Università degli Studi di Firenze
Facoltà di Scienze della Formazione
Dipartimento di Scienze dell’Educazione
e dei Processi
Formativi e Culturali
IRRE-Toscana
Corso di Aggiornamento per Docenti Scuole Medie
Superiori
Ciclo di Conferenze e laboratori
Il
disagio giovanile interpretato. Tra diagnosi e terapia
Anno Accademico 2004-2005
Direttore del Corso Prof. Franco Cambi
L’arte del sostegno e del dialogo
Vanna Boffo
Intervento tenuto presso il Liceo Classico Galileo
Firenze, Venerdì 15 Aprile 2005
L’arte del sostegno e del dialogo
Vanna Boffo
«Mamma, hai imprigionato le pietre in questo sacchetto!
Prendi
le forbici e taglia il nodo.
I
miei piccoli sassi!».
Eugenia,
8.8.2000
1.
Gli
adolescenti oggi: tra disagio e utopia
Nella prefazione all’edizione Pelikan del testo L’io
diviso, scritta nel 1964, Laing spiega il senso del libro[1],
pubblicato cinque anni prima presso la Tavistock Publications, dichiarando che
il suo studio di psichiatria esistenziale voleva soprattutto dimostrare la
reale possibilità di capire gli psicotici. La comprensione della patologia
transitava, innanzitutto, per Laing, dalla necessità di comprendere, da una
parte, il contesto sociale nel quale lo psicotico si era trovato a vivere, dall’altra, i rapporti di potere all’interno della
famiglia di origine. Pubblicamente, Laing ammette di aver commesso, nella sua
originale e acutissima analisi, l’errore dal quale aveva voluto preservarsi,
proprio assumendo il punto di vista peculiare e certamente innovativo per la
lettura della lacerazione psicologica che più di ogni altra patologia
psichiatrica si avvicina alla frammentazione psichica e spirituale dell’uomo
occidentale. Afferma Laing: «In questo libro si parla ancora troppo di loro,
e ancora troppo poco di noi»[2]. La
frase potrebbe essere considerata il leit motiv del percorso che il
presente intervento intende sviluppare.
Nei testi, ormai innumerevoli, sia nella letteratura
italiana[3] come
in quella straniera, che affrontano il tema del disagio, dell’abbandono
scolastico e della devianza sociale, durante l’età incerta dell’adolescenza, il
punto di osservazione, qualitativo e quantitativo che più spesso, per non dire
quasi sempre, viene adottato, è quello descritto magistralmente da Laing: si parla
sempre di loro. Non si può accennare che fugacemente al noi che ci contraddistingue come
adulti, genitori, docenti, e che, invece, si infrange contro la paura di
affrontare un universo sconosciuto di fronte al quale tanto sembra che ci
prodighiamo, ma per il quale aspettiamo che altri trovino soluzioni in
alternativa a un dialogo mancato, che altri forniscano la ricetta per
risolvere il caso, poi sempre uguale a se stesso.
Il mondo degli
adolescenti, oggi, interpella i mondi adulti più di qualsiasi altra età della
vita; enigmatico e, allo steso tempo, piattamente conformato, anche nelle
trasgressioni più indecifrabili. Gli
adolescenti sono un territorio di conquista per gli adulti che, su di loro,
costruiscono le proprie fortune personali e aziendali, con mode e ossessioni
consumistiche. Rappresentano le proiezioni sul passato dimenticato e il buco
nero del senso del presente per i
genitori che, al tumulto adolescenziale corrispondono la perdita della memoria
o lo stravolgimento del ricordo. Gli adolescenti che lasciano la scuola, che
soffrono il disagio dell’esistenza divisa, che arrancano sui binari di classi
lanciate a velocità inarrivabili costituiscono
enigmatici rebus professionali, per gli insegnanti che lavorano
con passione, talvolta però, rappresentano solamente allievi da lasciare “per
farli maturare, per il loro bene, perché ripetere la stessa classe gioverà alla
loro crescita personale”. Il tempo dell’adolescenza è, comunque, un mistero
perché interpreta, biograficamente, il ponte gettato verso la vita adulta, epoca di passaggio, luogo
dell’attraversamento, nascita all’esistenza. Tuttavia, non solo il ragazzo,
il figlio, l’allievo è in questo
transito, viaggiatore sconosciuto a se stesso, corridore di un percorso ad
ostacoli alterni dal traguardo impossibile, ma anche l’adulto, il genitore, il
docente, la guida e il maestro è con lui, accanto a lui, allo stesso
tempo, interprete attraverso di lui, del proprio percorso esistenziale.
Non è tanto
importante capire gli adolescenti, non è utile all’economia delle professioni
educative, che di loro si occupano, indagare soluzioni per curare l’adolescenza,
è più importante, al modo di Laing, parlare di noi, del modo di dis-locare
il punto di osservazione della riflessione sugli adolescenti, come suggerisce
Winnicott[4], del
modo di cambiare cornice, come afferma Bateson[5], del
modo di fornire loro tutto il nostro
sostegno, come consiglia Bettelheim[6], in
una sola affermazione del modo di comunicare il nostro interesse
e il nostro amore per loro, attraverso il dialogo,
l’attenzione, l’ascolto e l’empatia. Dunque, l’asse portante del presente
lavoro sarà proprio riuscire a capire il significato della nostra capacità
di comprensione, sarà riuscire ad
assumere un’ottica di re-visione della nostra azione formativa ed
educativa, perché solamente un cambiamento personale potrà indirizzarci, come
adulti, come genitori, come educatori e insegnanti verso la piena comprensione
della galassia adolescenziale e potrà fornirci gli strumenti per metterci in
grado di aiutare, sostenere, prevenire, ma soprattutto guidare e
empaticamente orientare, nel cammino della vita, i ragazzi che dai dieci anni
di età in avanti si trovano ad affrontare una rivoluzione fisica, mentale e
spirituale tanto intensa quanto
evocatrice della loro vita futura.
L’adolescenza è l’età del possibile, un tempo sospeso che ciascun
ragazzo o ragazza deve imparare a vivere per sé, sperimentando la vera
solitudine e il tormentoso senso del tragico che possono costruire i sé più
autentici. Quasi potremmo essere portati ad affermare che l’adolescenza è l’età
del disagio e dell’abbandono.
Afferma
Winnicott: «L’adolescente è essenzialmente un isolato. E’ da una posizione di
isolamento che prende inizio quel processo che eventualmente sfocerà in un
rapporto tra individui e alla fine nella socializzazione. A questo riguardo
l’adolescente ripete una fase essenziale della prima infanzia, poiché il
bambino piccolo è un isolato almeno fino al momento in cui non ha ripudiato il
non-me e non si è costituito come un individuo separato, un individuo che può
instaurare rapporti con oggetti esterni a sé e fuori dell’area del suo
onnipotente controllo. […]. I giovani adolescenti sono un insieme di isolati,
che in vari modi si sforzano di formare un aggregato, adottando un’identità di
gusti. Essi possono pervenire a raggrupparsi se attaccati in quanto gruppo, ma
si tratta di una forma paranoide di organizzazione reattiva all’attacco; dopo
la persecuzione gli individui tornano al loro stato di aggregato di isolati»[7]. Per
questo motivo è necessario aspettare che il processo di maturazione avvenga,
non ha alcuna importanza accelerare o rallentare tale percorso di crescita e di cambiamento, è invece
importante comprendere che, a causa e in virtù di tale percorso, l’adolescente si formerà come una persona responsabile
delle proprie scelte individuali e sociali, si educherà a divenire cittadino di
società civili, democraticamente costituite[8].
La scuola ha un ruolo fondamentale per la maturazione
di questo processo. La scuola, in quanto parte dell’ambiente di riferimento per
lo sviluppo adolescenziale, ha una responsabilità primaria, in continuazione
del ruolo svolto dalla famiglia fino alle seconda infanzia, per la presa in
carico, per la guida e per l’orientamento della vita di un adolescente. Proprio
oggi, agli inizi degli anni Duemila, lo strapotere mediatico dei mezzi di
comunicazione potrebbe far pensare ad una usurpazione del territorio educativo.
Gli adolescenti occidentali usano internet, scrivono sui blog,
vivono la loro vita per delega scambiando-si messaggi con sconosciuti
interlocutori nel tempo “reale” della conversazione sincrona. Educa chi
esercita il potere, conduce verso nuovi territori l’improvvido esploratore
colui che esercita una guida più vigorosa o più affascinante o solamente più
seducente. I mezzi di comunicazione, televisione, cellulare e internet,
hanno questa funzione ammaliatrice. Non se ne può fare a meno, vanno dominati
per non far-si sopraffare. La comunicazione che veicolano è virtuale, è intrigante,
è vera, ma non è autentica. I mezzi sono
governati dal Potere e sono ingovernabili dagli individui. Gli adolescenti sono
i più esposti alla dominazione di tutti i mezzi che riempiono la loro vita
digitale.
2.
Il compito della scuola: tra educazione e formazione
La scuola assume, allora, un ruolo fondamentale nel
contesto delle agenzie educative. Non i mezzi di comunicazione, non il gruppo
dei pari, non la famiglia, o non solo. Alla scuola spetta il compito arduo, ma
elevato, dell’educazione e della formazione dei soggetti attraverso e con
i saperi evocati dalle discipline e trasmessi attraverso di
esse. Come Morin, ben attesta, nella
famosa trilogia che ha visto giungere a maturazione il pensiero sulla
complessità del famoso sociologo francese, il fine della scuola è quello di
formare una testa ben fatta anziché una testa ben piena: «La prima finalità
dell’insegnamento è stata formulata da Montaigne: è meglio una testa ben fatta
che una testa ben piena»[9].
Parafrasando il famoso detto di Montaigne, ripreso anche da una altro insigne
pedagogista francese, Gaston Mialaret, la scuola ha di fronte a sé la sfida più
importante della contemporaneità:
organizzare una riforma dell’insegnamento che conduca ad una riforma delle
conoscenze, per giungere ad una riforma del
pensiero.
Tuttavia, la riforma del pensiero deve condurre alla
riforma delle conoscenze per poter giungere ad una riforma dell’insegnamento[10]. La circolarità dialogica delle riforme
enunciate ne evoca la centralità per la vita umana. L’educazione è il vettore,
il dispositivo, il cardine e il luogo generatore della riforma del pensiero,
delle conoscenze e dell’insegnamento. In
tutto il testo di Morin il concetto di educazione viene assimilato a quello
“continentale” di formazione. Afferma Morin, sulla scorta dell’insegnamento di
Durkheim, ma in analogia al pensiero pedagogico tedesco e italiano che si
innesta sulla tradizione della Bildung: «L’oggetto dell’educazione non è
dare all’allievo una quantità sempre maggiore di conoscenze, ma è “costituire
in lui uno stato interiore profondo, una sorta di polarità dell’anima che
l’orienti in un senso definito, non solamente durante l’infanzia, ma per tutta
la vita”»[11].
L’educazione
trasforma le informazioni in conoscenza e la conoscenza in sapienza. La sapienza,
la saggezza, la conoscenza e l’equilibrio a cui deve tendere la forma
dell’uomo costituiscono la formazione umana dell’uomo. Dunque la scuola,
luogo del passaggio delle conoscenze, della trasformazione dei saperi, deve
farsi centro propulsore per il
raggiungimento di quella conoscenza sapienziale che è bagaglio specifico di
ogni vita umana che si prepari ad essere vita degna e capace della solidarietà
umana, della cittadinanza democratica,
della comprensione della natura ecologica. «Si dovrebbe così poter
aiutare gli adolescenti a muoversi nella noosfera (mondo vivente, virtuale e
immateriale, costituito da informazioni, rappresentazioni, concetti, idee, miti
che dispongono di una relativa autonomia pur dipendendo dalle nostre menti e
dalla nostra cultura); aiutarli a instaurare la convivialità con le proprie
idee, senza mai scordare di mantenerle nel loro ruolo mediatore, impedendo loro
di identificarsi con il reale. […]. L’allievo deve sapere che gli uomini non
uccidono soltanto nella notte delle loro passioni, ma anche al chiarore delle
loro razionalizzazioni»[12].
La galassia dell’educazione può essere attraversata e
indagata a partire dai concetti di inculturazione, apprendimento, formazione.
L’inculturazione permette al bambino di entrare a far parte del gruppo sociale
di appartenenza. Le pratiche quotidiane di vita sono pratiche di inculturazione
per il bambino che deve imparare a far parte della propria famiglia o del
proprio gruppo di amici o della prima classe della scuola materna. L’apprendimento
è l’educazione che ogni docente pensa sia in carico al fine dell’esistenza
stessa della scuola, per ogni ordine e
grado. Come Morin indica, però,
gli apprendimenti non possono esaurirsi nel racconto delle discipline che
riassumono il sapere e la conoscenza umana e biologica del mondo della natura.
Infatti, gli apprendimenti diverranno saperi e questi diverranno sapienza, cioè
formazione umana dell’uomo, se e solo se l’adolescente avrà l’opportunità di
arrivare a comprendere che il proprio percorso scolastico può rappresentare ed
essere interpretato come una sorta di apprendistato alla vita, un percorso di
formazione umana, dove la capacità di guidare trasmigra dal docente al sé
medesimo dell’allievo. La formazione umana dell’uomo è il livello più elevato a
cui può tendere l’educazione dell’uomo. Non conformazione ad un modello, ad una
legge, ad un decalogo sociale, ma interpretazione e comprensione personale
della possibilità di auto.dirigersi, di auto-orientarsi nel mondo, nel cosmo,
nella vita.
La necessità della connessione fra le discipline, fine
metodologico del lavoro del docente, si
associa al fine dell’educazione scolastica: insegnare ad apprendere la capacità
di formar-si implica la creazione di un pensiero globale che possa
vedere l’uomo come un tutto, olisticamente compreso nell’universo, ma anche
eticamente compreso nel proprio ruolo sociale ed umano, appunto. «Un modo di
pensare capace di interconnettere e di solidarizzare delle conoscenze separate
è capace di prolungarsi in un’etica di interconnessione e di solidarietà tra
umani. Un pensiero capace di non rinchiudersi nel locale e nel particolare, ma
capace di concepire gli insiemi, sarebbe adatto a favorire il senso della
responsabilità e il senso della cittadinanza»[13]. La
riforma del pensiero, morenianamente condotta, si stabilisce sulla triplice
frontiera della riflessione per l’esistenza umana, per la valenza etica delle
scelte morali e per lo spessore politico-civile della responsabilità civica.
Alla scuola è in carico la riforma del pensiero. Non
qualcuno fuori dalle mura della classe deve attivare la riforma del pensiero,
ma ogni docente che si trovi di fronte ad un singolo ragazzo, come a una classe
di trenta allievi, da guidare verso la propria formazione umana dell’uomo. Ogni
adolescente lasciato indietro, lasciato andare via, abbandonato e messo a
disagio rappresenta una sconfitta
professionale e umana. I ragazzi
non lasciano gli studi, non interrompono i loro percorsi scolastici, non
abbandonano le classi e i banchi. Siamo noi adulti, genitori, insegnanti che li lasciamo
andare. Come Morin afferma: per una riforma della scuola ci vuole una riforma
del pensiero. Il pensiero è, però, la capacità critica di osservare i nostri
ragazzi, lasciando i nostri saperi di adulti , dislocandoci verso gli altri,
i ragazzi, assumendo costantemente la condizione dell’altro.
3. La relazione e la comunicazione: interpretare il
disagio
Il fenomeno dell’abbandono scolastico risulta molto
complesso e si presenta come una costellazione di atti manifesti e non
manifesti che gli adolescenti agiscono dentro l’istutuzione scolastica, ma
anche all’interno della propria realtà familiare, che può opportunamente essere
inserito nel contesto di un disagio scolastico personale, da parte del ragazzo
e ambientale, da parte della scuola, che non è in grado di provvedere ad un
benessere ecologico e relazionale. Dunque, non si può dare una definizione
univoca di cosa sia l’abbandono, in primo luogo per la propria varietà interna
e, in secondo luogo, perché è parte integrante di una realtà di costellazioni
di fenomeni con i quali si connette e a cui, a volte, si sovrappone. Infatti la
modalità dell’abbandono si può mascherare, sconfinando in altre forme di non
frequenza scolastica. Tali forme possono essere individuate in evasione,
assenteismo, scarso rendimento, disaffezione, incapacità di approfittare del
legame di istruzione, selezione scolastica. In generale, nel caso
dell’abbandono intercorre un legame
forte fra la bassa prestazione scolastica e il comportamento di drop-out.
Tuttavia, se può essere complesso analizzare il
fenomeno dell’abbandono, per cui si rimanda alla letteratura specializzata in
merito, è possibili elaborare, ai fini del presente lavoro, alcune riflessioni
importanti. Una prima riflessione riguarda la definizione di abbandono
scolastico e la conseguenza manifesta della sua evidenza. Si può abbandonare la
scuola anche restando a sedere nel proprio banco, continuando a recarvisi ogni
mattina: si resta in classe, ma l’incidenza della vita scolastica per gli
obiettivi di vita degli adolescenti che manifestano un tale tipo di
comportamento è assolutamente irrilevante. I ragazzi che agiscono un tale tipo
di comportamento ritengono che nessuno possa prendersi cura di loro e,
tuttavia, rimangono a scuola perché non vedono alternative alla loro
esistenza. Ci sono poi coloro che, pur continuando a frequentare
senza apparenti “problemi scolastici”, non ricevono dalla scuola nessuno
stimolo formativo o intravedono nella scuola solo un disinvestimento emotivo
all’impegno, quale unica soluzione per sopportare la situazione esistenziale che nella scuola
si è venuta a creare. Quanti sono i ragazzi che continuano a frequentare le
aule senza interesse e senza motivazione alcuna? Il disagio ambientale che
conduce ad un effettivo abbandono scolastico può essere attivato attraverso una
svalutazione della scuola e dei suoi compiti formativi, oppure attraverso la
percezione di essere completamente rifiutato dalla scuola stessa, fino a
giungere all’associazione con gruppi di pari che, all’interno della scuola,
sono coinvolti in attività devianti.
La domanda urgente che è necessario porsi è allora la
seguente: «Chi abbandona chi?». Per rispondervi dovremo proprio operare la dis-locazione
del nostro punto di vista di adulti, genitori e docenti e poter, così,
introdurci alla comprensione dell’altro.
La relazione è il fondamento dell’essere. Il soggetto, l’individuo, la persona umana si dà in rapporto e in relazione all’altro significativo che lo interpella, che lo rende visibile ai propri occhi, che lo vivifica con la ricchezza del proprio sguardo. Ogni persona umana esiste in relazione agli altri. Il paradigma relazionale è ormai la chiave di lettura della condizione umana affermata da ogni scienza nel Novecento. Non solo la filosofia e la pedagogia, la psicologia e l’antropologia, come la sociologia hanno affermato il viraggio di prospettiva nella considerazione dei “fatti umani”, ma anche la fisica e la biologia, fra le scienze sperimentali e così anche la matematica e la logica fra le scienze delle strutture, viventi e non, hanno individuato nella relazionalità il modello del darsi della vita stessa.
Il soggetto, l’uomo, come afferma Morin[14], porta in sé l’alterità, «E’ perché il prodotto unitario di una dualità (riproduzione per scissione negli unicellulari, per incontro di due esseri di sesso differente nella maggior parte dei viventi) porta in sé l’attrazione per un altro ego. La comprensione permette di considerare l’altro non solo come ego alter , un altro individuo soggetto, ma anche come alter ego, un altro me stesso con cui comunico, simpatizzo, sono in comunione. Il principio di comunicazione è dunque incluso nel principio d’identità e si manifesta nel principio di inclusione»[15]. Morin rileva il fondamento stesso dell’uomo nell’altro uomo interpretando la lunga tradizione filosofica che da Buber a Ricoeur a Levinas ha illuminato gli studi sull’uomo e su tutte le sue forme di appartenenza.
La relazione educativa è allora un buon punto di partenza, il punto di avvio di qualsiasi azione d’insegnamento e di apprendimento. Infatti gli apprendimenti non possono attuarsi in un contesto individuale, sempre si danno nella relazionalità pedagogica e nella reciprocità. L’apprendimento è fenomeno da uno a uno oppure di uno a molti, è sempre situato, è “fatto” sociale. Si apprende dall’altro, attraverso l’altro, con l’altro.
Come gli studi sulla metacognizione hanno rilevato nell’ultimo decennio, si accede all’altro secondo il linguaggio della mente. La riflessività che ogni azione di insegnamento e apprendimento comporta dis-loca l’attività del docente. Come la madre coordina, attraverso àa responsività, l’insorgere nel proprio bambino dell’attività riflessiva, dell’attività di lettura del pensiero altrui, anche nella scuola gli apprendimenti avvengono attraverso questa peculiare attività umana. Il pensare l’altro comporta la possibilità di apprendere. Secondo Liverta Sempio: «Sono gli stati mentali, sia del discente che del docente, quali l’intenzionalità, la teoria della mente, la predisposizione a capirsi l’un l’altro e a condividere l’esperienza, la corresponsabilità, a determinare i formati concretamente assunti del rapporto pedagogico. […]. Possiamo parlare di processi di insegnamento e apprendimento come di una forma di condivisione di stati mentali prima che di azioni, come di un incontro di menti»[16]. Tuttavia, anche questa interessante lettura dell’attività pedagogica scolastica di insegnamento e apprendimento sottolinea mirabilmente come sia alla base di tale attività la possibilità relazionale del darsi reciprocamente, fra docente e allievo, fra docente e allievi, fra allievi e allievi. Dobbiamo a Bruner[17] la riflessione sulle credenze, sull’intenzionalità, sulla teoria della mente che ogni educatore e, dunque, ogni docente, mette in atto in una condizione di insegnamento. Un esempio viene fornito, sempre in Liverta Sempio, che distingue gli apprendimenti in tre forme: l’apprendimento imitativo che implica nel discente «la capacità di riconoscere l’altro come “agente intenzionale” (“X sta tentando di fare…”), poiché solo se si è in grado di cogliere che cosa l’altro abbia intenzione di fare, quale obiettivo persegua, si diventa capaci di distinguere nel suo comportamento gli aspetti rilevanti da quelli irrilevanti riguardo al proposito da conseguire»[18]. C’è, poi, l’apprendimento istruttivo in cui è necessario imparare a «pensare l’altro come “agente mentale” (“X pensa circa p”) , cioè come persona con idee e credenze su ciò che è da fare, poiché su tale base si può dar vita al confronto tra ciò che si pensa e ciò che pensa l’altra persona (l’insegnante) sullo svolgimento del compito»[19]. Un terzo esempio di modalità di apprendimento è quella identificata con la collaborazione. L’apprendimento collaborativo con i pari implica «saper pensare l’altro in qualità di “agente riflessivo”, vale a dire di persona il cui pensiero può avere come oggetto i pensieri e le intenzioni di un altro individuo (“X pensa che io penso che p…”). Possedere il concetto di persona riflessiva pone l’individuo in grado di prendere in esame non solo il proprio e l’altrui pensiero, ma anche le critiche, gli interrogativi, le conferme e le elaborazioni che gli altri svolgono sul suo pensiero così come di capire che gli altri possono a loro volta riflettere sulle considerazioni che vengono mosse al pensiero che hanno formulato»[20].
La relazione educativa, che sta alla base del rapporto di insegnamento-apprendimento, ha dunque caratteristiche di solida reciprocità, in ogni direzione la si osservi, di stringente complementarietà e di autentica intersoggettività. Ogni apprendimento è conseguenza di una relazione così definita, dove il docente educa l’allievo in un contesto culturale e sociale che li informa entrambi e che entrambi trasforma. Il docente ha il dovere di porre in atto la reciprocità e la riflessività. Tuttavia, si situa nella relazione maestro-allievo la possibilità di mutare il rapporto educativo in rapporto formativo, dove l’incontro delle menti è preludio alla capacità di leggere il pensiero dell’altro, è preludio alla capacità di accogliere l’altro, è preludio alla possibilità di ascoltare l’altro.
L’abbandono scolastico si può leggere, allora, come
interruzione di una reciprocità, come mancanza di una comunicazione autentica,
come il venir meno del compito stesso della scuola: consegnare all’altro, l’allievo, il bambino,
l’adolescente, la possibilità di imparare a legger-si, a pensar-si,
per costruire il proprio sé e
raggiungere il livello più alto della propria educazione/trasformazione. Lo
spazio dell’incontro[21]
cognitivo, affettivo, relazionale che ogni docente può attivare con i propri
allievi non è determinato dalla quantità di apprendimenti che saranno messi in
atto, ma dalla capacità di consegnare gli strumenti, ad ogni allievo, ad ogni
adolescente per poter fare di quello spazio dell’incontro un luogo di
formazione umana. L’evasione scolastica,
lasciare la scuola prima della fine del ciclo di studi, compiere numerose
assenze, scaldare il banco, avere uno scarso rendimento sono forme di una rottura
del patto educativo e formativo, sono forme dell’assenza di una reciprocità e
di una complementarietà. Ogni azione
educativa e formativa si fonda sullo scambio di reciprocità esistenziali,
umane, storiche e sociali. Ogni azione di insegnamento non può essere la
riproduzione di un copione di vita
estraneo ai soggetti che lo agiscono. La relazione e la comunicazione educativa
possono essere validi strumenti per interpretare il disagio scolastico e
adolescenziale a partire dal cambiamento
delle cornice, cioè della matrice di pensiero di riferimento che, al modo di
Bateson, sta alla base di ogni comprensione umana e sociale.
4. Comunicare nella scuola: l’ascolto e l’empatia
Analizzare i processi comunicativi propri della scuola
risulta alquanto complesso, ma veramente molto importante per la qualificazione
della relazione educativa e per il sostegno di tutta l’attività dei processi di
insegnamento-apprendimento. Forse potremmo affermare che tale attività non
potrebbe avvenire senza una adeguata possibilità comunicativa. La comunicazione
della disciplina passa attraverso la comunicazione di sé all’altro e ciò è un sine
qua non della professionalità docente. Dall’ingresso in classe ad ogni
azione svolta in aula, solo per delimitare uno fra gli ambienti ecologici
dell’insegnamento, la comunicazione verbale e non verbale esprime l’essenza dell’umanità che
contraddistingue ogni docente. La comunicazione è la condizione che ci
costituisce in rapporto agli altri significativi. Afferma Rogers: «Provo un
senso di soddisfazione quando posso arrischiarmi a comunicare la mia reale
essenza ad un altro. La cosa è tutt’altro che facile, anche perché ciò che sto
sperimentando è in costante fase di trasformazione. Di solito vi è un ritardo,
talora di pochi istanti. Qualche volta di giorni, settimane o mesi, tra il
momento dell’esperienza e quello della comunicazione; sperimento qualcosa,
provo qualcosa, ma solo in un secondo tempo oso comunicarlo. […]. Ma quando
posso comunicare ciò che in me è autentico nel momento in cui accade, allora mi
senti genuino, spontaneo, vivo»[22]. Rogers esprime in maniera particolarmente
efficace l’importanza della comunicazione per i processi di apprendimento,
tanto da dedicare a questo fine parte dei suoi scritti. Si preoccupa,
soprattutto, della creazione di un ambiente scolastico dove l'accettazione
dell'altro, la comprensione e il rispetto sono le forme più immediate per il
sostegno degli apprendimenti. Non si apprende impegnando solamente la parte
cognitiva o razionale della mente, si apprende con l’impegno del corpo, della
mente, delle emozioni e degli affetti. L’attenzione ai processi comunicativi
globali significa attenzione per la persona umana nella sua globalità:
l’allievo arriva a scuola con il proprio bagaglio di ansie e angosce, si siede
nel proprio banco carico delle emozioni della sua crescita. La scuola è, forse,
rimasto uno dei luoghi dove ancora il soggetto, l’adolescente viene
riconosciuto per la manifestazione delle proprie capacità e non del proprio sentire.
L’attenzione ai processi di apprendimento e insegnamento come processi
comunicativi implica la comprensione del soggetto nella sua essenza più
profonda, più piena, più radicale. L’adolescente, come ogni bambino e ogni
ragazzo, porta a scuola il proprio compito evolutivo di crescita emozionale e
di crescita cognitiva: l’uno non si dà senza l’altro, l’uno non procede di pari
passo all’altro. Tuttavia, l’uno si accompagna sempre all’altro. Un allievo,
prima di essere tale è una persona umana che sente, che prova amore,
che prova odio e attraverso i sentimenti comprende l’altro, il proprio
insegnante, le discipline, i saperi. Nel precedente paragrafo veniva richiamata
l’attività della mente che dispiega credenze, intenzioni, volontà; la mente
pensa i sentimenti e sente le emozioni, comunica attraverso il corpo gli
affetti e le passioni.
In primo luogo, attraverso la comunicazione il docente
deve saper interpretare il proprio disagio o la propria gioia nella classe.
Deve saper raggiungere la propria conoscenza di sé se desidera attivare un
clima di classe dove la comunicazione possa essere veicolo di benessere e
solidale relazione educativa.
In secondo luogo, attraverso la comunicazione può
raggiungere un sapere dei propri allievi che lo collochi accanto e non di
fronte o contro ciascuno di loro.
In terzo luogo, come afferma Fratini[23],
deve saper riconoscere le dinamiche di gruppo che tante volte ostacolano il
lavoro di classe.
La comunicazione in classe può essere letta attraverso
due processi che la rendono profonda e autentica, tramite i quali è possibile
svelare gli aspetti più reconditi del sé dei soggetti interlocutori. L’ascolto,
da una parte e l’empatia, dall’altra, sono gli aspetti della comunicazione che
ci permettono di costituirla come un prezioso strumento per la professione
docente. Rogers è stato uno dei primi
autori che ha applicato l’attività di ascolto comunicativo all’attività di
insegnamento. «Il primo semplice sentimento che vorrei parteciparvi è la gioia
che provo quando posso realmente ascoltare qualcuno. […]. Quando dico
che gioisco nell’ascoltare qualcuno, intendo naturalmente un ascolto profondo.
Voglio dire che presto attenzione alle parole, ai pensieri, ai toni
sentimentali al significato personale e anche al significato che è sotteso
all’intenzione cosciente di colui che parla. Inoltre, qualche volta sento, in
un messaggio che superficialmente non è molto importante, un profondo lamento
umano che giace sconosciuto e sepolto molto al di sotto della superficie della
persona»[24]. Le parole di Rogers sono
emblematiche proprio del significato e della modalità attraverso cui poter
imparare ad ascoltare. L’ascolto
profondo necessita di predisposizione autentica verso l’altra persona che possa
far risuonare i significati del sentire, nascosti anche a colui che li prova.
L’ascolto profondo implica una donazione di sé nel momento in cui ci si
predispone verso l’altro, non necessariamente con il silenzio, ma anche con la
parola. Ascoltare gli allievi vuol dire dargli la possibilità di essere
riconosciuti come esseri umani, degni di attenzione. Tutti noi proviamo una
gioia viva quando siamo ascoltati dagli interlocutori. Tanto più ciò avviene
nel caso di un rapporto comunicativo dove la disparità del potere implica che
la comunicazione non sia mai simmetrica, ma sempre complementare. L’ascolto profondo permette di accantonare i
problemi che l’ansia spesso attiva nei confronti della relazione con il
docente. Se il tono dell’ansia accenna a
diminuire, allora la mente è più libera per avviarsi ad apprendere.
L’ascolto conduce ad una condizione di libertà nei confronti dell’altro, dove
altre energie possono essere messe in campo per il lavoro intellettuale.
Creare un clima di classe dove è possibile ascoltare
significa far circolare una comunicazione autentica, congruente ed empatica. Il
richiamo a questi tre gradi della
comunicazione significa, per Rogers, il richiamo all’ascolto della persona
nella sua globalità, significa il riconoscimento dell’essere con i problemi e
le manchevolezze che lo contraddistinguono. In un fortunato testo del 2001,
Crepet[25]
richiamava gli adulti alle proprie responsabilità educative affermando la
nostra più totale incapacità all’ascolto dei ragazzi. E’ difficile ascoltare i
nostri ragazzi, poiché ciò implica ascoltare soprattutto noi stessi, implica
dar-si all’altro nella comprensione più totale, mettendo da parte, il
nostro io.
In un bel testo
di critica letteraria Bachtin[26]
traccia alcuni utili appunti per la comprensione dell’ascolto profondo di
contro all’ascolto passivo. Alla base dell’ascolto attivo c’è il principio
dialogico della circolarità comunicativa. Non è il parlante che determina il
significato dell’enunciazione, ma è l’ascoltatore che orienta la comunicazione
profondamente autentica nella libertà della parola. La dimensione dell’ascolto
profondo è polifonica poiché attiva sempre un’interazione di reciprocità fra
soggetti che hanno una medesima dignità e un medesimo accesso all’utilizzo
della parola dialogata. Ascoltare profondamente non significa “andar d’accordo”
con l’interlocutore, significa aver la capacità di gestire creativamente anche
il più aspro conflitto.
Ascoltare profondamente non implica seguire delle
regole, implica aprirsi al mondo della possibilità e ai mondi del possibile,
cioè del pensiero che diverge e si allontana dai sentieri della consuetudine.
Ascoltare è un’arte che si può imparare ad esercitare a partire da un
cambiamento interiore. Implica l’esercizio dell’attenzione e del sentire l’altro
al posto di sentire solo se stesso.
Con l’ascolto ci si predispone ad esercitare anche l’empatia che da esso non è mai disgiunta. L’empatia è quello stato della comunicazione interpersonale tramite il quale possiamo raggiungere la conoscenza dell’emozione altrui attraverso un recupero della nostra personale memoria della medesima emozione. Arduo è l’esercizio dell’empatia che ci fa raggiungere nella comunicazione cognitiva, affettiva ed emotiva, la consapevolezza di noi stessi e dei nostri interlocutori. L’empatia implica, innanzitutto, l’esercizio dell’attenzione alle emozioni altrui, ai tratti del volto dell’altro che tradiscono i sentimenti più intimi. L’atto di empatia non è però la violazione dello spazio di libertà, anzi implica proprio la conservazione del territorio di sacralità dell’altro. In classe, il docente deve attivare un atteggiamento empatico se desidera che la situazione educativa promuova apprendimenti significativi, per questo infatti è necessario che il clima di classe sostenga i bisogni nascosti di ogni allievo.
5.
L’arte del
dialogo e del sostegno
La comunicazione
educativa che coordina gli atti con le parole e gli atteggiamenti con le
ingiunzioni favorisce la creazione di un clima di classe favorevole ad
accettare la reciprocità e la comprensione delle situazioni più difficili.
Quando il dolore psichico e la tristezza minacciano le relazioni e i rapporti
fra il docente e l’allievo, quando l’angoscia per la situazione di
un’esistenza scomposta annulla la
possibilità di stare seduto in un banco di scuola, non sono sufficienti teorie
e modelli educativi. Il docente è solo con il proprio allievo. In tal senso la
circolarità della parola, la capacità dell’ascolto, la pratica dell’empatia
divengono aspetti di un’arte che richiede la creatività del pensiero, la
disponibilità della persona, il dono di sé. Nancy afferma che ogni persona
umana declina il proprio clinamem verso l’altro in una continua
trasformazione dei legami e degli scambi reciproci, fondati sempre sul dono
della parola.. Comunicare è un’arte della vita, è l’arte della vita che
sostiene le esistenze.
A scuola è
molto difficile riuscire ad investire sull’arte della comunicazione, eppure
potrebbe essere il luogo dove gli adolescenti potrebbero veramente imparare a
costruire percorsi e non solo a vedere i fini. Dove potrebbero sperimentare quotidianamente il senso del
dialogo e la verità delle emozioni. Dove si potrebbe imparare a guardare, a
vedere, a sentire ciò che si nasconde dietro alle apparenze più
accreditate.
Sostenere la
crescita degli adolescenti significa imparare a dis-locare il proprio punto di
vista, per accogliere il loro, significa tendere la propria persona versi i
segnali più insignificanti e fastidiosi, marginali e irritanti perché
incongruenti con le proprie certezze. Sostenere l’arduo percorso di un
adolescente vuol dire accogliere i paradossi del pensiero e della
comunicazione, affrontando i dissensi e il conflitto attraverso la sua gestione
creativa. Sostenere il cammino scolastico di un ragazzo che vuol abbandonare la
scuola o che lo ha già fatto, mettendosi da parte, vuol dire abbandonare il
proprio punto di vista per assumere l’altrui e, soprattutto, considerare la sua
ragione e la sua prospettiva.
Il sostegno
e l’ascolto, attraverso il dialogo, sono il segno dell’impegno personale di
colui che li manifesta, sono il segno di una passione profonda e di una volontà
radicale di trasformazione personale. Continua, sempre.
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[1]
Laing R.D., L’io diviso. Studio di
psichiatria esistenziale, (1959), Torino, Einaudi, 1999, p. 15.
[2] Ibidem.
[3] Per i testi più recenti si
rimanda ai riferimenti bibliografici al termine del presente testo.
[4] Winnicott D.D. La
famiglia e lo sviluppo dell’individuo, (1965), Roma, Armando, 1996¹², pp. 107-118.
[5] Bateson G. Verso
un’ecologia della mente, (1971), Milano, Adelphi, 1977.
[6] Bettelheim B., Un
genitore quasi perfetto, (1987), Milano, Feltrinelli, 1987.
[7] Winnicott D.D., La famiglia e lo sviluppo dell’individuo,
op. cit , pp. 109-110.
[8] Ibidem, p. 108.
[9] Morin E., Una testa ben
fatta, (1999), Milano, Raffaello Cortina, 2000, p. 15.
[10] Ibidem, p. 13.
[11] Ibidem, p. 45.
[12] Ibidem, pp. 52-53.
[13] Ibidem, p. 101.
[14] Morin E., Una testa
ben fatta, op. cit., p. 132.
[15] Ibidem.
[16]
Liverta Sempio O., L’abbandono scolastico: alcuni punti di riferimento,
in Liverta Sempio O., Confalonieri E., Scaratti G. ( a cura di), L’abbandono
scolastico. Aspetti culturali, cognitivi, affettivi, Milano, Raffaello
Cortina, 1999, p. 29.
[17]
Bruner J, La ricerca del significato, (1990), Torino, Bollati
Boringhieri, 1992; Id., La cultura dell’educazione, (1996), Milano,
Feltrinelli, 1997.
[18]
Liverta Sempio O., L’abbandono scolastico: alcuni punti di riferimento, op.
cit., p. 31.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem, p. 32.
[21] Ibidem,
p. 36. Il concetto di spazio dell’incontro ben illumina la relazione educativa
nella classe. Sono gli insegnanti che possono o meno costruire lo spazio
dell’incontro con gli allievi e, ancor prima, rendersio dispsonibili per tale costruzione.
[22] Rogers C.R., Un modo di essere, (1980),
Firenze, Martinelli, 1993, p. 20.
[23] Fratini C., La
dimensione comunicativa, in Cambi F., Catarsi E., Colicchi E., Fratini C.,
Muzi M., Le professionalità educative. Tipologia, interpretazione e modello,
Roma, Carocci, 2003, 67-94.
[24] Rogers C.R., Un modo di essere, op. cit.,
p. 13.
[25] Crepet P., Non siamo
capaci di ascoltarli, Torino, Einaudi, 2001.
[26] Bachtin M., L’autore e
l’eroe, Torino, Einaudi, 1988.
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