La cultura del dono
Negli anni Settanta Erich Fromm pubblicò il suo libro Avere o essere
destinato ad un grande successo editoriale, anzi a diventare una vera e
propria pietra miliare nella critica alla società ed alla ideologia del
consumo, che si andavano in quegli anni affermando.
La posizione di Fromm era chiara: le persone avevano ormai rinunciato all’essere in favore dell’avere,
del possesso, del consumo che diventavano i valori di riferimento di
una società completamente orientata al mercato e al denaro.
Questa nuova ideologia peraltro rappresentava solo una faccia della
medaglia: l’altra era costituita dal progressivo affermarsi, come
prodotto della società dell’informazione, della cultura dell’apparire.
Fromm non l’ha fatto, ma avrebbe potuto benissimo scrivere un altro libro dal titolo “Essere o apparire”.
Se la chiave di lettura di Avere o essere poteva essere
sintetizzata nella affermazione “consumo dunque sono”, quella
dell’ipotetico libro si sarebbe potuta condensare in “appaio dunque
esisto”. Le riflessioni di Fromm si sono rivelate profetiche, anzi, per
certi aspetti superate da una realtà ancora più cruda di quanto
paventato.
È evidente che una società che ispira i propri comportamenti a valori
esclusivamente materiali finisce col considerare gli ideali, e spesso
anche le idee, come inutili orpelli, intralci dai quali liberarsi appena
possibile.
La nostra vita tende a ridursi alla sfera del privato, a rinchiudersi
nella direzione del puro e semplice consumo nel quale si esaurisce ogni
proiezione personale, ogni aspirazione culturale. Consumare e
consumarsi in una società invasa dalle merci, dalle offerte ammiccanti,
da una pubblicità sempre più maliziosa e subdola sembra essere diventata
la nostra unica prospettiva.
Possediamo quantità incredibili di cose inutili, usate in poche
occasioni e poi messe da parte alla rinfusa e sostituite con altre nella
rincorsa continua della novità, dell’ultimo grido, dell’ultimo modello.
Il superfluo è diventato il tutto e nello stesso tempo tutto è
diventato superfluo. Si sarebbe potuto pensare che una società in gran
parte liberata dai bisogni materiali primari che ha, appunto, a
disposizione grandi quantità di beni e di risorse potesse essere più
attenta e sensibile nei confronti di quella parte, non irrilevante, di
meno fortunati. Eppure, questo non accade. All’aumento della ricchezza
non corrisponde quasi mai una volontà di redistribuzione. Quasi sempre, e
specialmente nei momenti di crisi, i ricchi diventano più ricchi e i
poveri sempre più poveri.
Sembra un paradosso: tanto più cresce la ricchezza disponibile tanto
più questa tende a concentrarsi in poche mani: i poveri devono
accontentarsi di partecipare come spettatori agli sprechi e alle follie
della “società dello spettacolo”.
Questi sono i frutti del modello liberista al quale ci siamo affidati
e all’interno di questo modello si replicano ed incarnano nel privato i
comportamenti sociali ed istituzionali generali. Lo spreco e la
dissipazione pubblici vengono immediatamente mutuati e applicati dai
singoli soggetti, l’incuria e l’indifferenza diventano il tratto
distintivo di ogni comportamento, l’egoismo ed il possesso i segnalatori
dello status di chi può fare a meno degli altri. L’identità si afferma
non più attraverso l’umanità, la cultura, la capacità di ascolto e di
farsi carico dei problemi e delle difficoltà del vicino più fragile, ma
attraverso l’esercizio di un potere dato dal ruolo o dal possesso.
L’unica residua manifestazione di generosità è affidata alla carità,
alla beneficenza amministrata con la quale si vorrebbero rattoppare le
ferite visibili della società. «Gli uomini disapprendono l’arte del
dono. Nel suo esercizio organizzato l’impulso umano non ha più il minimo
posto. Anzi la donazione è necessariamente congiunta all’umiliazione,
attraverso la distribuzione, il calcolo esatto dei bisogni, in cui il
beneficiato viene trattato come oggetto». Scriveva Adorno nel suo Minima moralia.
Ma anche il dono privato è diventato routine, una sorta di impegno
sociale da assolvere nel quadro del mantenimento di “buoni rapporti” al
quale si destinano una quota del proprio bilancio e il minimo tempo e
fatica possibili. Un tempo, quando tutti eravamo più poveri, e donare
significava privarsi di qualcosa a favore di un altro, si era felici
nell’immaginare la felicità del destinatario del dono.
Occorreva impiegare tempo per scegliere il dono, pensare all’altro
come persona, agli eventuali desideri, magari espressi sottovoce mesi
prima. Era un modo di partecipare alla vita dell’altro, di condividere i
gusti, i successi, le attese. Era un modo per comunicare, per lanciare
un messaggio di stima, di affetto o di attenzione.
Il dono restava. Veniva, anche gelosamente, conservato poiché
rappresentava la memoria, il ricordo dell’occasione e del donatore.
Tutto questo si è perso, smarrito nella grande massa degli articoli da
regalo, pronti all’uso e all’occasione, tutti uguali a se stessi,
vetrina del dono di massa, senza personalità e senza pretese se non
quella dell’esercizio di un “dovere”: poteva essere quel dono o un altro
e sarebbe stata la stessa cosa.
Quella del dono, dell’arte del dono perduta, come diceva Adorno, è la
metafora di un mondo nel quale i rapporti umani si limitano alla
semplice conoscenza superficiale che non impegna, non coinvolge. Un
mondo nel quale si intessono relazioni e rapporti funzionali al
conseguimento di un risultato, che si esauriscono così come si consuma
il rapporto tra venditore ed acquirente al momento dell’acquisto. Le
relazioni come merce da vendere o nel migliore dei casi da scambiare.
Un altro indicatore della caduta della cultura del dono è costituito
dalla diffidenza ovvero dalla mancanza di fiducia: nessuno si fida più
di nessuno.
Ognuno si rinserra nel suo piccolo mondo, nel proprio privato e
finisce col disinteressarsi di ciò che lo circonda e che non interagisce
direttamente con i suoi interessi e i suoi bisogni.
E allora le grandi questioni, i grandi problemi che affliggono
l’umanità, la fame, la povertà, il dolore, la sofferenza diventano brevi
e lontane rappresentazioni televisive tra uno spot e una sfilata di
moda nei nostri telegiornali e ci sentiamo rassicurati dalla distanza e
poi, chissà cosa c’è dietro queste tristi rappresentazioni e a quali
logiche politiche o economiche rispondono.
L’utilitarismo e l’edonismo tendono a sostituire le tradizionali
etiche politiche e religiose aprendo tra i giovani nuovi fronti di
disagio e la faticosa ricerca di una nuova identità personale e sociale.
In chiave positiva questo processo, a sua volta, apre nuovi spiragli
verso la ricerca e la sperimentazione anche di nuove forme di impegno e
di solidarietà, dei quali il volontariato e il pacifismo sembrano essere
le proiezioni migliori. Ciò sta a significare che non tutto è perduto e
che non possiamo consegnare alla rinuncia di una visione nichilistica
che non lascia spazio alla speranza.
Sappiamo bene che un albero che cade fa più rumore di tanti fili
d’erba che crescono e le cronache ci hanno ormai troppo abituati ai
fenomeni di bullismo, alla violenza negli stadi, agli omicidi in
famiglia, agli sballi e alle morti del sabato sera. Tuttavia si scorgono
nuovi segnali, che via via si fanno sempre più forti e interessanti, di
una diversa ricerca di senso tra le generazioni più giovani.
Una ricerca affidata alla riscoperta di un sistema di valori dal
quale trarre spunti di riferimento e di stabilità di fronte alla
complessità di una società postmoderna che non propone una propria
gerarchia di valori e costringe i singoli ad una elaborazione continua e
personale.
Così si spiegano le tante “realtà silenziose” che occupano di giorno in giorno spazi sempre maggiori del vivere associato.
Piano piano vedremo emergere la novità di una crescita ulteriore del
volontariato e di nuove forme di aggregazione giovanile (basta osservare
ciò che sta succedendo nel mondo della scuola), ispirate e guidate
dall’esigenza di risolvere i tanti problemi di giustizia sociale che
affliggono i giovani, ma non solo loro.
La cultura del dono non è un’utopia, esiste e si perpetua attraverso
tanti piccoli atti quotidiani che occorre apprezzare e valorizzare.
La generosità spesso non insegue il clamore, opera in silenzio, quasi
con pudore. Quel pudore che deriva dalla consapevolezza di non essere
in sintonia col pensare generale. Forse dovremmo imparare, tutti, a
volere più bene a noi stessi e a liberarci dai vincoli e dai pesi che la
società ci impone, recuperando la nostra soggettività e la nostra
libertà di pensiero, solo così potremo finalmente amare il prossimo
nostro come noi stessi.
(Eurispes 2009)
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