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lunedì 16 luglio 2012

Le pulsioni. Disagio, disadattamento e devianza


Le pulsioni
La scoperta di nuovi fenomeni caratterizzati dalla coazione a ripetere situazioni spiacevoli (il che contrasta con l'idea che la psiche sia messa in moto solo dalla libido e dal principio di piacere) indusse Freud dopo il 1920 a formulare una nuova teoria delle pulsioni, basata sul conflitto tra pulsioni di vita e pulsioni di morte (Al di là del principio del piacere, 1920).
Per Freud la pulsione è da intendersi come eccitazione di matrice somatica che promuove i processi psichici, concetto quindi diverso da quello di istinto (con cui le prime traduzioni italiane, seguendo quelle inglesi, l'hanno confusa): la pulsione si esplica in maniera assai plastica, mentre l'istinto ha un rapporto rigido e predefinito con l'oggetto a cui mira. Infatti la pulsione è suscettibile di soddisfarsi attraverso i più disparati oggetti, inoltre può volgersi sulla persona del soggetto e trasformarsi da attiva in passiva (per esempio nel masochismo). La pulsione per eccellenza in questo senso è quella sessuale, della quale Freud mostrò quanto essa possa prescindere nella specie umana dalla finalità riproduttiva e come inoltre ad essa concorrano più pulsioni parziali, in funzione della zona esogena interessata. Freud si riferì alla pulsione sessuale anche con il termine di libido: essa è un concetto centrale nelle considerazioni “economiche” di Freud, quelle cioè concernenti il bilancio delle energie in gioco nei processi psichici e la loro quantificazione (uno dei termini più controversi della psicoanalisi). La libido può risultare desessualizzata come nei processi di sublimazione, in cui si rinuncia alla soddisfazione sessuale, e nel narcisismo, in cui investe la propria persona. Non copre per Freud tutto il campo psichico: alla libido si oppongono le pulsioni di autoconservazione (la cui energia Freud chiama “interesse”) e le pulsioni di morte, dotate di una specifica energia che qualche discepolo chiamò “destrudo”. Nella sua ultima teoria delle pulsioni, nel 1920, Freud indica con il termine eros l'insieme delle pulsioni sessuali (che servono alla specie) e quelle di autoconservazione (che servono all'individuo): questi due tipi di pulsioni, in precedenza contrapposti dallo stesso Freud, sono da lui accomunati perché sono pulsioni che operano per la vita e si oppongono alla pulsione di morte. Jung contestò la connotazione sessuale della libido, che riteneva invece una più generale forma di energia psichica, presente in tutto ciò che è tendenza verso qualcosa: la libido occupa l'intero campo psichico, e la sessualità ne è solo un caso. La divergenza della teoria sulla libido fu tra i motivi di rottura tra Freud e Jung.
Si suole scomporre la pulsione in una fonte, cioè la parte del corpo da cui essa origina; una spinta, cioè l'energia di cui si alimenta (libido nel caso della pulsione sessuale) un oggetto, che è ciò attraverso cui si soddisfa (un oggetto reale, ma anche delle mere rappresentazioni, come nel sogno); e una meta che consiste nel soddisfacimento. La natura psichica o somatica della pulsione è questione controversa, ponendosi essa a cavallo tra le richieste del corpo e la soddisfazione tramite la mente. La soluzione proposta da Freud nel 1915 è di ritenere la pulsione di per sé somatica, in quanto è un'eccitazione proveniente dal corpo, mentre a livello psichico essa trova espressione in un elemento ideativo, la rappresentazione (cioè l'immagine dell'oggetto che la soddisfa): quest'ultima propriamente, e non la pulsione, è soggetta ai vari processi psichici di rimozione, condensazione, spostamento e via di seguito.

Disagio, disadattamento, devianza.
Sempre più spesso, ci capita di non distinguere più i reali significati dei termini, utili a dare il giusto peso al nostro lavoro di operatori sociali.
Così, il termine "devianza" appare facilmente sostituibile da quello del "disagio", oppure il "disadattamento" con quello di "emarginazione".
In realtà, per comprendere correttamente questi termini occorre comprendere quelle profonde trasformazioni che hanno caratterizzato la nostra società negli ultimi decenni e mi riferisco soprattutto agli effetti che si sono ripercossi nell'universo minorile e adolescenziale.
E'avvenuta, sicuramente, una modifica nel rapporto tra mondo dell'infanzia e quello degli adulti, una modifica nel rapporto dei più giovani con la famiglia e la società.
Nuove forme di disagio e povertà, oggi incombono su questo universo ed incidono in modo decisivo sulla qualità della vita, rendendo necessari interventi di sostegno nel percorso del minore.
Nel nostro specifico, potremmo attribuire all'allentarsi delle relazioni significative, alla scarsa frequenza dei rapporti di tipo primario, all'inadeguatezza e alla precarietà delle relazioni familiari, alcune delle cause principali che aprono il canale del rischio ai giovani.
Così, i vari soggetti istituzionali sono chiamati a riconsiderare le loro funzioni, le modalità di attuazione degli interventi e le pratiche operative, al fine di poter rispondere in modo coerente alle esigenze di questa particolare fascia d'età.
In tal senso, nasce l'esigenza, sia nel mondo accademico, sia in quello dei servizi di attribuire ad ogni termine il corretto significato.
Così, dei termini come disagio, emarginazione, povertà, spesso dimentichiamo il contenuto originario o la loro storia e tendiamo ad utilizzarli come sinonimi intercambiabili.
In effetti, quasi sempre siamo convinti che essi abbiano lo stesso significato, forse perché essi condividono una matrice ed origine comune che va ricercata nel filone di studi sociologici che fanno riferimento alla devianza e al controllo sociale.
Il concetto di devianza ha subito nel corso degli anni un processo di "normalizzazione", che ha portato alla sua dissolvenza teorica ed alla nascita di una nuova categoria, quella del disagio.
Tale processo vuole rappresentare quell'orientamento in base al quale si è cercato di rispondere all'esigenza di introdurre un approccio maggiormente cauto verso quei comportamenti che non sono necessariamente riconducibili alla semplice riproduzione di norme e valori del sistema sociale degli adulti o in contrapposizione ad essi.
In tal senso, ci sembra doveroso in conclusione, analizzare i quattro periodi fondamentali che caratterizzano il malessere giovanile (Allum, Diamanti, 1986):
- in un primo periodo, che orientativamente si colloca negli anni sessanta, assistiamo alla sempre più forte presenza di manifestazioni organizzate e visibili dell'insoddisfazione giovanile. I giovani, innanzitutto, cominciano a porre seri problemi di controllo sociale e a farsi portavoce delle trasformazioni sociali di quei tempi. Nasce così un primo interesse della ricerca sociale nei loro confronti;
- negli anni settanta, i giovani sono attori passivi del diffondersi della disoccupazione giovanile e attori attivi della rivoluzione elettorale che provocò un aumento dei consensi nei confronti della sinistra. Ma la categoria giovanile viene anche considerata come "classe" sfruttata dal mercato del lavoro e dell'industria, una classe priva di diritti e opportunità. Lutte (1984) propose uno schema interpretativo secondo il quale l'adolescenza sarebbe stata un fenomeno socialmente costruito e basato su una condizione di emarginazione imposta da una società in cui il potere era detenuto da minoranze privilegiate.
E' proprio questa condizione di esclusione che, secondo Lutte, porta alla categoria del "disagio giovanile" e alla conseguente contestazione oppure alla devianza;
- nella terza fase, si diffondono varie linee interpretative. I giovani vengono considerati un problema degli adulti che, di fronte ad un futuro incerto, si interrogano su come potrà essere ed investono i figli delle loro attese e speranze. In questa fase, degli anni ottanta, si introduce la convinzione che il concetto di disagio sia sintomo della difficoltà degli operatori e dei ricercatori di inquadrare il malessere diffuso fra i giovani;
- la quarta fase, infine, stabilisce il progressivo dissolversi del concetto di disagio a causa dell'estendersi dei suoi vari significati. Si può quindi definire il disagio come frutto dell'incapacità di trovare una soluzione alla contraddizione fra "centralità soggettiva e marginalità oggettiva" (Garelli, 1984). D'altra parte il disagio giovanile può anche essere visto come l'espressione della fatica di prendere decisioni e di compiere scelte in un contesto sociale sempre più flessibile, differenziato e composito.
Conformismo e devianza sono aspetti diversi del medesimo problema. All'interno di qualunque contesto sociale occorrono norme che disciplinino il comportamento individuale, ma la presenza di tali norme implica, inevitabilmente, che i comportamenti difformi dalla norma siano definiti devianti. L'atteggiamento delle società nei confronti della devianza si è venuto modificando nel corso del tempo anche grazie al contributo della ricerca sociologica.

Per secoli si è pensato che l'unico modo di rispondere a fenomeni di devianza, di qualunque entità, fosse di tipo repressivo e di esclusione dalla comunità. Oggi il tentativo è di comprendere i comportamenti devianti anche all'interno delle condizioni sociali e culturali in cui si manifesta, senza limitarsi a isolare chi mostra una condotta deviante, ma tendendo a recuperarlo alla comunità.
Ladri, prostitute, individui deformi, assassini, ragazze-madri, portatori di handicap, malati mentali, truffatori, giovani delinquenti hanno costituito per secoli una categoria di esseri "inferiori", relegata nelle diverse "corti dei miracoli". Il termine devianza riporta alla mente immagini di sofferenza ed emarginazione presenti, seppure in modi diversi, all'interno di ogni società. Ma quali sono le origini di questo fenomeno? Perché si riscontra in società per altri aspetti tanto differenti? Esiste una funzionalità della devianza alla società stessa? Chi sono i devianti? Quali sono gli effetti degli strumenti di controllo sociale impiegati nei loro confronti?
Già nei livelli più elementari di interazione sociale sono presenti regole, norme, leggi implicite o esplicite che regolano il comportamento degli individui. La società umana non potrebbe infatti sussistere se non esistessero dei canoni di comportamento che disciplinano l'azione dei soggetti. La sopravvivenza di una società, dunque, richiede che siano messe in atto strategie che consentano l'assimilazione delle norme proprie di quel contesto sociale e garantiscano l'adeguamento a esse da parte dei suoi membri.
Va notato che il valore delle norme non è sempre lo stesso, così come l'eventuale violazione delle norme non ha sempre la stessa importanza. Attraversare la strada al di fuori delle strisce pedonali, per esempio, costituisce senz'altro un'infrazione, ma normalmente tale infrazione viene considerata meno grave del commettere, poniamo, un furto. Alcune norme richiedono un comporatamento tassativo (fermarsi al semaforo rosso), altre sono invece elastiche e consentono diversi comportamenti (per esempio, l'abbigliamento da indossare in discoteca può variare notevolmente). Normalmente si distingue tra due grandi raggruppamenti: mores (costumi) e folkways (usi).
Con il termine folkways si indicano gli usi più consuetudinari di una società, quelle che, se disattese, provocheranno una forte reazione di disapprovazione nei confronti del responsabile dell'infrazione. Esempi di mores, invece, sono le leggi che riguardano la proibizione dell'omicidio o dello stupro, o quelle che regolano la proprietà privata e la tutela dei minori. Si tratta in questo caso di norme essenziali su cui si fonda la coesione stessa della società e senza le quali si rischierebbe il dissolvimento della vita sociale.
Non tutte le norme presenti all'interno di un raggruppamento umano hanno perciò la stessa natura: talvolta, infatti, si può incorrere in regole meno importanti, la cui violazione non implica ripercussioni particolarmente gravose per l'autore dell'infrazione. Per esempio, il fatto di andare al lavoro con un abito da sera costituisce un tipo di infrazione che probabilmente si tenderà a reprimere con lo scherno o il richiamo da parte degli altri, ma non ha le stesse conseguenze dell'andare al lavoro nudi. Nel primo caso si tratta infatti di violare un folkway, mentre nel secondo uno dei mores (si infrange, infatti, la morale sessuale). I casi di folkways sono molteplici: si mangia con le posate, si indossano scarpe uguali (e non, poniamo, una di un colore diverso da quello dell'altra), di mattina si saluta con la frase "buon giorno" e non "buona notte" ecc. Normalmente i sistemi legislativi perseguono chi infrange i mores, mentre l'infrazione dei folkways può generare scherno, disprezzo, ironia, ma anche riso o indifferenza.

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