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martedì 14 maggio 2013

Approfondimenti sociopsicopedagogici. L’AMORE



Il mondo degli affetti

L'aspetto della vita di coppia che più si è modificato in relazione ai cambiamenti più generali della nostra società è certamente quello relativo alla indissolubilità del rapporto.
Il matrimonio che dura tutta la vita non è più la norma e, stando alle statistiche, si può affermare che, anche in Italia, una consistente parte della  popolazione fa l'esperienza della separazione e del divorzio.
La psicologa D. Francescato, nel suo libro "Quando l'amore finisce", afferma che le motivazioni principali verso la separazione, sembrano rientrare in tre grandi categorie, che possono coesistere nella stessa coppia, benché alcune prevalgano in certi tipi d'unione: la delusione nei confronti del partner e del rapporto; le limitazioni nei confronti della crescita personale; rapporti sessuali insoddisfacenti. Ci sono rapporti che finiscono perché i partner diventano troppo critici l'uno dell'altro, litigano molto frequentemente, scoprono nell'altro difetti di cui non si erano accorti, si sentono traditi nella fiducia riposta. Alcuni rapporti finiscono perché sono vissuti come oppressivi e limitanti nei confronti della crescita personale; uno  od entrambi i partner sentono d'essere cambiati e maturati, di avere altri bisogni e desideri ed un altro modo di concepire la vita. Altri matrimoni terminano perché è subentrata una forte insoddisfazione nei rapporti sessuali, considerati troppo scarsi o abitudinari; oppure perché è subentrata una relazione extraconiugale.
Fatta tale premessa, il nostro punto di partenza non può essere che descrittivo e cioè la rilevazione della fragilità e della precarietà dell’esperienza affettiva nel mondo contemporaneo occidentalizzato. Ciò che più sinteticamente colpisce è la crescente difficoltà all’esistenza di “storie d’amore”.
Ciò di cui l’amore oggi sempre più raramente è capace è proprio di “avere storia”, di durare nel tempo, di farsi costruzione e quindi dimora per gli uomini.
Nella modernità due sono le idee erotiche prevalenti. La prima interpreta l’amore come una forza irrazionale egoistica che separa gli uomini. È la posizione di Hobbes e di Nicole, secondo cui gli uomini sono preda di un “amor proprio” incapace di aprirsi veramente all’altro e che per questo pone la ragione al suo servizio, come calcolo delle convenienze e rimedio degli inconvenienti del conflitto inevitabile.
Kant riscatta la ragione da questa subordinazione all’amor proprio, ma tiene ferma l’idea che l’affettività è forza irrazionale esterna ed estranea all’ordine razionale.
 La seconda idea direttrice è quella romantica, che afferma invece la potenza unitiva dell’amore, intesa come forza arazionale capace di fondare le esistenze in un’unità superiore.
All’inizio non è la dualità distinta dell’uomo e della donna – secondo il racconto della Genesi -, ma l’unità indistinta di un essere onnipotente e terribile, che nella condizione della separazione (decretata da Zeus per punire la sua arroganza) va spasmodicamente ricercando il suo ricongiungimento.
Nelle idee moderne dell’amore qualcosa dell’antica sapienza va irrimediabilmente perduto. Tre sono i criteri, che abbandonati, determinano una variazione profonda d’orientamento nell’esperienza e nella concezione dell’amore.
Anzitutto, – come manifesta il carattere comune alle due idee moderne citate – l’eliminazione della sinergia di desiderio e conoscenza, di tendenza e ragione, d’intelletto e volontà, e quindi la separazione del mondo degli affetti dal mondo della valutazione razionale, da cui derivano altre due perdite irrimediabili: la perdita del fine e quella della gradualità. Se, infatti, la tendenza non è intrisa di intelligibilità, neppure ha un fine intelligibile in cui essa trovi la sua realizzazione; ma sarà necessariamente concepita come un’energia cieca, senza scopo e senza spazio per una libera decisione, ineluttabile.
Non solo, ma se non vi è un logos degli affetti,  non potrà darsi un’identica ragione degli affetti che possa trovare differenti figure e momenti (amore sessuale, amore parentale, amore d’amicizia, amore civile, ecc.). La tendenza avrà sempre un unico e costante significato, come un’energia meccanica qualificata solo dalla sua intensità.
Certamente, questi richiami non risolvono tutti i problemi, perché resta sempre vero il carattere enigmatico dell’amore, che nell’esperienza universale presenta insieme il carattere della potenza che s’impone all’uomo e lo trascina e, insieme, quello della sua libera iniziativa; quello dell’autoaffermazione e, insieme, dell’esaltazione dell’altro.
Si direbbe che ogni vicenda amorosa sia in concreto la gioiosa e sofferta ricerca della conciliazione dei suoi aspetti contrari.
Fasi dell'esperienza amorosa
Tipicamente, si è detto,  l’amore nasce dall’innamoramento. La prima esperienza dell’amare ha il carattere dell’evento subitaneo, spontaneo ed estatico. È un accadimento che improvvisamente sorprende, all’insaputa dello stesso interessato, che si trova coinvolto in una situazione nuova, in cui gioca un ruolo primario la spontaneità attraente del rapporto. Nella prospettiva dell’innamoramento l’amare appare come una fascinazione che crea attrazione e tensione volta alla soddisfazione. La sanità dell’innamoramento stesso dipende per questo dall’unità dinamica di questi momenti; la loro separazione, infatti, dà luogo a forme unilaterali e tendenzialmente patologiche. In tal modo l’innamoramento si raccorcia in forme di narcisismo, che gli impediscono di evolvere – come vedremo – nella pienezza dell’amore.
Estasi e movimento insieme caratterizzano l’innamoramento, che è già esperienza dell’intenzionalità centrifuga dell’amore, che si porta sull’essere dell’altro, benché nell’innamoramento sia tipico anche il fatto che tale movimento verso l’altro sia fortemente compensato e limitato dall’attesa di corrispondenza: l’altro affascina con spontaneità e con altrettanta spontaneità è attesa la soddisfazione, cioè il piacere della relazione corrisposta.
L’attrazione che l’uomo prova per la spontaneità è infatti indice del radicale desiderio di una condizione trasfigurata dell’esistenza, in cui il rapporto del soggetto con sé, con altri e con le cose sia senza resistenza e senza fatica, ma di plastica armonia e di piena comunione. Proprio perché l’intensità del piacere della spontaneità è tanto forte, esso è facile fonte di seduzione: la relazione ad altri viene commisurata all’aspettativa della spontaneità e dunque all’attesa della sua facile corrispondenza e della sua immediata piacevolezza. Se non si innesta un movimento qualitativamente diverso, nell’innamoramento l’apertura all’altro resta inevitabilmente limitata all’aspettativa della sua immaginata soddisfazione.
La concezione romantica dell’amore è la teorizzazione e la glorificazione della spontaneità come contrassegno e garanzia dell’amore; contro l’evidenza universale che in realtà nulla nell’esistenza umana è produttivo e fruttuoso senza un’elaborazione che, trasformando il dato iniziale, lo conserva e lo accresce. Il lavoro, e non la spontaneità, è la condizione universale della valorizzazione dei beni. Nulla dà frutto senza coltivazione.…
“L’essenza dell’amore è ‘lavorare per qualcosa’, ‘far crescere qualcosa’, […] amore e lavoro sono inseparabili. Si ama ciò per cui si lavora, e si lavora per ciò che si ama”.
Con queste parole di E. Fromm ritroviamo la prospettiva costruttiva sull’amore, di cui già si diceva.
L’innamoramento è un’assegnazione, meglio un trovarsi assegnati a un ideale di felicità. L’amore invece non è un accadimento involontario, bensì è il frutto di un lavoro, con tutto ciò che questo termine significa.
Il lavoro è impiego di risorse nella cui produttività si confida per raggiungere nuova e maggiore ricchezza attraverso elaborazione e collaborazione.
Nel caso dell’amore esso significa che il dato spontaneo di partenza diventa oggetto di una trasformazione collaborativa, sulla base della premessa che anche l’altro sia portatore di una ricchezza che può essere messa in comune.
Certo il binomio di spontaneità e di lavoro può apparire antitetico, nel senso che da un lato sembra stare l’immediatezza della corrispondenza e della soddisfazione, mentre dall’altro sembra imporsi un processo di scambio e di impegno che significa anche resistenza, fatica, rischio. Se le cose stessero veramente così, si dovrebbe concludere che è preferibile la piacevolezza spontanea dell’innamoramento, seppur fragile e breve, alla durata laboriosa (e quindi in fondo penosa) dell’amore!
È difficile negare che questo sia un pensiero comune molto diffuso, come si riscontra nel detto secondo cui “il matrimonio è la tomba dell’amore”. Ma dal nostro punto di vista il detto è vero solo se per amore si intende quello “romantico”; così come è vero il suo simmetrico, secondo cui si potrebbe dire che l’amore romantico è la tomba del matrimonio.
L’equivoco fondamentale cade sull’idea di lavoro, di cui non si apprezza l’essere fonte straordinariamente ricca di legame e di soddisfazione, anzi l’unica fonte di soddisfazione vera e propria, rispetto a quella piuttosto solo intuita nell’innamoramento.
Il lavoro non è perciò il momento penoso che succede all’entusiasmo iniziale, ma ne è piuttosto la ripresa che lo può far fruttificare: è avviato dalla fiducia nel possibile frutto ed è sostenuto dal gusto e dal piacere della sua stessa costruttività.
L’esperienza dell’innamoramento è per sua natura solo introduttiva a quella più grande dell’amore. Questo è reso manifesto dal problema del tempo, vale a dire dall’interrogativo sulla durata dell’affezione. L’innamoramento, che già si gratifica dell’esperienza dell’attrattiva, della spontaneità dello slancio e forse dell’iniziale corrispondenza, è però un accadimento che non ha in se stesso il suo senso. L’innamoramento è uno stato inaugurale ed una condizione aurorale, che porta in sé l’interrogativo sulla sua durata, e perciò l’ansia della sua continuazione. Ma a questa sua urgenza l’innamoramento - con le sue sole risorse - non può rispondere che in due modi, tipici della mentalità contemporanea: la sua indefinita iterazione (è il criterio del don Giovanni), attraverso cui l’innamoramento cerca di perpetuare se stesso riproducendo continuamente la felice situazione di “statu nascenti”; oppure, o insieme, la sua consumazione attraverso un’unione che immediatamente accompagni l’innamoramento stesso (è il caso sempre più spettacolarizzato della coincidenza di innamoramento e unione sessuale), quasi a volersi convincere che il punto di partenza è già subito anche il punto di arrivo e che quindi l’innamoramento è sufficiente a se stesso.
In realtà, quello che si consuma è un errore di prospettiva.
Con l’amore si esce così dalla situazione della tensione estatica e si entra in quella dell’azione comune; in altri termini con l’amore si esce dal regime della dualità unificata e si entra in quello dell’unità duale.
Con un’immagine potremmo dire che se l’innamoramento è assimilabile alla concezione e alla gestazione dell’altro dentro di sé, l’amore rassomiglia invece alla nascita in cui l’altro è posto/si pone in relazione sulla base della sua irriducibile e manifesta identità. E, come fa intendere la figura dinamica del concepimento/nascita, l’innamoramento è per sua natura a termine, superato il quale da situazione vitale diventa circostanza mortale, mentre l’amore ha la natura intima della perpetuità. L’innamoramento porta in sé il germe dell’amore, ma questo può crescere e maturare solo se l’innamoramento accetta la sua legge evolutiva e non le fa violenza … innamorandosi narcisisticamente di se stesso.
Dobbiamo allora ribadire il carattere originario della bipolarità di innamoramento ed amore. Questa è probabilmente la struttura del mondo affettivo come tale; cioè del mondo della relazioni umane, che sono sempre relazioni d’amore. Tale struttura è più evidente nella relazione sessualmente rilevante del maschile-femminile, ma vale in modo analogico ai diversi livelli e ambiti dell’esperienza.
Innamoramento e amore restano momenti distinti e irriducibili, ma anche correlati. L’uno non abolisce l’altro, né gli si può sostituire, ma, forse,  neppure l’uno deriva dall’altro, quasi il primo fosse la premessa e il secondo ne fosse il compimento. Piuttosto bisogna pensare, quasi a rovescio, che l’innamoramento introduce un’intuizione globale felicitante che l’amore coltiva e mette a prova nella sua capacità di portare beneficio concreto per i soggetti coinvolti nella relazione.
Se l’innamoramento ha un carattere prevalentemente estetico, l’amore ne ha uno principalmente agonico.
La razionalità
L’energia di trasformazione che agisce nel lavoro dell’amore è il giudizio.
Qui si evidenzia l’importanza – già sottolineata – di non separare il mondo degli affetti dalla valutazione. La metamorfosi dell’innamoramento, infatti, avviene via via che esso si lascia illuminare e soppesare dal giudizio della ragione, avvertita non come tribunale esterno e misura estrinseca dei sentimenti, ma come interprete autorizzato del senso degli affetti. Infatti, mentre il sentimento registra la reazione soggettiva dell’affezione, non potrebbe fare altrimenti, è la ragione che è in grado di leggervi una finalità e quindi di suggerire un cammino.
Il fine che la ragione coglie nel sorgere di un’affezione è un tendere a/portarsi su l’essere dell’altro, ciò che la ragione vede, giudicando, è il senso della relazione affettiva, non solo come attesa della propria soddisfazione, ma anche e prevalentemente come affermazione dell’essere dell’altro.
La meraviglia dell’amore sta proprio nel fatto che accada l’unità dei due, cioè la loro co-affermazione della loro sinergia. L’energia del lavoro relazionale è dunque un giudizio che la ragione formula, interpretando ciò che è in gioco nell’interazione. Tale giudizio potrebbe essere espresso così: ‘io gioisco perché tu sei’. Questa formula evidenzia il termine autentico della relazione, appunto l’essere dell’altro, senza giungere al quale ancora non c’è amore nella sua piena e benefica realtà. Ciò che la ragione – ed essa sola - comprende è, infatti, che già l’innamoramento è portatore di un’intenzionalità ontologica, che inaugura la possibilità dell’amore e ne indica tutta la vera sostanza. L’amore comincia, allora, quando l’innamoramento è guardato con gli occhi del giudizio, che rende l’affetto capace di comprendere chi esso abbia inaspettatamente ospitato e lo mette in grado di compiere un atto di apprezzamento radicale non nei confronti di qualcosa dell’altro, ma dell’altro come tale, cioè dell’accadimento della sua esistenza, in un atteggiamento di ammirazione (in cui è recuperata ad un livello superiore l’estaticità dell’innamoramento) e di comunicazione operativa. Infatti, quell’impresa cooperativa, che è l’amare, non potrebbe nascere che dall’apprezzamento del valore e delle risorse che l’esistenza dell’altro comporta, in altri termini da un atto di fiducia nelle potenzialità della sua esistenza, che si fa volontà di collaborazione.
Si tocca qui un punto di primaria importanza non solo per il tema dell’amore, ma per ogni aspetto dell’antropologia.
La tendenza spontanea dell’antropologia moderna, infatti, è di identificare il soggetto con le sue operazioni. Questo operazionismo (che può essere sia idealistico sia materialistico) apparentemente esalta la soggettività, perché mette in primo piano l’iniziativa e l’attività dell’uomo, ma in realtà conduce alla sua falsificazione, perché è fondato su un errore.
Nessun ente finito, infatti, può essere il suo operare, perché, se coincidesse pienamente con il suo divenire, la sua consistenza sarebbe alla mercé del susseguirsi dei differenti stati; in altri termini l’identità del soggetto sarebbe dissolta nella molteplicità delle sue determinazioni.
Ma la differenza di soggetto e operazione sta a fondamento anche dell’amore come tale e della sua distinzione dall’innamoramento. L’amore infatti comincia quando si assume consapevolmente e quindi responsabilmente l’intenzionalità ontologica nei confronti dell’altro, che già l’innamoramento spontaneamente ha iniziato. Questo d’altra parte, benché porti entro di sé il germe della possibilità dell’amore, nasce da una corrispondenza immediata, necessariamente suscitata da qualche particolare aspetto manifestativo dell’altro. L’innamoramento è in altre parole strutturalmente parziale e trova soddisfazione proprio nel fruire di questa parzialità, che come tale è precaria. Ma ciò è possibile – su questo si vuole portare l’attenzione – solo perché l’amore è quell’intenzionalità dell’affetto e del giudizio che si rivolge all’essere dell’altro fin nella sua identità nascosta. Per questo l’amore – se è veramente tale – si sottrae al limite dell’immediata corrispondenza e instaura un regime di stabile, e per sé perpetua, collaborazione.
Dall’esperienza d’amore ci si rende conto così che solo l’amore è veramente libero, mentre l’innamoramento resta fondamentalmente limitato entro i confini di una corrispondenza reattiva.
La distinzione di innamoramento e amore permette ragionevolmente di fare qualcosa verso cui la cultura contemporanea ha una resistenza tenacissima, e quindi anche una ribellione assai vivace: il giudizio di valore portato sui sentimenti. È chiaro, infatti, che se tra ragione e affetto vi è estraneità e l’amore è identificato con lo spontaneo innamoramento, ogni pretesa di valutare il sentire è avvertita come una violenza inaccettabile. A queste condizioni non si può ammettere che vi sia un discernimento a riguardo della validità dei sentimenti. Il sentire è di principio elevato a legge e quindi ha diritto come tale di dettar legge, perché “al cuore non si comanda”. E, in effetti, alla spontaneità del sentire non ha alcun senso comandare.
Ma il problema non è dare ordini agli affetti, che non hanno le orecchie per sentirli, bensì vagliare il loro valore. Rispetto a che cosa? Alla loro possibilità di trasformarsi in amore. L’innamoramento è qualcosa che capita e vi sono soggetti, così fatti per conformazione e storia personale, che vi sono esposti con frequenza: potrebbe anche essere indizio di una peculiare sensibilità. Ma l’amore è invece opera della libertà; è iniziativa, lavoro e produzione e quindi, come tale costituisce un criterio abbastanza preciso di discriminazione tra gli affetti che possono cambiare in questa direzione – perché ne portano il germe fin dall’inizio, come già si diceva – e quelli che sono destinati a restare a livello della reazione emotiva.
I destini dell'amore
Come si diceva ( “io gioisco perché tu sei”), da parte dell’amante la soddisfazione d’amore prende la forma della gioia, perché il suo piacere si trasforma nel compiacimento per il beneficio che è l’altro.
Essenziale è comprendere la natura ontologica anche della gioia d’amore, perché esattamente di questo si tratta. L’amore è coltivazione libera e responsabile del rapporto, ma può compiere la sua opera solo sulla base di un giudizio d’esistenza e di apprezzamento del suo valore, da cui deriva quel compiacimento ontologico che è il sentimento peculiare della gioia.
Finché questo non accade, non si può propriamente parlare d’amore; ma d’altra parte giungere a questo livello non è cosa che vada da sé, ma deve essere perseguita volontariamente, seguendo e svolgendo la logica intrinseca dell’amore stesso: per attuare l’opera liberante dell’amore è necessario già l’esercizio – forse quello più radicale – della libertà.
Questo è ben visibile nel rapporto tra amore e sessualità.
La relazione amorosa è, ovviamente, sempre sessuata, ma non sempre sessuale. Anzi, non è essenzialmente tale. Eppure l’esperienza sessuale ha una rilevanza eccezionale, addirittura paradigmatica, per il mondo degli affetti.
In realtà, rispetto all’amore, la genitalità è solo una possibile forma espressiva dell’amore, che mantiene tutta la sua verità e la sua dignità nella misura in cui è docile manifestazione dell’amore e non pretende di esserne criterio e condizione. La sessualità ha il suo giusto rapporto con l’amore nella misura in cui è concepita e vissuta con valore simbolico, cioè come espressione parziale e intensiva della realtà totale ed estensiva dell’amore. Ma per giungere a un vissuto così libero e magnanimo della sessualità è necessario che l’esperienza d’amore sia cresciuta al punto d’essere in grado di ricomprendere in sé e di proporzionare a sé l’intero mondo degli affetti.
Solo a livello dell’amore maturo si scioglie l’enigma, che già era stato segnalato a livello dell’innamoramento e che la concezione romantica dell’amore non è assolutamente in grado di risolvere. Al suo primo presentarsi, infatti, l’affezione è antinomica, perché non è in grado di conciliare davvero la tensione tra affermazione di sé ed esaltazione dell’altro: nella mozione dell’affetto si ama l’altro per se stesso oppure la propria soddisfazione rispetto a cui l’altro è in fondo una mediazione strumentale? Nell’esperienza d’amore, invece, la soddisfazione non è incentrata sulla reciprocità dell’intesa – che è evidentemente positiva e augurabile -, ma sul valore ontologico di sé e dell’altro e sul beneficio obiettivo che l’interazione procura, che la luce del giudizio fa vedere. Per questo l’amore può anche sopportare – benché con sofferenza, ma senza contraddirsi - la condizione della non-intesa e, al limite, della non-reciprocità.
La forza dell’amore sta infatti nell’intima convinzione che l’amare ha in se stesso la sua ragione, perché è la forma di massima pienezza sperimentabile della libertà.
Nell’amore l’antinomia della relazione soddisfacente si risolve così in paradosso: quello di un vincolo che libera, perché liberamente scelto e perché realizzante l’intima natura della relazione libera. Quanto più l’amore è autentico, tanto più l’affermazione dell’altro e l’affermazione di sé sono coestese.
Giunto a se stesso l’amore è così in grado di percepire la sua universalità , che esalta ancor più la sua natura paradossale. L’amore, infatti, è rivolto sempre e comunque a un Tu individuale; l’amore non sopporta astrazioni, perché mira all’esistente concreto. Questo non è un’astratta possibilità, ma una realtà ampiamente e chiaramente confermata dall’esperienza: chi più ama, più è capace d’amare; quanto più è intenso quel determinato amore, tanto più esso è capace di accogliere altri e di aver amore per altri.
I coniugi che si amano desiderano l‘espansione del loro amore nei figli; la famiglia in cui ci si ama, è aperta all’amicizia e all’ospitalità; i genitori che amano i propri figli, sono capaci di farsi carico a vario titolo anche di quelli degli altri e così via. L’innamoramento è esclusivo, l’amore invece è espansivo. I medievali dicevano che il bene è diffusivum sui: altrettanto bisogna dire dell’autoespansività dell’amore, confermando così il paradosso di un bene, quello dell’amore, che è sempre singolare ed è insieme infinitamente partecipabile.
In effetti non è questa la condizione normale dell’amare, ma tutto ciò che siamo andati affermando sulla potenza d’amore, ci fa ora intendere che l’amore può operare per l’altro in ogni caso; benché condizionato nelle sue forme e nei suoi modi, nei suoi tempi e nei suoi rendimenti dalla risposta dell’altro, all’amore non si può mai impedire il suo operare.
Eppure, nonostante l’attraente bellezza di questa prospettiva, ognuno avverte che le sue conclusioni non appartengono alla normalità dell’esperienza; anzi esigono qualcosa d’eroico per essere attuate. Vivere l’esperienza d’amore presenta, infatti, tre livelli di difficoltà, che definiscono insieme tre aree di impotenza in contrasto con l’iniziativa dell’amare.
Innanzitutto, la difficoltà di vivere totalmente la fiducia che l’impresa amorosa comporta. L’amore, s’è detto, vive del giudizio sul valore di sé e dell’altro e quindi sulla fiducia nella fruttuosità benefica della cooperazione. Nonostante ciò appartenga alla fisiologia dell’amore ed esprima con chiarezza, sostenuta da molte conferme, la logica stessa della vita, è esperienza universale la difficoltà di esercitare tutto il credito necessario. Un’incertezza strana e un’inaspettata pesantezza frenano lo slancio dell’amore, quasi a non voler rischiare troppo e ad assicurarsi della buona riuscita della cosa facendo affidamento su un calcolo breve dei costi e dei benefici, incapace di far fronte all’ampiezza dell’impresa e al suo autentico bilancio. Ad un secondo livello, di maggior profondità, all’amore fa obiezione la circostanza in cui la sua offerta di lavoro comune sia rifiutata. Se l’amore è affetto trasformato dal giudizio in volontà di collaborazione benefica, la sua più grande sofferenza non può che essere il non trovare la disponibilità, totale o parziale, all’interazione. È il momento della delusione e della tentazione di disperare di sé, benché in se stesso l’amore mantenga intatte le ragioni della sua iniziativa.
L’amore infatti – vale qui esplicitarlo – non ha propriamente contrario: proprio per l’assolutezza della sua libertà, non ha e non può avere ragioni a sé contrarie. L’innamoramento, in quanto strutturalmente legato alla corrispondenza, può capovolgersi nel suo contrario, l’odio; l’amore invece può annientarsi, ma non può capovolgersi. Tuttavia l’annientamento dell’amore è una possibilità, che contraddice la sua natura, perché, in quanto affermazione gioiosa della realtà dell’altro, è di per sé perenne. Si pone perciò il problema di sapere se è possibile salvare l’amore dalla disperazione della solitudine.
Ma, infine, un interrogativo più grande e complessivo grava sull’esperienza d’amore. L’amore, infatti, non può ignorare di essere in tensione polare con la spontaneità dell’innamoramento. Questa – come si è visto – ha il significato di esprimere in modo eccezionale il desiderio che abita l’uomo di giungere ad una condizione d’esistenza in cui domini piena corrispondenza e compiuta armonia.
Questa profezia è l’utopia dell’amore, che, innegabile come principio dinamico dell’affezione umana, non saprebbe però dove trovare ragionevolmente la sua piena realizzazione storica. L’amore – come si diceva – è la messa alla prova storica dell’intuizione di felicità, ma non ha in sé la forza di produrre un compimento: esso è lavoro benefico e gratificante, non instaurazione del paradiso. Non ci si può non domandare, perciò, se non si potrà mai dare una condizione sintetica di storia d’amore e di felicità.
Diventa chiaro a questo punto che l’amore umano è abitato da una profonda e inevitabile drammaticità, perché da una parte ha in sé il movimento della propria attuazione operosa e universale, ma dall’altra non è garantito nella sua riuscita e nel soddisfacimento del suo più radicale desiderio.
Gli interrogativi che l’esperienza dell’amore presenta, ma a cui essa stessa non sembra poter rispondere, sono come segnali della necessità intrinseca all’amore umano di guardare oltre se stesso, per vedere se non vi sia una condizione inedita dell’amore in grado di riscattare l’enigma della sua incompiutezza.



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