Affettività e teoria dell’educazione
Colicchi
E., contributo in F. Cambi (a cura di), NEL CONFLITTO DELLE EMOZIONI. Prospettive
pedagogiche, Roma, Armando Editore, 1988, pp. 93-98
Viene
spesso lamentato lo scarto, la distanza esistente tra la pratica
dell’educazione e la teoria dell’educazione: lo scollamento tra i luoghi in cui
l’educazione si fa e i luoghi in cui l’educazione si pensa, si dice, si
teorizza.
Certamente,
tra le cause di questo scollamento è la ancora vasta “zona oscura” di ciò che —
pur entrando a fare parte, a costituire le pratiche educative reali — resta
esclusa dalla riflessione e dalla teorizzazione pedagogica. E certamente,
ancora, all’interno di questa “zona oscura” occupano un posto di non scarso
rilievo il complesso dei sentimenti, dei desideri, delle pulsioni, delle
speranze, delle tonalità emotive, delle passioni: di tutto ciò che rappresenta
la dimensione affettiva in cui si muovono i protagonisti dell’esperienza di
educazione.
C’è
da dire che ricerche di notevole interesse sono state avviate per chiarire il
ruolo della componente affettiva nei processi di insegnamento-apprendimento e
nei processi di formazione in genere e coprano ampiamente tutte le aree di
problematicità che emergono allorché si guarda all’affettività in educazione e
in pedagogia.
Senonché
io vorrei portare l’attenzione su un luogo di presenza ancora più interno e
radicale dei materiali affettivi dell’educazione: cioè a dire il luogo stesso
in cui l’esperienza di Educazione si determina e si costituisce in quanto tale:
in quanto cioè intensione e intenzione che indirizza e dirige azioni cosiddette
‘educative’ da parte di soggetti cosiddetti “educatori”.
Qui
l’attenzione alle componenti affettive si rende oggi pressoché obbligata:
soprattutto a seguito della tendenza, che sempre più va affermandosi, a
rivedere l’antitesi tradizionale “passione-ragione” e a restituire alle
passioni il posto che loro compete nella comprensione del mondo storico, della
cultura contemporanea in cui occupano uno spazio sempre più ampio i desideri,
che, come ha scritto Remo Bodei, sono le «passioni d’attesa rivolte a beni e
soddisfazioni immaginate nel futuro» (Bodei, 1992, p. 20).
Nella
consapevolezza culturale odierna la dimensione soggettiva dell’affettività
viene infatti occupando uno spazio progressivamente più ampio: e ciò in
concomitanza con l’affievolirsi sia dell’ideologia del progresso, con i suoi
progetti di una società futura libera e senza classi, sia della spinta utopica
e salvifica contenuta nelle religioni storiche, si sono indeboliti i legami
etico-comportamentali che connettevano e saldavano, per così dire, l’individuo
alle istituzioni collettive autorevoli (stato, chiesa, partito, classe sociale)
da cui egli dipendeva e a cui affidava le proprie certezze e il proprio
impegno. Alle morali collettive che ancora dominavano negli anni ‘70 si sono
sostituite etiche private basate su criteri individuali di preferenza. (Non a
caso la riflessione filosofica registra tutto ciò elaborando etiche pubbliche
che si affidano al principio della compatibilità tra scelte autonome di
individui liberi e razionali). Si fa avanti, insomma, il modello di una storia
minore, meno eroica e impegnata, sempre meno sostenuta da ideologie condivise e
da grandi utopie. Resta come sfondo comune un “mondo della vita” sempre più
debolmente partecipato, una costellazione di simboli e valori labili ed
elastici che richiede di venire aggiornata e riaffermata continuamente. Al crollo
delle fedi comuni corrisponde una frammentazione in innumerevoli micro-utopie
della vita quotidiana e individuale: e nella strutturazione di queste
micro-utopie la dimensione soggettiva, privata dell’ affettività svolge un
ruolo rilevante, sciolto dai vincoli precedentemente imposti dagli ingombranti
oggetti culturali costituiti dalle grandi ideologie.
Ora,
ritornando all’educazione, la tesi che vorrei discutere riguarda, più da
vicino, la presenza costitutiva, all’interno dell’atteggiamento, della motivazione,
dell’ intenzionalità, che anima e muove soggetti impegnati in azioni educative,
di elementi affettivi. Elementi affettivi il cui intervento concorre, da una
parte, a determinare la specificità dell’educazione e del suo senso: la sua non
riducibilità ad altro; e dall’ altra parte vale altresì ad affermare la
necessità di analizzare l’educazione nella dimensione esperienziale, nel
vissuto dei soggetti reali in essa impegnati.
In
altre parole: io credo si debba affermare che la costituzione del significato
educativo di una azione — e dunque la fondazione e legittimazione di una
qualche azione come educativa — è qualcosa che accade in una dimensione
soggettuale di attribuzione di significati e di valori, che è carica di
affettività. Che determinazioni di natura afféttiva guidano i significati, gli
atteggiamenti, le decisioni, le azioni di educazione. E credo, ancora, che è il
ruolo importante giocato dall’affettività che contribuisce a fare dell’azione
educativa e della sua grammatica un oggetto specifico, “unico” direi, affatto
irriducibile ad altre forme di esperienza.
L’educazione
è, in primo luogo, un elemento dell’esperienza umana vissuta il quale è dotato
di significato e di valore educativi in quanto rinvia ad un ordine di desideri,
credenze, esigenze esistenziali vissuti da soggetti; in quanto presuppone una
presunzione di verità, un ordine teleologico, una fede nel futuro, la fiducia
nell’ efficacia dell’azione educativa, la certezza che ciò che si persegue sia
il bene dell’educando, che hanno radici “affettive”.
Non
a caso i principi e le norme di educazione decadono a semplici “segni” nel
momento in cui sono privati dei connotati che ne segnano l’accadere reale
nell’esperienza di soggetti. Allora ci appaiono concetti vuoti, superstizioni
vane, istituzioni sorpassate, abitudini cristallizzate, che mai potrebbero dare
un volto alla nostra esperienza, un
senso alla nostra vita, una norma alla nostra azione.
potrebbero
dare un volto alla nostra esperienza un senso alla nostra vita, una nonna alla
nostra azione. Qualsiasi principio di educazione perde ogni contenuto concreto
se non comporta conseguenze rinvenibili e traducibili nella nostra esperienza
(di soggetti): in tal caso è come se non
esistesse più, è privato del suo significato “educativo”: e questo perché è
l’adesione da parte di soggetti alla sua verità — adesione affettivamente
connotata — che conferisce un contenuto e un senso ai principi e non viceversa.
E
però, come ben sappiamo, il discorso pedagogico — il sapere scritto dell’educazione — non ha tenuto
conto di ciò. Esso ha utilizzato, per dire l’educazione e, soprattutto per
fondarla e per prescriverla una logica oggettivante, impersonale,
generalizzante: che non tiene in considerazione alcuna né il ruolo del soggetto
che pensa e compie azioni intenzionalmente educative né la presenza, nelle
pratiche di educazione, di elementi e variabili affettive. Le teorie
pedagogiche tradizionali seguono infatti il procedimento seguente: 1) pongono
un fine o valore (presuntamente) oggettivo; 2) determinano le norme e regole di
educazione atte a realizzare questo fine o valore; 3) solo raramente prendono
in considerazione il problema relativo ai fattori motivazionali soggettivi,
implicati nella effettiva osservanza delle norme e regole indicate. E, se lo
fanno, affrontano e tentano di risolvere questo problema attraverso il ricorso
a strumenti precettistici ed esortativi, messi in campo post festum a conquistare l’adesione emotiva del pubblico cui si
rivolgono.
Ma
se in tal modo la pedagogia ha seguito un procedimento di tipo logico, il
procedimento storico risulta essere esattamente l’inverso. Nella realtà
storica, prima che la pedagogia formuli i propri problemi e intavoli i propri
discorsi, si trova già costituita e “in atto” una certa cosa — un certo pensare
dire-fare — che soggetti determinati riconoscono come ‘educazione’; nella
realtà storica, il fine e la regola, necessitano, per venire osservati, della
forza di impulso che accompagna certe credenze.
Non
è una qualche verità impersonale e oggettiva, insomma, che pone o suscita le
credenze in fatto di educazione e gli snodi affettivi che a tali credenze si
collegano: essa, piuttosto le suppone e, tutt’al più, le interpreta e le
sistematizza. Le forze motivazionali che fondano le scelte educative e le
pervadono dipendono dal valore reale che le credenze relative hanno nella
coscienza dei singoli, dalla loro “forza trainante”. Ciò equivale a riconoscere
che l’analisi empirica dei fattori da cui dipende l’esecuzione di certe azioni
è una cosa affatto diversa dalla giustificazione teoretica di esse. E
un’illusione vana ritenere che sia il discorso teoretico che nelle pratiche di
educazione dà o fonda un qualche motivo.
Infatti,
nella realtà storico-esperienziale — che è sempre realtà per-soggetti-situati —
riconoscere giusta un’ azione educativa per la relazione che la lega ad un
fine-valore non è soltanto riconoscere
la dipendenza del fine dall’azione, ma è anche — e prima d’ogni altra cosa — desiderare quel fine: è volere quel fine.
Cosicché non si può prescindere né dal rapporto necessario tra fine voluto e
soggetto volente, implicito nella desiderabilità, né da tutto ciò che la
desiderabilità e la volizione portano con sé: di affetti, certezze non
vagliate, emozioni presunzioni di verità, convinzione di fare il bene altrui,
persuasione di vedere chiaro ecc.: di tutto ciò, insomma, che alimenta la
carica pulsionale, l’energia mobilitante e dunque l’iniziativa, l’azione.
Considerazioni
come queste conducono a riconoscere che l’attenzione all’affettività ed al suo
ruolo è affatto indispensabile per comprendere la nostra esperienza di
educazione. In ogni caso prospettare una teoria che non tenga conto della
componente affettiva, se pure può apparentemente garantire sulla scientificità
della teoria, risulta rischioso in questo: che è per noi difficilmente riconoscibile e dunque difficilmente
maneggiabile teoricamente come un mondo educativo nostro, un mondo in cui gli affetti non entrano a costituirlo. La
riflessione teorica sull’educazione reale non può, insomma, omettere di
prendere in considerazione tutte quelle istanze sentimentali ed emotive che sostengono le nostre iniziative di
educazione e ci scuotono dalla inattività: si tratta di una sorta di ipotesi attive, più concrete e più
vitali della pura accettazione di un qualche sistema teorico, che “si
attaccano” all’io di ciascuno e lo stimolano ad agire.
Ora,
come dicevo, la considerazione delle componenti affettive e della loro
centralità nella determinazione dell’oggetto-educazione dei suoi significati,
fini, valori — induce: i) a riconoscere la specificità ditale oggetto
affermandone la non-riducibilità ai linguaggi oggettivanti — sia filosofici sia
scientifici —, cioè a dire la grammatica specifica incentrata sul soggetto; e
dunque 2) a sollevare la questione sensu
lato epistemologica su quale può essere il senso di una teoria che dica l’educazione, una volta accertato
che questa non può essere dello stesso genere di una teoria scientifica o
filosofica, ad impianto oggettuale.
Ebbene.
Un sapere dell’educazione soddisfacente non potrà essere un sapere che, in prima battuta, dica, ovverosia spieghi indicando delle cause o dei
fondamenti: ma un sapere che piuttosto, mostri
qualcosa dell‘esperienza umana. L’attenzione agli elementi affettivi induce ad
assumere un ambito che è possibile, nella terminologia wittgensteiniana, mostrare nelle pratiche concrete e nei
giochi in uso, anziché dire: nel
senso in cui le teorie pedagogiche tradizionali hanno preteso di dire l’essenza
dell’educazione e di fondare su questa norme d’azione (cosiddetta) educativa.
La presenza centrale dell’affettività induce, in altre parole, a dubitare che
sia possibile fondare pratiche-di-educazione su teorizzazioni oggettive.
Si
delinea allora un sapere che abbia come regola o principio della propria
validità non tanto l’Erklarung
(spiegazione) di tipo scientifico (foss’anche di tipo strutturale o generativo,
ma piuttosto la wittgensteiniana Klarheit (chiarezza). La Klarheit non è predittiva come le scienze naturali e nemmeno è
esplicativa come le scienze filosofiche: è piuttosto distintiva, nel senso che distingue tra giochi, tra grammatiche
diverse: è lo sguardo che staglia, per così dire, il proprio oggetto sullo
sfondo: identificandone la peculiarità, la diversità dagli altri oggetti: i
contorni insomma. Contro, o, almeno prima
della ratio unificante e omologante
della tradizione pedagogica si tratta di definire una pressione, un
afferramento delle cose educative: un mostrare nel fare, nell’uso, nel sentire appunto.
Ma
allora si prospetta l’opportunità di sostituire, o almeno di affiancare
all’indagine tradizionale, di tipo essenzialista, sulla natura del fine o del
fondamento dell’educazione l’esame di diversi esempi significativi di ciò che
chiamiamo «un’esperienza dotata di significato e valore educativo». Se, come
Wittgenstein rileva a proposito dell’etica, «non è possibile parlare»
dell’educazione «senza entrare in scena personalmente», si deve infatti
concludere che l’educazione non riguarda in prima
battuta la filosofia, che non sia immediatamente una faccenda da
specialisti e che, nella misura in cui si riuscisse a parlarne realmente, se ne possono dire cose che,
in un certo senso, “tutti sanno”. L’educazione an sich non ha molto a che vedere con le questioni filosofiche: là
dove essa è realmente presente dove è vissuta,
non si parla dell’educazione e, là dove se ne parla, si finisce in effetti col
parlare d’altro.
Si
tratta insomma di passare a considerare l’esperienza di educazione un fenomeno
antropologico, che appartiene al soggetto e ai suoi vissuti: di riconoscere che
essa non ha uno stato puro o essenziale, ma uno stato civile, per così dire.
Non è un caso che la relatività dell’educazione, la pluralità irriducibile
delle versioni di educazione e — se la si considera come una tesi filosofica —
del tutto priva di senso; mentre è invece molto più interessante riflettere sul
fatto che l’esistenza di più sistemi di significati di educazione è
intollerante allorché viviamo un’esperienza di educazione.
Ma,
allora, si deve probabilmente concludere che non bisogna cercare il fondamento
dell’educazione — il suo criterio di verità — altrove che nell’esperienza
umana. Ciascuna versione di educazione ha come sola e reale giustificazione
quella che consiste nel dare un senso a certi comportamenti ed eventi. ovvero
nell’ispirare certe azioni pretendendo che siano, quei comportamenti eventi
azioni, educativi. Piaccia o meno, un sistema di educazione non deve temere le
discussioni filosofiche, né attendere le sue fondazioni: vive e muore sempre di
altre cose.
L’assunzione
dell’ affettività tra gli elementi costitutivi dell’ oggetto-educazione ci
distoglie dunque dalla tendenza, dominante, a leggere l’educazione attraverso i
discorsi-di-educazione: a renderci conto che i discorsi-di-educazione in
qualche modo ci allontanano dagli autentici problemi educativi; che quando
l’educazione diventa discorso siamo già in un certo senso fuori
dell’educazione. Mentre ciò che più conta, in prima istanza, è prestare
attenzione a quello che facciamo quando riconosciamo eventi educativi o
esprimiamo un qualche giudizio di educazione. Allora l’affettività si rivela
essere condizione di possibilità del mostrare l’educazione: un qualcosa senza
di cui niente potrebbe esprimere un’esperienza educativa e quindi appare, alla
consapevolezza teorica, un punto di riferimento irrinunciabile.
E
a partire dall’esperienza vissuta di soggetti storici e dalle dimensioni in
essa implicate che può e deve prendere avvio l’impresa teorica. Il lavoro di
chiarificazione, comprensione, interpretazione, confronto, arricchimento,
vaglio, organizzazione, controllo, razionalizzazione del pensare-fare
educazione. La crisi delle grandi ideologie ed utopie induce d’altronde a
prestare attenzione a dare spazio in questo lavoro di teorizzazione, ai
materiali affetti- vi: i quali costituiscono con tutta probabilità, al giorno
d’oggi, una delle maggiori risorse di cui l’impegno ad educare può alimentarsi.
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