Le pulsioni
La
scoperta di nuovi fenomeni caratterizzati dalla coazione a ripetere situazioni
spiacevoli (il che contrasta con l'idea che la psiche sia messa in moto solo
dalla libido e dal principio di piacere) indusse Freud dopo il 1920 a formulare
una nuova teoria delle pulsioni, basata sul conflitto tra pulsioni di vita e
pulsioni di morte (Al di là del principio del piacere, 1920).
Per
Freud la pulsione è da intendersi come eccitazione di matrice somatica che
promuove i processi psichici, concetto quindi diverso da quello di istinto (con
cui le prime traduzioni italiane, seguendo quelle inglesi, l'hanno confusa): la
pulsione si esplica in maniera assai plastica, mentre l'istinto ha un rapporto
rigido e predefinito con l'oggetto a cui mira. Infatti la pulsione è
suscettibile di soddisfarsi attraverso i più disparati oggetti, inoltre può
volgersi sulla persona del soggetto e trasformarsi da attiva in passiva (per
esempio nel masochismo). La pulsione per eccellenza in questo senso è quella
sessuale, della quale Freud mostrò quanto essa possa prescindere nella specie
umana dalla finalità riproduttiva e come inoltre ad essa concorrano più pulsioni
parziali, in funzione della zona esogena interessata. Freud si riferì alla
pulsione sessuale anche con il termine di libido: essa è un concetto centrale
nelle considerazioni “economiche” di Freud, quelle cioè concernenti il bilancio
delle energie in gioco nei processi psichici e la loro quantificazione (uno dei
termini più controversi della psicoanalisi). La libido può risultare
desessualizzata come nei processi di sublimazione, in cui si rinuncia alla
soddisfazione sessuale, e nel narcisismo, in cui investe la propria persona.
Non copre per Freud tutto il campo psichico: alla libido si oppongono le
pulsioni di autoconservazione (la cui energia Freud chiama “interesse”) e le
pulsioni di morte, dotate di una specifica energia che qualche discepolo chiamò
“destrudo”. Nella sua ultima teoria delle pulsioni, nel 1920, Freud indica con
il termine eros l'insieme delle pulsioni sessuali (che servono alla specie) e
quelle di autoconservazione (che servono all'individuo): questi due tipi di
pulsioni, in precedenza contrapposti dallo stesso Freud, sono da lui accomunati
perché sono pulsioni che operano per la vita e si oppongono alla pulsione di
morte. Jung contestò la connotazione sessuale della libido, che riteneva invece
una più generale forma di energia psichica, presente in tutto ciò che è
tendenza verso qualcosa: la libido occupa l'intero campo psichico, e la
sessualità ne è solo un caso. La divergenza della teoria sulla libido fu tra i
motivi di rottura tra Freud e Jung.
Si
suole scomporre la pulsione in una fonte, cioè la parte del corpo da cui essa
origina; una spinta, cioè l'energia di cui si alimenta (libido nel caso della
pulsione sessuale) un oggetto, che è ciò attraverso cui si soddisfa (un oggetto
reale, ma anche delle mere rappresentazioni, come nel sogno); e una meta che
consiste nel soddisfacimento. La natura psichica o somatica della pulsione è
questione controversa, ponendosi essa a cavallo tra le richieste del corpo e la
soddisfazione tramite la mente. La soluzione proposta da Freud nel 1915 è di
ritenere la pulsione di per sé somatica, in quanto è un'eccitazione proveniente
dal corpo, mentre a livello psichico essa trova espressione in un elemento
ideativo, la rappresentazione (cioè l'immagine dell'oggetto che la soddisfa):
quest'ultima propriamente, e non la pulsione, è soggetta ai vari processi
psichici di rimozione, condensazione, spostamento e via di seguito.
Disagio, disadattamento, devianza.
Sempre
più spesso, ci capita di non distinguere più i reali significati dei termini,
utili a dare il giusto peso al nostro lavoro di operatori sociali.
Così,
il termine "devianza" appare facilmente sostituibile da quello del
"disagio", oppure il "disadattamento" con quello di
"emarginazione".
In
realtà, per comprendere correttamente questi termini occorre comprendere quelle
profonde trasformazioni che hanno caratterizzato la nostra società negli ultimi
decenni e mi riferisco soprattutto agli effetti che si sono ripercossi
nell'universo minorile e adolescenziale.
E'avvenuta,
sicuramente, una modifica nel rapporto tra mondo dell'infanzia e quello degli
adulti, una modifica nel rapporto dei più giovani con la famiglia e la società.
Nuove
forme di disagio e povertà, oggi incombono su questo universo ed incidono in
modo decisivo sulla qualità della vita, rendendo necessari interventi di
sostegno nel percorso del minore.
Nel
nostro specifico, potremmo attribuire all'allentarsi delle relazioni
significative, alla scarsa frequenza dei rapporti di tipo primario,
all'inadeguatezza e alla precarietà delle relazioni familiari, alcune delle
cause principali che aprono il canale del rischio ai giovani.
Così,
i vari soggetti istituzionali sono chiamati a riconsiderare le loro funzioni,
le modalità di attuazione degli interventi e le pratiche operative, al fine di
poter rispondere in modo coerente alle esigenze di questa particolare fascia
d'età.
In
tal senso, nasce l'esigenza, sia nel mondo accademico, sia in quello dei
servizi di attribuire ad ogni termine il corretto significato.
Così,
dei termini come disagio, emarginazione, povertà, spesso dimentichiamo il
contenuto originario o la loro storia e tendiamo ad utilizzarli come sinonimi
intercambiabili.
In
effetti, quasi sempre siamo convinti che essi abbiano lo stesso significato,
forse perché essi condividono una matrice ed origine comune che va ricercata
nel filone di studi sociologici che fanno riferimento alla devianza e al
controllo sociale.
Il
concetto di devianza ha subito nel corso degli anni un processo di
"normalizzazione", che ha portato alla sua dissolvenza teorica ed
alla nascita di una nuova categoria, quella del disagio.
Tale
processo vuole rappresentare quell'orientamento in base al quale si è cercato
di rispondere all'esigenza di introdurre un approccio maggiormente cauto verso
quei comportamenti che non sono necessariamente riconducibili alla semplice
riproduzione di norme e valori del sistema sociale degli adulti o in
contrapposizione ad essi.
In
tal senso, ci sembra doveroso in conclusione, analizzare i quattro periodi
fondamentali che caratterizzano il malessere giovanile (Allum, Diamanti, 1986):
-
in un primo periodo, che orientativamente si colloca negli anni sessanta,
assistiamo alla sempre più forte presenza di manifestazioni organizzate e
visibili dell'insoddisfazione giovanile. I giovani, innanzitutto, cominciano a
porre seri problemi di controllo sociale e a farsi portavoce delle
trasformazioni sociali di quei tempi. Nasce così un primo interesse della
ricerca sociale nei loro confronti;
-
negli anni settanta, i giovani sono attori passivi del diffondersi della
disoccupazione giovanile e attori attivi della rivoluzione elettorale che
provocò un aumento dei consensi nei confronti della sinistra. Ma la categoria
giovanile viene anche considerata come "classe" sfruttata dal mercato
del lavoro e dell'industria, una classe priva di diritti e opportunità. Lutte
(1984) propose uno schema interpretativo secondo il quale l'adolescenza sarebbe
stata un fenomeno socialmente costruito e basato su una condizione di
emarginazione imposta da una società in cui il potere era detenuto da minoranze
privilegiate.
E'
proprio questa condizione di esclusione che, secondo Lutte, porta alla
categoria del "disagio giovanile" e alla conseguente contestazione
oppure alla devianza;
-
nella terza fase, si diffondono varie linee interpretative. I giovani vengono
considerati un problema degli adulti che, di fronte ad un futuro incerto, si
interrogano su come potrà essere ed investono i figli delle loro attese e
speranze. In questa fase, degli anni ottanta, si introduce la convinzione che
il concetto di disagio sia sintomo della difficoltà degli operatori e dei
ricercatori di inquadrare il malessere diffuso fra i giovani;
-
la quarta fase, infine, stabilisce il progressivo dissolversi del concetto di
disagio a causa dell'estendersi dei suoi vari significati. Si può quindi
definire il disagio come frutto dell'incapacità di trovare una soluzione alla
contraddizione fra "centralità soggettiva e marginalità oggettiva"
(Garelli, 1984). D'altra parte il disagio giovanile può anche essere visto come
l'espressione della fatica di prendere decisioni e di compiere scelte in un
contesto sociale sempre più flessibile, differenziato e composito.
Conformismo
e devianza sono aspetti diversi del medesimo problema. All'interno di qualunque
contesto sociale occorrono norme che disciplinino il comportamento individuale,
ma la presenza di tali norme implica, inevitabilmente, che i comportamenti
difformi dalla norma siano definiti devianti. L'atteggiamento delle società nei
confronti della devianza si è venuto modificando nel corso del tempo anche
grazie al contributo della ricerca sociologica.
Per
secoli si è pensato che l'unico modo di rispondere a fenomeni di devianza, di
qualunque entità, fosse di tipo repressivo e di esclusione dalla comunità. Oggi
il tentativo è di comprendere i comportamenti devianti anche all'interno delle
condizioni sociali e culturali in cui si manifesta, senza limitarsi a isolare
chi mostra una condotta deviante, ma tendendo a recuperarlo alla comunità.
Ladri,
prostitute, individui deformi, assassini, ragazze-madri, portatori di handicap,
malati mentali, truffatori, giovani delinquenti hanno costituito per secoli una
categoria di esseri "inferiori", relegata nelle diverse "corti
dei miracoli". Il termine devianza riporta alla mente immagini di
sofferenza ed emarginazione presenti, seppure in modi diversi, all'interno di
ogni società. Ma quali sono le origini di questo fenomeno? Perché si riscontra
in società per altri aspetti tanto differenti? Esiste una funzionalità della devianza
alla società stessa? Chi sono i devianti? Quali sono gli effetti degli
strumenti di controllo sociale impiegati nei loro confronti?
Già
nei livelli più elementari di interazione sociale sono presenti regole, norme,
leggi implicite o esplicite che regolano il comportamento degli individui. La
società umana non potrebbe infatti sussistere se non esistessero dei canoni di
comportamento che disciplinano l'azione dei soggetti. La sopravvivenza di una
società, dunque, richiede che siano messe in atto strategie che consentano
l'assimilazione delle norme proprie di quel contesto sociale e garantiscano
l'adeguamento a esse da parte dei suoi membri.
Va
notato che il valore delle norme non è sempre lo stesso, così come l'eventuale
violazione delle norme non ha sempre la stessa importanza. Attraversare la
strada al di fuori delle strisce pedonali, per esempio, costituisce senz'altro
un'infrazione, ma normalmente tale infrazione viene considerata meno grave del
commettere, poniamo, un furto. Alcune norme richiedono un comporatamento
tassativo (fermarsi al semaforo rosso), altre sono invece elastiche e
consentono diversi comportamenti (per esempio, l'abbigliamento da indossare in
discoteca può variare notevolmente). Normalmente si distingue tra due grandi
raggruppamenti: mores (costumi) e folkways (usi).
Con
il termine folkways si indicano gli usi più consuetudinari di una società,
quelle che, se disattese, provocheranno una forte reazione di disapprovazione
nei confronti del responsabile dell'infrazione. Esempi di mores, invece, sono
le leggi che riguardano la proibizione dell'omicidio o dello stupro, o quelle
che regolano la proprietà privata e la tutela dei minori. Si tratta in questo
caso di norme essenziali su cui si fonda la coesione stessa della società e senza
le quali si rischierebbe il dissolvimento della vita sociale.
Non
tutte le norme presenti all'interno di un raggruppamento umano hanno perciò la
stessa natura: talvolta, infatti, si può incorrere in regole meno importanti,
la cui violazione non implica ripercussioni particolarmente gravose per
l'autore dell'infrazione. Per esempio, il fatto di andare al lavoro con un
abito da sera costituisce un tipo di infrazione che probabilmente si tenderà a
reprimere con lo scherno o il richiamo da parte degli altri, ma non ha le
stesse conseguenze dell'andare al lavoro nudi. Nel primo caso si tratta infatti
di violare un folkway, mentre nel secondo uno dei mores (si infrange, infatti,
la morale sessuale). I casi di folkways sono molteplici: si mangia con le
posate, si indossano scarpe uguali (e non, poniamo, una di un colore diverso da
quello dell'altra), di mattina si saluta con la frase "buon giorno" e
non "buona notte" ecc. Normalmente i sistemi legislativi perseguono
chi infrange i mores, mentre l'infrazione dei folkways può generare scherno,
disprezzo, ironia, ma anche riso o indifferenza.
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