Il mondo degli affetti
L'aspetto della vita di coppia
che più si è modificato in relazione ai cambiamenti più generali della nostra
società è certamente quello relativo alla indissolubilità del rapporto.
Il matrimonio che dura tutta la
vita non è più la norma e, stando alle statistiche, si può affermare che, anche
in Italia, una consistente parte della popolazione fa l'esperienza della
separazione e del divorzio.
La psicologa D.
Francescato, nel suo libro "Quando
l'amore finisce", afferma che le motivazioni principali verso la
separazione, sembrano rientrare in tre grandi categorie, che possono coesistere
nella stessa coppia, benché alcune prevalgano in certi tipi d'unione: la
delusione nei confronti del partner e del rapporto; le limitazioni nei confronti
della crescita personale; rapporti sessuali insoddisfacenti. Ci sono rapporti
che finiscono perché i partner diventano troppo critici l'uno dell'altro,
litigano molto frequentemente, scoprono nell'altro difetti di cui non si erano
accorti, si sentono traditi nella fiducia riposta. Alcuni rapporti finiscono
perché sono vissuti come oppressivi e limitanti nei confronti della crescita
personale; uno od entrambi i partner sentono d'essere cambiati e
maturati, di avere altri bisogni e desideri ed un altro modo di concepire la
vita. Altri matrimoni terminano perché è subentrata una forte insoddisfazione
nei rapporti sessuali, considerati troppo scarsi o abitudinari; oppure perché è
subentrata una relazione extraconiugale.
Fatta tale premessa, il nostro
punto di partenza non può essere che descrittivo e cioè la rilevazione della
fragilità e della precarietà dell’esperienza affettiva nel mondo contemporaneo
occidentalizzato. Ciò che più sinteticamente colpisce è la crescente difficoltà
all’esistenza di “storie d’amore”.
Ciò di cui l’amore oggi sempre
più raramente è capace è proprio di “avere storia”, di durare nel tempo, di
farsi costruzione e quindi dimora per gli uomini.
Nella modernità
due sono le idee erotiche prevalenti. La prima interpreta l’amore come una forza irrazionale egoistica che separa
gli uomini. È la posizione di Hobbes e di Nicole, secondo cui gli uomini sono
preda di un “amor proprio” incapace di aprirsi veramente all’altro e che per
questo pone la ragione al suo servizio, come calcolo delle convenienze e
rimedio degli inconvenienti del conflitto inevitabile.
Kant riscatta la
ragione da questa subordinazione all’amor proprio, ma tiene ferma l’idea che
l’affettività è forza irrazionale esterna ed estranea all’ordine razionale.
La seconda idea direttrice è quella romantica,
che afferma invece la potenza unitiva dell’amore,
intesa come forza arazionale capace
di fondare le esistenze in un’unità superiore.
All’inizio non è la dualità
distinta dell’uomo e della donna – secondo il racconto della Genesi -, ma l’unità indistinta di un
essere onnipotente e terribile, che nella condizione della separazione
(decretata da Zeus per punire la sua arroganza) va spasmodicamente ricercando
il suo ricongiungimento.
Nelle idee
moderne dell’amore qualcosa dell’antica
sapienza va irrimediabilmente perduto. Tre sono i criteri, che abbandonati,
determinano una variazione profonda d’orientamento nell’esperienza e nella
concezione dell’amore.
Anzitutto, –
come manifesta il carattere comune alle due idee moderne citate –
l’eliminazione della sinergia di
desiderio e conoscenza, di tendenza e ragione, d’intelletto e volontà, e
quindi la separazione del mondo degli affetti dal mondo della valutazione
razionale, da cui derivano altre due perdite irrimediabili: la perdita del fine e quella della gradualità.
Se, infatti, la tendenza non è intrisa di intelligibilità, neppure ha un fine
intelligibile in cui essa trovi la sua realizzazione; ma sarà necessariamente
concepita come un’energia cieca, senza scopo e senza spazio per una libera
decisione, ineluttabile.
Non solo, ma se non vi è un logos degli affetti, non potrà darsi un’identica ragione degli
affetti che possa trovare differenti figure e momenti (amore sessuale, amore
parentale, amore d’amicizia, amore civile, ecc.). La tendenza avrà sempre un
unico e costante significato, come un’energia meccanica qualificata solo dalla
sua intensità.
Certamente, questi richiami non
risolvono tutti i problemi, perché resta sempre vero il carattere enigmatico dell’amore, che nell’esperienza universale
presenta insieme il carattere della potenza che s’impone all’uomo e lo trascina
e, insieme, quello della sua libera iniziativa; quello dell’autoaffermazione e,
insieme, dell’esaltazione dell’altro.
Si direbbe che ogni vicenda
amorosa sia in concreto la gioiosa e sofferta ricerca della conciliazione dei
suoi aspetti contrari.
Fasi dell'esperienza amorosa
Tipicamente, si è detto, l’amore nasce dall’innamoramento. La prima esperienza dell’amare ha il carattere
dell’evento subitaneo, spontaneo ed estatico. È un accadimento che
improvvisamente sorprende, all’insaputa dello stesso interessato, che si trova
coinvolto in una situazione nuova, in cui gioca un ruolo primario la
spontaneità attraente del rapporto. Nella prospettiva dell’innamoramento
l’amare appare come una fascinazione che
crea attrazione e tensione volta alla
soddisfazione. La sanità
dell’innamoramento stesso dipende per questo dall’unità dinamica di questi
momenti; la loro separazione, infatti, dà luogo a forme unilaterali e
tendenzialmente patologiche. In tal modo l’innamoramento si raccorcia in forme
di narcisismo, che gli impediscono di evolvere – come vedremo – nella pienezza
dell’amore.
Estasi
e movimento insieme
caratterizzano l’innamoramento, che è già esperienza dell’intenzionalità
centrifuga dell’amore, che si porta sull’essere dell’altro, benché
nell’innamoramento sia tipico anche il fatto che tale movimento verso l’altro
sia fortemente compensato e limitato dall’attesa di corrispondenza: l’altro
affascina con spontaneità e con altrettanta spontaneità è attesa la
soddisfazione, cioè il piacere della relazione corrisposta.
L’attrazione che l’uomo prova per
la spontaneità è infatti indice del radicale desiderio di una condizione
trasfigurata dell’esistenza, in cui il rapporto del soggetto con sé, con altri
e con le cose sia senza resistenza e senza fatica, ma di plastica armonia e di
piena comunione. Proprio perché l’intensità del piacere della spontaneità è
tanto forte, esso è facile fonte di seduzione: la relazione ad altri viene
commisurata all’aspettativa della spontaneità e dunque all’attesa della sua
facile corrispondenza e della sua immediata piacevolezza. Se non si innesta un
movimento qualitativamente diverso, nell’innamoramento l’apertura all’altro
resta inevitabilmente limitata all’aspettativa della sua immaginata
soddisfazione.
La concezione romantica
dell’amore è la teorizzazione e la glorificazione della spontaneità come
contrassegno e garanzia dell’amore; contro l’evidenza universale che in realtà
nulla nell’esistenza umana è produttivo e fruttuoso senza un’elaborazione che,
trasformando il dato iniziale, lo conserva e lo accresce. Il lavoro, e non la spontaneità, è la
condizione universale della valorizzazione dei beni. Nulla dà frutto senza
coltivazione.…
“L’essenza dell’amore è ‘lavorare
per qualcosa’, ‘far crescere qualcosa’, […] amore
e lavoro sono inseparabili. Si ama ciò per cui si lavora, e si lavora per
ciò che si ama”.
Con queste parole di E. Fromm
ritroviamo la prospettiva costruttiva sull’amore, di cui già si diceva.
L’innamoramento è
un’assegnazione, meglio un trovarsi assegnati a un ideale di felicità. L’amore
invece non è un accadimento involontario, bensì è il frutto di un lavoro, con
tutto ciò che questo termine significa.
Il lavoro è impiego di risorse
nella cui produttività si confida per raggiungere nuova e maggiore ricchezza
attraverso elaborazione e collaborazione.
Nel caso dell’amore esso
significa che il dato spontaneo di partenza diventa oggetto di una
trasformazione collaborativa, sulla base della premessa che anche l’altro sia
portatore di una ricchezza che può essere messa in comune.
Certo il binomio di spontaneità e di lavoro può apparire antitetico, nel
senso che da un lato sembra stare l’immediatezza della corrispondenza e della
soddisfazione, mentre dall’altro sembra imporsi un processo di scambio e di
impegno che significa anche resistenza, fatica, rischio. Se le cose stessero
veramente così, si dovrebbe concludere che è preferibile la piacevolezza
spontanea dell’innamoramento, seppur fragile e breve, alla durata laboriosa (e
quindi in fondo penosa) dell’amore!
È difficile negare che questo sia
un pensiero comune molto diffuso, come si riscontra nel detto secondo cui “il
matrimonio è la tomba dell’amore”. Ma dal nostro punto di vista il detto è vero
solo se per amore si intende quello “romantico”; così come è vero il suo
simmetrico, secondo cui si potrebbe dire che l’amore romantico è la tomba del
matrimonio.
L’equivoco fondamentale cade
sull’idea di lavoro, di cui non si apprezza l’essere fonte straordinariamente
ricca di legame e di soddisfazione, anzi l’unica fonte di soddisfazione vera e
propria, rispetto a quella piuttosto solo intuita nell’innamoramento.
Il lavoro non è perciò il momento
penoso che succede all’entusiasmo iniziale, ma ne è piuttosto la ripresa che lo
può far fruttificare: è avviato dalla fiducia nel possibile frutto ed è
sostenuto dal gusto e dal piacere della sua stessa costruttività.
L’esperienza dell’innamoramento è
per sua natura solo introduttiva a quella più grande dell’amore. Questo è reso
manifesto dal problema del tempo,
vale a dire dall’interrogativo sulla durata dell’affezione. L’innamoramento,
che già si gratifica dell’esperienza dell’attrattiva, della spontaneità dello
slancio e forse dell’iniziale corrispondenza, è però un accadimento che non ha
in se stesso il suo senso. L’innamoramento è uno stato inaugurale ed una
condizione aurorale, che porta in sé l’interrogativo sulla sua durata, e perciò
l’ansia della sua continuazione. Ma a questa sua urgenza l’innamoramento - con
le sue sole risorse - non può rispondere che in due modi, tipici della
mentalità contemporanea: la sua indefinita iterazione
(è il criterio del don Giovanni), attraverso cui l’innamoramento cerca di
perpetuare se stesso riproducendo continuamente la felice situazione di “statu
nascenti”; oppure, o insieme, la sua consumazione
attraverso un’unione che immediatamente accompagni l’innamoramento stesso
(è il caso sempre più spettacolarizzato della coincidenza di innamoramento e unione
sessuale), quasi a volersi convincere che il punto di partenza è già subito
anche il punto di arrivo e che quindi l’innamoramento è sufficiente a se
stesso.
In realtà, quello che si consuma
è un errore di prospettiva.
Con l’amore si esce così dalla situazione
della tensione estatica e si entra in quella dell’azione comune; in altri
termini con l’amore si esce dal regime della dualità unificata e si entra in
quello dell’unità duale.
Con un’immagine potremmo dire che
se l’innamoramento è assimilabile alla concezione e alla gestazione dell’altro
dentro di sé, l’amore rassomiglia invece alla nascita in cui l’altro è posto/si
pone in relazione sulla base della sua irriducibile e manifesta identità. E,
come fa intendere la figura dinamica del concepimento/nascita, l’innamoramento
è per sua natura a termine, superato il quale da situazione vitale diventa
circostanza mortale, mentre l’amore ha la natura intima della perpetuità.
L’innamoramento porta in sé il germe dell’amore, ma questo può crescere e
maturare solo se l’innamoramento accetta la sua legge evolutiva e non le fa
violenza … innamorandosi narcisisticamente di se stesso.
Dobbiamo allora ribadire il carattere originario della bipolarità di
innamoramento ed amore. Questa è probabilmente la struttura del mondo
affettivo come tale; cioè del mondo della relazioni umane, che sono sempre
relazioni d’amore. Tale struttura è più evidente nella relazione sessualmente
rilevante del maschile-femminile, ma vale in modo analogico ai diversi livelli
e ambiti dell’esperienza.
Innamoramento e amore restano
momenti distinti e irriducibili, ma anche correlati. L’uno non abolisce
l’altro, né gli si può sostituire, ma, forse,
neppure l’uno deriva dall’altro, quasi il primo fosse la premessa e il
secondo ne fosse il compimento. Piuttosto bisogna pensare, quasi a rovescio,
che l’innamoramento introduce un’intuizione globale felicitante che l’amore
coltiva e mette a prova nella sua capacità di portare beneficio concreto per i
soggetti coinvolti nella relazione.
Se l’innamoramento ha un
carattere prevalentemente estetico, l’amore ne ha uno principalmente agonico.
La razionalità
L’energia di trasformazione che agisce nel lavoro dell’amore è il giudizio.
Qui si evidenzia l’importanza –
già sottolineata – di non separare il mondo degli affetti dalla valutazione. La
metamorfosi dell’innamoramento, infatti, avviene via via che esso si lascia
illuminare e soppesare dal giudizio della ragione, avvertita non come tribunale
esterno e misura estrinseca dei sentimenti, ma come interprete autorizzato del
senso degli affetti. Infatti, mentre il sentimento registra la reazione
soggettiva dell’affezione, non potrebbe fare altrimenti, è la ragione che è in
grado di leggervi una finalità e quindi di suggerire un cammino.
Il fine che la ragione coglie nel
sorgere di un’affezione è un tendere a/portarsi su l’essere dell’altro, ciò che
la ragione vede, giudicando, è il senso della relazione affettiva, non solo
come attesa della propria soddisfazione, ma anche e prevalentemente come affermazione dell’essere dell’altro.
La meraviglia dell’amore sta
proprio nel fatto che accada l’unità dei due, cioè la loro co-affermazione
della loro sinergia. L’energia del lavoro relazionale è dunque un giudizio che
la ragione formula, interpretando ciò che è in gioco nell’interazione. Tale
giudizio potrebbe essere espresso così: ‘io gioisco perché tu sei’. Questa
formula evidenzia il termine autentico della relazione, appunto l’essere
dell’altro, senza giungere al quale ancora non c’è amore nella sua piena e benefica
realtà. Ciò che la ragione – ed essa sola - comprende è, infatti, che già l’innamoramento è portatore di
un’intenzionalità ontologica, che inaugura la possibilità dell’amore e ne
indica tutta la vera sostanza. L’amore comincia, allora, quando l’innamoramento
è guardato con gli occhi del giudizio, che rende l’affetto capace di
comprendere chi esso abbia inaspettatamente ospitato e lo mette in grado di
compiere un atto di apprezzamento radicale non nei confronti di qualcosa
dell’altro, ma dell’altro come tale, cioè dell’accadimento della sua esistenza,
in un atteggiamento di ammirazione (in cui è recuperata ad un livello superiore
l’estaticità dell’innamoramento) e di comunicazione operativa. Infatti,
quell’impresa cooperativa, che è l’amare, non potrebbe nascere che
dall’apprezzamento del valore e delle risorse che l’esistenza dell’altro
comporta, in altri termini da un atto di fiducia nelle potenzialità della sua
esistenza, che si fa volontà di collaborazione.
Si tocca qui un punto di primaria
importanza non solo per il tema dell’amore, ma per ogni aspetto
dell’antropologia.
La tendenza spontanea
dell’antropologia moderna, infatti, è di identificare il soggetto con le sue
operazioni. Questo operazionismo (che
può essere sia idealistico sia materialistico) apparentemente esalta la
soggettività, perché mette in primo piano l’iniziativa e l’attività dell’uomo,
ma in realtà conduce alla sua falsificazione, perché è fondato su un errore.
Nessun ente finito, infatti, può
essere il suo operare, perché, se coincidesse pienamente con il suo divenire,
la sua consistenza sarebbe alla mercé del susseguirsi dei differenti stati; in
altri termini l’identità del soggetto sarebbe dissolta nella molteplicità delle
sue determinazioni.
Ma la differenza di soggetto e operazione sta a fondamento anche dell’amore
come tale e della sua distinzione dall’innamoramento. L’amore infatti
comincia quando si assume consapevolmente e quindi responsabilmente
l’intenzionalità ontologica nei confronti dell’altro, che già l’innamoramento spontaneamente
ha iniziato. Questo d’altra parte, benché porti entro di sé il germe della
possibilità dell’amore, nasce da una corrispondenza immediata, necessariamente
suscitata da qualche particolare aspetto manifestativo dell’altro.
L’innamoramento è in altre parole strutturalmente parziale e trova
soddisfazione proprio nel fruire di questa parzialità, che come tale è
precaria. Ma ciò è possibile – su questo si vuole portare l’attenzione – solo
perché l’amore è quell’intenzionalità dell’affetto e del giudizio che si rivolge all’essere dell’altro fin
nella sua identità nascosta. Per questo l’amore – se è veramente tale – si
sottrae al limite dell’immediata corrispondenza e instaura un regime di
stabile, e per sé perpetua, collaborazione.
Dall’esperienza d’amore ci si
rende conto così che solo l’amore è veramente libero, mentre l’innamoramento
resta fondamentalmente limitato entro i confini di una corrispondenza reattiva.
La distinzione di innamoramento e
amore permette ragionevolmente di fare qualcosa verso cui la cultura
contemporanea ha una resistenza tenacissima, e quindi anche una ribellione
assai vivace: il giudizio di valore
portato sui sentimenti. È chiaro, infatti, che se tra ragione e affetto vi
è estraneità e l’amore è identificato con lo spontaneo innamoramento, ogni
pretesa di valutare il sentire è avvertita come una violenza inaccettabile. A
queste condizioni non si può ammettere che vi sia un discernimento a riguardo
della validità dei sentimenti. Il sentire è di principio elevato a legge e quindi
ha diritto come tale di dettar legge, perché “al cuore non si comanda”. E, in
effetti, alla spontaneità del sentire non ha alcun senso comandare.
Ma il problema non è dare ordini
agli affetti, che non hanno le orecchie per sentirli, bensì vagliare il loro
valore. Rispetto a che cosa? Alla loro possibilità
di trasformarsi in amore. L’innamoramento è qualcosa che capita e vi sono
soggetti, così fatti per conformazione e storia personale, che vi sono esposti
con frequenza: potrebbe anche essere indizio di una peculiare sensibilità. Ma
l’amore è invece opera della libertà; è iniziativa, lavoro e produzione e
quindi, come tale costituisce un criterio abbastanza preciso di discriminazione
tra gli affetti che possono cambiare in questa direzione – perché ne portano il
germe fin dall’inizio, come già si diceva – e quelli che sono destinati a
restare a livello della reazione emotiva.
I destini dell'amore
Come si diceva ( “io gioisco
perché tu sei”), da parte dell’amante la soddisfazione d’amore prende la forma
della gioia, perché il suo piacere si
trasforma nel compiacimento per il
beneficio che è l’altro.
Essenziale è comprendere la
natura ontologica anche della gioia d’amore, perché esattamente di questo si
tratta. L’amore è coltivazione libera e
responsabile del rapporto, ma può compiere la sua opera solo sulla base di
un giudizio d’esistenza e di
apprezzamento del suo valore, da cui deriva quel compiacimento ontologico che è il sentimento peculiare della gioia.
Finché questo non accade, non si
può propriamente parlare d’amore; ma d’altra parte giungere a questo livello
non è cosa che vada da sé, ma deve essere perseguita volontariamente, seguendo
e svolgendo la logica intrinseca dell’amore stesso: per attuare l’opera
liberante dell’amore è necessario già l’esercizio – forse quello più radicale –
della libertà.
Questo è ben visibile nel rapporto tra amore e sessualità.
La relazione amorosa è,
ovviamente, sempre sessuata, ma non sempre sessuale. Anzi, non è essenzialmente
tale. Eppure l’esperienza sessuale ha una rilevanza eccezionale, addirittura
paradigmatica, per il mondo degli affetti.
In realtà, rispetto all’amore, la
genitalità è solo una possibile forma espressiva dell’amore, che mantiene tutta
la sua verità e la sua dignità nella misura in cui è docile manifestazione
dell’amore e non pretende di esserne criterio e condizione. La sessualità ha il
suo giusto rapporto con l’amore nella misura in cui è concepita e vissuta con valore simbolico, cioè come espressione
parziale e intensiva della realtà totale ed estensiva dell’amore. Ma per
giungere a un vissuto così libero e magnanimo della sessualità è necessario che
l’esperienza d’amore sia cresciuta al punto d’essere in grado di ricomprendere
in sé e di proporzionare a sé l’intero mondo degli affetti.
Solo a livello dell’amore maturo
si scioglie l’enigma, che già era
stato segnalato a livello dell’innamoramento e che la concezione romantica
dell’amore non è assolutamente in grado di risolvere. Al suo primo presentarsi,
infatti, l’affezione è antinomica, perché non è in grado di conciliare davvero
la tensione tra affermazione di sé ed esaltazione dell’altro: nella mozione
dell’affetto si ama l’altro per se stesso oppure la propria soddisfazione
rispetto a cui l’altro è in fondo una mediazione strumentale? Nell’esperienza
d’amore, invece, la soddisfazione non è incentrata sulla reciprocità
dell’intesa – che è evidentemente positiva e augurabile -, ma sul valore
ontologico di sé e dell’altro e sul beneficio obiettivo che l’interazione
procura, che la luce del giudizio fa vedere. Per questo l’amore può anche
sopportare – benché con sofferenza, ma senza contraddirsi - la condizione della
non-intesa e, al limite, della non-reciprocità.
La forza dell’amore sta infatti
nell’intima convinzione che l’amare ha in
se stesso la sua ragione, perché è la forma di massima pienezza
sperimentabile della libertà.
Nell’amore l’antinomia della
relazione soddisfacente si risolve così in paradosso:
quello di un vincolo che libera,
perché liberamente scelto e perché realizzante l’intima natura della relazione
libera. Quanto più l’amore è autentico, tanto più l’affermazione dell’altro e
l’affermazione di sé sono coestese.
Giunto a se stesso l’amore è così
in grado di percepire la sua universalità
, che esalta ancor più la sua natura paradossale. L’amore, infatti, è rivolto
sempre e comunque a un Tu individuale; l’amore non sopporta astrazioni, perché
mira all’esistente concreto. Questo non è un’astratta possibilità, ma una
realtà ampiamente e chiaramente confermata dall’esperienza: chi più ama, più è
capace d’amare; quanto più è intenso quel determinato amore, tanto più esso è
capace di accogliere altri e di aver amore per altri.
I coniugi che si amano desiderano
l‘espansione del loro amore nei figli; la famiglia in cui ci si ama, è aperta
all’amicizia e all’ospitalità; i genitori che amano i propri figli, sono capaci
di farsi carico a vario titolo anche di quelli degli altri e così via.
L’innamoramento è esclusivo, l’amore invece è espansivo. I medievali dicevano
che il bene è diffusivum sui:
altrettanto bisogna dire dell’autoespansività dell’amore, confermando così il
paradosso di un bene, quello dell’amore, che è sempre singolare ed è insieme
infinitamente partecipabile.
In effetti non è questa la
condizione normale dell’amare, ma tutto ciò che siamo andati affermando sulla potenza d’amore, ci fa ora intendere che
l’amore può operare per l’altro in ogni caso; benché condizionato nelle sue
forme e nei suoi modi, nei suoi tempi e nei suoi rendimenti dalla risposta
dell’altro, all’amore non si può mai impedire il suo operare.
Eppure, nonostante l’attraente
bellezza di questa prospettiva, ognuno avverte che le sue conclusioni non
appartengono alla normalità dell’esperienza; anzi esigono qualcosa d’eroico per
essere attuate. Vivere l’esperienza d’amore presenta, infatti, tre livelli di difficoltà, che
definiscono insieme tre aree di impotenza
in contrasto con l’iniziativa dell’amare.
Innanzitutto, la difficoltà di vivere totalmente la fiducia che
l’impresa amorosa comporta. L’amore, s’è detto, vive del giudizio sul valore di
sé e dell’altro e quindi sulla fiducia nella fruttuosità benefica della
cooperazione. Nonostante ciò appartenga alla fisiologia dell’amore ed esprima
con chiarezza, sostenuta da molte conferme, la logica stessa della vita, è
esperienza universale la difficoltà di esercitare tutto il credito necessario.
Un’incertezza strana e un’inaspettata pesantezza frenano lo slancio dell’amore,
quasi a non voler rischiare troppo e ad assicurarsi della buona riuscita della
cosa facendo affidamento su un calcolo breve dei costi e dei benefici, incapace
di far fronte all’ampiezza dell’impresa e al suo autentico bilancio. Ad un
secondo livello, di maggior profondità, all’amore fa obiezione la circostanza
in cui la sua offerta di lavoro comune sia rifiutata. Se l’amore è affetto trasformato dal giudizio in volontà
di collaborazione benefica, la sua più grande sofferenza non può che essere il
non trovare la disponibilità, totale o parziale, all’interazione. È il momento
della delusione e della tentazione di disperare di sé, benché in se stesso
l’amore mantenga intatte le ragioni della sua iniziativa.
L’amore infatti – vale qui
esplicitarlo – non ha propriamente contrario: proprio per l’assolutezza della
sua libertà, non ha e non può avere ragioni a sé contrarie. L’innamoramento, in
quanto strutturalmente legato alla corrispondenza, può capovolgersi nel suo
contrario, l’odio; l’amore invece può annientarsi, ma non può capovolgersi.
Tuttavia l’annientamento dell’amore è una possibilità, che contraddice la sua
natura, perché, in quanto affermazione gioiosa della realtà dell’altro, è di
per sé perenne. Si pone perciò il problema di sapere se è possibile salvare l’amore dalla disperazione della
solitudine.
Ma, infine, un interrogativo più
grande e complessivo grava sull’esperienza
d’amore. L’amore, infatti, non può ignorare di essere in tensione polare
con la spontaneità dell’innamoramento. Questa – come si è visto – ha il
significato di esprimere in modo eccezionale il desiderio che abita l’uomo di
giungere ad una condizione d’esistenza in cui domini piena corrispondenza e
compiuta armonia.
Questa profezia è l’utopia dell’amore, che, innegabile
come principio dinamico dell’affezione umana, non saprebbe però dove trovare
ragionevolmente la sua piena realizzazione storica. L’amore – come si diceva –
è la messa alla prova storica dell’intuizione di felicità, ma non ha in sé la
forza di produrre un compimento: esso è lavoro benefico e gratificante, non
instaurazione del paradiso. Non ci si può non domandare, perciò, se non si
potrà mai dare una condizione sintetica di storia d’amore e di felicità.
Diventa chiaro a questo punto che
l’amore umano è abitato da una profonda e
inevitabile drammaticità, perché da una parte ha in sé il movimento della
propria attuazione operosa e universale, ma dall’altra non è garantito nella
sua riuscita e nel soddisfacimento del suo più radicale desiderio.
Gli
interrogativi che l’esperienza dell’amore presenta, ma a cui essa stessa non
sembra poter rispondere, sono come segnali della necessità intrinseca all’amore
umano di guardare oltre se stesso, per vedere se non vi sia una condizione
inedita dell’amore in grado di riscattare l’enigma della sua incompiutezza.
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