Laporta R., contributo in F. Cambi (a cura di), NEL CONFLITTO DELLE EMOZIONI. Prospettive
pedagogiche, Roma, Armando Editore, 1988, pp. 99-108
L’educazione
dei sentimenti è impresa non nuova, ma neppure dei tutto chiara. Presenta
alcuni problemi preliminari che la differenziano da quella pratica e
intellettuale. In breve: educare l’intelligenza teorica e pratica al giorno
d’oggi vuoi dire per l’educatore inviare al cervello dell’educando stimoli
nascenti da operazioni fisiche e/o intellettuali che ne siano la proiezione
percettibile e che generino nei suo organismo, a partire dal cervello e dal
corredo di conoscenze teoriche e pratiche da esso controllate, operazioni
analoghe a quelle dell’educatore stesso.
La
misura in cui l’educando riesce a ricostruire le operazioni proposte dell’educatore
è la misura del successo dell’atto educativo, delle abilità intellettuali e
fisiche in lui attivate, della cultura teorica e pratica realizzata.
Questo
schema andrebbe integrato largamente per renderlo meno meccanico, meno sospetto
di mera tecnologia. Ad esempio, richiederebbe almeno l’avvertenza che
l’educatore di cui si parla, soltanto nella sua versione scolastica è un professionista
più o meno consapevole dello schema, mentre in generale e nella maggior parte
dei casi esso è anonimo, o casuale, o inconscio. Gli stimoli che chiamiamo
“educativi” provengono ai soggetti dall’ambiente in cui essi vivono, dalle
azioni, parole, gesti, atteggiamenti delle persone incluse in quelli; e in
genere nessuna di queste persone si preoccupa di commisurare in qualche modo i
comportamenti e gli atteggiamenti del soggetto a quelli casualmente da lui
incontrati nell’ambiente. Semmai è in altre, diverse occasioni che si sente
dire: Da quel che fa (o dice) il tale, si capisce che proviene da questo o
quell’ambiente.
Si
può dire qualcosa del genere per quanto riguarda i sentimenti?
La
differenza fondamentale sta nel fatto che le reazioni emotive non consistono
nei riprodurre o ricostruire comportamenti di altri soggetti. I loro caratteri
sono del tutto difformi dai caratteri dei comportamenti che le stimolano, anche
se il loro nesso con quelli è ben chiaro, come accade in una reazione d’ira o di
sgomento di un soggetto a parole o atti di un altro.
Questa
differenza implica una constatazione: se esiste un apprendimento configurabile
in esiti emotivi, la produzione di esso non può osservare lo schema
dell’educazione intellettuale e pratica. Quando si parla di educazione dei
sentimenti ci si riferisce perciò a un agire i cui caratteri devono essere
determinati sotto tutt’altro punto di vista da quello ormai da tempo
approfondito dell’educazione pratica e intellettuale.
La
differenza era assai poco rilevante quando l’intero ambito dell’educazione era
soggetto quasi esclusivamente all’intuizione dell’educatore e la teoria
relativa aveva caratteri teoretici. Gli atti educativi erano — e sono ancora
largamente — affidati all’ “arte” e i loro effetti erano valutati globalmente.
Oggi,
di fronte all’articolarsi della ricerca sui processi cognitivi.
sull’apprendimento, alle tassonomie di abilità pratiche e intellettuali, alle
tecniche miranti ad ottenere analiticamente esiti da procedure altrettanto
analitiche, l’indagine sull’emotività si presenta tanto più necessaria quanto
maggiore è il rischio che le abilità intellettuali e pratiche prodotte possano
dar luogo a personalità prive di una moralità in buona parte fondata sui “buoni
sentimenti”. La stessa educazione morale è nella coscienza di ognuno collegata
all’educazione emotiva, anche se non si identifica certamente con essa (e in
certe filosofie ne astrae esplicitamente).
Queste
considerazioni inducono ad un approfondimento del ruolo che la sfera emotiva svolge
nella personalità e quindi del ruolo che essa ha nella vita dell’individuo.
* * *
L’indagine
psicologica, in particolare quella psicanalitica possono dare molte indicazioni
sulla sfera emotiva: possono cioè studiare in essa l’origine, la motivazione di
comportamenti che la ragione si assume il compito di giustificare o di
riconoscere irriducibili alle sue categorie. D’altra parte l’apprendimento si
concepisce generalmente come una modifica, sempre in qualche modo motivata, di
un comportamento. ed anche sotto questo aspetto la sfera emotiva merita
specifica attenzione: quello che chiamiamo “sentimento” cogliendolo nella sua
fenomenologia quotidiana lo troviamo, sotto forma di motivazione, all’origine
di ogni atto umano.
L’indagine
psicologica, anche la più profonda. può inseguire la manifestazione dei
sentimenti al di là della sfera di coscienza, in una dimensione subconscia
della personalità, ma non può andare oltre. Andare oltre vuoi dire abbandonare
il livello psicologico per quello che si potrebbe dire genericamente vitale. A
questo livello le neuroscienze individuano la sede della vita emotiva in una
particolare regione del cervello, e ne individuano i collegamenti con tutto il
sistema nervoso centrale: la psicologia comparata e l’etologia consentono di
risalire con l’indagine sulla vita psichica, nelle sue dimensioni emotiva e
cognitiva, lungo la storia evolutiva; ma le origini di esse sono attingibili
soltanto risalendo alle origini della vita stessa.
* * *
Non
esistono teorie confermate sulle origini della vita. Esistono ipotesi in parte
collegate fra loro e con ipotesi cosmologiche sulle origini del pianeta, debitrici
alla biofisica e alla biochimica di alcuni concetti fondamentali. La biofisica
descrive le condizioni del pianeta nelle quali il fenomeno della vita si è
prodotto; la biochimica descrive i processi che da un gruppo di elementi- base
(carbonio, idrogeno, ossigeno, azoto, e inoltre fosforo e zolfo) hanno generato
le basi organiche del vivente sia nei suoi rapporti con l’ambiente (metabolismo)
sia nella sua capacità di riprodursi. Qui questo secondo aspetto fondamentale
della vita, il meccanismo della sua storia, con l’insieme di teorie evoluzioniste
a cui esso si affida, servirà soltanto di sfondo al discorso, che si svolge
nell’ambito del rapporto fra organismo e ambiente, a incominciare dal reciproco
determinarsi dell’uno e dell’altro.
L’ipotesi
ad oggi più completa colloca il prodursi della vita, quattro miliardi di anni
fa, in un mondo costituito da un’atmosfera formata da anidride carbonica e
metano, al disotto della quale si stendeva l’oceano. In questo oceano
disseminato di vari tipi di rocce, Sotto l’azione di scariche elettriche di
temporali cosmici si producevano fra i sei elementi ricordati le reazioni
chimiche che davano luogo ai composti organici (proteine, lipidi, ecc.) basi
della vita, e si formava così il “brodo prebiotico” nel quale la vita in
qualche modo si generò.
Ma
il modo in cui in esso quei composti organici giunsero ad organizzarsi in
singoli viventi, individuantisi sia reciprocamente sia rispetto ai materiali
rimasti sciolti, è ancora tanto ipotetico nel suo fiat individuativo quanto chiarissimo circa alcune modalità
fondamentali di esso. L’individuazione di ogni vivente originario comunque
avvenuta, implica un successivo costante suo impulso a perdurare nel suo
esistere mediante una dotazione di energia; richiede quindi un assorbimento
dall’ambiente dei materiali contenenti tale energia e una espulsione
nell’ambiente dei loro scarti. La protocellula — come ogni organismo più
complesso al di là di essa — è una macchina che consuma energia ambientale (in
ultima analisi risalente a quella solare) e perciò vive soltanto integrata
organicamente nell’ambiente dal quale nasce:
questa
integrazione dinamica è il suo metabolismo.
La
novità fondamentale di questo rapporto organico fra il vivente e il suo
ambiente sta nel fatto che, sebbene le sue leggi siano quelle fisiche e
chimiche che governano i processi costitutivi accennati e il rapporto stesso,
esse non garantiscono meccanicamente la vita. E la novità essenziale della vita
rispetto al non vivente, è appunto questa: la vita dipende dal vivente stesso,
dal suo modo di agire nell’ambiente Il vivere perciò implica rischio costante:
il rischio di sbagliare il rapporto con l’ambiente di vita. Rischio di morte.
Voler
andare a cercare in questa condizione di vita elementare le origini di quello
che noi, esseri ipercomplessi, chiamiamo emotività, con tutta la infinita gamma
delle sue sfumature, può sembrare artificioso e inutile. Pure, nell’impegno del
vivente a sopravvivere col rischio di non riuscire a farcela si deve ravvisare
un cieco con-muoversi di tutte le sue
risorse interiori, un mobilitarsi di esse nella scelta inizialmente casuale dei
comportamenti efficaci allo scopo.
Questo
con-muoversi è insufficiente di per sé, perché è cieco, come sono cieche le
emozioni (ex-movere vuol dire mettere in movimento, sommuovere, ma non indica
alcuna direzione): il comportamento di sopravvivenza del protovivente non è
però interamente cieco, poiché sta sempre in una scelta. La scelta originaria è
certo casuale, e presenta il massimo del rischio. Essa si esercita in due
sensi: l’uno è l’assimilazione di energia dall’ambiente, l’altra è l’evitamento
delle situazioni che minacciano fisicamente l’organismo.
Se
la scelta — assimilativa o evitativa che sia — risulta efficace, allora entra
in gioco un altro fattore fondamentale della vita: la capacità di ripetere le
scelte valide. Questa è all’origine la risorsa decisiva della vita: fissare una
scelta, ossia un comportamento riuscito e ripeterlo in circostanze analoghe.
Una risorsa che proiettata negli organismi complessi e ipercomPlessi come i
nostri, si articolerà in tre aspetti coerenti fra loro: memoria,
riconoscimento, ripetizione. La memoria fissa le circostanze vissute, ne
consente il riconoscimento, ne alimenta la ripetizione. Così il nuovo
comportamento dell’organismo ripete il comportamento precedente riuscito: non è
più casuale, ma appreso. Questo è l’apprendimento.
***
Tiriamo
le somme di questo excursus biologico: il vivente primordiale, comunque venga
alla vita, è integrato costitutivamente nell’ambiente, ed è portatore di una
intrinseca vocazione a sopravvivere in esso, utilizzando le sue risorse
energetiche ed evitando le situazioni distruttive. Questa vocazione muove
(e-muove, con-muove) le sue risorse originando scelte di comportamenti i
comportamenti riusciti sono memorizzati e ripetuti, ossia sono appresi. Nel
vivente fin dalle origini esistono perciò le due dimensioni di comportamento
che assicurano la sua sopravvivenza: la dimensione emotiva e quella
dell’apprendimento, che è la dimensione cognitiva.
Se
trasferiamo questo schema nei termini del comportamento umano (al che
occorrerebbe un lavoro ovviamente molto più complesso di questi accenni),
possiamo utilizzano per controllare quanto si diceva all’inizio del discorso:
l’apprendimento riguarda la vita cognitiva, comprendente — sia detto una volta
per tutte — la conoscenza pratica con tutte le relative abilità. Le emozioni gli
sono indispensabili come motivazioni (cioè per avviarlo). Da questo punto di
vista la dimensione emotiva si presenta ancora una volta come differente da
quella dell’apprendimento.
E
perciò, se l’educare riguarda l’apprendere, ossia acquisire conoscenze e
abilità, la dimensione emotiva che lo motiva non si educa in quanto tale: viste
così le cose, non si può parlare di educazione dei sentimenti, o almeno non se
ne può parlare da questo punto di vista, come per le capacità fisiche e intellettuali.
E tuttavia la questione non si esaurisce qui.
* * *
Riprendiamo
in esame il nostro schema iniziale, della comunicazione che sollecita
l’apprendimento teorico e pratico. Lo schema si può riferire, semplificandolo
ai fini del discorso, alla teoria dell’informazione e riguarda la comunicazione
verbale: si presenta come I) una “codifica”, da parte di un “emittente”
(l’insegnante I), di un concetto (c’) in parole, costituenti il “messaggio” (m)
verbale da comunicare: 2) in un “canale” per il quale il messaggio passa per
giungere ad un “ricevente” (l’allievo, A); 3) in una “decodifica” da parte del
ricevente, mediante cui quest’ultimo ricostruisce in proprio il concetto che si
voleva comunicare (c”).
(codifica) (canale) (decodifica)
È
evidente che l’esito ideale di una comunicazione verbale sarebbe costituito
dalla ricostruzione da parte dell’allievo di un concetto identico a quello
dell’insegnante (c”= c’); ed è altrettanto evidente che questo non può accadere
per molte ragioni di diverso carattere. Trascuriamo le ragioni di carattere
culturale (ognuno può costruire nuovi concetti solo utilizzando al meglio
quelli di cui dispone già, ed è raro che un allievo disponga di tutti i
concetti che l’insegnante utilizza per costruire il proprio concetto; ma sta
all’insegnante proporre concetti che l’allievo possa costruire, ecc.). Ci
interessano qui soltanto quelle emotive.
Basta
farci un semplice esame di coscienza per renderci conto di alcuni fenomeni
emotivi che accompagnano l’apprendimento. In primo luogo per apprendere
dobbiamo essere motivati a farlo, ossia deve operare in noi quell’ex-movere che si è visto nelle forme
originarie: in psicologia si parla di bisogni e di interessi. I modi di
distinguere bisogni da interessi sono molti, ma qui basterà renderci conto del
fatto che tanto gli uni che gli altri sono sempre accompagnati da una
colorazione emotiva. Lo sono i bisogni primari, come la fame e la sete, e
soprattutto il sesso, ma anche quelli secondari:
bisogno
di affetto, di stima, di comprensione, di accettazione, ecc.; e lo stesso può
dirsi degli interessi (che ai fini del discorso si possono considerare bisogni
intellettualizzati), come l’interesse al gioco, o all’arte, o allo sport, ecc.
Pensare ad un apprendimento privo di questa componente emotiva è, in sostanza,
impossibile.
Ma
la motivazione gioca un ruolo anche più ampio nel contingentare la decodifica
dei concetti, attingendo ai mondo emotivo che permea la nostra cultura
personale. Senza sviluppare nei particolari il concetto del nostro mondo
emotivo, possiamo dire che esso è inerente alle nostre complessive visioni
della vita, i suoi fini, i valori a cui si ispira il senso generale che essa ha
per noi: così credenze o fedi religiose, convinzioni e passioni politiche, o
anche semplicemente affetti o simpatie per persone e istituzioni possono
motivare rifiuti di concetti comunicati che vengano percepiti dal ricevente
(educando o meno) come offensivi o lesivi della sua visione della vita. E
sovente anche il mero sospetto di ciò basta a respingerli ancor prima di averli
completamente compresi.
Infine
è facile renderci conto che una componente emotiva accompagna ogni nostro atto
o pensiero: per cui si parla di occupazioni “noiose”, di pensieri “esaltanti”,
di attività “coinvolgenti” e così via; ma anche quando non si sa dare un nome a
colorazioni emotive troppo fuggevoli per esser descritte, queste affettano i
processi mentali sostenendoli o indebolendoli, secondo i casi. Un effetto del
genere si associa ordinariamente anche ad ogni situazione comunicativa, che per
il modo in cui si svolge tecnicamente alimenta o frustra la nostra attenzione o
i nostri interessi.
Fin
qui i sentimenti appaiono come fattori positivi o negativi dell’educazione
intellettuale e pratica, ma non in quanto oggetto di educazione essi stessi. Ma
la funzione di condizionamento del rapporto educativo è essenziale per
comprendere in qual modo l’educazione a sua volta possa investirli, tanto che
si possa parlare di educazione dei sentimenti.
***
Questa
espressione, al punto del discorso a cui siamo giunti potrebbe autorizzare due
domande: E chiaro il ruolo dei sentimenti nell’educazione pratica e
intellettuale; ma qual è il ruolo dell’educazione così intesa nei confronti dei
sentimenti?
E
possibile a chiunque dire che ogni ambiente educativo si preoccupa di
“coltivare” i sentimenti e che questo spiega perché i sentimenti, poniamo, di
un cristiano verso i derelitti non possono essere i medesimi di un mercenario
zairese. A un livello meno comune, si può documentare che i sentimenti in
presenza di una nascita o di una morte non sono i medesimi per i membri di una
famiglia europea e quelli di una famiglia di Ik, il gruppo umano “incapace di
amore” descritto da C.M. Turnbull (Turnbull, 1977). Constatare tutto questo,
tuttavia, non aiuta a capire fino in fondo i meccanismi fra educazione e
sentimenti. Può risultare più facile capirlo, se si accosta la faccenda da un
altro lato, dalla conoscenza del nostro sistema nervoso in prospettiva
evoluzionista: ad esempio nella prospettiva di P.D. McLean.
Questa
prospettiva ha un carattere etologico, ossia prende le mosse dai livelli
evolutivi propri di organismi già molto complessi, mentre rimane già remota
dallo sguardo dato poco sopra ai primi livelli della vita. A quei livelli gli
aspetti del rapporto organismo (cellulare)-ambiente erano visti nelle forme
primordiali di reazioni chimiche nelle quali erano indifferenziati l’aspetto
emotivo e quello cognitivo; negli organismi più complessi nei quali le
strutture organiche che assicurano il rapporto con l’ambiente — ossia il
sistema nervoso periferico e centrale — funzionano mediante reazioni
elettro-chimiche, la differenziazione si fa evidente, al punto che quel che
interessa è scoprire i nessi anatomici e fisiologici fra le strutture sedi
dell’emotività e quelle che amministrano la cognizione. A questo scopo
utilizziamo il modello di McLean.
McLean
(McLean, 1984) ha sviluppato negli anni Settanta la sua teoria della evoluzione
del cervello umano, secondo la quale esso deve la sua attuale struttura al
processo evolutivo per cui su un primo nucleo neuropsichico già proprio dei
rettili (e in essi sede i tutti i processi psichici) fin da 200 milioni di anni
fa, si sarebbe instaurata, circa 100 milioni di anni or sono, una ulteriore
formazione, il sistema limbico dei primi mammiferi, completato poi circa 20
milioni di anni fa nei mammiferi superiori e nell’uomo da una struttura
costituente l’attuale corteccia cerebrale. A prescindere dal primo nucleo, sede
degli istinti di base a cui è affidata la sopravvivenza fisica, quel che ci
interessa è la formazione successiva (archipallio) e i suoi rapporti con quella
corticale (neopallio).
La
regione limbica è fondamentalmente la sede della emotività come la esperisce
ognuno di noi: è connessa all’ambiente mediante le vie nervose afferenti, che
convogliano da quello al cervello sensazioni e percezioni, ed è integrata alla
corteccia cerebrale. Così tutto ciò che la corteccia cerebrale percepisce le
giunge già affetto dalle reazioni emotive generate nel transito attraverso la
regione limbica. D’altra parte i concetti e le loro relazioni costruite dalla
corteccia nelle sue aree associative, nel momento in cui si traducono in una
qualsiasi espressione (parole e gesti, discorsi e azioni) destinata
all’ambiente attraverso le vie nervose efferenti, transitano nuovamente
attraverso la medesima regione, si colorano di emotività.
***
Questo
schema, semplificato all’estremo, dovrebbe comunque esser sufficiente a
descrivere l’intimità dei nessi fra pensiero ed emotività, e a spiegare come
l’emotività che condiziona tutte le produzioni intellettuali e pratiche sia a
sua volta condizionata da quelle. L’emotività nelle sue manifestazioni tipiche
(piacere, dolore, ansia, ira, affetto, ecc.) è fondamentalmente comune a tutti
gli organismi più complessi e in particolare a tutti i mammiferi.
L’intelligenza lo è altrettanto. Le differenze non stanno in quelle
manifestazioni, ma nella loro connessione con gli eventi in cui l’organismo è
coinvolto e i relativi livelli delle prestazioni intellettuali possibili agli
organismi sia nel prenderne atto sia nel reagire ad esse. E in ragione della
complessità delle prestazioni dell’intelligenza della specie che si configura
così una gamma più o meno ricca di modulazioni emotive, di sentimenti.
Le
produzioni intellettuali e pratiche della specie umana costituiscono la sua
cultura e la sua storia, in esse ogni nuovo essere si trova immerso dalla
nascita. Dal punto di vista psicologico questa cultura è il mondo delle
immagini, dei suoni, delle forme fisiche, degli atteggiamenti, dei
comportamenti, delle parole, delle mimiche, che incorpora totalmente il nuovo
nato, lo assorbe e lo integra, attraverso una rete inesauribile di stimoli a
cui il suo sistema nervoso e il suo cervello in formazione sono impegnati a
rispondere inesauribilmente e sempre più adeguatamente. E cioè nel tradursi di
queste riposte in sequenze e complessi di azioni che il nuovo essere diventa
gradualmente partecipe di quel mondo: e della cultura di esso fa in certo senso
la propria “natura”, fino a rendersi difficile — quasi fosse innaturale — il
rapporto con culture differenti.
La
somma degli stimoli, delle loro elaborazioni intellettuali, delle risposte
vissute è costantemente intrisa — come si è visto — di emotività: gli stimoli
emotivi (predominanti e decisivi nei primissimi anni di vita) ricevono risposte
emotive tanto elaborate quanto lo comporta la complessità delle risposte
intellettuali, via via crescente con la maturazione psichica e l’educazione dei
soggetti: ossia con l’assimilazione progressiva della cultura che l’educazione
produce nei nuovi soggetti. Ne risulta che nella misura in cui l’educazione
intellettuale e pratica trasmette gli elementi della cultura umana in ragione
delle situazioni e condizioni di vita vissuta dai soggetti, impegna i processi
emotivi che ne hanno caratterizzato la produzione. Non si può rivivere la
cultura di cui facciamo parte, senza riviverne le implicazioni emotive. Anzi
non si può dire che una educazione abbia successo se non è in grado di ottenere
dall’educando che egli — pensando ed agendo in essa — ricomprenda al possibile
gli universi emotivi connessi ai contenuti culturali che essa vuoi trasmettere.
Questo è il difficile significato di una scuola che sappia essere per i suoi
alunni reale esperienza di vita.
I
concetti di interpretazione e di comprensione che oggi dominano i nostri
orizzonti culturali quando per trovar più persuasiva espressione invocano la
Eriebnis, la “esperienza vissuta”, nel “vissuto” della esperienza riconoscono
la radice emotiva della vita; e un’educazione che offra la possibilità di
comprendere le realtà umane del passato o del presente nella loro integrità, di
arricchirsi di esse, non soltanto richiede all’educando una Eriebnis, ma
diviene fonte dell’arricchimento di essa, di un vissuto più ricco di sentimenti
più fini e complessi.
L’educazione
dei sentimenti è quindi una realtà nel senso che si è visto: ha esito nei
singoli soggetti nella misura stessa in cui essi riescono a far propria la
cultura del loro gruppo umano e del loro tempo: è in definitiva funzione della
loro personalità, delle esperienze personali di vita. Ma il quadro che se ne è
dato sarebbe largamente incompleto se non si riprendesse sia pur brevemente il
cenno già fatto all’inizio ai suoi rapporti con la formazione morale.
Va
detto che dal punto di vista qui adottato questo tema è tutto da approfondire,
tanto quanto lo è quello stesso della formazione morale. La dimensione morale
della persona, mentre è indiscutibile, risulta dal punto di vista psicologico
descritta con larghezza di osservazioni, ma non ancora forse adeguatamente
spiegata; né la ricerca biopsichica e neuroscientifica può soccorrere a
sufficienza su questo terreno, almeno fino a quando non sarà in grado di
spiegare in modi persuasivi i processi di costituzione della coscienza e di
quella che chiamiamo personalità.
Tutto
quel che si può affermare, dunque, da questo punto di vista è che nella formazione
dei giudizi morali trovano posto tanto processi cognitivi quanto aspetti
emotivi (i filosofi che trattano l’etica oscillano in gran parte fra ragione ed
emotività); e questo può dare qualche orientamento sul terreno educativo,
soprattutto nel senso dettato dalla dimensione emotiva, dal coinvolgimento che
essa richiede per farsi a un tempo cultura ed esperienza di vita — e quindi
anche di vita morale. Ma non toglie all’educazione dei sentimenti, ed anzi
conferma, quelle caratteristiche che si è cercato di riconoscere in essa.
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