Translate

domenica 13 gennaio 2013

FORMAZIONE E DIMENSIONI AFFETTIVE - Affettività e teoria dell’educazione



Affettività e teoria dell’educazione
Colicchi E., contributo in F. Cambi (a cura di), NEL CONFLITTO DELLE EMOZIONI. Prospettive pedagogiche, Roma, Armando Editore, 1988, pp. 93-98 

Viene spesso lamentato lo scarto, la distanza esistente tra la pratica dell’educazione e la teoria dell’educazione: lo scollamento tra i luoghi in cui l’educazione si fa e i luoghi in cui l’educazione si pensa, si dice, si teorizza.
Certamente, tra le cause di questo scollamento è la ancora vasta “zona oscura” di ciò che — pur entrando a fare parte, a costituire le pratiche educative reali — resta esclusa dalla riflessione e dalla teorizzazione pedagogica. E certamente, ancora, all’interno di questa “zona oscura” occupano un posto di non scarso rilievo il complesso dei sentimenti, dei desideri, delle pulsioni, delle speranze, delle tonalità emotive, delle passioni: di tutto ciò che rappresenta la dimensione affettiva in cui si muovono i protagonisti dell’esperienza di educazione.
C’è da dire che ricerche di notevole interesse sono state avviate per chiarire il ruolo della componente affettiva nei processi di insegnamento-apprendimento e nei processi di formazione in genere e coprano ampiamente tutte le aree di problematicità che emergono allorché si guarda all’affettività in educazione e in pedagogia.
Senonché io vorrei portare l’attenzione su un luogo di presenza ancora più interno e radicale dei materiali affettivi dell’educazione: cioè a dire il luogo stesso in cui l’esperienza di Educazione si determina e si costituisce in quanto tale: in quanto cioè intensione e intenzione che indirizza e dirige azioni cosiddette ‘educative’ da parte di soggetti cosiddetti “educatori”.
Qui l’attenzione alle componenti affettive si rende oggi pressoché obbligata: soprattutto a seguito della tendenza, che sempre più va affermandosi, a rivedere l’antitesi tradizionale “passione-ragione” e a restituire alle passioni il posto che loro compete nella comprensione del mondo storico, della cultura contemporanea in cui occupano uno spazio sempre più ampio i desideri, che, come ha scritto Remo Bodei, sono le «passioni d’attesa rivolte a beni e soddisfazioni immaginate nel futuro» (Bodei, 1992, p. 20).
Nella consapevolezza culturale odierna la dimensione soggettiva dell’affettività viene infatti occupando uno spazio progressivamente più ampio: e ciò in concomitanza con l’affievolirsi sia dell’ideologia del progresso, con i suoi progetti di una società futura libera e senza classi, sia della spinta utopica e salvifica contenuta nelle religioni storiche, si sono indeboliti i legami etico-comportamentali che connettevano e saldavano, per così dire, l’individuo alle istituzioni collettive autorevoli (stato, chiesa, partito, classe sociale) da cui egli dipendeva e a cui affidava le proprie certezze e il proprio impegno. Alle morali collettive che ancora dominavano negli anni ‘70 si sono sostituite etiche private basate su criteri individuali di preferenza. (Non a caso la riflessione filosofica registra tutto ciò elaborando etiche pubbliche che si affidano al principio della compatibilità tra scelte autonome di individui liberi e razionali). Si fa avanti, insomma, il modello di una storia minore, meno eroica e impegnata, sempre meno sostenuta da ideologie condivise e da grandi utopie. Resta come sfondo comune un “mondo della vita” sempre più debolmente partecipato, una costellazione di simboli e valori labili ed elastici che richiede di venire aggiornata e riaffermata continuamente. Al crollo delle fedi comuni corrisponde una frammentazione in innumerevoli micro-utopie della vita quotidiana e individuale: e nella strutturazione di queste micro-utopie la dimensione soggettiva, privata dell’ affettività svolge un ruolo rilevante, sciolto dai vincoli precedentemente imposti dagli ingombranti oggetti culturali costituiti dalle grandi ideologie.
Ora, ritornando all’educazione, la tesi che vorrei discutere riguarda, più da vicino, la presenza costitutiva, all’interno dell’atteggiamento, della motivazione, dell’ intenzionalità, che anima e muove soggetti impegnati in azioni educative, di elementi affettivi. Elementi affettivi il cui intervento concorre, da una parte, a determinare la specificità dell’educazione e del suo senso: la sua non riducibilità ad altro; e dall’ altra parte vale altresì ad affermare la necessità di analizzare l’educazione nella dimensione esperienziale, nel vissuto dei soggetti reali in essa impegnati.
In altre parole: io credo si debba affermare che la costituzione del significato educativo di una azione — e dunque la fondazione e legittimazione di una qualche azione come educativa — è qualcosa che accade in una dimensione soggettuale di attribuzione di significati e di valori, che è carica di affettività. Che determinazioni di natura afféttiva guidano i significati, gli atteggiamenti, le decisioni, le azioni di educazione. E credo, ancora, che è il ruolo importante giocato dall’affettività che contribuisce a fare dell’azione educativa e della sua grammatica un oggetto specifico, “unico” direi, affatto irriducibile ad altre forme di esperienza.
L’educazione è, in primo luogo, un elemento dell’esperienza umana vissuta il quale è dotato di significato e di valore educativi in quanto rinvia ad un ordine di desideri, credenze, esigenze esistenziali vissuti da soggetti; in quanto presuppone una presunzione di verità, un ordine teleologico, una fede nel futuro, la fiducia nell’ efficacia dell’azione educativa, la certezza che ciò che si persegue sia il bene dell’educando, che hanno radici “affettive”.
Non a caso i principi e le norme di educazione decadono a semplici “segni” nel momento in cui sono privati dei connotati che ne segnano l’accadere reale nell’esperienza di soggetti. Allora ci appaiono concetti vuoti, superstizioni vane, istituzioni sorpassate, abitudini cristallizzate, che mai potrebbero dare un volto alla nostra esperienza, un senso alla nostra vita, una norma alla nostra azione.
potrebbero dare un volto alla nostra esperienza un senso alla nostra vita, una nonna alla nostra azione. Qualsiasi principio di educazione perde ogni contenuto concreto se non comporta conseguenze rinvenibili e traducibili nella nostra esperienza (di soggetti): in tal caso è come se non esistesse più, è privato del suo significato “educativo”: e questo perché è l’adesione da parte di soggetti alla sua verità — adesione affettivamente connotata — che conferisce un contenuto e un senso ai principi e non viceversa.
E però, come ben sappiamo, il discorso pedagogico — il sapere scritto dell’educazione — non ha tenuto conto di ciò. Esso ha utilizzato, per dire l’educazione e, soprattutto per fondarla e per prescriverla una logica oggettivante, impersonale, generalizzante: che non tiene in considerazione alcuna né il ruolo del soggetto che pensa e compie azioni intenzionalmente educative né la presenza, nelle pratiche di educazione, di elementi e variabili affettive. Le teorie pedagogiche tradizionali seguono infatti il procedimento seguente: 1) pongono un fine o valore (presuntamente) oggettivo; 2) determinano le norme e regole di educazione atte a realizzare questo fine o valore; 3) solo raramente prendono in considerazione il problema relativo ai fattori motivazionali soggettivi, implicati nella effettiva osservanza delle norme e regole indicate. E, se lo fanno, affrontano e tentano di risolvere questo problema attraverso il ricorso a strumenti precettistici ed esortativi, messi in campo post festum a conquistare l’adesione emotiva del pubblico cui si rivolgono.
Ma se in tal modo la pedagogia ha seguito un procedimento di tipo logico, il procedimento storico risulta essere esattamente l’inverso. Nella realtà storica, prima che la pedagogia formuli i propri problemi e intavoli i propri discorsi, si trova già costituita e “in atto” una certa cosa — un certo pensare dire-fare — che soggetti determinati riconoscono come ‘educazione’; nella realtà storica, il fine e la regola, necessitano, per venire osservati, della forza di impulso che accompagna certe credenze.
Non è una qualche verità impersonale e oggettiva, insomma, che pone o suscita le credenze in fatto di educazione e gli snodi affettivi che a tali credenze si collegano: essa, piuttosto le suppone e, tutt’al più, le interpreta e le sistematizza. Le forze motivazionali che fondano le scelte educative e le pervadono dipendono dal valore reale che le credenze relative hanno nella coscienza dei singoli, dalla loro “forza trainante”. Ciò equivale a riconoscere che l’analisi empirica dei fattori da cui dipende l’esecuzione di certe azioni è una cosa affatto diversa dalla giustificazione teoretica di esse. E un’illusione vana ritenere che sia il discorso teoretico che nelle pratiche di educazione dà o fonda un qualche motivo.
Infatti, nella realtà storico-esperienziale — che è sempre realtà per-soggetti-situati — riconoscere giusta un’ azione educativa per la relazione che la lega ad un fine-valore non è soltanto riconoscere la dipendenza del fine dall’azione, ma è anche — e prima d’ogni altra cosa — desiderare quel fine: è volere quel fine. Cosicché non si può prescindere né dal rapporto necessario tra fine voluto e soggetto volente, implicito nella desiderabilità, né da tutto ciò che la desiderabilità e la volizione portano con sé: di affetti, certezze non vagliate, emozioni presunzioni di verità, convinzione di fare il bene altrui, persuasione di vedere chiaro ecc.: di tutto ciò, insomma, che alimenta la carica pulsionale, l’energia mobilitante e dunque l’iniziativa, l’azione.
Considerazioni come queste conducono a riconoscere che l’attenzione all’affettività ed al suo ruolo è affatto indispensabile per comprendere la nostra esperienza di educazione. In ogni caso prospettare una teoria che non tenga conto della componente affettiva, se pure può apparentemente garantire sulla scientificità della teoria, risulta rischioso in questo: che è per noi difficilmente riconoscibile e dunque difficilmente maneggiabile teoricamente come un mondo educativo nostro, un mondo in cui gli affetti non entrano a costituirlo. La riflessione teorica sull’educazione reale non può, insomma, omettere di prendere in considerazione tutte quelle istanze sentimentali ed emotive che sostengono le nostre iniziative di educazione e ci scuotono dalla inattività: si tratta di una sorta di ipotesi attive, più concrete e più vitali della pura accettazione di un qualche sistema teorico, che “si attaccano” all’io di ciascuno e lo stimolano ad agire.
Ora, come dicevo, la considerazione delle componenti affettive e della loro centralità nella determinazione dell’oggetto-educazione dei suoi significati, fini, valori — induce: i) a riconoscere la specificità ditale oggetto affermandone la non-riducibilità ai linguaggi oggettivanti — sia filosofici sia scientifici —, cioè a dire la grammatica specifica incentrata sul soggetto; e dunque 2) a sollevare la questione sensu lato epistemologica su quale può essere il senso di una teoria che dica l’educazione, una volta accertato che questa non può essere dello stesso genere di una teoria scientifica o filosofica, ad impianto oggettuale.
Ebbene. Un sapere dell’educazione soddisfacente non potrà essere un sapere che, in prima battuta, dica, ovverosia spieghi indicando delle cause o dei fondamenti: ma un sapere che piuttosto, mostri qualcosa dell‘esperienza umana. L’attenzione agli elementi affettivi induce ad assumere un ambito che è possibile, nella terminologia wittgensteiniana, mostrare nelle pratiche concrete e nei giochi in uso, anziché dire: nel senso in cui le teorie pedagogiche tradizionali hanno preteso di dire l’essenza dell’educazione e di fondare su questa norme d’azione (cosiddetta) educativa. La presenza centrale dell’affettività induce, in altre parole, a dubitare che sia possibile fondare pratiche-di-educazione su teorizzazioni oggettive.
Si delinea allora un sapere che abbia come regola o principio della propria validità non tanto l’Erklarung (spiegazione) di tipo scientifico (foss’anche di tipo strutturale o generativo, ma piuttosto la wittgensteiniana Klarheit (chiarezza). La Klarheit non è predittiva come le scienze naturali e nemmeno è esplicativa come le scienze filosofiche: è piuttosto distintiva, nel senso che distingue tra giochi, tra grammatiche diverse: è lo sguardo che staglia, per così dire, il proprio oggetto sullo sfondo: identificandone la peculiarità, la diversità dagli altri oggetti: i contorni insomma. Contro, o, almeno prima della ratio unificante e omologante della tradizione pedagogica si tratta di definire una pressione, un afferramento delle cose educative: un mostrare nel fare, nell’uso, nel sentire appunto.
Ma allora si prospetta l’opportunità di sostituire, o almeno di affiancare all’indagine tradizionale, di tipo essenzialista, sulla natura del fine o del fondamento dell’educazione l’esame di diversi esempi significativi di ciò che chiamiamo «un’esperienza dotata di significato e valore educativo». Se, come Wittgenstein rileva a proposito dell’etica, «non è possibile parlare» dell’educazione «senza entrare in scena personalmente», si deve infatti concludere che l’educazione non riguarda in prima battuta la filosofia, che non sia immediatamente una faccenda da specialisti e che, nella misura in cui si riuscisse a parlarne realmente, se ne possono dire cose che, in un certo senso, “tutti sanno”. L’educazione an sich non ha molto a che vedere con le questioni filosofiche: là dove essa è realmente presente dove è vissuta, non si parla dell’educazione e, là dove se ne parla, si finisce in effetti col parlare d’altro.
Si tratta insomma di passare a considerare l’esperienza di educazione un fenomeno antropologico, che appartiene al soggetto e ai suoi vissuti: di riconoscere che essa non ha uno stato puro o essenziale, ma uno stato civile, per così dire. Non è un caso che la relatività dell’educazione, la pluralità irriducibile delle versioni di educazione e — se la si considera come una tesi filosofica — del tutto priva di senso; mentre è invece molto più interessante riflettere sul fatto che l’esistenza di più sistemi di significati di educazione è intollerante allorché viviamo un’esperienza di educazione.
Ma, allora, si deve probabilmente concludere che non bisogna cercare il fondamento dell’educazione — il suo criterio di verità — altrove che nell’esperienza umana. Ciascuna versione di educazione ha come sola e reale giustificazione quella che consiste nel dare un senso a certi comportamenti ed eventi. ovvero nell’ispirare certe azioni pretendendo che siano, quei comportamenti eventi azioni, educativi. Piaccia o meno, un sistema di educazione non deve temere le discussioni filosofiche, né attendere le sue fondazioni: vive e muore sempre di altre cose.
L’assunzione dell’ affettività tra gli elementi costitutivi dell’ oggetto-educazione ci distoglie dunque dalla tendenza, dominante, a leggere l’educazione attraverso i discorsi-di-educazione: a renderci conto che i discorsi-di-educazione in qualche modo ci allontanano dagli autentici problemi educativi; che quando l’educazione diventa discorso siamo già in un certo senso fuori dell’educazione. Mentre ciò che più conta, in prima istanza, è prestare attenzione a quello che facciamo quando riconosciamo eventi educativi o esprimiamo un qualche giudizio di educazione. Allora l’affettività si rivela essere condizione di possibilità del mostrare l’educazione: un qualcosa senza di cui niente potrebbe esprimere un’esperienza educativa e quindi appare, alla consapevolezza teorica, un punto di riferimento irrinunciabile.
E a partire dall’esperienza vissuta di soggetti storici e dalle dimensioni in essa implicate che può e deve prendere avvio l’impresa teorica. Il lavoro di chiarificazione, comprensione, interpretazione, confronto, arricchimento, vaglio, organizzazione, controllo, razionalizzazione del pensare-fare educazione. La crisi delle grandi ideologie ed utopie induce d’altronde a prestare attenzione a dare spazio in questo lavoro di teorizzazione, ai materiali affetti- vi: i quali costituiscono con tutta probabilità, al giorno d’oggi, una delle maggiori risorse di cui l’impegno ad educare può alimentarsi.

Bibliografia
R.
Bodei, Geometria delle passioni, Milano, Feltrinelli, 1992.

F.
Cambi, E. Frauenfelder (a cura di), La formazione. Studi di pedagogia critica, Milano,
Edizioni Unicopli, 1994.
F.
Cambi, Mente e affetti nell‘educazione contemporanea, Roma, Armando, 1996.

E.
Colicchi Lapresa, Linee di una teoria dell’educazione, Roma, Herder, 1984.

E.
Colicchi Lapresa, Prospettive metodologiche di una teoria dell ‘educazione, Napoli,
Liguori, 1987.
H.
G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it., Milano, Bompiani, 1983.

M.
Heidegger, Segnavia, trad. it., Milano, Adelphi, 1987.

N.
Luhmann, K.E. Schorr, Il sistema educativo. Problemi di riflessività, trad. it., Roma,
Armando, 1988.
M.
Muzi, A. Piromallo Gambardella (a cura di), Prospettive ermeneutiche in pedagogia,
Milano, Edizioni Unicopli, 1995.
L.
Wittgenstein, Ricerche filosofi che, trad. it., Torino, Einaudi, 1967.





Nessun commento:

Posta un commento

Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale