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martedì 14 maggio 2013

GLI UNIVERSI PERVERSI DELLA VITA AMOROSA:



L'innamoramento, l'amore e i suoi fallimenti.

Su un tema come quello delle relazioni perverse, in assenza di modelli esplicativi realmente nuovi, appare possibile solo introdurre slittamenti discreti di significato rispetto alla matrice psicoanalitica.
Sia nell’ottica psicoanalitica che in quella clinico-nosografica, l’amore perverso non esiste; esistono infatti comportamenti sessualmente perversi (“parafilie” o “disturbi delle preferenze sessuali”, con tutte le difficoltà definitorie relative), che dell’amore non hanno la caratteristica essenziale, cioè quella di essere una relazione, essendo piuttosto condotte anonime e stereotipe a-relazionali se non antirelazionali.
Esiste invece, e forse sempre di più, in relazione al dis-ordinamento e alla liberalizzazione garantista della morale sessuale ed all’omologazione dei comportamenti sessuali maschili e femminili, la perversificazione dell’amore, vale a dire la distorsione ed il sovvertimento della sua naturalezza.
La nozione di “perversione” è tra le più complesse, confuse e controverse dell’intera psicopatologia, a causa dell’impossibilità di svincolarsi dal riferimento ad una “norma sessuale” socialmente condizionata. Il termine si colloca in una perenne ambiguità tra deviazione e sovversione della norma, tra incapacità di adeguarvisi e volontà di spostarne i limiti consensualmente ammessi, tra malattia e fenomeno sociale e di costume innovatore, infine tra comportamenti disgiunti o contigui alla normalità affettiva ed erotica.
Alle influenze sociali si sovrappongono in una continua circolarità quelle culturali: la psicoanalisi ha monopolizzato la discussione scientifica nell’area dei comportamenti perversi trasformandone lo statuto da vizio, devianza, indice di degenerazione o di costituzione morbosa, in una visione che valorizza in ogni comportamento perverso il significato di difesa.
Nel corso della sua evoluzione, la psicoanalisi è tuttavia progressivamente slittata da una concezione delle manovre perverse come difese dai derivati istintuali ad una che le riferisce al rapporto con l’oggetto del desiderio, in un campo nel quale il termine viene usato senza alcun riferimento alla vita sessuale.
Nello stesso tempo l’area dei comportamenti perversi (o parafilici, se si vuole) ha guadagnato una progressiva visibilità sui diversi canali mass mediali, creando un suo diffuso immaginario e un variegato mercato (dai fumetti, alle videocassette, a Internet, ai club privèe) al quale è del tutto estranea ogni considerazione di ordine psicopatologica. I comportamenti perversi possono essere semplicemente considerati fenomeni antropologici legati al fatto che in determinati periodi storico-culturali “certi modi di pervenire all’orgasmo (o di tentare di pervenirvi)” siano più o meno eccezionali, divenendo in questo caso “ripugnanti” per coloro che fruiscono di modalità più diffuse e abituali.
Con tutte queste riserve e nella convinzione che forse il termine perversione non dovrebbe essere usato affatto, come del resto già fanno i principali manuali diagnostici internazionali e, in ogni caso, dovrebbe comunque esserlo in modo connotativo e mai denotativo, l’immenso lavoro degli psicopatologi della vita sessuale, e soprattutto degli psicoanalisti lungo tutto il Ventesimo secolo ha consentito di costruire una sensibilità particolare nello psichiatra che con notevole frequenza si trova ad affrontare dinamiche e modalità relazionali di tipo perverso nel contesto di relazioni erotiche nelle quali possono o meno emergere comportamenti parafilici.
Ma chi è il perverso?
Nell’ottica psicoanalitica, il perverso è, fin dalla prima infanzia, incapace di separarsi dai suoi oggetti d’amore: né dal seno, né dalla madre, dal pene, dall’amore super egoico, pertanto non può accedere alla problematica edipica oppure, se lo fa, non può elaborarla, finendo per disconoscere le differenze di genere e di generazione e per essere incapace di armonizzare il proprio sviluppo fisico-sessuale con una definita identità di ruolo sessuale adulto. Il carattere arcaico, fusionale, rende il futuro perverso incapace di distaccarsi da tutti gli oggetti parziali e totali, pena una sofferenza atroce e insostenibile; l’altro è sempre una parte di sé conglobata o rispecchiata narcisisticamente, pertanto la sua perdita è sofferta fisicamente come un’amputazione; l’assenza di distanza affettiva (e sovente anche fisica) dai suoi oggetti rende impossibile il lavoro del lutto, spesso sostituito direttamente da gesti suicidiari o da comportamenti equivalenti (ad esempio tossicodipendenze).
Il futuro perverso finisce per crearsi una realtà fittizia in cui non devono esistere né perdite né ansie di separazione o di castrazione, un mondo intermedio tra la soddisfazione allucinatoria e l’accettazione della realtà garantita dall’investimento per un partner colludente. In questo mondo tutti gli oggetti sono intercambiabili e scarsamente distinguibili l’uno dall’altro e niente è mai definitivamente perduto.
Purtroppo se niente si può davvero mai perdere, niente può essere veramente ottenuto.
Il prezzo che il perverso paga per negare la castrazione, la perdita e la morte è quello di rimanere imprigionato in uno stile di vita stereotipo che è condannato a ripetere.
Dove non c’è perdita, lutto e rinuncia non c’è possibilità di uscita da un assetto ambivalente.
Utilizzato per aggirare i conflitti preedipici o le angosce di morte e disintegrazione del sé, l’oggetto perverso è un feticcio impersonale, un complice collusivo: un feticcio non solo nel senso di un oggetto parziale inanimato (morto) che ne evoca magicamente un altro (un oggetto d’amore totale e vivo), ma anche di oggetto composito (feticcio-oggetto sé) nel quale si giustappongono componenti pregenitali e genitali, parti di sé e degli oggetti di attaccamento (la madre e le sue parti) ed anche modalità relazionali arcaiche.
In ogni caso il feticcio è un oggetto che si presta a essere inventato, usato, abusato, saccheggiato, scartato e idealizzato, garantendo l’illusione di autosufficienza rispetto alla dipendenza oggettuale.
Finchè c’è, l’oggetto perverso rappresenta uno strumento difensivo formidabile, onnipotente, che garantisce la piena integrità narcisistica del sé, ma quando viene meno lascia un vuoto ineliminabile, un vissuto di apatia, di tedio indifferente, di “morte psichica ”, insomma la "morte degli affetti”, oppure diviene un persecutore, quando frammenta i confini dell’Io.
 E’ abbastanza ovvio che la ricerca e la dipendenza fisica da un oggetto esterno indichi un difetto nel mondo interno, un vuoto nell’Io  che deve essere riparato o padroneggiato nella scena sessuale perversa.
E’ stato già sottolineato come la relazione oggettuale del perverso soddisfi l’esigenza di fusionalità e di intimità, di controllo, arcaico e fascinatorio.
L’oggetto perverso può essere idolatrato e feticizzato, ma al contempo anche disumanizzato e reso inconsapevole strumento delle proprie esigenze narcisistiche (“tecniche dell’intimità” secondo Masud Khan); non vi è reciprocità nella relazione perversa, ma un coesistere di istanze fusionali e distruttive, cioè un’ambivalenza diversamente modulata, sia nel senso della seduttività, che della fascinazione  che della collusione del contratto perverso, che rapidamente possono infrangersi per una distruttività impulsiva.
Per chi tenti di relazionarsi col perverso non vi è alternativa tra i ruoli di complice o di persecutore, entrambi funzionali a difendere da insopportabili angosce destrutturati oppure da una normalità che, privata di ogni istanza grandiosa e magnificente, non può apparire che “scialba e insipida”.
La relazione perversa, nel suo precario equilibrio tra narcisismo primario e dipendenza oggettuale, soprattutto quando riesce ad aggirare o liquidare ogni divieto normativo e ogni limitazione, ad essere cioè legittimata da una situazione sociale, a creare un universo morale personale di qualità superiore a quello normativo, ha una funzione “equilibratrice" rispetto alle due strade non-percorribili della psicosi e della normalità.
Ciò che caratterizza queste relazioni e le connota come perverse (differenziandole da quelle nevrotiche) sono i mezzi e gli artifici che consentono di mettere in atto le fantasie sovrapponendole alla realtà; la strada più facilmente percorribile è quella della feticizzazione dell’altro; oltre a rappresentare l’oggetto primario, è di fatto reso inumano per poter essere controllato, immobilizzato, messo in condizione di non poter mai sorprendere e di non essere mai perduto.
In tale visione, l’altro è un supporto indispensabile per la sopravvivenza dell’Io.
Ma anche nei pazienti nevrotici le difese perverse, indipendentemente dal fatto di essere sessualizzate o no, hanno un valore vitale nella gestione degli affetti, dell’autostima e delle relazioni intersoggettive e rappresentano meccanismi fondamentali per creare quelli che Steiner, nell'omonimo libro, chiama i “rifugi della mente”.
Fermare il tempo
 Quando la sovversione perversa si dà un proprio ordinamento stabile, preserva dall’ansia e dalla depressione, e quindi si sottrae allo sguardo indiscreto e sanzionante (dal punto di vista del perverso) dello psicopatologo.
Anche se, ovviamente, vi sono perversioni del tutto indipendenti dai processi melanconici (post traumatiche, legate ai disturbi dell’identità di genere, a specifiche problematiche sessuali o anche solo uro-genitali), la differenza viene meno quando il processo melanconico nasce o si esprime nel contesto di relazioni erotiche.
L’utilizzo della “sessualizzazione” delimita un’area di confine, una nicchia all’interno dei disturbi dell’umore e dei suoi precursori, parzialmente sovrapposta a condizioni personologiche di tipo narcisistico, istrionico, borderline.
Su un piano strutturale esiste quindi un ampio margine di sovrapposizione tra modalità relazionali perverse e strategie difensive antidepressive che viene sottovalutato dagli psichiatri sia perché non lo esplorano, sia perché lavorano sempre a posteriori, ricostruendo gli eventi antecedenti il tipo di manifestazione sintomatologica, mentre gli psicoterapeuti si trovano più spesso a seguire gli eventi durante il loro svolgimento, concettualizzandoli su un piano personologico.
Nel tentativo di integrare psicodinamica e clinica, prendiamo in considerazione il melanconico, colui il quale meno di tutti può tollerare le separazioni.
Quando si innamora dovrà anch’egli soggiacere al decorso di ogni amore degno di questo nome:
-la fase della scoperta di essere innamorato, un evento sempre discreto cui ben si applica la dizione di “colpo di fulmine”;
-la fase fusionale dell’innamoramento nella quale l’identificazione proiettiva sembra annullare le differenze tra i partners; l’innamoramento fornisce l’energia per trasformare e rivoluzionare le relazioni preesistenti ricostituendone di nuove, con caratteristiche ben descrivibili, ricorrenti ed in ultima analisi comuni a tutti gli uomini.
-la progressiva defusione che porta allo stabilirsi di una relazione duratura in cui i due partners si riconoscono diversi e separati anche se uniti da sentimenti fondamentalmente positivi e coesivi; è in questa fase di differenziazione che i diversi individui ritrovano ed evidenziano le loro peculiarità personologiche; il passaggio dall’innamoramento all’amore richiede la capacità di stare soli, di vivere i sentimenti in assenza dell’oggetto e indipendentemente dalla componente sensuale, insomma di tollerare la frustrazione e il rarefarsi dei momenti emozionali apicali;
-infine, prima o poi, la separazione, evento ineluttabile se non altro perché la coincidenza della morte è un evento naturale decisamente raro.
Non diversamente dalla fase successiva all’innamoramento, ma in modo più intenso e definitivo, il lavoro del lutto testimonia della potenzialità personologiche dell’individuo (si potrebbe dire:  dimmi come elabori il lutto e ti dirò chi sei).
La sequenza, pur nell’indeterminatezza della durata delle diverse fasi successive ai momenti puntiformi della scoperta di essere innamorati e della separazione dall’oggetto d’amore, mostra come ogni dinamica amorosa si svolga secondo una temporalità lineare rispetto alla quale il soggetto “normale” si sincronizza evitando così ogni complicanza psicopatologica.
Al contrario, la temporalità vissuta dal melanconico è fin dall’inizio distorta: per il melanconico, plasmato su una peculiare strutturazione emotivo-affettiva costituzionale, spesso rinforzata da perdite, abbandoni, incuria genitoriale (reali o fantasmatizzati nel corso dell’infanzia), ogni amore ha a che fare col restauro di un oggetto morto (restauro nel senso di ridare vita ad un oggetto perduto evocato da quello ritrovato) e successivamente con la necessità di tenere in vita un oggetto che lentamente perde lucentezza e muore.
La scoperta di essere innamorato non è per lui un fatto nuovo, ma un ricordo, una reminiscenza: è il ritrovamento e la concretizzazione di un’immagine interna di un oggetto d’amore totale, vissuti con assoluta certezza soggettiva, come una percezione delirante; questo comporta l’attribuzione proiettiva all’amato di qualità che egli evoca ma che difficilmente possiederà totalmente e l’esigenza illusoria di poter condividere con lui ogni oggetto del proprio mondo interno.
Questa fase di rispecchiamento narcisista ed idealizzante, comune a gran parte degli innamorati (nell’innamoramento l’oggetto d’amore è totalmente buono), è, per il “melanconico”, completante ed abbagliante e non può incrinarsi se non a caro prezzo. Se l’oggetto d’amore non è tutto, allora è niente: il “melanconico” rischia di togliere ogni valore a ciò che tocca, se solo questo si mostra nella sua imperfetta veste umana.
Il grande nemico del “melanconico” è il tempo che, consumando ogni investimento e spegnendo la brillantezza emotiva e sensuale della fase di innamoramento nella quotidianità dell’abitudine, introduce inesorabilmente la dimensione della separazione all’interno delle coppie.
La perversione melanconica, in ultima analisi, nasce dall'impossibilità di passare dal tempo dell’innamoramento a quello della convivenza, dal tempo della festa a quello dei giorni feriali, da quello della fusione al tempo della differenziazione.
Costretto all’illusione di un tempo eterno non può vivere il presente ma solo l’alternativa tra la nostalgia e la demoralizzazione; per evitarla è costretto ad inventarsi una temporalità artificiale che soggiace e sostiene la perversificazione della relazione d’amore considerabile un sistema antidepressivo e antievolutivo organizzato, una titanica (narcisistica) lotta contro il divenire.
Detto in altri termini, il melanconico si trova nella situazione paradossale di dover uccidere l’oggetto d’amore ogni volta che non assolve la funzione di oggetto totale della quale necessita e da cui dipende, per poterne constatare l’indistruttibilità, risentirlo vivo e potersi riunire a lui.
Queste paradossali modalità di attaccamento del melanconico una volta estroflesse ed accolte dal partner instaurano un regime sadomasochistico.
Quando i comportamenti sadomasochistici si cronicizzano, assolvono la funzione paradossale di mantenere unita una coppia che altrimenti si separerebbe. Si può allora pervenire all’attivazione di dinamiche sadomasochistiche estreme che paradossalmente uniscano la coppia non più nella vita ma nella morte: tentativi di suicidio, suicidi a due, omicidi-suicidi, suicidi “legano” a vita coppie destinate alla separazione.
Nel suicidio il soggetto si identifica con l’oggetto e, uccidendosi, lo uccide nell’illusione di una fusione permanente con lui, che gli ridarebbe la vita.
La caratteristica delle relazioni erotiche perverse è quello di richiedere un perfezionismo ed un’estrema esigenza esecutiva dal punto di vista qualitativo che richiama alcuni tratti caratteristicamente ossessivi. Ma anche le continue richieste “isteriche” di attenzione traducono l’operare di un meccanismo di feticizzazione di rapporto.
Queste coppie si reggono, dunque, non più tanto su un investimento reciproco, operante e co-operante sul piano del reale, quanto sull’investimento di oggetti o situazioni che hanno il potere magico di riattivare nella sua completezza il fantasma dell’oggetto d’amore totale della fase dell’innamoramento.
Una volta pervenuta alla separazione il melanconico tende a ripeterla. Infatti, vivrà secondo una ciclicità della morte e della rinascita.
Questa l’origine della cosiddetta instabilità affettiva che altro non è che una forma perversificata di continuo cambiamento di oggetti che possano almeno temporaneamente evocare l’oggetto d’amore totale; la “quasi autonoma struttura difensiva dell’Io” in questi casi rappresenta una “delle più inattaccabili resistenze al cambiamento e alla cura” ed il fatto questi pazienti non possano separarsi dai propri oggetti si riflette sulla loro incapacità di differenziarsi e separarsi dai propri punti di vista e di sviluppare una consapevolezza prendendo una prospettiva diversa sui propri processi di pensiero.
L’innamoramento è un fenomeno destinato ad estinguersi e a trasformarsi nel regime di certezze quotidiane che chiamiamo amore; ogni innamoramento che dura a lungo non può che costruirsi nell’immaginario, non può che durare nell’immaginario.
L’innamoramento in fondo non è che una “trappola della natura” che tutti gli individui subiscono, ed è autolimitante, dura un tempo sufficiente ad assicurare la riproduzione.
I soggetti innamorati sono pertanto sottoposti alla necessità di mantenere un legame sulla base di dinamiche e motivazioni diverse da quelle dell’innamoramento, e non tutti sono in grado di reperirne.
Semplicemente, il “perverso” “non vuol vedere” che l’innamoramento è una realtà fugace, effimera, transitoria per cui è costretto a tenere in vita con ogni tipo di espediente “tecnico”, un oggetto d’amore che altrimenti sarebbe destinato a morire in quanto tale (e nella migliore delle ipotesi a divenire un “compagno”, una figura protettiva, rassicurante, insomma un marito o una moglie): il perverso, il “melanconico”,  fanno esistere l’amore come indefinito prolungamento dell’innamoramento perché ne hanno necessità.
Ma per il partner del “perverso” è compito non facile mantenere le qualità richieste ad un feticcio: deve vivere costantemente l’alternativa tra l’essere feticcio e/o vittima (o dominatore) oppure sottrarsi al patto, infrangere le regole del gioco.
Perché una coppia con uno o entrambi i membri sottoposti all’ordine melanconico del “sole nero”, non pervenga ad una separazione (reale o anche solo affettiva) è quindi necessario l’instaurarsi ed il mantenersi di una complicità che ha tutte le caratteristiche del “contratto” o della “collusione". Contraddicendo il sapere convenzionale bisogna concludere, quindi, dicendo che, almeno nell’universo della melanconia, in ultima analisi l’amore, o è perverso (perversificato), o non è.

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