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martedì 14 maggio 2013

Temi di approfondimento pedagogico. Il disagio giovanile interpretato. Tra diagnosi e terapia.




Università degli Studi di Firenze
Facoltà di Scienze della Formazione
Dipartimento di Scienze dell’Educazione
 e dei Processi Formativi e Culturali

IRRE-Toscana


Corso di Aggiornamento per Docenti Scuole Medie Superiori
Ciclo di Conferenze e laboratori
 Il disagio giovanile interpretato. Tra diagnosi e terapia
 Anno Accademico 2004-2005
Direttore del Corso Prof. Franco Cambi
 L’arte del sostegno e del dialogo

Vanna Boffo

Intervento tenuto presso il Liceo Classico Galileo
Firenze, Venerdì 15 Aprile 2005

L’arte del sostegno e del dialogo


                                                                                                                      Vanna Boffo



«Mamma, hai imprigionato le pietre in questo sacchetto!
Prendi le forbici e taglia il nodo.
I miei piccoli sassi!».
Eugenia, 8.8.2000                                                                                                          

1.     Gli adolescenti oggi: tra disagio e utopia

Nella prefazione all’edizione Pelikan del testo L’io diviso, scritta nel 1964, Laing spiega il senso del libro[1], pubblicato cinque anni prima presso la Tavistock Publications, dichiarando che il suo studio di psichiatria esistenziale voleva soprattutto dimostrare la reale possibilità di capire gli psicotici. La comprensione della patologia transitava, innanzitutto, per Laing, dalla necessità di comprendere, da una parte, il contesto sociale nel quale lo psicotico si era trovato a vivere, dall’altra,  i rapporti di potere all’interno della famiglia di origine. Pubblicamente, Laing ammette di aver commesso, nella sua originale e acutissima analisi, l’errore dal quale aveva voluto preservarsi, proprio assumendo il punto di vista peculiare e certamente innovativo per la lettura della lacerazione psicologica che più di ogni altra patologia psichiatrica si avvicina alla frammentazione psichica e spirituale dell’uomo occidentale. Afferma Laing: «In questo libro si parla ancora troppo di loro, e ancora troppo poco di noi»[2]. La frase potrebbe essere considerata il leit motiv del percorso che il presente intervento intende sviluppare.
Nei testi, ormai innumerevoli, sia nella letteratura italiana[3] come in quella straniera, che affrontano il tema del disagio, dell’abbandono scolastico e della devianza sociale, durante l’età incerta dell’adolescenza, il punto di osservazione, qualitativo e quantitativo che più spesso, per non dire quasi sempre, viene adottato, è quello descritto magistralmente da Laing: si parla sempre di loro. Non si può accennare che fugacemente al  noi che ci contraddistingue come adulti, genitori, docenti, e che, invece, si infrange contro la paura di affrontare un universo sconosciuto di fronte al quale tanto sembra che ci prodighiamo, ma per il quale aspettiamo che altri trovino soluzioni in alternativa a un dialogo mancato, che altri forniscano la ricetta per risolvere il caso, poi sempre uguale a se stesso.
 Il mondo degli adolescenti, oggi, interpella i mondi adulti più di qualsiasi altra età della vita; enigmatico e, allo steso tempo, piattamente conformato, anche nelle trasgressioni più indecifrabili.  Gli adolescenti sono un territorio di conquista per gli adulti che, su di loro, costruiscono le proprie fortune personali e aziendali, con mode e ossessioni consumistiche. Rappresentano le proiezioni sul passato dimenticato e il buco nero del senso del presente  per i genitori che, al tumulto adolescenziale corrispondono la perdita della memoria o lo stravolgimento del ricordo. Gli adolescenti che lasciano la scuola, che soffrono il disagio dell’esistenza divisa, che arrancano sui binari di classi lanciate a velocità inarrivabili costituiscono  enigmatici rebus professionali, per gli insegnanti che lavorano con passione, talvolta però, rappresentano solamente allievi da lasciare “per farli maturare, per il loro bene, perché ripetere la stessa classe gioverà alla loro crescita personale”. Il tempo dell’adolescenza è, comunque, un mistero perché interpreta, biograficamente, il ponte gettato verso la vita  adulta, epoca di passaggio, luogo dell’attraversamento, nascita all’esistenza. Tuttavia, non solo il ragazzo, il  figlio, l’allievo è in questo transito, viaggiatore sconosciuto a se stesso, corridore di un percorso ad ostacoli alterni dal traguardo impossibile, ma anche l’adulto, il genitore, il docente, la guida e il maestro è con lui, accanto a lui, allo stesso tempo, interprete attraverso di lui, del proprio percorso esistenziale.
 Non è tanto importante capire gli adolescenti, non è utile all’economia delle professioni educative, che di loro si occupano, indagare soluzioni per curare l’adolescenza, è più importante, al modo di Laing, parlare di noi, del modo di dis-locare il punto di osservazione della riflessione sugli adolescenti, come suggerisce Winnicott[4], del modo di cambiare cornice, come afferma Bateson[5], del modo di fornire loro  tutto il nostro sostegno, come consiglia Bettelheim[6], in una sola affermazione del modo di comunicare il nostro interesse e il nostro amore per loro, attraverso il dialogo, l’attenzione, l’ascolto e l’empatia. Dunque, l’asse portante del presente lavoro sarà proprio riuscire a capire il significato della nostra capacità di comprensione, sarà  riuscire ad assumere un’ottica di re-visione della nostra azione formativa ed educativa, perché solamente un cambiamento personale potrà indirizzarci, come adulti, come genitori, come educatori e insegnanti verso la piena comprensione della galassia adolescenziale e potrà fornirci gli strumenti per metterci in grado di aiutare, sostenere, prevenire, ma soprattutto guidare e empaticamente orientare, nel cammino della vita, i ragazzi che dai dieci anni di età in avanti si trovano ad affrontare una rivoluzione fisica, mentale e spirituale tanto intensa quanto  evocatrice della loro vita futura.  L’adolescenza è l’età del possibile, un tempo sospeso che ciascun ragazzo o ragazza deve imparare a vivere per sé, sperimentando la vera solitudine e il tormentoso senso del tragico che possono costruire i sé più autentici. Quasi potremmo essere portati ad affermare che l’adolescenza è l’età del disagio e dell’abbandono.
 Afferma Winnicott: «L’adolescente è essenzialmente un isolato. E’ da una posizione di isolamento che prende inizio quel processo che eventualmente sfocerà in un rapporto tra individui e alla fine nella socializzazione. A questo riguardo l’adolescente ripete una fase essenziale della prima infanzia, poiché il bambino piccolo è un isolato almeno fino al momento in cui non ha ripudiato il non-me e non si è costituito come un individuo separato, un individuo che può instaurare rapporti con oggetti esterni a sé e fuori dell’area del suo onnipotente controllo. […]. I giovani adolescenti sono un insieme di isolati, che in vari modi si sforzano di formare un aggregato, adottando un’identità di gusti. Essi possono pervenire a raggrupparsi se attaccati in quanto gruppo, ma si tratta di una forma paranoide di organizzazione reattiva all’attacco; dopo la persecuzione gli individui tornano al loro stato di aggregato di isolati»[7]. Per questo motivo è necessario aspettare che il processo di maturazione avvenga, non ha alcuna importanza accelerare o rallentare tale percorso  di crescita e di cambiamento, è invece importante comprendere che, a causa e in virtù di tale percorso, l’adolescente  si formerà come una persona responsabile delle proprie scelte individuali e sociali, si educherà a divenire cittadino di società civili, democraticamente costituite[8].
La scuola ha un ruolo fondamentale per la maturazione di questo processo. La scuola, in quanto parte dell’ambiente di riferimento per lo sviluppo adolescenziale, ha una responsabilità primaria, in continuazione del ruolo svolto dalla famiglia fino alle seconda infanzia, per la presa in carico, per la guida e per l’orientamento della vita di un adolescente. Proprio oggi, agli inizi degli anni Duemila, lo strapotere mediatico dei mezzi di comunicazione potrebbe far pensare ad una usurpazione del territorio educativo. Gli adolescenti occidentali usano internet, scrivono sui blog, vivono la loro vita per delega scambiando-si messaggi con sconosciuti interlocutori nel tempo “reale” della conversazione sincrona. Educa chi esercita il potere, conduce verso nuovi territori l’improvvido esploratore colui che esercita una guida più vigorosa o più affascinante o solamente più seducente. I mezzi di comunicazione, televisione, cellulare e internet, hanno questa funzione ammaliatrice. Non se ne può fare a meno, vanno dominati per non far-si sopraffare. La comunicazione che veicolano è virtuale, è intrigante, è vera,  ma non è autentica. I mezzi sono governati dal Potere e sono ingovernabili dagli individui. Gli adolescenti sono i più esposti alla dominazione di tutti i mezzi che riempiono la loro vita digitale.

2. Il compito della scuola: tra educazione e formazione
La scuola assume, allora, un ruolo fondamentale nel contesto delle agenzie educative. Non i mezzi di comunicazione, non il gruppo dei pari, non la famiglia, o non solo. Alla scuola spetta il compito arduo, ma elevato, dell’educazione e della formazione dei soggetti attraverso e con i saperi evocati dalle discipline e trasmessi attraverso di esse.  Come Morin, ben attesta, nella famosa trilogia che ha visto giungere a maturazione il pensiero sulla complessità del famoso sociologo francese, il fine della scuola è quello di formare una testa ben fatta anziché una testa ben piena: «La prima finalità dell’insegnamento è stata formulata da Montaigne: è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena»[9]. Parafrasando il famoso detto di Montaigne, ripreso anche da una altro insigne pedagogista francese, Gaston Mialaret, la scuola ha di fronte a sé la sfida più importante della contemporaneità:  organizzare una riforma dell’insegnamento che conduca ad una riforma delle conoscenze, per giungere ad una riforma del  pensiero.
Tuttavia, la riforma del pensiero deve condurre alla riforma delle conoscenze per poter giungere ad una riforma dell’insegnamento[10].  La circolarità dialogica delle riforme enunciate ne evoca la centralità per la vita umana. L’educazione è il vettore, il dispositivo, il cardine e il luogo generatore della riforma del pensiero, delle conoscenze e dell’insegnamento.  In tutto il testo di Morin il concetto di educazione viene assimilato a quello “continentale” di formazione. Afferma Morin, sulla scorta dell’insegnamento di Durkheim, ma in analogia al pensiero pedagogico tedesco e italiano che si innesta sulla tradizione della Bildung: «L’oggetto dell’educazione non è dare all’allievo una quantità sempre maggiore di conoscenze, ma è “costituire in lui uno stato interiore profondo, una sorta di polarità dell’anima che l’orienti in un senso definito, non solamente durante l’infanzia, ma per tutta la vita”»[11].
  L’educazione trasforma le informazioni in conoscenza e la conoscenza in sapienza. La sapienza, la saggezza, la conoscenza e l’equilibrio a cui deve tendere la forma dell’uomo costituiscono la formazione umana dell’uomo. Dunque la scuola, luogo del passaggio delle conoscenze, della trasformazione dei saperi, deve farsi centro propulsore per  il raggiungimento di quella conoscenza sapienziale che è bagaglio specifico di ogni vita umana che si prepari ad essere vita degna e capace della solidarietà umana, della cittadinanza democratica,  della comprensione della natura ecologica. «Si dovrebbe così poter aiutare gli adolescenti a muoversi nella noosfera (mondo vivente, virtuale e immateriale, costituito da informazioni, rappresentazioni, concetti, idee, miti che dispongono di una relativa autonomia pur dipendendo dalle nostre menti e dalla nostra cultura); aiutarli a instaurare la convivialità con le proprie idee, senza mai scordare di mantenerle nel loro ruolo mediatore, impedendo loro di identificarsi con il reale. […]. L’allievo deve sapere che gli uomini non uccidono soltanto nella notte delle loro passioni, ma anche al chiarore delle loro razionalizzazioni»[12].
La galassia dell’educazione può essere attraversata e indagata a partire dai concetti di inculturazione, apprendimento, formazione. L’inculturazione permette al bambino di entrare a far parte del gruppo sociale di appartenenza. Le pratiche quotidiane di vita sono pratiche di inculturazione per il bambino che deve imparare a far parte della propria famiglia o del proprio gruppo di amici o della prima classe della scuola materna. L’apprendimento è l’educazione che ogni docente pensa sia in carico al fine dell’esistenza stessa della scuola, per ogni ordine e  grado.  Come Morin indica, però, gli apprendimenti non possono esaurirsi nel racconto delle discipline che riassumono il sapere e la conoscenza umana e biologica del mondo della natura. Infatti, gli apprendimenti diverranno saperi e questi diverranno sapienza, cioè formazione umana dell’uomo, se e solo se l’adolescente avrà l’opportunità di arrivare a comprendere che il proprio percorso scolastico può rappresentare ed essere interpretato come una sorta di apprendistato alla vita, un percorso di formazione umana, dove la capacità di guidare trasmigra dal docente al sé medesimo dell’allievo. La formazione umana dell’uomo è il livello più elevato a cui può tendere l’educazione dell’uomo. Non conformazione ad un modello, ad una legge, ad un decalogo sociale, ma interpretazione e comprensione personale della possibilità di auto.dirigersi, di auto-orientarsi nel mondo, nel cosmo, nella vita.
La necessità della connessione fra le discipline, fine metodologico del lavoro del docente,  si associa al fine dell’educazione scolastica: insegnare ad apprendere la capacità di formar-si implica la creazione di un pensiero globale che possa vedere l’uomo come un tutto, olisticamente compreso nell’universo, ma anche eticamente compreso nel proprio ruolo sociale ed umano, appunto. «Un modo di pensare capace di interconnettere e di solidarizzare delle conoscenze separate è capace di prolungarsi in un’etica di interconnessione e di solidarietà tra umani. Un pensiero capace di non rinchiudersi nel locale e nel particolare, ma capace di concepire gli insiemi, sarebbe adatto a favorire il senso della responsabilità e il senso della cittadinanza»[13]. La riforma del pensiero, morenianamente condotta, si stabilisce sulla triplice frontiera della riflessione per l’esistenza umana, per la valenza etica delle scelte morali e per lo spessore politico-civile della responsabilità civica.
Alla scuola è in carico la riforma del pensiero. Non qualcuno fuori dalle mura della classe deve attivare la riforma del pensiero, ma ogni docente che si trovi di fronte ad un singolo ragazzo, come a una classe di trenta allievi, da guidare verso la propria formazione umana dell’uomo. Ogni adolescente lasciato indietro, lasciato andare via, abbandonato e messo a disagio rappresenta una sconfitta  professionale e umana.  I ragazzi non lasciano gli studi, non interrompono i loro percorsi scolastici, non abbandonano le classi e i banchi. Siamo noi  adulti, genitori, insegnanti che li lasciamo andare. Come Morin afferma: per una riforma della scuola ci vuole una riforma del pensiero. Il pensiero è, però, la capacità critica di osservare i nostri ragazzi, lasciando i nostri saperi di adulti , dislocandoci verso gli altri, i ragazzi, assumendo costantemente la condizione dell’altro.

3.     La relazione e la comunicazione: interpretare il disagio
Il fenomeno dell’abbandono scolastico risulta molto complesso e si presenta come una costellazione di atti manifesti e non manifesti che gli adolescenti agiscono dentro l’istutuzione scolastica, ma anche all’interno della propria realtà familiare, che può opportunamente essere inserito nel contesto di un disagio scolastico personale, da parte del ragazzo e ambientale, da parte della scuola, che non è in grado di provvedere ad un benessere ecologico e relazionale. Dunque, non si può dare una definizione univoca di cosa sia l’abbandono, in primo luogo per la propria varietà interna e, in secondo luogo, perché è parte integrante di una realtà di costellazioni di fenomeni con i quali si connette e a cui, a volte, si sovrappone. Infatti la modalità dell’abbandono si può mascherare, sconfinando in altre forme di non frequenza scolastica. Tali forme possono essere individuate in evasione, assenteismo, scarso rendimento, disaffezione, incapacità di approfittare del legame di istruzione, selezione scolastica. In generale, nel caso dell’abbandono  intercorre un legame forte fra la bassa prestazione scolastica e il comportamento di drop-out.
Tuttavia, se può essere complesso analizzare il fenomeno dell’abbandono, per cui si rimanda alla letteratura specializzata in merito, è possibili elaborare, ai fini del presente lavoro, alcune riflessioni importanti. Una prima riflessione riguarda la definizione di abbandono scolastico e la conseguenza manifesta della sua evidenza. Si può abbandonare la scuola anche restando a sedere nel proprio banco, continuando a recarvisi ogni mattina: si resta in classe, ma l’incidenza della vita scolastica per gli obiettivi di vita degli adolescenti che manifestano un tale tipo di comportamento è assolutamente irrilevante. I ragazzi che agiscono un tale tipo di comportamento ritengono che nessuno possa prendersi cura di loro e, tuttavia, rimangono a scuola perché non vedono alternative alla loro esistenza.  Ci sono poi  coloro che, pur continuando a frequentare senza apparenti “problemi scolastici”, non ricevono dalla scuola nessuno stimolo formativo o intravedono nella scuola solo un disinvestimento emotivo all’impegno, quale unica soluzione per sopportare  la situazione esistenziale che nella scuola si è venuta a creare. Quanti sono i ragazzi che continuano a frequentare le aule senza interesse e senza motivazione alcuna? Il disagio ambientale che conduce ad un effettivo abbandono scolastico può essere attivato attraverso una svalutazione della scuola e dei suoi compiti formativi, oppure attraverso la percezione di essere completamente rifiutato dalla scuola stessa, fino a giungere all’associazione con gruppi di pari che, all’interno della scuola, sono coinvolti in attività devianti.
La domanda urgente che è necessario porsi è allora la seguente: «Chi abbandona chi?». Per rispondervi dovremo proprio operare la dis-locazione del nostro punto di vista di adulti, genitori e docenti e poter, così, introdurci alla comprensione dell’altro.
La relazione è il fondamento dell’essere. Il soggetto, l’individuo, la persona umana si dà in rapporto e in relazione all’altro significativo che lo interpella, che lo rende visibile ai propri occhi, che lo vivifica con la ricchezza del proprio sguardo. Ogni persona umana esiste in relazione agli altri. Il paradigma relazionale è ormai la chiave di lettura della condizione umana affermata da ogni scienza nel Novecento. Non solo la filosofia e la pedagogia, la psicologia e l’antropologia, come la sociologia hanno affermato il viraggio di prospettiva nella considerazione dei “fatti umani”, ma anche la fisica e la biologia, fra le scienze sperimentali e  così anche la matematica e la logica fra le scienze delle strutture, viventi e non, hanno individuato nella relazionalità il modello del darsi della vita stessa.
 Il soggetto, l’uomo, come afferma Morin[14], porta in sé l’alterità, «E’ perché il prodotto unitario di una dualità (riproduzione per scissione negli unicellulari, per incontro di due esseri di sesso differente nella maggior parte dei viventi) porta in sé l’attrazione per un altro ego. La comprensione permette di considerare l’altro non solo come ego alter , un altro individuo soggetto, ma anche come alter ego, un altro me stesso con cui comunico, simpatizzo, sono in comunione. Il principio di comunicazione è dunque incluso nel principio d’identità e si manifesta nel principio di inclusione»[15].  Morin rileva il fondamento stesso dell’uomo nell’altro uomo interpretando la lunga tradizione filosofica che da Buber a Ricoeur a Levinas ha illuminato gli studi sull’uomo e su tutte le sue forme di appartenenza.
 La relazione educativa è allora un buon punto di partenza, il punto di avvio di qualsiasi azione d’insegnamento e di apprendimento. Infatti gli apprendimenti non possono attuarsi in un contesto individuale, sempre si danno nella relazionalità pedagogica e nella reciprocità. L’apprendimento è fenomeno da uno a uno oppure di uno a molti, è sempre situato, è “fatto” sociale. Si apprende dall’altro, attraverso  l’altro, con  l’altro.
 Come gli studi sulla metacognizione hanno rilevato nell’ultimo decennio, si accede all’altro secondo il linguaggio della mente. La riflessività che ogni azione di insegnamento e apprendimento comporta dis-loca l’attività del docente. Come la madre coordina, attraverso àa responsività, l’insorgere nel proprio bambino dell’attività riflessiva, dell’attività di lettura del pensiero altrui, anche nella scuola gli apprendimenti avvengono attraverso questa peculiare attività umana. Il pensare l’altro comporta la possibilità di apprendere. Secondo Liverta Sempio: «Sono gli stati mentali, sia del discente che del docente, quali l’intenzionalità, la teoria della mente, la predisposizione a  capirsi l’un l’altro e a condividere l’esperienza, la corresponsabilità, a determinare i formati concretamente assunti del rapporto pedagogico. […]. Possiamo parlare di processi di insegnamento e apprendimento come di una forma di condivisione di stati mentali prima che di azioni, come di un incontro di menti»[16]. Tuttavia, anche questa interessante lettura dell’attività pedagogica scolastica di insegnamento e apprendimento sottolinea mirabilmente come sia alla base di tale attività la possibilità relazionale del darsi reciprocamente, fra docente e allievo, fra docente e allievi, fra allievi e allievi. Dobbiamo a Bruner[17] la riflessione sulle credenze, sull’intenzionalità, sulla teoria della mente che ogni educatore e, dunque, ogni docente, mette in atto in una condizione di insegnamento. Un esempio viene fornito, sempre in Liverta Sempio, che distingue gli apprendimenti in tre forme: l’apprendimento imitativo che implica nel discente «la capacità di riconoscere l’altro come “agente intenzionale” (“X sta tentando di fare…”), poiché solo se si è in grado di cogliere che cosa l’altro abbia intenzione di fare, quale obiettivo persegua, si diventa capaci di distinguere nel suo comportamento gli aspetti rilevanti da quelli  irrilevanti riguardo al proposito da conseguire»[18]. C’è, poi, l’apprendimento istruttivo in cui è necessario imparare a «pensare l’altro come “agente mentale” (“X pensa circa p”) , cioè come persona con idee e credenze su ciò che è da fare, poiché su tale base si può dar vita al confronto tra ciò che si pensa e ciò che pensa l’altra persona (l’insegnante) sullo svolgimento del compito»[19]. Un terzo esempio di modalità di apprendimento è quella identificata con la collaborazione. L’apprendimento collaborativo con i pari implica «saper pensare l’altro in qualità di “agente riflessivo”, vale a dire di persona il cui pensiero può avere come oggetto i pensieri e le intenzioni di un altro individuo (“X pensa che io penso che p…”). Possedere il concetto di persona  riflessiva pone l’individuo in grado di prendere in esame non solo il proprio e l’altrui pensiero, ma anche le critiche, gli interrogativi, le conferme e le elaborazioni che gli altri svolgono sul suo pensiero così come di capire che gli altri possono a loro volta riflettere sulle considerazioni che vengono mosse al pensiero che hanno formulato»[20].
La relazione educativa, che sta alla base del rapporto di insegnamento-apprendimento, ha dunque caratteristiche di solida reciprocità, in ogni direzione la si osservi, di stringente complementarietà e di autentica intersoggettività. Ogni apprendimento è conseguenza di una relazione così definita, dove il docente educa l’allievo in un contesto culturale e sociale che li informa entrambi e che entrambi trasforma. Il docente ha il dovere di porre in atto la reciprocità e la riflessività. Tuttavia, si situa nella relazione maestro-allievo la possibilità di mutare il rapporto educativo in rapporto formativo, dove l’incontro delle menti è preludio alla capacità di leggere il pensiero dell’altro, è preludio alla capacità di accogliere l’altro, è preludio alla possibilità di  ascoltare l’altro.
               L’abbandono scolastico si può leggere, allora, come interruzione di una reciprocità, come mancanza di una comunicazione autentica, come il venir meno del compito stesso della scuola:  consegnare all’altro, l’allievo, il bambino, l’adolescente, la possibilità di imparare a legger-si, a pensar-si, per costruire il proprio  e raggiungere il livello più alto della propria educazione/trasformazione. Lo spazio dell’incontro[21] cognitivo, affettivo, relazionale che ogni docente può attivare con i propri allievi non è determinato dalla quantità di apprendimenti che saranno messi in atto, ma dalla capacità di consegnare gli strumenti, ad ogni allievo, ad ogni adolescente per poter fare di quello spazio dell’incontro un luogo di formazione umana.  L’evasione scolastica, lasciare la scuola prima della fine del ciclo di studi, compiere numerose assenze, scaldare il banco, avere uno scarso rendimento sono forme di una rottura del patto educativo e formativo, sono forme dell’assenza di una reciprocità e di una complementarietà.  Ogni azione educativa e formativa si fonda sullo scambio di reciprocità esistenziali, umane, storiche e sociali. Ogni azione di insegnamento non può essere la riproduzione  di un copione di vita estraneo ai soggetti che lo agiscono. La relazione e la comunicazione educativa possono essere validi strumenti per interpretare il disagio scolastico e adolescenziale  a partire dal cambiamento delle cornice, cioè della matrice di pensiero di riferimento che, al modo di Bateson, sta alla base di ogni comprensione umana e sociale.
           
4.     Comunicare nella scuola: l’ascolto e l’empatia
Analizzare i processi comunicativi propri della scuola risulta alquanto complesso, ma veramente molto importante per la qualificazione della relazione educativa e per il sostegno di tutta l’attività dei processi di insegnamento-apprendimento. Forse potremmo affermare che tale attività non potrebbe avvenire senza una adeguata possibilità comunicativa. La comunicazione della disciplina passa attraverso la comunicazione di sé all’altro e ciò è un sine qua non della professionalità docente. Dall’ingresso in classe ad ogni azione svolta in aula, solo per delimitare uno fra gli ambienti ecologici dell’insegnamento, la comunicazione verbale e non verbale  esprime l’essenza dell’umanità che contraddistingue ogni docente. La comunicazione è la condizione che ci costituisce in rapporto agli altri significativi. Afferma Rogers: «Provo un senso di soddisfazione quando posso arrischiarmi a comunicare la mia reale essenza ad un altro. La cosa è tutt’altro che facile, anche perché ciò che sto sperimentando è in costante fase di trasformazione. Di solito vi è un ritardo, talora di pochi istanti. Qualche volta di giorni, settimane o mesi, tra il momento dell’esperienza e quello della comunicazione; sperimento qualcosa, provo qualcosa, ma solo in un secondo tempo oso comunicarlo. […]. Ma quando posso comunicare ciò che in me è autentico nel momento in cui accade, allora mi senti genuino, spontaneo, vivo»[22].  Rogers esprime in maniera particolarmente efficace l’importanza della comunicazione per i processi di apprendimento, tanto da dedicare a questo fine parte dei suoi scritti. Si preoccupa, soprattutto, della creazione di un ambiente scolastico dove l'accettazione dell'altro, la comprensione e il rispetto sono le forme più immediate per il sostegno degli apprendimenti. Non si apprende impegnando solamente la parte cognitiva o razionale della mente, si apprende con l’impegno del corpo, della mente, delle emozioni e degli affetti. L’attenzione ai processi comunicativi globali significa attenzione per la persona umana nella sua globalità: l’allievo arriva a scuola con il proprio bagaglio di ansie e angosce, si siede nel proprio banco carico delle emozioni della sua crescita. La scuola è, forse, rimasto uno dei luoghi dove ancora il soggetto, l’adolescente viene riconosciuto per la manifestazione delle proprie capacità e non del proprio sentire.
L’attenzione ai processi  di apprendimento e insegnamento come processi comunicativi implica la comprensione del soggetto nella sua essenza più profonda, più piena, più radicale. L’adolescente, come ogni bambino e ogni ragazzo, porta a scuola il proprio compito evolutivo di crescita emozionale e di crescita cognitiva: l’uno non si dà senza l’altro, l’uno non procede di pari passo all’altro. Tuttavia, l’uno si accompagna sempre all’altro. Un allievo, prima di essere tale è una persona umana che sente, che prova amore, che prova odio e attraverso i sentimenti comprende l’altro, il proprio insegnante, le discipline, i saperi. Nel precedente paragrafo veniva richiamata l’attività della mente che dispiega credenze, intenzioni, volontà; la mente pensa i sentimenti e sente le emozioni, comunica attraverso il corpo gli affetti e le passioni.
In primo luogo, attraverso la comunicazione il docente deve saper interpretare il proprio disagio o la propria gioia nella classe. Deve saper raggiungere la propria conoscenza di sé se desidera attivare un clima di classe dove la comunicazione possa essere veicolo di benessere e solidale relazione educativa.
In secondo luogo, attraverso la comunicazione può raggiungere un sapere dei propri allievi che lo collochi accanto e non di fronte o contro ciascuno di loro.
In terzo luogo, come afferma Fratini[23], deve saper riconoscere le dinamiche di gruppo che tante volte ostacolano il lavoro di classe.
La comunicazione in classe può essere letta attraverso due processi che la rendono profonda e autentica, tramite i quali è possibile svelare gli aspetti più reconditi del sé dei soggetti interlocutori. L’ascolto, da una parte e l’empatia, dall’altra, sono gli aspetti della comunicazione che ci permettono di costituirla come un prezioso strumento per la professione docente.  Rogers è stato uno dei primi autori che ha applicato l’attività di ascolto comunicativo all’attività di insegnamento. «Il primo semplice sentimento che vorrei parteciparvi è la gioia che provo quando posso realmente ascoltare qualcuno. […]. Quando dico che gioisco nell’ascoltare qualcuno, intendo naturalmente un ascolto profondo. Voglio dire che presto attenzione alle parole, ai pensieri, ai toni sentimentali al significato personale e anche al significato che è sotteso all’intenzione cosciente di colui che parla. Inoltre, qualche volta sento, in un messaggio che superficialmente non è molto importante, un profondo lamento umano che giace sconosciuto e sepolto molto al di sotto della superficie della persona»[24]. Le parole di Rogers sono emblematiche proprio del significato e della modalità attraverso cui poter imparare ad ascoltare.  L’ascolto profondo necessita di predisposizione autentica verso l’altra persona che possa far risuonare i significati del sentire, nascosti anche a colui che li prova. L’ascolto profondo implica una donazione di sé nel momento in cui ci si predispone verso l’altro, non necessariamente con il silenzio, ma anche con la parola. Ascoltare gli allievi vuol dire dargli la possibilità di essere riconosciuti come esseri umani, degni di attenzione. Tutti noi proviamo una gioia viva quando siamo ascoltati dagli interlocutori. Tanto più ciò avviene nel caso di un rapporto comunicativo dove la disparità del potere implica che la comunicazione non sia mai simmetrica, ma sempre complementare.  L’ascolto profondo permette di accantonare i problemi che l’ansia spesso attiva nei confronti della relazione con il docente. Se il tono dell’ansia accenna a  diminuire, allora la mente è più libera per avviarsi ad apprendere. L’ascolto conduce ad una condizione di libertà nei confronti dell’altro, dove altre energie possono essere messe in campo per il lavoro intellettuale.
Creare un clima di classe dove è possibile ascoltare significa far circolare una comunicazione autentica, congruente ed empatica. Il richiamo a questi tre  gradi della comunicazione significa, per Rogers, il richiamo all’ascolto della persona nella sua globalità, significa il riconoscimento dell’essere con i problemi e le manchevolezze che lo contraddistinguono. In un fortunato testo del 2001, Crepet[25] richiamava gli adulti alle proprie responsabilità educative affermando la nostra più totale incapacità all’ascolto dei ragazzi. E’ difficile ascoltare i nostri ragazzi, poiché ciò implica ascoltare soprattutto noi stessi, implica dar-si all’altro nella comprensione più totale, mettendo da parte, il nostro io.
  In un bel testo di critica letteraria Bachtin[26] traccia alcuni utili appunti per la comprensione dell’ascolto profondo di contro all’ascolto passivo. Alla base dell’ascolto attivo c’è il principio dialogico della circolarità comunicativa. Non è il parlante che determina il significato dell’enunciazione, ma è l’ascoltatore che orienta la comunicazione profondamente autentica nella libertà della parola. La dimensione dell’ascolto profondo è polifonica poiché attiva sempre un’interazione di reciprocità fra soggetti che hanno una medesima dignità e un medesimo accesso all’utilizzo della parola dialogata. Ascoltare profondamente non significa “andar d’accordo” con l’interlocutore, significa aver la capacità di gestire creativamente anche il più aspro conflitto.
Ascoltare profondamente non implica seguire delle regole, implica aprirsi al mondo della possibilità e ai mondi del possibile, cioè del pensiero che diverge e si allontana dai sentieri della consuetudine. Ascoltare è un’arte che si può imparare ad esercitare a partire da un cambiamento interiore. Implica l’esercizio dell’attenzione e del sentire l’altro al posto di sentire solo se stesso.
Con l’ascolto ci si predispone ad esercitare anche l’empatia che da esso non è mai disgiunta. L’empatia è quello stato della comunicazione interpersonale tramite il quale possiamo raggiungere la conoscenza dell’emozione altrui attraverso un recupero della nostra personale memoria della medesima emozione. Arduo è l’esercizio dell’empatia che ci fa raggiungere nella comunicazione cognitiva, affettiva ed emotiva, la consapevolezza di noi stessi e dei nostri interlocutori. L’empatia implica, innanzitutto, l’esercizio dell’attenzione alle emozioni altrui, ai tratti del volto dell’altro che tradiscono i sentimenti più intimi. L’atto di empatia non è però la violazione dello spazio di libertà, anzi implica proprio la conservazione del territorio di sacralità dell’altro. In classe, il docente deve attivare un atteggiamento empatico se desidera che la situazione educativa promuova apprendimenti significativi, per questo infatti è necessario che il clima di classe sostenga i bisogni nascosti di ogni allievo.


5.     L’arte del dialogo e del sostegno
La comunicazione educativa che coordina gli atti con le parole e gli atteggiamenti con le ingiunzioni favorisce la creazione di un clima di classe favorevole ad accettare la reciprocità e la comprensione delle situazioni più difficili. Quando il dolore psichico e la tristezza minacciano le relazioni e i rapporti fra il docente e l’allievo, quando l’angoscia per la situazione di un’esistenza  scomposta annulla la possibilità di stare seduto in un banco di scuola, non sono sufficienti teorie e modelli educativi. Il docente è solo con il proprio allievo. In tal senso la circolarità della parola, la capacità dell’ascolto, la pratica dell’empatia divengono aspetti di un’arte che richiede la creatività del pensiero, la disponibilità della persona, il dono di sé. Nancy afferma che ogni persona umana declina il proprio clinamem verso l’altro in una continua trasformazione dei legami e degli scambi reciproci, fondati sempre sul dono della parola.. Comunicare è un’arte della vita, è l’arte della vita che sostiene le esistenze.
A scuola è molto difficile riuscire ad investire sull’arte della comunicazione, eppure potrebbe essere il luogo dove gli adolescenti potrebbero veramente imparare a costruire percorsi e non solo a vedere i fini. Dove potrebbero  sperimentare quotidianamente il senso del dialogo e la verità delle emozioni. Dove si potrebbe imparare a guardare, a vedere, a sentire ciò che si nasconde dietro alle apparenze più accreditate. 
Sostenere la crescita degli adolescenti significa imparare a dis-locare il proprio punto di vista, per accogliere il loro, significa tendere la propria persona versi i segnali più insignificanti e fastidiosi, marginali e irritanti perché incongruenti con le proprie certezze. Sostenere l’arduo percorso di un adolescente vuol dire accogliere i paradossi del pensiero e della comunicazione, affrontando i dissensi e il conflitto attraverso la sua gestione creativa. Sostenere il cammino scolastico di un ragazzo che vuol abbandonare la scuola o che lo ha già fatto, mettendosi da parte, vuol dire abbandonare il proprio punto di vista per assumere l’altrui e, soprattutto, considerare la sua ragione e la sua prospettiva.
Il sostegno e l’ascolto, attraverso il dialogo, sono il segno dell’impegno personale di colui che li manifesta, sono il segno di una passione profonda e di una volontà radicale di trasformazione personale. Continua, sempre.








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[1] Laing  R.D., L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, (1959), Torino, Einaudi, 1999,  p. 15.
[2] Ibidem.
[3] Per i testi più recenti si rimanda ai riferimenti bibliografici al termine del presente testo.
[4] Winnicott D.D. La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, (1965), Roma, Armando,  1996¹², pp. 107-118.
[5] Bateson G. Verso un’ecologia della mente, (1971), Milano, Adelphi, 1977.
[6] Bettelheim B., Un genitore quasi perfetto, (1987), Milano, Feltrinelli, 1987.
[7] Winnicott D.D.,  La famiglia e lo sviluppo dell’individuo, op. cit ,  pp. 109-110.
[8] Ibidem, p. 108.
[9] Morin E., Una testa ben fatta, (1999), Milano, Raffaello Cortina, 2000,  p. 15.
[10] Ibidem, p. 13.
[11] Ibidem, p. 45.
[12] Ibidem, pp. 52-53.
[13] Ibidem, p. 101.
[14] Morin E., Una testa ben fatta, op. cit., p. 132.
[15] Ibidem.
[16] Liverta Sempio O., L’abbandono scolastico: alcuni punti di riferimento, in Liverta Sempio O., Confalonieri E., Scaratti G. ( a cura di), L’abbandono scolastico. Aspetti culturali, cognitivi, affettivi, Milano, Raffaello Cortina, 1999, p. 29.
[17] Bruner J, La ricerca del significato, (1990), Torino, Bollati Boringhieri, 1992; Id., La cultura dell’educazione, (1996), Milano, Feltrinelli, 1997.
[18] Liverta Sempio O., L’abbandono scolastico: alcuni punti di riferimento, op. cit.,  p. 31.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem, p. 32.
[21] Ibidem, p. 36. Il concetto di spazio dell’incontro ben illumina la relazione educativa nella classe. Sono gli insegnanti che possono o meno costruire lo spazio dell’incontro con gli allievi e, ancor prima, rendersio dispsonibili  per tale costruzione.
[22] Rogers  C.R., Un modo di essere, (1980), Firenze, Martinelli, 1993, p. 20.
[23] Fratini C., La dimensione comunicativa, in Cambi F., Catarsi E., Colicchi E., Fratini C., Muzi M., Le professionalità educative. Tipologia, interpretazione e modello, Roma, Carocci, 2003,  67-94.
[24] Rogers  C.R., Un modo di essere, op. cit., p. 13.
[25] Crepet P., Non siamo capaci di ascoltarli, Torino, Einaudi, 2001.
[26] Bachtin M., L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi, 1988.





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