ma anche una riflessione sull’amore ha
accompagnato costantemente lo sviluppo della cultura occidentale e vi ha
assunto anche ruoli metapsicologici, ora filosofici ora teologici, da Platone
al misticismo, alla teologia dell’Amore. In questa ricchissima produzione
culturale che ha attraversato l’Antichità, la Cristianità, la Modernità per
approdare fino a noi, ancora intatta nel suo potere e nel suo fascino, si è
venuta elaborando una simbolica dell’amore, che lo ha sottratto al puro dato
bio-psichico e lo ha assorbito nella cultura, caricandolo di ulteriori
significati, ma anche operandone uno spostamento (nell’interiore, nello
spirituale) e un potenziamento, oltre che una trascrizione (in chiave
simbolica). Tutto questo ci ha permesso di pensare e di vivere l’amore in modo
complesso e articolato, ma anche sottile e sofisticato, squisitamente umano,
attivando in quel sentimento una simbolica e una semantica propriamente
culturali, e secondo modelli culturali diversi, ma che hanno arricchito le
potenzialità dell’amore, dandogli connotati assolutamente post-biologici: si
pensi all’amore cortese medievale, all’amour-passion
di Rousseau e dei romantici, all’erotismo settecentesco (come amore-gioco),
all’ “amore materno” prodotto dall’epoca borghese (come
dedizione/sacrificio/simbiosi), ma anche all’ “amor di Dio” e al Dio-Amore del
Cristianesimo, fino all’estasi (=atto di amore) delle grandi sante, da S.
Caterina da Siena e S. Teresa d’Avila, come pure — su un altro piano —
all’amore-merce del feuilleton o, peggio, della pornografia.
Comunque sia, la cultura
occidentale attraverso questo suo scandaglio sull’amore ha elaborato, con molte
e anche complesse teorie dell’amore, una connotazione dell’amore, così come si
è maturato nella nostra cultura/civiltà, che ne ha fissato alcuni centrali, strutturali,
persistenti caratteri. Possiamo elencarli nella fusione, nel dono, nella
dialettica, nel tendere a: i fondamentali, ma anche altri potrebbero essere
indicati (e lo sono stati).
La fusione: l’unione, la
simbiosi, il proiettarsi reciproco; sottolineata da Platone nel Simposio, nel
discorso di Aristofane che precede la centrale “mossa” dialettica connessa al
discorso di Diotima e che mette in luce anch’esso il tendere, lo statuto
tensionale dell’amore, e che ritroviamo al centro anche in un frammento
giovanile di Hegel dedicato al corpo e all’amore, evidenziando in quest’ultimo
il carattere supremo dell’unificazione, del farsi uno della dualità.
Il dono: amare è donarsi;
si pensi all’amore materno, ma anche all’amore degli sposi, alla Alcesti del mito
greco. Nella fenomenologia dell’amore la proiezione come dono, come “mettersi
al servizio di ..., darsi a ...“ è centrale, caratterizzante. Come lo è
l’appropriarsi, il possedere, l’assimilare già delineato dalla fusione.
La dialettica: l’amore non
è statico, è dinamico sempre, è tensione e conflitto, è anche dubbio,
negazione, oscurarsi. E “odi et amo”,
è tormento, è gelosia, è fuga e ritorno. L’identità dell’amore è instabile e,
pertanto, dà vita a un processo sempre aperto e sub judice.
La tensione: è forse,
platonicamente, la dimensione più propria dell’amore; tensione come bisogno e
tensione come idealizzazione, come gioco complesso di proiezioni, di
cristallizzazioni e, al tempo stesso, di uno stato d’animo che è connesso a
“ricchezza” e “mancanza”, pervasivo e totalizzante.
Certamente i caratteri
qui, molto sommariamente, ricordati attengono a quella figura dell’amore che
trova nell’ amour-passion la propria più netta caratterizzazione, ma circolano,
per così dire, in ogni forma d’amore, in modo più o meno esclusivo, più forte o
debole, più deciso o sfumato, soprattutto in quell’amore pensato e simbolizzato
che sta dentro le dimensioni della cultura e che si colloca su un altro piano
rispetto al vissuto amoroso, che è spesso più pedestre, più confuso, più
contraddittorio anche, certamente meno esclusivo. E l’elaborazione culturale
dell’amore che va tenuta presente, per cogliere tutte le potenzialità della
esperienza vissuta e il suo più organico senso. E la ritroviamo nella poesia,
nel romanzo, nelle confessioni, nelle teorizzazioni religiose o filosofiche,
fino alla grande stagione romantica che ci ha dato, forse, le letture più fini
e complesse (almeno per noi: più individuali, più vissute anche) dell’amore, a
parte Platone, a parte l’amore cortese, a parte i mistici, prima di Freud e
della ripresa contemporanea di una interpretazione altrettanto complessa e
sottile dell’amore, di cui si è enfatizzata anche la componente erotica, più
esplicitamente erotico-sessuale.
Proprio per questi
caratteri l’amore è una cruciale esperienza di formazione, e lo è in quanto si
realizza come catastrofe e morfogenesi,
in quanto processo di “cristallizzazione” (come lo chiama Stendhal), anche
processo aperto e connesso alla donazione di senso. L’esperienza d’amore implica
sempre una rottura, un ri-qualificarsi, un rinnovarsi, un re-impostarsi; fa
scomparire un io precedente (o molti dei suoi caratteri) e ne fa emergere uno
nuovo, in quanto gli dà una nuova forma e un nuovo orientamento. Ma tale
processo è strutturalmente dialettico e, pertanto, sempre in fieri, che si
sostanzia — al di là del suo vissuto — di un iter di costruzione ideale, di
proiezione immaginaria che dà senso al soggetto, in quanto lo sprona e lo
nutre, lo struttura e lo qualifica. L’aspetto formativo dell’amore non era già
sfuggito all’occhio attentissimo di Platone che, non a caso, lo aveva messo al
centro della sua paideia, come momento essenziale del rapporto educativo e
dell’ “acquisir forma” del soggetto, appunto. Allora tanto l’esperienza dell’amore
quanto la riflessione sull’amore ci dicono qualcosa di essenziale sulla
formazione, sul suo paradigma. Ambedue sottolineano la dimensione dialettica e
aperta nel formarsi, la sua tensionalità e il ruolo che in essa gioca
l’immaginario, come pure la scansione ora catastrofica ora “neotenica” di
questo processo che si attua per una legge endogena di cui il soggetto è il
portatore, l’interprete e il protagonista/legislatore. Proprio la riflessione
su un sentimento “estremo” come l’amore ci permette di cogliere quel “grado
zero” su cui e da cui si attiva la formazione, che poi dovrà articolarsi su
altri fronti, toccare altre dimensioni (intellettuali, sociali, morali, etc.),
ma che potrà farlo solo se si attiverà a partire da questa dimensione del soggetto
più propria e profonda; anche a partire di qui. Tutto ciò ci illumina anche, in
negativo, su cosa non è formazione: non è istruzione, non è inculturazione, non
è socializzazione; essa attiene, invece, all’interiorità del soggetto, al suo
“foro” più intimo su cui anche il platonico S. Agostino aveva messo l’accento
sul De Magistro e che proprio i sentimenti (e quelli “estremi” soprattutto)
riescono più direttamente a rappresentare e a risvegliare, insieme.
5.
Analisi del dolore
Anche per il dolore — altro
sentimento “estremo” — può essere fatto un discorso analogo: può essere
delineata la pervasività/centralità nell’esperienza vitale e nella cultura;
possono essere fissati i caratteri strutturali e permanenti, trasversali,
identificanti; può essere messa in evidenza la capacità formativa e, quindi e
ancora, la paradigmaticità nell’alludere al processo della formazione,
indicandoci di essa un nucleo a quo (i sentimenti) e un modello ad quein (in buona parte parallelo a
quello dell’amore).
Nel dolore e nella
riflessione che intorno a questa esperienza si è delineata in Occidente —
complessa, ricchissima, plurale — vanno però, distinti due momenti: il problema
del male, che è problema più ontologico e metafisico e che dalla teologia e
prima ancora dalla mitologia si è inoltrato nei terreni dell’antropologia
culturale o della bio-etologia, andando dalla Bibbia al manicheismo, passando
per la tragedia e i miti a cui essa si richiama, per arrivare a un Rousseau o a
un Lorenz: è il tema della giustificazione del male (come e perché c’è, quale
senso esso ha), ed è problema che da sempre inquieta l’Occidente e la sua
cultura; il problema della sofferenza, che è problema più antropologico e più
esistenziale, al centro già — in parte — nella tragedia, poi ripreso dalle
filosofie ellenistiche e, ancora, dal cristianesimo, con soluzioni assai
diverse, per ritrovarsi di nuovo al centro della cultura nell’età della prima
modernità e della stessa post-modernità, in forme squisitamente soggettive,
legato alla sofferenza del soggetto, al suo contrassegnarsi proprio attraverso
il dolore: sia la religione sia la psicoanalisi mettono in luce questa
centralità e radicalità.
Proprio ripercorrendo il coté
della sofferenza, in particolare delle “malattie dell’anima” (su cui si è richiamata
anche la Kristeva), vengono in luce i caratteri-chiave, le strutture
dell’esperienza del dolore, al di la di ogni lettura metafisica. Certo nella
modernità — soprattutto — si incontrano anche figure che unificano i due
versanti della riflessione (come accade a Leopardi), ma è sempre il
versante-sofferenza che risulta alla fine, per così dire, il più significativo,
il più pregnante. Tali caratteri possono venir esemplificati dall’ oppressione,
dalla perdita/lutto, dal lamento, dal tunnel, soprattutto. Sono caratteri
ricorrenti e che troviamo fissati proprio nelle grandi tradizioni di
riflessione sul dolore: da quella tragica tipica del teatro greco a quella
cristiana, che va dalla Bibbia a S. Agostino, a Kierkegaard e oltre, sulle
quali ha insistito Natoli nel suo saggio dedicato a L’esperienza del dolore.
L’oppressione: il dolore
schiaccia, opprime, soffoca; e ancora: non dà tregua, irretisce, spezza la
vitalità, rende inerti, reclusi, spenti. Il dolore è angoscia: oppressione,
appunto. Si pensi alla testimonianza esemplare di Baudelaire in Spleen, che
allinea il cielo “che pesa come un coperchio” e i ragni che tessono e ritessono
nella coscienza come segnali dell’Angoscia che si dilata nel soggetto. Si pensi
al “male oscuro” della depressione, così come viene descritta da psichiatri e
no, da Berto alla Kristeva.
La perdita e il lutto: nel
dolore si perde il mondo, l’io, il senso del vivere, dell’agire, dell’esistere,
ma anche ci si perde e si vive una perdita, un’amputazione, un distacco da, un
ritrarsi dal senso. Quindi il dolore implica il lutto:
esperienza di chiusura, di
estraniazione, legata al “rimuginare” in forma oppressiva e senza uscita. Da
qui l’atteggiamento di elaborazione del lutto, di sua elaborazione interiore
che lo attraversa: ma è, spesso, un’elaborazione che riapre il dolore e lo
ripropone come travaglio, senza superamento (a lungo, molto a lungo).
Il lamento: l’oppressone e la mancanza reclamano la “compensazione” della
parola, la sua terapia e la sua ostensione. La parola dice il dolore e lo cura,
ma lo dice nella sua radicalità, attivando un tipo di parola senza mediazione,
senza dialettica, puramente ostensiva: il lamento appunto. Il lamento si
alterna al grido e lo implica, e il grido è pre-razionale, solo ostensivo e
pertanto è scandalo, che mostra la scandalosità del dolore. Giobbe, nella
Bibbia, insegni.
Il tunnel: ora carcere ora
cunicolo, sempre “luogo” soffocante, che schiaccia, opprime, blocca la libertà
e impone la sola visione di se stesso. Così è il dolore, nella percezione che
il soggetto ne ha dal punto di vista topologico, che è poi un connotato
simbolico legato alla metaforizzazione, ma che corrisponde a un vissuto.
Questi caratteri, presenti
nelle elaborazioni della cultura, sia pure — anche qui — scanditi in forme
diverse, in diversi “dosaggi”, etc., hanno una precisa capacità formativa, nel
senso che danno un imprinting alla formazione e ne fissano itinerari e
traguardi. Il dolore come esperienza di un soggetto è — come l’amore — una
catastrofe (e in modo più esplicito), aspetto che delinea un processo di
intensa elaborazione del sé, di revisione, di ricostruzione/decostruzione, di
“rimessa a fuoco”. Il radicalismo del dolore è, anche qui e insieme ancora,
catastrofico e morfogenetico. Dal dolore e attraverso il dolore prendono corpo
altre linee di strutturazione del soggetto, altre forme, che ne trattengono
l’orma e l’eco, ma anche le neo-strutture che esso ha prodotte. Ma il dolore
anche lega al senso, alla sua perdita e alla sua rielaborazione, riconquista una
nuova proiezione, quindi è esperienza che produce formazione. Il dolore è
dialettico, non dà tregua, si apre e chiude continuamente su se stesso, ma in
questo gioco dell’identità viene a elaborare la differenza: la costruzione di
una nuova forma.
Come l’amore, anche la
sofferenza ha una dimensione di formatività non solo operativa, vissuta, bensì
anche paradigmatica, capace di illustrarci meglio su che cos’è l’ “acquisir
forma” da parte del soggetto, sul quale — come l’amore — ci dice qualcosa di
logicamente e morfologicamente rilevante.
Non vale concludere: la
“conclusione” è nel discorso stesso fin qui svolto. Vale solo ricordare —
ancora una volta — che è dai sentimenti che noi cogliamo meglio come si attiva,
come procede, come si struttura la formazione, non solo perché essi stanno alla
base di tutta la vita del soggetto, ma proprio perché essi sono più
paradigmatici (anche in quanto “basici”, ma non soltanto) del complesso,
sfumato, non lineare costruirsi del soggetto. Ma è alla formazione come formazione
del soggetto che deve guardare come al proprio “culmine” la riflessione
sull’educazione svolta dalla pedagogia.
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