L'innamoramento, l'amore e i suoi fallimenti.
Su un tema come
quello delle relazioni perverse, in assenza di modelli esplicativi realmente
nuovi, appare possibile solo introdurre slittamenti discreti di significato
rispetto alla matrice psicoanalitica.
Sia nell’ottica
psicoanalitica che in quella clinico-nosografica, l’amore perverso non esiste; esistono infatti comportamenti sessualmente perversi (“parafilie” o “disturbi delle
preferenze sessuali”, con tutte le difficoltà definitorie relative), che
dell’amore non hanno la caratteristica essenziale, cioè quella di essere una
relazione, essendo piuttosto condotte anonime e stereotipe a-relazionali se non
antirelazionali.
Esiste invece, e
forse sempre di più, in relazione al dis-ordinamento e alla liberalizzazione
garantista della morale sessuale ed all’omologazione dei comportamenti sessuali
maschili e femminili, la perversificazione
dell’amore, vale a dire la distorsione ed il sovvertimento della sua
naturalezza.
La nozione di
“perversione” è tra le più complesse, confuse e controverse dell’intera
psicopatologia, a causa dell’impossibilità di svincolarsi dal riferimento ad
una “norma sessuale” socialmente condizionata. Il termine si colloca in una
perenne ambiguità tra deviazione e sovversione della norma, tra incapacità di
adeguarvisi e volontà di spostarne i limiti consensualmente ammessi, tra
malattia e fenomeno sociale e di costume innovatore, infine tra comportamenti
disgiunti o contigui alla normalità affettiva ed erotica.
Alle influenze
sociali si sovrappongono in una continua circolarità quelle culturali: la
psicoanalisi ha monopolizzato la discussione scientifica nell’area dei
comportamenti perversi trasformandone lo statuto da vizio, devianza, indice di
degenerazione o di costituzione morbosa, in una visione che valorizza in ogni
comportamento perverso il significato di difesa.
Nel corso della
sua evoluzione, la psicoanalisi è tuttavia progressivamente slittata da una
concezione delle manovre perverse come difese dai derivati istintuali ad una
che le riferisce al rapporto con
l’oggetto del desiderio, in un campo nel quale il termine viene usato senza
alcun riferimento alla vita sessuale.
Nello stesso
tempo l’area dei comportamenti perversi (o parafilici, se si vuole) ha
guadagnato una progressiva visibilità sui diversi canali mass mediali, creando
un suo diffuso immaginario e un variegato mercato (dai fumetti, alle
videocassette, a Internet, ai club privèe)
al quale è del tutto estranea ogni considerazione di ordine psicopatologica. I
comportamenti perversi possono essere semplicemente considerati fenomeni
antropologici legati al fatto che in determinati periodi storico-culturali
“certi modi di pervenire all’orgasmo (o di tentare di pervenirvi)” siano più o
meno eccezionali, divenendo in questo caso “ripugnanti” per coloro che
fruiscono di modalità più diffuse e abituali.
Con tutte queste
riserve e nella convinzione che forse il termine perversione non dovrebbe
essere usato affatto, come del resto già fanno i principali manuali diagnostici
internazionali e, in ogni caso, dovrebbe comunque esserlo in modo connotativo e
mai denotativo, l’immenso lavoro degli psicopatologi della vita sessuale, e
soprattutto degli psicoanalisti lungo tutto il Ventesimo secolo ha consentito
di costruire una sensibilità particolare nello psichiatra che con notevole
frequenza si trova ad affrontare dinamiche e modalità relazionali di tipo
perverso nel contesto di relazioni erotiche nelle quali possono o meno emergere
comportamenti parafilici.
Ma chi è il perverso?
Nell’ottica
psicoanalitica, il perverso è, fin dalla prima infanzia, incapace di separarsi
dai suoi oggetti d’amore: né dal seno, né dalla madre, dal pene, dall’amore
super egoico, pertanto non può accedere alla problematica edipica oppure, se lo
fa, non può elaborarla, finendo per disconoscere le differenze di genere e di
generazione e per essere incapace di armonizzare il proprio sviluppo
fisico-sessuale con una definita identità di ruolo sessuale adulto. Il
carattere arcaico, fusionale, rende il futuro perverso incapace di distaccarsi
da tutti gli oggetti parziali e totali, pena una sofferenza atroce e
insostenibile; l’altro è sempre una parte di sé conglobata o rispecchiata
narcisisticamente, pertanto la sua
perdita è sofferta fisicamente come un’amputazione; l’assenza di distanza affettiva (e sovente anche fisica) dai suoi
oggetti rende impossibile il lavoro del lutto, spesso sostituito
direttamente da gesti suicidiari o da comportamenti equivalenti (ad esempio
tossicodipendenze).
Il futuro
perverso finisce per crearsi una realtà fittizia in cui non devono esistere né
perdite né ansie di separazione o di castrazione, un mondo intermedio tra la
soddisfazione allucinatoria e l’accettazione della realtà garantita
dall’investimento per un partner colludente. In questo mondo tutti gli oggetti
sono intercambiabili e scarsamente distinguibili l’uno dall’altro e niente è
mai definitivamente perduto.
Purtroppo se
niente si può davvero mai perdere, niente può essere veramente ottenuto.
Il prezzo che il
perverso paga per negare la castrazione, la perdita e la morte è quello di
rimanere imprigionato in uno stile di vita stereotipo che è condannato a
ripetere.
Dove non c’è
perdita, lutto e rinuncia non c’è possibilità di uscita da un assetto
ambivalente.
Utilizzato per
aggirare i conflitti preedipici o le angosce di morte e disintegrazione del sé,
l’oggetto perverso è un feticcio
impersonale, un complice collusivo: un feticcio non solo nel senso di un
oggetto parziale inanimato (morto) che ne evoca magicamente un altro (un
oggetto d’amore totale e vivo), ma anche di oggetto
composito (feticcio-oggetto sé)
nel quale si giustappongono componenti pregenitali e genitali, parti di sé e
degli oggetti di attaccamento (la madre e le sue parti) ed anche modalità
relazionali arcaiche.
In ogni caso il
feticcio è un oggetto che si presta a essere inventato, usato, abusato,
saccheggiato, scartato e idealizzato, garantendo l’illusione di autosufficienza
rispetto alla dipendenza oggettuale.
Finchè c’è,
l’oggetto perverso rappresenta uno strumento difensivo formidabile,
onnipotente, che garantisce la piena integrità narcisistica del sé, ma quando
viene meno lascia un vuoto ineliminabile, un vissuto di apatia, di tedio
indifferente, di “morte psichica ”, insomma la "morte degli affetti”,
oppure diviene un persecutore, quando frammenta i confini dell’Io.
E’ abbastanza ovvio che la ricerca e la
dipendenza fisica da un oggetto esterno indichi un difetto nel mondo interno,
un vuoto nell’Io che deve essere
riparato o padroneggiato nella scena sessuale perversa.
E’ stato già
sottolineato come la relazione oggettuale del perverso soddisfi l’esigenza di
fusionalità e di intimità, di controllo, arcaico e fascinatorio.
L’oggetto
perverso può essere idolatrato e feticizzato, ma al contempo anche
disumanizzato e reso inconsapevole strumento delle proprie esigenze
narcisistiche (“tecniche dell’intimità” secondo Masud Khan); non vi è
reciprocità nella relazione perversa, ma un coesistere di istanze fusionali e
distruttive, cioè un’ambivalenza diversamente modulata, sia nel senso della seduttività, che della fascinazione che della collusione
del contratto perverso, che rapidamente possono infrangersi per una
distruttività impulsiva.
Per chi tenti di
relazionarsi col perverso non vi è
alternativa tra i ruoli di complice o di persecutore, entrambi funzionali a
difendere da insopportabili angosce destrutturati oppure da una normalità che,
privata di ogni istanza grandiosa e magnificente, non può apparire che “scialba
e insipida”.
La relazione
perversa, nel suo precario equilibrio tra narcisismo primario e dipendenza
oggettuale, soprattutto quando riesce ad aggirare o liquidare ogni divieto
normativo e ogni limitazione, ad essere cioè legittimata da una situazione
sociale, a creare un universo morale personale di qualità superiore a quello
normativo, ha una funzione “equilibratrice" rispetto alle due strade
non-percorribili della psicosi e della normalità.
Ciò che
caratterizza queste relazioni e le connota come perverse (differenziandole da
quelle nevrotiche) sono i mezzi e gli artifici che consentono di mettere in
atto le fantasie sovrapponendole alla realtà; la strada più facilmente
percorribile è quella della feticizzazione dell’altro; oltre a rappresentare
l’oggetto primario, è di fatto reso inumano per poter essere controllato, immobilizzato,
messo in condizione di non poter mai sorprendere e di non essere mai perduto.
In tale visione,
l’altro è un supporto indispensabile per la sopravvivenza dell’Io.
Ma anche nei
pazienti nevrotici le difese perverse, indipendentemente dal fatto di essere
sessualizzate o no, hanno un valore vitale nella gestione degli affetti,
dell’autostima e delle relazioni intersoggettive e rappresentano meccanismi
fondamentali per creare quelli che Steiner, nell'omonimo libro, chiama i
“rifugi della mente”.
Fermare il tempo
Quando la
sovversione perversa si dà un proprio ordinamento stabile, preserva dall’ansia
e dalla depressione, e quindi si sottrae allo sguardo indiscreto e sanzionante
(dal punto di vista del perverso) dello psicopatologo.
Anche se,
ovviamente, vi sono perversioni del tutto indipendenti dai processi melanconici
(post traumatiche, legate ai disturbi dell’identità di genere, a specifiche
problematiche sessuali o anche solo uro-genitali), la differenza viene meno
quando il processo melanconico nasce o si esprime nel contesto di relazioni
erotiche.
L’utilizzo della
“sessualizzazione” delimita un’area di confine, una nicchia all’interno dei
disturbi dell’umore e dei suoi precursori, parzialmente sovrapposta a
condizioni personologiche di tipo narcisistico, istrionico, borderline.
Su un piano
strutturale esiste quindi un ampio margine di sovrapposizione tra modalità
relazionali perverse e strategie difensive antidepressive che viene
sottovalutato dagli psichiatri sia perché non lo esplorano, sia perché lavorano
sempre a posteriori, ricostruendo gli eventi antecedenti il tipo di
manifestazione sintomatologica, mentre gli psicoterapeuti si trovano più spesso
a seguire gli eventi durante il loro svolgimento, concettualizzandoli su un
piano personologico.
Nel tentativo di
integrare psicodinamica e clinica, prendiamo in considerazione il melanconico,
colui il quale meno di tutti può tollerare le separazioni.
Quando si
innamora dovrà anch’egli soggiacere al decorso di ogni amore degno di questo
nome:
-la fase della scoperta di
essere innamorato, un evento sempre discreto cui ben si applica la dizione di
“colpo di fulmine”;
-la fase fusionale
dell’innamoramento nella quale l’identificazione proiettiva sembra
annullare le differenze tra i partners; l’innamoramento fornisce l’energia per
trasformare e rivoluzionare le relazioni preesistenti ricostituendone di nuove,
con caratteristiche ben descrivibili, ricorrenti ed in ultima analisi comuni a
tutti gli uomini.
-la progressiva defusione che porta allo stabilirsi di
una relazione duratura in cui i due partners
si riconoscono diversi e separati anche se uniti da sentimenti
fondamentalmente positivi e coesivi; è in questa fase di differenziazione che i
diversi individui ritrovano ed evidenziano le loro peculiarità personologiche;
il passaggio dall’innamoramento all’amore richiede la capacità di stare soli,
di vivere i sentimenti in assenza dell’oggetto e indipendentemente dalla
componente sensuale, insomma di tollerare la frustrazione e il rarefarsi dei
momenti emozionali apicali;
-infine, prima o poi, la separazione,
evento ineluttabile se non altro perché la coincidenza della morte è un evento
naturale decisamente raro.
Non diversamente
dalla fase successiva all’innamoramento, ma in modo più intenso e definitivo,
il lavoro del lutto testimonia della potenzialità personologiche dell’individuo
(si potrebbe dire: dimmi come elabori il
lutto e ti dirò chi sei).
La sequenza, pur
nell’indeterminatezza della durata delle diverse fasi successive ai momenti
puntiformi della scoperta di essere innamorati e della separazione dall’oggetto
d’amore, mostra come ogni dinamica amorosa si svolga secondo una temporalità
lineare rispetto alla quale il soggetto “normale” si sincronizza evitando così
ogni complicanza psicopatologica.
Al contrario, la
temporalità vissuta dal melanconico è fin dall’inizio distorta: per il
melanconico, plasmato su una peculiare strutturazione emotivo-affettiva
costituzionale, spesso rinforzata da perdite, abbandoni, incuria genitoriale
(reali o fantasmatizzati nel corso dell’infanzia), ogni amore ha a che fare col
restauro di un oggetto morto (restauro nel senso di ridare vita ad un
oggetto perduto evocato da quello ritrovato) e successivamente con la necessità
di tenere in vita un oggetto che lentamente perde lucentezza e muore.
La scoperta di
essere innamorato non è per lui un fatto nuovo, ma un ricordo, una
reminiscenza: è il ritrovamento e la concretizzazione di un’immagine interna di
un oggetto d’amore totale, vissuti con assoluta certezza soggettiva, come una
percezione delirante; questo comporta l’attribuzione proiettiva all’amato di
qualità che egli evoca ma che difficilmente possiederà totalmente e l’esigenza
illusoria di poter condividere con lui ogni oggetto del proprio mondo interno.
Questa fase di
rispecchiamento narcisista ed idealizzante, comune a gran parte degli
innamorati (nell’innamoramento l’oggetto d’amore è totalmente buono), è, per il
“melanconico”, completante ed abbagliante e non può incrinarsi se non a caro
prezzo. Se l’oggetto d’amore non è tutto, allora è niente: il “melanconico”
rischia di togliere ogni valore a ciò che tocca, se solo questo si mostra nella
sua imperfetta veste umana.
Il grande nemico
del “melanconico” è il tempo che, consumando ogni investimento e spegnendo la
brillantezza emotiva e sensuale della fase di innamoramento nella quotidianità
dell’abitudine, introduce inesorabilmente la dimensione della separazione
all’interno delle coppie.
La perversione
melanconica, in ultima analisi, nasce dall'impossibilità di passare dal tempo
dell’innamoramento a quello della convivenza, dal tempo della festa a quello
dei giorni feriali, da quello della fusione al tempo della differenziazione.
Costretto
all’illusione di un tempo eterno non può vivere il presente ma solo
l’alternativa tra la nostalgia e la demoralizzazione; per evitarla è costretto
ad inventarsi una temporalità artificiale che soggiace e sostiene la
perversificazione della relazione d’amore considerabile un sistema antidepressivo e antievolutivo organizzato, una titanica
(narcisistica) lotta contro il divenire.
Detto in altri termini, il
melanconico si trova nella situazione paradossale di dover uccidere l’oggetto
d’amore ogni volta che non assolve la funzione di oggetto totale della quale
necessita e da cui dipende, per poterne constatare l’indistruttibilità,
risentirlo vivo e potersi riunire a lui.
Queste paradossali modalità di
attaccamento del melanconico una volta estroflesse ed accolte dal partner
instaurano un regime sadomasochistico.
Quando
i comportamenti sadomasochistici si cronicizzano, assolvono la funzione
paradossale di mantenere unita una coppia che altrimenti si separerebbe. Si può
allora pervenire all’attivazione di dinamiche sadomasochistiche estreme che
paradossalmente uniscano la coppia non più nella vita ma nella morte: tentativi
di suicidio, suicidi a due, omicidi-suicidi, suicidi “legano” a vita coppie
destinate alla separazione.
Nel
suicidio il soggetto si identifica con l’oggetto e, uccidendosi, lo uccide
nell’illusione di una fusione permanente con lui, che gli ridarebbe la vita.
La
caratteristica delle relazioni erotiche perverse è quello di richiedere un
perfezionismo ed un’estrema esigenza esecutiva dal punto di vista qualitativo
che richiama alcuni tratti caratteristicamente ossessivi. Ma anche le continue
richieste “isteriche” di attenzione traducono l’operare di un meccanismo di
feticizzazione di rapporto.
Queste coppie si
reggono, dunque, non più tanto su un investimento reciproco, operante e
co-operante sul piano del reale, quanto sull’investimento di oggetti o
situazioni che hanno il potere magico di riattivare nella sua completezza il
fantasma dell’oggetto d’amore totale della fase dell’innamoramento.
Una volta pervenuta alla
separazione il melanconico tende a ripeterla. Infatti, vivrà secondo una
ciclicità della morte e della rinascita.
Questa l’origine della cosiddetta
instabilità affettiva che altro non è che una forma perversificata di continuo
cambiamento di oggetti che possano almeno temporaneamente evocare l’oggetto
d’amore totale; la “quasi autonoma struttura difensiva dell’Io” in questi casi
rappresenta una “delle più inattaccabili resistenze al cambiamento e alla cura”
ed il fatto questi pazienti non possano separarsi dai propri oggetti si riflette
sulla loro incapacità di differenziarsi e separarsi dai propri punti di vista e
di sviluppare una consapevolezza prendendo una prospettiva diversa sui propri
processi di pensiero.
L’innamoramento
è un fenomeno destinato ad estinguersi e a trasformarsi nel regime di certezze
quotidiane che chiamiamo amore; ogni innamoramento che dura a lungo non può che
costruirsi nell’immaginario, non può che durare nell’immaginario.
L’innamoramento
in fondo non è che una “trappola della natura” che tutti gli individui
subiscono, ed è autolimitante, dura un tempo sufficiente ad assicurare la
riproduzione.
I soggetti
innamorati sono pertanto sottoposti alla necessità di mantenere un legame sulla
base di dinamiche e motivazioni diverse da quelle dell’innamoramento, e non
tutti sono in grado di reperirne.
Semplicemente,
il “perverso” “non vuol vedere” che
l’innamoramento è una realtà fugace, effimera, transitoria per cui è
costretto a tenere in vita con ogni tipo di espediente “tecnico”, un oggetto
d’amore che altrimenti sarebbe destinato a morire in quanto tale (e nella
migliore delle ipotesi a divenire un “compagno”, una figura protettiva,
rassicurante, insomma un marito o una moglie): il perverso, il “melanconico”,
fanno esistere l’amore come indefinito prolungamento dell’innamoramento
perché ne hanno necessità.
Ma per il
partner del “perverso” è compito non facile mantenere le qualità richieste ad
un feticcio: deve vivere costantemente l’alternativa tra l’essere feticcio e/o
vittima (o dominatore) oppure sottrarsi al patto, infrangere le regole del
gioco.
Perché una
coppia con uno o entrambi i membri sottoposti all’ordine melanconico del “sole
nero”, non pervenga ad una separazione (reale o anche solo affettiva) è quindi
necessario l’instaurarsi ed il mantenersi di una complicità che ha tutte le
caratteristiche del “contratto” o della “collusione". Contraddicendo il
sapere convenzionale bisogna concludere, quindi, dicendo che, almeno nell’universo della melanconia, in
ultima analisi l’amore, o è perverso (perversificato), o non è.
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