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domenica 13 gennaio 2013

FORMAZIONE E DIMENSIONI AFFETTIVE - Formazione, soggetto, sentimenti: amore e dolore


Formazione, soggetto, sentimenti: amore e dolore
Cambi F., contributo in F. Cambi (a cura di), NEL CONFLITTO DELLE EMOZIONI. Prospettive pedagogiche, Roma, Armando Editore, 1988, pp. 133-148   
1. Formazione: una categoria-chiave della pedagogia

Se dovessimo individuare la categoria più propria e più centrale nell’elaborazione pedagogica dell’Occidente (ovvero il principio più alto e complesso, più costante e organico, più perspicuo e eminente fissato dalla riflessione pedagogica maturatasi tra la Grecia classica e la Modernità, assunta nella sua unità di tradizione e nella sua articolata diacronia) dovremmo richiamarci alla categoria di formazione, come “formazione umana”, cioè come il farsi del cucciolo d’uomo specificamente uomo, e uomo in una cultura-storia- società che lo innerva di una particolare identità, appunto, umana. L’educare, in Occidente, nella sua accezione più ricca, culmina nel formare/formarsi:
nella acquisizione strutturale, ma autonoma, di una forma che è, insieme, propria dell’individuo, di quell’individuo, e comune alla specie, all’umanità di cui fa parte. La formazione è un po’ il senso ultimo e la regola trascendentale dell’educare, nel momento in cui si rende autonomo dall‘ethos sociale e vi si contrappone come avventura/storia di un soggetto; anzi, è proprio il “fastigio” (o il compimento) del processo educativo, che — in quanto tale — ne rivede e ne ridescrive il percorso, in modo radicalmente nuovo, e secondo articolazioni originali. Se l’educazione è legata, sempre, alla fine, a un soggetto, a quel soggetto, essa — pur implicando altre forme e dimensioni: di socializzazione, di apprendistato e di istruzione, etc. — si compie (si conclude e si fa completa) nella tappa o dimensione della formazione, di quel travaglio di costruzione dell’io che vede quel soggetto divenire il vero e proprio protagonista (attivo e passivo) del processo.
Non solo, la categoria di formazione anche storicamente è stata la categoria reggente della pedagogia occidentale: in quanto è stata la più discussa e ripensata, ma anche la più costante e trasversale. Forse è stata anche la categoria più originale di questa tradizione pedagogica, diversa dalle altre presenti nella storia mondiale, e originale proprio perché legata al soggetto, a quel principio che l’Occidente ha ridefinito e riarticolato attraverso tutta la sua storia, ma anche potenziato e valorizzato sempre più come “fondamento” di tutta una cultura, sia sociale sia scientifica. A partire dalla Grecia classica, dalla svolta della sofistica e dall’ avvento della metafisica (due eventi, ad un tempo, opposti e paralleli) la formazione (come formazione umana del soggetto, che si fa specchio in sé di tutto l’umano e, pertanto, si universalizza, si rende protagonista e “sovrano” della cultura-storia e della sua stessa avventura vitale e storica) è divenuta la categoria-chiave della pedagogia (teorica, ma anche operativa, attraverso la scuola, ad esempio, o attraverso la costruzione morale del sé, ancora ad esempio) e vi è rimasta per secoli e per millenni. Ovviamente attraverso molte trasformazioni, molte varianti, molte riarticolazioni, anche attraverso revisioni, opposizioni, perfino rifiuti. Comunque — però — è rimasta al centro e da lì ha operato come “molla” teorica e come referente critico, assumendo il ruolo di chiave di volta di tutta una tradizione.
Studiosi come Jaeger o Marrou lo hanno rilevato con forza per l’Antichità. La categoria di formazione umana (paideia in greco classico) è il prodotto più alto e illustre, anche il più complesso della civiltà classica, poiché in essa si sintetizza tutta la cultura degli antichi, che voleva essere cultura di soggetti, rivissuta da soggetti e quindi risolta sempre in formazione. E ancora: le stesse forme istituzionali della cultura antica, dal teatro alla biblioteca, alla scuola, erano luoghi e momenti in cui cultura e soggetto entravano in simbiosi, comunque in collisione. Pertanto, il lavoro svolto dalla pedagogia antica intorno alla paideia, al suo senso, al suo valore, ai suoi modelli, resta come il lavoro genetico (per così dire) della pedagogia occidentale, dal quale dobbiamo sempre ripartire per comprendere il senso della tradizione pedagogica occidentale stessa. Al centro sta il richiamo di Aristotele, svolto nella sua Fisica soprattutto, relativo all’ acquisir-forma: è processo intenzionato e regolato dal di dentro, dal suo fine implicito. Tutto ciò, applicato all’uomo, esige cura e coltivazione tale formazione non avviene spontaneamente vuole un accordo di energheia e entelechia, un loro scambio/sostegno reciproco.
E l’entelechia dell’uomo è proprio l’umanizzazione attraverso la socializzazione e inculturazione di cui la specie uomo è stata produttrice e di cui non può più fare a meno. Il che implica lavoro, sforzo, orientamento, correzione, integrazione, etc., ovvero un processo polimorfo e aperto, anche se, appunto, orientato. Nell’Antichità, poi, l’idea di formazione (paideia) ha subito una serie di articolazioni, rispetto a momenti e autori. Fermiamoci qui solo sui momenti. Sono stati, soprattutto, tre.
L’età classica, l’età ellenistica, l’età cristiana, a cui hanno corrisposto riprese e variazioni della nozione di paideia. Nell’età classica si oscilla, in particolare, tra due accezioni: una filosofica (con Socrate, Platone e Aristotele) che pone a volano della formazione la teoria, la teorizzazione, il theorein; l’altra retorica, che pone al centro il linguaggio, la persuasione e la comunicazione, anche legata agli affetti, e trova nella letteratura il suo terreno esemplare. Se, nel primo caso, l’uomo vero è il filosofo, nel secondo è il politico (colto). In ambedue i casi siamo davanti a un uomo che nell’esercizio del linguaggio e della mente si realizza compiutamente, e solo in tale esercizio. Nell’età ellenistica sarà invece il saggio a rappresentare il vero uomo. Il saggio che conosce per vivere (e non viceversa), che usa la conoscenza come strumento della cura di sé, così la formazione si condensa e si conclude nell’etica, si lega intimamente all’etica, a un’etica razionale ma appassionata, capace di vivere e di controllare le passioni, elevando il soggetto alla dimensione dell’autodominio, della costruzione del “carattere”: e qui appare in forma netta questa sub-categoria della paideia, che avrà una fortuna plurimillenaria in Occidente, da Plutarco a Kant, a Herbart e oltre.
Col cristianesimo è, invece, l’uomo religioso ad essere il modello di umanità. Uomo colto, uomo interiore sì, ma contrassegnato in profondità dal conflitto religioso così come è proprio della religio cristiana: legato al peccato, legato all’opposizione uomo/Dio, legato al travaglio della “coscienza infelice”. E Cristo che si fa, ora, modello di paideia. La paideia cristiana riprende i richiami classici alla cultura e all’etica, ma li rinnova alla luce della paideia Christi, che è una paideia della croce, della sofferenza interiore, del conflitto, dell’inadeguatezza e, quindi, dell’incompletezza/incompiutezza.
Se Cicerone trascrisse in latino la nozione di paideia con quella di humanitas, non solo ne fissò la radice più profonda, ma anche le assegnò un ulteriore destino: quello di legarsi alle humanae litterae che, da Roma al Medioevo latino, su su fino all’Umanesimo e al Rinascimento, passando per S. Agostino o per Dante e Petrarca, e arrivando fino alla Firenze del Quattrocento e, ancora, fino a Comenio o ai Gesuiti, assumeranno il ruolo di paradigma formativo per eccellenza; paradigma i cui echi sono vivi ancora oggi, si pensi alla Riforma Gentile, per entrare nella storia della scuola, o alle annotazioni sulla lingua tipiche di un Don Milani, tanto per concretamente (anche un po’ troppo, forse) esemplificare.
Dal Settecento, poi, la formazione riceve un rilancio/ripresa/variazione in Germania, con la nozione di Bildung, che verrà rilanciata da letterati e filosofi e assumerà una connotazione antropologico-storicistica: ci si fa uomini in quanto si sintetizza persona/niente la cultura e di essa si dà una sintesi armonica (pluralistica e equilibrata insieme), che può avere molti centri o nell’arte o nella religione o nella filosofia o — anche — nella scienza o nella politica, ma se e solo se ogni forma spirituale è animata dal circolo completo di tutta la vita dello spirito (ovvero della cultura, che è “spirito oggettivo”, ossia oggettivato). Da Schiller a Goethe, a Fichte, Hegel, Schleiermacher, a Herbart e Marx, a Nietzsche, a Thomas Mann, da Dilthey a Simmel, da Banfi a Ortega y Gasset, a Spengler, a Spranger, a Horkheimer, la Germania ha alimentato con la sua teorizzazione filosofico-pedagogica una riflessione costante su tale categoria e una sua modernizzazione in senso anti-tecnologico e anti-alienazione, come pure connesso al soggetto-individuo-persona (o soggetto-individuo che deve farsi sempre più persona) che sta al centro della società attuale, capitalistico-avanzata ma anche tardo-borghese, anche se in essa rischia di essere travolto, perdendo così la funzione di un punto di resistenza e, quindi, di matrice di libertà.
Soprattutto attraverso l’eredità del pensiero tedesco la formazione (=Bildung) arriva nel dibattito contemporaneo, con una opposizione esemplificata al meglio dal dissidio tra Luhmann e Habermas. Se il primo vede la Bildung come una categoria obsoleta, resa inservibile dall’età della tecnica (si tratta di apprendere e non di formarsi; si devono acquisire competenze e non forme-d’anima), il secondo ne riconferma il valore come via — unica — di formazione di un soggetto-individuo capace di autonomia e di dissenso, capace di esercitare una resistenza critica e dialettica alle sirene dell’ “esistente”, e di un esistente così pervasivo e suasivo com’è quello tecnologico-avanzato e neocapitalistico.
Ciò che va rilevato è 1) la tenuta storica della categoria-formazione; 2) la centralità a livello di riflessività pedagogica; 3) l’attualità che, essa, ancora possiede. Ma, ancora di più, va sottolineato il carattere di saldatura tra formazione e soggetto che tale categoria reclama. Pertanto è sul soggetto che ora dobbiamo fissare lo sguardo.

2. Le metamorfosi del soggetto e la sua “questione”

Quando parliamo di soggetto dobbiamo subito sottolineare che lo “leggiamo” rientro la nicchia della cultura occidentale. Il soggetto presso i popoli primitivi, presso le culture orientali o quelle pre-greche è o era contrassegnato da altri caratteri. Noi lo pensiamo — e necessariamente: è un inevitabile, anzi funzionale, pre-giudizio — da sempre dentro la nostra tradizione, e non possiamo fare (individualmente o collettivamente) altrimenti. Per noi il soggetto è quello che ha prodotto la tradizione greco-cristiano-borghese (come si può e si suole dire), quella tradizione che nasce in Grecia, si lega al logos metafisico, si riconferma con poche varianti col Cristianesimo, passa poi alla Modernità, laica e borghese, mantenendo una sostanziale identità. Quale? Quella di un soggetto come io, come coscienza propria di un individuo e come individuo che fa centro sulla propria coscienza, la quale è prima di tutto mente e quindi teoria, quindi ordine/controllo/distacco, quindi autonomia: di conseguenza è dominio di ciò che è confuso e inquieto (le passioni) e costruzione lineare di progetti, assunti in proprio e che si gestiscono con responsabilità (consapevolmente e rendendosi responsabili), di cui l’io è appunto il regolatore; inoltre il contrassegno plurale del soggetto-io è l’autoregolazione e il suo concreto esercizio nella costruzione di un “carattere”, di un proprio carattere.
Un tale modello di soggetto — in linea si massima, è ovvio — appartiene ai Grandi Maestri della Tradizione Occidentale. Lo si rileva in Platone, in S.Agostino, in Cartesio, in Kant (per restare al solo ambito della filosofia, che gioca un ruolo di autoriflessione regolativa dentro una cultura e quindi è terreno d’indagine emblematico). Quanto a Platone è la teoria dell’anima che va sottolineata. La metafora della “biga alata” è esemplare: il soggetto ha tre anime, due inquiete (la concupiscibile, l’irascibile) e una razionale (l’auriga, la mente), tra le quali c’è rapporto gerarchico, in modo che alla razionale spetti la funzione di guida, e che solo essa può esercitare. L’uomo è conflitto tra ragione e passioni, le passioni vanno dominate, imbrigliate, soffocate, e ciò accade se la mente viene a dominare tutto il soggetto e a indicargli, con la pura riflessione teoretica, il suo più perfetto modello: sereno, armonioso, contemplativo, in quanto regolato dal theorein. Il dualismo dell’uomo occidentale ha in Platone il più radicale interprete e il più esplicito promotore. Anche il Cristianesimo postevangelico, ellenizzato, riprodurrà questa aporia: S. Agostino insegni.
Le sue Confessioni sono esemplari. Le passioni sono viste come un cancro dell’anima, una via di perdita del sé più autentico e profondo, una condanna legata alla “carne”, ma in lotta — costante e senza quartiere — con lo “spirito”, lotta che si compie, per il cristiano, al cospetto di Dio, ma nella quale Dio è guida e garante di verità e di vittoria. Perfino in epoca moderna
— e borghese — il modello non cambia. Ora è l’individuo, l’io singolo, come coscienza di sé e del mondo, ad essere posto al centro, ed è ancora un soggetto inquieto, insidiato dal dubbio, dallo scetticismo. Cartesio, seguendo S. Agostino, ma anche Campanella o Montaigne, ne ricompone l’identità:
quel soggetto è coscienza di sé, atto di pensiero pensante, è cogito, e nel cogito quel soggetto ritrova, ad un tempo, identità (io sono pensiero: res cogitans) e verità (il cogito contiene l’evidenza, ergo il criterio di verità). Così facendo, però, si separa il cogito dall’estensione, dalla materia, dal corpo (dando vita al dualismo mente/corpo e al suo “rompicapo” filosofico o problema irrisolvibile e falso), dalle passioni, che sono lasciate ai margini, come effetti dell’intersezione (impossibile?) tra cogito e res extensa, o corpo, sia pure effetti inquieti e inquietanti (si veda Le passioni dell’anima). Dopo Cartesio il razionalismo eredita in pieno questo postulato, se pure attaccato (in parte) dall’empirismo, e lo conduce fino a Kant, il quale — pur riproblematizzando il nesso tra ragione pura e ragione pratica — assegnerà ancora al theorein il ruolo di guida di tutta la vita del soggetto: all’io puro spetta il ruolo di generatore delle forme a priori, all’imperativo categorico (universale, necessario, a statuto conoscitivo) spetta la funzione di guida della vita morale, al “carattere” viene assegnato il ruolo di obiettivo formativo nell’antropologia/pedagogia. Dopo Kant l’enfasi del soggetto — ora gnoseologizzato, ora eticizzato (tra Fichte e Hegel) — resterà centrale, ma si tratterà sempre di un soggetto puro, a priori, visto come mente.
La decostruzione di questo modello di soggetto interverrà solo più tardi, a metà Ottocento, attraverso la reazione all’idealismo, attraverso la maturazione delle linfe romantiche, attraverso una Kultur critico-radicale, legata ora al “pensiero negativo” ora alla crescita delle scienze umane, dall’economia politica alla sociologia, all’antropologia culturale. Se il coté filosofico, con Kierkegaard, con Schopenhauer, etc. mette in crisi il soggetto cristiano-borghese, richiamandosi ora al singolo e alla sua esistenza (diversa/opposta alla sua essenza, carattere ancora cognitivo-gnoseologico), ora agli istinti e alla “volontà”, scoprendo altre dimensioni del soggetto, le scienze umane metteranno in luce i “trascendentali” storici che tramano il soggetto, dal Linguaggio all’Inconscio, dalla Merce all’Ideologia, alle Tradizioni, etc. Nel soggetto viene operandosi una doppia trasformazione: di erosione della coscienza e di perdita dell’autonomia. Il soggetto come io-mente viene relativizzato e della soggettività avanza un’altra immagine, più complessa, più contraddittoria, meno centrata, più problematica. Sarà con Nietzsche, a livello filosofico, con Freud, a livello psicologico, che tale erosione/trasformazione si manifesterà in modo esplicito e programmatico. Nietzsche — attraverso una genealogia del soggetto occidentale: greco-cristiano-borghese — metterà in luce l’ideologia che lo sottende: legata al “risentimento” verso i valori nobili, connessa all’oblio del tragico, vincolata dalla metafisica e dalla religione.
La “morte di Dio” e la fine della metafisica aprono spazi per un nuovo pensiero (più dinamico e più realistico insieme, più vitale) e per un nuovo soggetto (l’uomo del nichilismo, più istintuale e finito, nutrito di una coscienza più opaca e contraddittoria, meno legato a un Ordine e a un Senso prestabiliti). Freud darà vita a una visione del soggetto ancora più drammatica: coglie l’io come premuto dall’inconscio e dal “principio di realtà”, spiazzato rispetto alla propria coscienza, che diviene il luogo di mediazione di un contrasto dinamico e inopprimibile, quindi regredisce da nucleo centrale dell’identità del soggetto. Così, anche, tutta la storia di ogni soggetto si drammatizza, si lega a drammi e conflitti, a repressioni, rimozioni, nevrosi. Di essi l’infanzia è il crocevia.
Dal secondo Ottocento-primo Novecento emerge una nuova immagine della soggettività, di cui la cultura della Krisis si fa interprete, e che mette al centro delle sue indagini: letterarie, artistiche, scientifiche, filosofiche. Da Pirandello a Kafka, da Picasso a Dalì, da De Saussure e il suo Corso di linguistica generale a Lévi-Strauss e alla sua Antropologia strutturale, da Benjamin a Lévinas, la visione tradizionale del soggetto viene rimessa in discussione e si apre quella “questione del soggetto” che è ancora al centro della ricerca culturale contemporanea e che tende a ri-definirlo secondo elementi e strutture sottratti al “giogo” della metafisica e alla sua volontà di fondazione, di Ordine e di Senso. Il soggetto si è rifatto problema e si viene ridefinendo per vie più plastiche, contraddittorie, problematiche.
Non solo: anche l’esperienza vissuta dei soggetti e l’immagine che essi hanno del proprio sé si è fatta più complessa e inquieta, meno stabile e più contraddittoria. Ogni soggetto è in quanto si dà e si fa in un processo non lineare e polimorfo, attraverso un divenire scandito anche da rotture e rovesciamenti, da nuovi innesti, da rivoluzioni e catastrofi, soggettive o storiche o culturali.
Da qui la nuova identità del soggetto che è in marcia e che viene contrassegnata, in genere, dalla “condizione postmoderna”, la quale è, a sua volta, caratterizzata da apertura, trasversalità, frammentazione, disseminazione,etc.

3. Alla radice del soggetto contemporaneo: i sentimenti.
Sono i sentimenti e le passioni, gli affetti e le emozioni che costituiscono il “magma” originario dell’io, i “mattoni” della sua identità o, detto altrimenti, l’elemento “poggiante” della sua struttura, usando tale termine (“poggiante”) nel senso usato da Hartmann nel suo testo sull’Ontologia dell’essere spirituale quando parla di “spirito poggiante” in relazione allo “spirito oggettivo” hegeliano, visto come punto di appoggio per la costruzione dell’identità spirituale (culturale-psicologica) dei soggetti. Gli affetti sono gli elementi su cui poggia il soggetto; non ne esauriscono — è ovvio — l’identità, ma la tramano e la condizionano; quindi sono strutture pervasive e permanenti. Tutto ciò sposta enormemente la teoria del soggetto: la incardina su questo fronte più inquieto e magmatico, ma centrale, centralissimo, a prescindere dal quale si rischia di delineare un soggetto astratto e irreale, o almeno — di comodo.
Alle “origini” del soggetto stanno le emozioni, che sono reazioni organiche biologicamente determinate, ma che, attraverso la cultura, l’elaborazione simbolica, il linguaggio e la coscienza, si trascrivono in affetti, sentimenti, passioni: nomi diversi per esperienze analoghe — e storicamente diversificati. Le passioni sono le emozioni interpretate nella cultura classica, fino al Seicento, tematizzate in primis dalla tragedia, come poi dalla filosofia; i sentimenti sono le emozioni vissute dagli individui, dagli individui moderni, che vengono sempre più riconoscendo la centralità del loro humus emotivo, integrandolo con l’elaborazione razionale; gli affetti sono le emozioni trascritte alla luce della psicologia-psicoanalisi, dove le emozioni sono sottratte sia all’ideologia della morale sia a quella dell’individuo borghese (l’uomo privato).
Gli affetti — assumiamo qui questa dizione, considerandola più attuale e più generale — “dominano” il soggetto, in quanto lo irrorano e lo strutturano. Quindi, studiare gli affetti, valorizzarli, riconoscerli è un compito della cultura contemporanea, in ogni suo ambito: dalla psicologia alla filosofia, passando per l’antropologia, per la sociologia, per la pedagogia. Anzi, la centralità degli affetti sta ridescrivendo tutto l’orizzonte delle scienze umane, ne sta rielaborando i reciproci e i comuni punti di forza, impegnandole su una frontiera, in buona parte, nuova. Il soggetto che emerge da questa ricognizione è, ancora, un soggetto plastico, multiplo, aperto, ben in sintonia con quei caratteri di postmodernità a cui ho fatto cenno. Proprio il soggetto “affettivo” li interpreta e li legittima, in forma — forse — più radicale, poiché più sfumato, dinamico, trasversale, etc.
Che su questa frontiera di riconoscimento del ruolo (primario) delle emozioni/affetti si stia oggi lavorando con impegno ce lo rivelano alcuni testi che hanno avuto, nei vari ambiti, una funzione rivelativa ed hanno lasciato il segno. Faccio solo due esempi: Intelligenza emotiva di Goleman; Affetti, un volume curato da Dazzi e Ammanniti. Sono due testi “psicologici”, ma collocato il primo sul fronte del “cognitivismo”, il secondo su quello psicodinamico. In entrambi la centralità e imprescindibilità degli affetti nella crescita del soggetto sono sottolineate con forza, contrapponendosi a una visione cognitivistica (=mentalistica) del soggetto e reclamandone un ridimensionamento e una integrazione. Sono testi che hanno sottolineato la svolta in atto nella psicologia, diretta a interpretare il soggetto a partire dalla sua dimensione emotiva.
Anche nell’ambito della pedagogia questa “rivoluzione” legata al riconoscimento degli affetti ha ed ha avuto un peso decisivo, per rinnovare metodi, obiettivi e modelli della formazione, ricollegando la formazione al soggetto e questo, anche, alle sue dimensioni affettive. Basta anche solo considerare alcune voci della pedagogia italiana, affermatesi con più vigore negli ultimi anni, per riconoscere che siamo davanti a una frontiera sì in movimento della ricerca, ma anche già decantata e definita, e autorevolmente definita. Da Massa e la sua “clinica della formazione” alla Contini e la sua “pedagogia delle emozioni”, da Bertolini e la sua “enciclopaideia” di origine fenomenologica, dalla Pinto e Frabboni, teorici di una pedagogia come scienza critico-dialettica, ai teorici dell’ermeneutica, perfino a un post-empirista come Laporta, tutto un c6té della pedagogia nazionale è attento e impegnato a confrontarsi con questi problemi, a superare il classico “dualismo tra mente e affetti”, a delineare soluzioni teoriche e operative in vista di una ricomprensione dialettica di un soggetto più completo e integrale.
Nell’ambito della formazione si è riconosciuto che 1) gli affetti sono sempre alla base di ogni formazione e vi permangono come un Leitmotiven; 2) il soggetto contemporaneo ha bisogno di superare il dualismo tradizionale (mente/affetti), rimettendo in circolo le dimensioni affettive, abituandosi e riconoscerle, a riviverle, a giocarle; 3) i modelli di formazione devono oggi tener conto anche di questa dimensione; 4) la pratica educativa — perfino nella scuola — non può trascurare questa componente, che può agire in forma patologica (da scoprire, da “curare”) o in forma “normale” (cioè corretta, o più corretta possibile, legata al criterio della maggiore “trasparenza” possibile); 5) la formazione dei formatori (insegnanti in primis) non può avvenire senza che questa dimensione affettiva degli obiettivi come dei condiziona- menti venga affrontata, per vie diverse ma con un traguardo specifico: creare anche una professionalità comunicativa nei formatori, capaci di far loro leggere le potenzialità o i blocchi/rischi delle variabili emotivo-affettive.
Il primo obbligo, però, che corre alla pedagogia è di mettere in luce la formatività (o capacità formativa) degli affetti: la loro capacità di creare formazione, di orientare la formazione, di illuminare i processi di formazione. Tutto ciò può essere meglio (e al meglio) colto proprio negli affetti vissuti e più estremi, o più densi, più alti, più coinvolgenti. Lì tale formatività si mostra in pieno e meglio può essere fissata nelle sue dinamiche, poiché lì gli affetti vissuti da un soggetto, i sentimenti quindi, manifestano esemplarmente il ruolo che sono capaci di svolgere nella formazione e come e per quali vie lo svolgono. Basta soffermarsi a studiare (=analizzare) l’Amore e la Sofferenza, i due sentimenti, forse, più intensi e coinvolgenti, e estremi tra loro, per cogliere la capacità formativa (e la qualità, anche) che è inerente ai sentimenti, quindi agli affetti quando si fanno vissuti e operano sul soggetto. Da questo studio risulterà sia che non c’è formazione senza coinvolgimento affettivo, sia che gli affetti sono veramente paradigmatici dei processi di formazione.

4. Analisi dell’amore

Nessun sentimento è come l’amore pervasivo e tensionale, avvolgente e dotato di autoreferenza, di potenzialità proiettiva e di autosufficienza insieme. Inoltre, l’amore forma in quanto trasforma, ri-descrive il soggetto, ne spezza i vincoli consueti, lo ri-orienta e gli fa assumere una dominante. Tale potere di formazione è stato riconosciuto, fin dalle origini, nelle varie culture, ma in particolare in quella occidentale che dell’amore ha fatto una categoria privilegiata, dilatandola oltre il vissuto e lo psicologico, verso l’ontologico e il teologico. In Occidente non solo possediamo una ricchissima fenomenologia dell’amore, da Saffo a Platone, da Catullo agli stilnovisti, da Andrea Cappellano a Rousseau, a Barthes, ma anche una riflessione sull’amore ha accompagnato costantemente lo sviluppo della cultura occidentale e vi ha assunto anche ruoli metapsicologici, ora filosofici ora teologici, da Platone al misticismo, alla teologia dell’Amore. In questa ricchissima produzione culturale che ha attraversato l’Antichità, la Cristianità, la Modernità per approdare fino a noi, ancora intatta nel suo potere e nel suo fascino, si è venuta elaborando una simbolica dell’amore, che lo ha sottratto al puro dato bio-psichico e lo ha assorbito nella cultura, caricandolo di ulteriori significati, ma anche operandone uno spostamento (nell’interiore, nello spirituale) e un potenziamento, oltre che una trascrizione (in chiave simbolica). Tutto questo ci ha permesso di pensare e di vivere l’amore in modo complesso e articolato, ma anche sottile e sofisticato, squisitamente umano, attivando in quel sentimento una simbolica e una semantica propriamente culturali, e secondo modelli culturali diversi, ma che hanno arricchito le potenzialità dell’amore, dandogli connotati assolutamente post-biologici: si pensi all’amore cortese medievale, all’amour-passion di Rousseau e dei romantici, all’erotismo settecentesco (come amore-gioco), all’ “amore materno” prodotto dall’epoca borghese (come dedizione/sacrificio/simbiosi), ma anche all’ “amor di Dio” e al Dio-Amore del Cristianesimo, fino all’estasi (=atto di amore) delle grandi sante, da S. Caterina da Siena e S. Teresa d’Avila, come pure — su un altro piano — all’amore-merce del feuilleton o, peggio, della pornografia.
Comunque sia, la cultura occidentale attraverso questo suo scandaglio sull’amore ha elaborato, con molte e anche complesse teorie dell’amore, una connotazione dell’amore, così come si è maturato nella nostra cultura/civiltà, che ne ha fissato alcuni centrali, strutturali, persistenti caratteri. Possiamo elencarli nella fusione, nel dono, nella dialettica, nel tendere a: i fondamentali, ma anche altri potrebbero essere indicati (e lo sono stati).
La fusione: l’unione, la simbiosi, il proiettarsi reciproco; sottolineata da Platone nel Simposio, nel discorso di Aristofane che precede la centrale “mossa” dialettica connessa al discorso di Diotima e che mette in luce anch’esso il tendere, lo statuto tensionale dell’amore, e che ritroviamo al centro anche in un frammento giovanile di Hegel dedicato al corpo e all’amore, evidenziando in quest’ultimo il carattere supremo dell’unificazione, del farsi uno della dualità.
Il dono: amare è donarsi; si pensi all’amore materno, ma anche all’amore degli sposi, alla Alcesti del mito greco. Nella fenomenologia dell’amore la proiezione come dono, come “mettersi al servizio di ..., darsi a ...“ è centrale, caratterizzante. Come lo è l’appropriarsi, il possedere, l’assimilare già delineato dalla fusione.
La dialettica: l’amore non è statico, è dinamico sempre, è tensione e conflitto, è anche dubbio, negazione, oscurarsi. E “odi et amo”, è tormento, è gelosia, è fuga e ritorno. L’identità dell’amore è instabile e, pertanto, dà vita a un processo sempre aperto e sub judice.
La tensione: è forse, platonicamente, la dimensione più propria dell’amore; tensione come bisogno e tensione come idealizzazione, come gioco complesso di proiezioni, di cristallizzazioni e, al tempo stesso, di uno stato d’animo che è connesso a “ricchezza” e “mancanza”, pervasivo e totalizzante.
Certamente i caratteri qui, molto sommariamente, ricordati attengono a quella figura dell’amore che trova nell’ amour-passion la propria più netta caratterizzazione, ma circolano, per così dire, in ogni forma d’amore, in modo più o meno esclusivo, più forte o debole, più deciso o sfumato, soprattutto in quell’amore pensato e simbolizzato che sta dentro le dimensioni della cultura e che si colloca su un altro piano rispetto al vissuto amoroso, che è spesso più pedestre, più confuso, più contraddittorio anche, certamente meno esclusivo. E l’elaborazione culturale dell’amore che va tenuta presente, per cogliere tutte le potenzialità della esperienza vissuta e il suo più organico senso. E la ritroviamo nella poesia, nel romanzo, nelle confessioni, nelle teorizzazioni religiose o filosofiche, fino alla grande stagione romantica che ci ha dato, forse, le letture più fini e complesse (almeno per noi: più individuali, più vissute anche) dell’amore, a parte Platone, a parte l’amore cortese, a parte i mistici, prima di Freud e della ripresa contemporanea di una interpretazione altrettanto complessa e sottile dell’amore, di cui si è enfatizzata anche la componente erotica, più esplicitamente erotico-sessuale.
Proprio per questi caratteri l’amore è una cruciale esperienza di formazione, e lo è in quanto si realizza come catastrofe e morfogenesi, in quanto processo di “cristallizzazione” (come lo chiama Stendhal), anche processo aperto e connesso alla donazione di senso. L’esperienza d’amore implica sempre una rottura, un ri-qualificarsi, un rinnovarsi, un re-impostarsi; fa scomparire un io precedente (o molti dei suoi caratteri) e ne fa emergere uno nuovo, in quanto gli dà una nuova forma e un nuovo orientamento. Ma tale processo è strutturalmente dialettico e, pertanto, sempre in fieri, che si sostanzia — al di là del suo vissuto — di un iter di costruzione ideale, di proiezione immaginaria che dà senso al soggetto, in quanto lo sprona e lo nutre, lo struttura e lo qualifica. L’aspetto formativo dell’amore non era già sfuggito all’occhio attentissimo di Platone che, non a caso, lo aveva messo al centro della sua paideia, come momento essenziale del rapporto educativo e dell’ “acquisir forma” del soggetto, appunto. Allora tanto l’esperienza dell’amore quanto la riflessione sull’amore ci dicono qualcosa di essenziale sulla formazione, sul suo paradigma. Ambedue sottolineano la dimensione dialettica e aperta nel formarsi, la sua tensionalità e il ruolo che in essa gioca l’immaginario, come pure la scansione ora catastrofica ora “neotenica” di questo processo che si attua per una legge endogena di cui il soggetto è il portatore, l’interprete e il protagonista/legislatore. Proprio la riflessione su un sentimento “estremo” come l’amore ci permette di cogliere quel “grado zero” su cui e da cui si attiva la formazione, che poi dovrà articolarsi su altri fronti, toccare altre dimensioni (intellettuali, sociali, morali, etc.), ma che potrà farlo solo se si attiverà a partire da questa dimensione del soggetto più propria e profonda; anche a partire di qui. Tutto ciò ci illumina anche, in negativo, su cosa non è formazione: non è istruzione, non è inculturazione, non è socializzazione; essa attiene, invece, all’interiorità del soggetto, al suo “foro” più intimo su cui anche il platonico S. Agostino aveva messo l’accento sul De Magistro e che proprio i sentimenti (e quelli “estremi” soprattutto) riescono più direttamente a rappresentare e a risvegliare, insieme.

5. Analisi del dolore

Anche per il dolore — altro sentimento “estremo” — può essere fatto un discorso analogo: può essere delineata la pervasività/centralità nell’esperienza vitale e nella cultura; possono essere fissati i caratteri strutturali e permanenti, trasversali, identificanti; può essere messa in evidenza la capacità formativa e, quindi e ancora, la paradigmaticità nell’alludere al processo della formazione, indicandoci di essa un nucleo a quo (i sentimenti) e un modello ad quein (in buona parte parallelo a quello dell’amore).
Nel dolore e nella riflessione che intorno a questa esperienza si è delineata in Occidente — complessa, ricchissima, plurale — vanno però, distinti due momenti: il problema del male, che è problema più ontologico e metafisico e che dalla teologia e prima ancora dalla mitologia si è inoltrato nei terreni dell’antropologia culturale o della bio-etologia, andando dalla Bibbia al manicheismo, passando per la tragedia e i miti a cui essa si richiama, per arrivare a un Rousseau o a un Lorenz: è il tema della giustificazione del male (come e perché c’è, quale senso esso ha), ed è problema che da sempre inquieta l’Occidente e la sua cultura; il problema della sofferenza, che è problema più antropologico e più esistenziale, al centro già — in parte — nella tragedia, poi ripreso dalle filosofie ellenistiche e, ancora, dal cristianesimo, con soluzioni assai diverse, per ritrovarsi di nuovo al centro della cultura nell’età della prima modernità e della stessa post-modernità, in forme squisitamente soggettive, legato alla sofferenza del soggetto, al suo contrassegnarsi proprio attraverso il dolore: sia la religione sia la psicoanalisi mettono in luce questa centralità e radicalità.
Proprio ripercorrendo il coté della sofferenza, in particolare delle “malattie dell’anima” (su cui si è richiamata anche la Kristeva), vengono in luce i caratteri-chiave, le strutture dell’esperienza del dolore, al di la di ogni lettura metafisica. Certo nella modernità — soprattutto — si incontrano anche figure che unificano i due versanti della riflessione (come accade a Leopardi), ma è sempre il versante-sofferenza che risulta alla fine, per così dire, il più significativo, il più pregnante. Tali caratteri possono venir esemplificati dall’ oppressione, dalla perdita/lutto, dal lamento, dal tunnel, soprattutto. Sono caratteri ricorrenti e che troviamo fissati proprio nelle grandi tradizioni di riflessione sul dolore: da quella tragica tipica del teatro greco a quella cristiana, che va dalla Bibbia a S. Agostino, a Kierkegaard e oltre, sulle quali ha insistito Natoli nel suo saggio dedicato a L’esperienza del dolore.
L’oppressione: il dolore schiaccia, opprime, soffoca; e ancora: non dà tregua, irretisce, spezza la vitalità, rende inerti, reclusi, spenti. Il dolore è angoscia: oppressione, appunto. Si pensi alla testimonianza esemplare di Baudelaire in Spleen, che allinea il cielo “che pesa come un coperchio” e i ragni che tessono e ritessono nella coscienza come segnali dell’Angoscia che si dilata nel soggetto. Si pensi al “male oscuro” della depressione, così come viene descritta da psichiatri e no, da Berto alla Kristeva.
La perdita e il lutto: nel dolore si perde il mondo, l’io, il senso del vivere, dell’agire, dell’esistere, ma anche ci si perde e si vive una perdita, un’amputazione, un distacco da, un ritrarsi dal senso. Quindi il dolore implica il lutto:
esperienza di chiusura, di estraniazione, legata al “rimuginare” in forma oppressiva e senza uscita. Da qui l’atteggiamento di elaborazione del lutto, di sua elaborazione interiore che lo attraversa: ma è, spesso, un’elaborazione che riapre il dolore e lo ripropone come travaglio, senza superamento (a lungo, molto a lungo).
Il lamento: l’oppressone e la mancanza reclamano la “compensazione” della parola, la sua terapia e la sua ostensione. La parola dice il dolore e lo cura, ma lo dice nella sua radicalità, attivando un tipo di parola senza mediazione, senza dialettica, puramente ostensiva: il lamento appunto. Il lamento si alterna al grido e lo implica, e il grido è pre-razionale, solo ostensivo e pertanto è scandalo, che mostra la scandalosità del dolore. Giobbe, nella Bibbia, insegni.
Il tunnel: ora carcere ora cunicolo, sempre “luogo” soffocante, che schiaccia, opprime, blocca la libertà e impone la sola visione di se stesso. Così è il dolore, nella percezione che il soggetto ne ha dal punto di vista topologico, che è poi un connotato simbolico legato alla metaforizzazione, ma che corrisponde a un vissuto.
Questi caratteri, presenti nelle elaborazioni della cultura, sia pure — anche qui — scanditi in forme diverse, in diversi “dosaggi”, etc., hanno una precisa capacità formativa, nel senso che danno un imprinting alla formazione e ne fissano itinerari e traguardi. Il dolore come esperienza di un soggetto è — come l’amore — una catastrofe (e in modo più esplicito), aspetto che delinea un processo di intensa elaborazione del sé, di revisione, di ricostruzione/decostruzione, di “rimessa a fuoco”. Il radicalismo del dolore è, anche qui e insieme ancora, catastrofico e morfogenetico. Dal dolore e attraverso il dolore prendono corpo altre linee di strutturazione del soggetto, altre forme, che ne trattengono l’orma e l’eco, ma anche le neo-strutture che esso ha prodotte. Ma il dolore anche lega al senso, alla sua perdita e alla sua rielaborazione, riconquista una nuova proiezione, quindi è esperienza che produce formazione. Il dolore è dialettico, non dà tregua, si apre e chiude continuamente su se stesso, ma in questo gioco dell’identità viene a elaborare la differenza: la costruzione di una nuova forma.
Come l’amore, anche la sofferenza ha una dimensione di formatività non solo operativa, vissuta, bensì anche paradigmatica, capace di illustrarci meglio su che cos’è l’ “acquisir forma” da parte del soggetto, sul quale — come l’amore — ci dice qualcosa di logicamente e morfologicamente rilevante.
Non vale concludere: la “conclusione” è nel discorso stesso fin qui svolto. Vale solo ricordare — ancora una volta — che è dai sentimenti che noi cogliamo meglio come si attiva, come procede, come si struttura la formazione, non solo perché essi stanno alla base di tutta la vita del soggetto, ma proprio perché essi sono più paradigmatici (anche in quanto “basici”, ma non soltanto) del complesso, sfumato, non lineare costruirsi del soggetto. Ma è alla formazione come formazione del soggetto che deve guardare come al proprio “culmine” la riflessione sull’educazione svolta dalla pedagogia.
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