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giovedì 10 gennaio 2013

FORMAZIONE E DIMENSIONI AFFETTIVE-Educazione e sentimenti



Laporta R., contributo in F. Cambi (a cura di), NEL CONFLITTO DELLE EMOZIONI. Prospettive pedagogiche, Roma, Armando Editore, 1988, pp. 99-108
L’educazione dei sentimenti è impresa non nuova, ma neppure dei tutto chiara. Presenta alcuni problemi preliminari che la differenziano da quella pratica e intellettuale. In breve: educare l’intelligenza teorica e pratica al giorno d’oggi vuoi dire per l’educatore inviare al cervello dell’educando stimoli nascenti da operazioni fisiche e/o intellettuali che ne siano la proiezione percettibile e che generino nei suo organismo, a partire dal cervello e dal corredo di conoscenze teoriche e pratiche da esso controllate, operazioni analoghe a quelle dell’educatore stesso.
La misura in cui l’educando riesce a ricostruire le operazioni proposte dell’educatore è la misura del successo dell’atto educativo, delle abilità intellettuali e fisiche in lui attivate, della cultura teorica e pratica realizzata.
Questo schema andrebbe integrato largamente per renderlo meno meccanico, meno sospetto di mera tecnologia. Ad esempio, richiederebbe almeno l’avvertenza che l’educatore di cui si parla, soltanto nella sua versione scolastica è un professionista più o meno consapevole dello schema, mentre in generale e nella maggior parte dei casi esso è anonimo, o casuale, o inconscio. Gli stimoli che chiamiamo “educativi” provengono ai soggetti dall’ambiente in cui essi vivono, dalle azioni, parole, gesti, atteggiamenti delle persone incluse in quelli; e in genere nessuna di queste persone si preoccupa di commisurare in qualche modo i comportamenti e gli atteggiamenti del soggetto a quelli casualmente da lui incontrati nell’ambiente. Semmai è in altre, diverse occasioni che si sente dire: Da quel che fa (o dice) il tale, si capisce che proviene da questo o quell’ambiente.
Si può dire qualcosa del genere per quanto riguarda i sentimenti?
La differenza fondamentale sta nel fatto che le reazioni emotive non consistono nei riprodurre o ricostruire comportamenti di altri soggetti. I loro caratteri sono del tutto difformi dai caratteri dei comportamenti che le stimolano, anche se il loro nesso con quelli è ben chiaro, come accade in una reazione d’ira o di sgomento di un soggetto a parole o atti di un altro.
Questa differenza implica una constatazione: se esiste un apprendimento configurabile in esiti emotivi, la produzione di esso non può osservare lo schema dell’educazione intellettuale e pratica. Quando si parla di educazione dei sentimenti ci si riferisce perciò a un agire i cui caratteri devono essere determinati sotto tutt’altro punto di vista da quello ormai da tempo approfondito dell’educazione pratica e intellettuale.
La differenza era assai poco rilevante quando l’intero ambito dell’educazione era soggetto quasi esclusivamente all’intuizione dell’educatore e la teoria relativa aveva caratteri teoretici. Gli atti educativi erano — e sono ancora largamente — affidati all’ “arte” e i loro effetti erano valutati globalmente.
Oggi, di fronte all’articolarsi della ricerca sui processi cognitivi. sull’apprendimento, alle tassonomie di abilità pratiche e intellettuali, alle tecniche miranti ad ottenere analiticamente esiti da procedure altrettanto analitiche, l’indagine sull’emotività si presenta tanto più necessaria quanto maggiore è il rischio che le abilità intellettuali e pratiche prodotte possano dar luogo a personalità prive di una moralità in buona parte fondata sui “buoni sentimenti”. La stessa educazione morale è nella coscienza di ognuno collegata all’educazione emotiva, anche se non si identifica certamente con essa (e in certe filosofie ne astrae esplicitamente).
Queste considerazioni inducono ad un approfondimento del ruolo che la sfera emotiva svolge nella personalità e quindi del ruolo che essa ha nella vita dell’individuo.
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L’indagine psicologica, in particolare quella psicanalitica possono dare molte indicazioni sulla sfera emotiva: possono cioè studiare in essa l’origine, la motivazione di comportamenti che la ragione si assume il compito di giustificare o di riconoscere irriducibili alle sue categorie. D’altra parte l’apprendimento si concepisce generalmente come una modifica, sempre in qualche modo motivata, di un comportamento. ed anche sotto questo aspetto la sfera emotiva merita specifica attenzione: quello che chiamiamo “sentimento” cogliendolo nella sua fenomenologia quotidiana lo troviamo, sotto forma di motivazione, all’origine di ogni atto umano.
L’indagine psicologica, anche la più profonda. può inseguire la manifestazione dei sentimenti al di là della sfera di coscienza, in una dimensione subconscia della personalità, ma non può andare oltre. Andare oltre vuoi dire abbandonare il livello psicologico per quello che si potrebbe dire genericamente vitale. A questo livello le neuroscienze individuano la sede della vita emotiva in una particolare regione del cervello, e ne individuano i collegamenti con tutto il sistema nervoso centrale: la psicologia comparata e l’etologia consentono di risalire con l’indagine sulla vita psichica, nelle sue dimensioni emotiva e cognitiva, lungo la storia evolutiva; ma le origini di esse sono attingibili soltanto risalendo alle origini della vita stessa.

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Non esistono teorie confermate sulle origini della vita. Esistono ipotesi in parte collegate fra loro e con ipotesi cosmologiche sulle origini del pianeta, debitrici alla biofisica e alla biochimica di alcuni concetti fondamentali. La biofisica descrive le condizioni del pianeta nelle quali il fenomeno della vita si è prodotto; la biochimica descrive i processi che da un gruppo di elementi- base (carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, e inoltre fosforo e zolfo) hanno generato le basi organiche del vivente sia nei suoi rapporti con l’ambiente (metabolismo) sia nella sua capacità di riprodursi. Qui questo secondo aspetto fondamentale della vita, il meccanismo della sua storia, con l’insieme di teorie evoluzioniste a cui esso si affida, servirà soltanto di sfondo al discorso, che si svolge nell’ambito del rapporto fra organismo e ambiente, a incominciare dal reciproco determinarsi dell’uno e dell’altro.
L’ipotesi ad oggi più completa colloca il prodursi della vita, quattro miliardi di anni fa, in un mondo costituito da un’atmosfera formata da anidride carbonica e metano, al disotto della quale si stendeva l’oceano. In questo oceano disseminato di vari tipi di rocce, Sotto l’azione di scariche elettriche di temporali cosmici si producevano fra i sei elementi ricordati le reazioni chimiche che davano luogo ai composti organici (proteine, lipidi, ecc.) basi della vita, e si formava così il “brodo prebiotico” nel quale la vita in qualche modo si generò.
Ma il modo in cui in esso quei composti organici giunsero ad organizzarsi in singoli viventi, individuantisi sia reciprocamente sia rispetto ai materiali rimasti sciolti, è ancora tanto ipotetico nel suo fiat individuativo quanto chiarissimo circa alcune modalità fondamentali di esso. L’individuazione di ogni vivente originario comunque avvenuta, implica un successivo costante suo impulso a perdurare nel suo esistere mediante una dotazione di energia; richiede quindi un assorbimento dall’ambiente dei materiali contenenti tale energia e una espulsione nell’ambiente dei loro scarti. La protocellula — come ogni organismo più complesso al di là di essa — è una macchina che consuma energia ambientale (in ultima analisi risalente a quella solare) e perciò vive soltanto integrata organicamente nell’ambiente dal quale nasce:
questa integrazione dinamica è il suo metabolismo.
La novità fondamentale di questo rapporto organico fra il vivente e il suo ambiente sta nel fatto che, sebbene le sue leggi siano quelle fisiche e chimiche che governano i processi costitutivi accennati e il rapporto stesso, esse non garantiscono meccanicamente la vita. E la novità essenziale della vita rispetto al non vivente, è appunto questa: la vita dipende dal vivente stesso, dal suo modo di agire nell’ambiente Il vivere perciò implica rischio costante: il rischio di sbagliare il rapporto con l’ambiente di vita. Rischio di morte.
Voler andare a cercare in questa condizione di vita elementare le origini di quello che noi, esseri ipercomplessi, chiamiamo emotività, con tutta la infinita gamma delle sue sfumature, può sembrare artificioso e inutile. Pure, nell’impegno del vivente a sopravvivere col rischio di non riuscire a farcela si deve ravvisare un cieco con-muoversi di tutte le sue risorse interiori, un mobilitarsi di esse nella scelta inizialmente casuale dei comportamenti efficaci allo scopo.
Questo con-muoversi è insufficiente di per sé, perché è cieco, come sono cieche le emozioni (ex-movere vuol dire mettere in movimento, sommuovere, ma non indica alcuna direzione): il comportamento di sopravvivenza del protovivente non è però interamente cieco, poiché sta sempre in una scelta. La scelta originaria è certo casuale, e presenta il massimo del rischio. Essa si esercita in due sensi: l’uno è l’assimilazione di energia dall’ambiente, l’altra è l’evitamento delle situazioni che minacciano fisicamente l’organismo.
Se la scelta — assimilativa o evitativa che sia — risulta efficace, allora entra in gioco un altro fattore fondamentale della vita: la capacità di ripetere le scelte valide. Questa è all’origine la risorsa decisiva della vita: fissare una scelta, ossia un comportamento riuscito e ripeterlo in circostanze analoghe. Una risorsa che proiettata negli organismi complessi e ipercomPlessi come i nostri, si articolerà in tre aspetti coerenti fra loro: memoria, riconoscimento, ripetizione. La memoria fissa le circostanze vissute, ne consente il riconoscimento, ne alimenta la ripetizione. Così il nuovo comportamento dell’organismo ripete il comportamento precedente riuscito: non è più casuale, ma appreso. Questo è l’apprendimento.
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Tiriamo le somme di questo excursus biologico: il vivente primordiale, comunque venga alla vita, è integrato costitutivamente nell’ambiente, ed è portatore di una intrinseca vocazione a sopravvivere in esso, utilizzando le sue risorse energetiche ed evitando le situazioni distruttive. Questa vocazione muove (e-muove, con-muove) le sue risorse originando scelte di comportamenti i comportamenti riusciti sono memorizzati e ripetuti, ossia sono appresi. Nel vivente fin dalle origini esistono perciò le due dimensioni di comportamento che assicurano la sua sopravvivenza: la dimensione emotiva e quella dell’apprendimento, che è la dimensione cognitiva.
Se trasferiamo questo schema nei termini del comportamento umano (al che occorrerebbe un lavoro ovviamente molto più complesso di questi accenni), possiamo utilizzano per controllare quanto si diceva all’inizio del discorso: l’apprendimento riguarda la vita cognitiva, comprendente — sia detto una volta per tutte — la conoscenza pratica con tutte le relative abilità. Le emozioni gli sono indispensabili come motivazioni (cioè per avviarlo). Da questo punto di vista la dimensione emotiva si presenta ancora una volta come differente da quella dell’apprendimento.
E perciò, se l’educare riguarda l’apprendere, ossia acquisire conoscenze e abilità, la dimensione emotiva che lo motiva non si educa in quanto tale: viste così le cose, non si può parlare di educazione dei sentimenti, o almeno non se ne può parlare da questo punto di vista, come per le capacità fisiche e intellettuali. E tuttavia la questione non si esaurisce qui.
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Riprendiamo in esame il nostro schema iniziale, della comunicazione che sollecita l’apprendimento teorico e pratico. Lo schema si può riferire, semplificandolo ai fini del discorso, alla teoria dell’informazione e riguarda la comunicazione verbale: si presenta come I) una “codifica”, da parte di un “emittente” (l’insegnante I), di un concetto (c’) in parole, costituenti il “messaggio” (m) verbale da comunicare: 2) in un “canale” per il quale il messaggio passa per giungere ad un “ricevente” (l’allievo, A); 3) in una “decodifica” da parte del ricevente, mediante cui quest’ultimo ricostruisce in proprio il concetto che si voleva comunicare (c”).

(codifica)                        (canale)                        (decodifica)

È evidente che l’esito ideale di una comunicazione verbale sarebbe costituito dalla ricostruzione da parte dell’allievo di un concetto identico a quello dell’insegnante (c”= c’); ed è altrettanto evidente che questo non può accadere per molte ragioni di diverso carattere. Trascuriamo le ragioni di carattere culturale (ognuno può costruire nuovi concetti solo utilizzando al meglio quelli di cui dispone già, ed è raro che un allievo disponga di tutti i concetti che l’insegnante utilizza per costruire il proprio concetto; ma sta all’insegnante proporre concetti che l’allievo possa costruire, ecc.). Ci interessano qui soltanto quelle emotive.
Basta farci un semplice esame di coscienza per renderci conto di alcuni fenomeni emotivi che accompagnano l’apprendimento. In primo luogo per apprendere dobbiamo essere motivati a farlo, ossia deve operare in noi quell’ex-movere che si è visto nelle forme originarie: in psicologia si parla di bisogni e di interessi. I modi di distinguere bisogni da interessi sono molti, ma qui basterà renderci conto del fatto che tanto gli uni che gli altri sono sempre accompagnati da una colorazione emotiva. Lo sono i bisogni primari, come la fame e la sete, e soprattutto il sesso, ma anche quelli secondari:
bisogno di affetto, di stima, di comprensione, di accettazione, ecc.; e lo stesso può dirsi degli interessi (che ai fini del discorso si possono considerare bisogni intellettualizzati), come l’interesse al gioco, o all’arte, o allo sport, ecc. Pensare ad un apprendimento privo di questa componente emotiva è, in sostanza, impossibile.
Ma la motivazione gioca un ruolo anche più ampio nel contingentare la decodifica dei concetti, attingendo ai mondo emotivo che permea la nostra cultura personale. Senza sviluppare nei particolari il concetto del nostro mondo emotivo, possiamo dire che esso è inerente alle nostre complessive visioni della vita, i suoi fini, i valori a cui si ispira il senso generale che essa ha per noi: così credenze o fedi religiose, convinzioni e passioni politiche, o anche semplicemente affetti o simpatie per persone e istituzioni possono motivare rifiuti di concetti comunicati che vengano percepiti dal ricevente (educando o meno) come offensivi o lesivi della sua visione della vita. E sovente anche il mero sospetto di ciò basta a respingerli ancor prima di averli completamente compresi.
Infine è facile renderci conto che una componente emotiva accompagna ogni nostro atto o pensiero: per cui si parla di occupazioni “noiose”, di pensieri “esaltanti”, di attività “coinvolgenti” e così via; ma anche quando non si sa dare un nome a colorazioni emotive troppo fuggevoli per esser descritte, queste affettano i processi mentali sostenendoli o indebolendoli, secondo i casi. Un effetto del genere si associa ordinariamente anche ad ogni situazione comunicativa, che per il modo in cui si svolge tecnicamente alimenta o frustra la nostra attenzione o i nostri interessi.
Fin qui i sentimenti appaiono come fattori positivi o negativi dell’educazione intellettuale e pratica, ma non in quanto oggetto di educazione essi stessi. Ma la funzione di condizionamento del rapporto educativo è essenziale per comprendere in qual modo l’educazione a sua volta possa investirli, tanto che si possa parlare di educazione dei sentimenti.
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Questa espressione, al punto del discorso a cui siamo giunti potrebbe autorizzare due domande: E chiaro il ruolo dei sentimenti nell’educazione pratica e intellettuale; ma qual è il ruolo dell’educazione così intesa nei confronti dei sentimenti?
E possibile a chiunque dire che ogni ambiente educativo si preoccupa di “coltivare” i sentimenti e che questo spiega perché i sentimenti, poniamo, di un cristiano verso i derelitti non possono essere i medesimi di un mercenario zairese. A un livello meno comune, si può documentare che i sentimenti in presenza di una nascita o di una morte non sono i medesimi per i membri di una famiglia europea e quelli di una famiglia di Ik, il gruppo umano “incapace di amore” descritto da C.M. Turnbull (Turnbull, 1977). Constatare tutto questo, tuttavia, non aiuta a capire fino in fondo i meccanismi fra educazione e sentimenti. Può risultare più facile capirlo, se si accosta la faccenda da un altro lato, dalla conoscenza del nostro sistema nervoso in prospettiva evoluzionista: ad esempio nella prospettiva di P.D. McLean.
Questa prospettiva ha un carattere etologico, ossia prende le mosse dai livelli evolutivi propri di organismi già molto complessi, mentre rimane già remota dallo sguardo dato poco sopra ai primi livelli della vita. A quei livelli gli aspetti del rapporto organismo (cellulare)-ambiente erano visti nelle forme primordiali di reazioni chimiche nelle quali erano indifferenziati l’aspetto emotivo e quello cognitivo; negli organismi più complessi nei quali le strutture organiche che assicurano il rapporto con l’ambiente — ossia il sistema nervoso periferico e centrale — funzionano mediante reazioni elettro-chimiche, la differenziazione si fa evidente, al punto che quel che interessa è scoprire i nessi anatomici e fisiologici fra le strutture sedi dell’emotività e quelle che amministrano la cognizione. A questo scopo utilizziamo il modello di McLean.
McLean (McLean, 1984) ha sviluppato negli anni Settanta la sua teoria della evoluzione del cervello umano, secondo la quale esso deve la sua attuale struttura al processo evolutivo per cui su un primo nucleo neuropsichico già proprio dei rettili (e in essi sede i tutti i processi psichici) fin da 200 milioni di anni fa, si sarebbe instaurata, circa 100 milioni di anni or sono, una ulteriore formazione, il sistema limbico dei primi mammiferi, completato poi circa 20 milioni di anni fa nei mammiferi superiori e nell’uomo da una struttura costituente l’attuale corteccia cerebrale. A prescindere dal primo nucleo, sede degli istinti di base a cui è affidata la sopravvivenza fisica, quel che ci interessa è la formazione successiva (archipallio) e i suoi rapporti con quella corticale (neopallio).  
La regione limbica è fondamentalmente la sede della emotività come la esperisce ognuno di noi: è connessa all’ambiente mediante le vie nervose afferenti, che convogliano da quello al cervello sensazioni e percezioni, ed è integrata alla corteccia cerebrale. Così tutto ciò che la corteccia cerebrale percepisce le giunge già affetto dalle reazioni emotive generate nel transito attraverso la regione limbica. D’altra parte i concetti e le loro relazioni costruite dalla corteccia nelle sue aree associative, nel momento in cui si traducono in una qualsiasi espressione (parole e gesti, discorsi e azioni) destinata all’ambiente attraverso le vie nervose efferenti, transitano nuovamente attraverso la medesima regione, si colorano di emotività.

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Questo schema, semplificato all’estremo, dovrebbe comunque esser sufficiente a descrivere l’intimità dei nessi fra pensiero ed emotività, e a spiegare come l’emotività che condiziona tutte le produzioni intellettuali e pratiche sia a sua volta condizionata da quelle. L’emotività nelle sue manifestazioni tipiche (piacere, dolore, ansia, ira, affetto, ecc.) è fondamentalmente comune a tutti gli organismi più complessi e in particolare a tutti i mammiferi. L’intelligenza lo è altrettanto. Le differenze non stanno in quelle manifestazioni, ma nella loro connessione con gli eventi in cui l’organismo è coinvolto e i relativi livelli delle prestazioni intellettuali possibili agli organismi sia nel prenderne atto sia nel reagire ad esse. E in ragione della complessità delle prestazioni dell’intelligenza della specie che si configura così una gamma più o meno ricca di modulazioni emotive, di sentimenti.
Le produzioni intellettuali e pratiche della specie umana costituiscono la sua cultura e la sua storia, in esse ogni nuovo essere si trova immerso dalla nascita. Dal punto di vista psicologico questa cultura è il mondo delle immagini, dei suoni, delle forme fisiche, degli atteggiamenti, dei comportamenti, delle parole, delle mimiche, che incorpora totalmente il nuovo nato, lo assorbe e lo integra, attraverso una rete inesauribile di stimoli a cui il suo sistema nervoso e il suo cervello in formazione sono impegnati a rispondere inesauribilmente e sempre più adeguatamente. E cioè nel tradursi di queste riposte in sequenze e complessi di azioni che il nuovo essere diventa gradualmente partecipe di quel mondo: e della cultura di esso fa in certo senso la propria “natura”, fino a rendersi difficile — quasi fosse innaturale — il rapporto con culture differenti.
La somma degli stimoli, delle loro elaborazioni intellettuali, delle risposte vissute è costantemente intrisa — come si è visto — di emotività: gli stimoli emotivi (predominanti e decisivi nei primissimi anni di vita) ricevono risposte emotive tanto elaborate quanto lo comporta la complessità delle risposte intellettuali, via via crescente con la maturazione psichica e l’educazione dei soggetti: ossia con l’assimilazione progressiva della cultura che l’educazione produce nei nuovi soggetti. Ne risulta che nella misura in cui l’educazione intellettuale e pratica trasmette gli elementi della cultura umana in ragione delle situazioni e condizioni di vita vissuta dai soggetti, impegna i processi emotivi che ne hanno caratterizzato la produzione. Non si può rivivere la cultura di cui facciamo parte, senza riviverne le implicazioni emotive. Anzi non si può dire che una educazione abbia successo se non è in grado di ottenere dall’educando che egli — pensando ed agendo in essa — ricomprenda al possibile gli universi emotivi connessi ai contenuti culturali che essa vuoi trasmettere. Questo è il difficile significato di una scuola che sappia essere per i suoi alunni reale esperienza di vita.
I concetti di interpretazione e di comprensione che oggi dominano i nostri orizzonti culturali quando per trovar più persuasiva espressione invocano la Eriebnis, la “esperienza vissuta”, nel “vissuto” della esperienza riconoscono la radice emotiva della vita; e un’educazione che offra la possibilità di comprendere le realtà umane del passato o del presente nella loro integrità, di arricchirsi di esse, non soltanto richiede all’educando una Eriebnis, ma diviene fonte dell’arricchimento di essa, di un vissuto più ricco di sentimenti più fini e complessi.
L’educazione dei sentimenti è quindi una realtà nel senso che si è visto: ha esito nei singoli soggetti nella misura stessa in cui essi riescono a far propria la cultura del loro gruppo umano e del loro tempo: è in definitiva funzione della loro personalità, delle esperienze personali di vita. Ma il quadro che se ne è dato sarebbe largamente incompleto se non si riprendesse sia pur brevemente il cenno già fatto all’inizio ai suoi rapporti con la formazione morale.
Va detto che dal punto di vista qui adottato questo tema è tutto da approfondire, tanto quanto lo è quello stesso della formazione morale. La dimensione morale della persona, mentre è indiscutibile, risulta dal punto di vista psicologico descritta con larghezza di osservazioni, ma non ancora forse adeguatamente spiegata; né la ricerca biopsichica e neuroscientifica può soccorrere a sufficienza su questo terreno, almeno fino a quando non sarà in grado di spiegare in modi persuasivi i processi di costituzione della coscienza e di quella che chiamiamo personalità.
Tutto quel che si può affermare, dunque, da questo punto di vista è che nella formazione dei giudizi morali trovano posto tanto processi cognitivi quanto aspetti emotivi (i filosofi che trattano l’etica oscillano in gran parte fra ragione ed emotività); e questo può dare qualche orientamento sul terreno educativo, soprattutto nel senso dettato dalla dimensione emotiva, dal coinvolgimento che essa richiede per farsi a un tempo cultura ed esperienza di vita — e quindi anche di vita morale. Ma non toglie all’educazione dei sentimenti, ed anzi conferma, quelle caratteristiche che si è cercato di riconoscere in essa.

Bibliografia
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Laporta R., L’insegnante. Guida alla salute professionale, Milano, Mursia, 1985.


Laporta R., L’assoluto pedagogico. Saggio su/la libertà in educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1996.
Luhmann, K.-E. Schorr, Il sistema educativo. Problemi di riflessività, trad. it., Roma,
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