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martedì 14 maggio 2013

Lavoro e salute: la precarietà nell’età post-moderna



Nell’affrontare la tematica dedicata alla relazione tra salute e lavoro nella società post-moderna, ci si trova di fronte a una lunga lista di aspetti di rilevanza sociologica. L’argomento è senza dubbio ampio e il dibattito contemporaneo vivace: si va dall’importanza della tutela della salute, alla sicurezza e all’igiene sul posto di lavoro, dalla discussione sulla normativa esistente alle forme assicurative del lavoratore, dal mobbing alle nuove “malattie da ufficio”. Ciascuno di questi apre un’ampia discussione sociologica.
Qui ci si occuperà di alcuni di questi aspetti che, partendo dall’analisi del contesto economico - produttivo della società contemporanea e passando attraverso la descrizione delle nuove modalità lavorative atipiche, si sono ritenuti importanti per capire quali siano i rischi di salute dei nuovi lavoratori.
La società contemporanea vive un momento di transitorietà caratterizzato da una spiccata evoluzione tecnologica, da mutamenti economici, sociali e culturali di entità globale. Non a caso la letteratura sociologica contemporanea pullula di definizioni di una società post-moderna in crisi, una società dell’incertezza e del rischio. In effetti le nuove tecnologie, la globalizzazione dei mercati e la nascita di società multiculturali, stanno cambiando radicalmente il volto della società contemporanea trasformandola da moderna e razionalizzata in liquida e instabile.
Se guardiamo soltanto ai processi in atto all’interno del mercati del lavoro europei, appare evidente come si stia manifestando, seppur in maniera differente a seconda del contesto nazionale, una sorta di erosione del contratto lavoro classico, stabile, di tipo fordista che ha caratterizzato per tutta la modernità l’occupazione nelle grandi imprese pubbliche e private, in favore una moltiplicazione di contratti di lavoro “marginali”.
Contemporaneamente si sta assistendo a un indebolimento dell’opposizione tra mercati del lavoro interni e mercati del lavoro esterni, nonché ad una complessificazione dei percorsi professionali che trattengono diversamente i giovani nei loro percorsi di studio: Si sta verificando una redistribuzione dei rischi economici e sociali tra imprese e lavoratori, che sta comportando la nascita di nuove forme di precarizzazione sociale. Questa sembra essere causa oltre che dall’emergere di nuovi mercati transizionali, anche e soprattutto c la moltiplicazione delle forme giuridiche dei contratti di lavoro. Le trasformazioni avvenute negli ultimi anni all’interno dell’organizzazione delle modalità lavorative hanno profondamente modificato il quadro dei rischi relativi salute e alla sicurezza dei lavoratori. Si sono attenuate alcune patologie ma sono giunte di nuove, tra cui tutta una serie di gravi malattie di cui è difficile individuare con certezza l’origine e di cui è impossibile trovare immediatamente una relazione causale diretta con l’attività professionale.
Al fine di comprendere quali siano i nuovi rischi per la salute e la sicurezza di chi oggi è attivo nel mercato del lavoro occorre valutare una molteplicità fattori piuttosto differenziati. È necessario analizzare le trasformazioni organizzative avviatesi con le tecnologie e valutare le conseguenze che hanno le modalità, sulla percezione e sulla qualità del lavoro; solo in un secondo momento si comprenderà il legame esistente «tra i cambiamenti avvenuti rapporti contrattuali e le ripercussioni causate nell’ambito della salute e sicurezza». Infine si focalizzerà l’attenzione sulle nuove figure professionali soggette ai rischi sociali e di salute
Come già era stato indicato dal CENSIS nel 2000, nel sistema economico contemporaneo dell’Italia, innovazione, competitività e tecnologia divengono parole d’ordine sia per le imprese sia per i lavoratori. Per le prime esse si traducono in investimenti economici, in formazione professionale e in capacità di rischio, mentre per il lavoratore diventano richieste di competenza, capacità organizzative e autonomia, in una parola sola flessibilità. Ciò che il CENSIS aveva intravisto nel 2000 era solo un anticipo di ciò che a distanza di sei anni è diventato ancor più reale.
Il mercato del lavoro italiano si va caratterizzando sempre più per un’occupazione flessibile, che reclama al lavoratore una marcata autonomia, una viva intraprendenza e una spiccata capacità organizzativa e di adattamento. Si sta compiendo infatti l’ultimo passaggio da un modello industriale di economia a un modello post-industriale, in cui a un accento sul volume della produzione, si sostituisce il valore della produzione e quindi una concezione della crescita non più quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Si sta passando definitivamente da un’economia di scala a un’economia flessibile.
Il  modello fordista che per buona parte del XX secolo è stato a fondamento del processo produttivo, lascia il posto a forme alternative, diverse di organizzazione del lavoro, che segnano il passaggio storico verso un sistema nuovo, post-fordista che, pur mantenendo inalterate alcune caratteristiche della produzione, di fatto rivoluziona l’organizzazione del lavoro.
In questo momento di transizione, le imprese di ogni dimensione si trovano infatti impegnate nell’applicazione delle nuove tecnologie e implicate nelle possibilità e nelle problematiche connesse alla globalizzazione dei mercati. Sono alle prese con nuove esigenze del mercato, che impongono la rivisitazione dei sistemi produttivi, coinvolgendo le strategie, le attività e le modalità di produzione, i tempi e i metodi di organizzazione del lavoro. Ecco perché il sistema taylorista - fordista standardizzato e stabile, tipico delle società moderne e non più adeguato al mercato contemporaneo, viene soppiantato da nuove modalità organizzative caratterizzate dalla ricerca della flessibilità. Essa rappresenta da un lato il perno del nuovo sistema e la soluzione migliore per rispondere alle richieste del nuovo mercato, dall’altro la causa di sconvolgimenti nella compagine lavorativa.
Se per lungo tempo e per tutta la modernità, il lavoro ha rappresentato delle più importanti certezze della vita privata e sociale del singolo, l’elemento regolatore del proprio progetto di vita, fortemente collegato con il valore del riconoscimento di sé e del proprio ruolo sociale, oggi esso acquisisce forme nuove e sempre più difficili da definire sociologicamente. D’altronde non si vede come esso possa mantenere le caratteristiche del passato, quando l’applicazione delle nuove normative sul lavoro impone una rivisitazione delle forme contrattuali e delle condizioni lavorative che puntano alla massima flessibilità.
In questo scenario di mutamento resta costante e stabile la funzione di riconoscimento della condizione di cittadino, nonché la costruzione dell’identità sociale che passano pur sempre attraverso la conduzione di un’attività lavorativa. In un sistema discontinuo e flessibile come quello odierno diventa quasi contraddittorio riuscire a costruire la propria identità sociale grazie al lavoro, con una serie di problemi che ne conseguono sul piano fisico, psicologico e sociale, correlati con la salute.  
Le opportunità offerte dal lavoro flessibile acquisiscono un’accezione negativa nel momento in cui hanno ricadute sulla personalità del lavoratore vita quotidiana. Il lavoro atipico in cui l’autonomia e la libertà dei lavo rappresentano la prima regola, i lavoratori devono essere più competenti, con un’elevata qualificazione, e al contempo più esposti al rischio di precarietà professionale e di vulnerabilità sociale, con forti ripercussioni sullo stato di salute.
Il processo di de-standardizzazione del lavoro insieme al progressivo sviluppo dei sistemi informativi, dà vita all’individualizzazione dei rapporti di lavoro col conseguente venir meno dei legami sociali e del senso di appartenenza, fondamentali per lo sviluppo dell’identità collettiva e dell’integrazione professionale prima e sociale poi.
Il rischio più grande che ne consegue diventa un disorientamento personale e sociale che porta a un continuo stato  di incertezza col conseguente accumulo di stress e di malessere vissuto.
Le profonde trasformazioni del mercato del lavoro, l’innalzamento dei livelli di studio e la diversificazione dei percorsi formativi, fanno sì che il processo di transizione al lavoro sia sempre meno un percorso lineare e prevedibile, contrassegnato da una sequenza ordinata e coerente di esperienze formative ed episodi lavorativi. Quello di oggi è un mercato del lavoro più aperto e dinamico, ma anche, meno trasparente e più precario, che richiede all’individuo, spirito di iniziativa, una buona dose di spregiudicatezza, di calcolo, progettualità e capacità di cogliere e interpretare le tendenze del mercato. Caratterizzato da una forte richiesta di flessibilità nei confronti del lavoratore, le possibilità correlate al lavoro, lo mettono in condizioni di situazioni sempre nuove in cui deve prendere abilmente decisioni operative con un carico di responsabilità notevole che caratterizza l’operatività del lavoro flessibile. Tra i lavoratori emerge la sofferenza di chi ha paura di non soddisfare, di non riuscire nel compito, di non essere all’altezza, di non rispettare tempi, ritmi, modalità e livelli di conoscenza e d’informazione; c’è inoltre il timore di non avere esperienza sufficiente e rapidità nell’acquisizione di nuove pratiche, né di possedere capacità di adattamento alla cultura dell’impresa. Sono queste le paure che si sommano a uno stile di vita stressante e stressato sono stati di sofferenza che impediscono al lavoratore post-moderno di godere di una salute equilibrata, portandolo a un rischio più elevato di malattie.
Nella società contemporanea il lavoro precario, massima espressione dell’incertezza e del rischio che la caratterizza, è affiancato anche da stati di salute precaria, vissuto da coloro che operano in condizioni lavorative più stressanti e a costante rischio malattia
Si e avuta in passato la tendenza a pensare che la sofferenza nel lavoro fosse se stata attenuata dalla meccanizzazione e dalla tecnologia, che avrebbero evitato il contatto diretto con la materia tipica delle mansioni industriali, e avrebbero convertito la manovalanza in operatori dalle mani pulite, trasformando gli operai in impiegati”.
Come appare evidente, la realtà dei fatti è altra storia. Anzitutto occorre rilevare che, oltre alle nuove categorie di lavoratori precari oggi, nonostante le tecnologie ci siano venute in aiuto e sebbene in molte aziende gran parte del processo produttivo sia meccanizzato, permane ancora un esercito di lavoratori che compie lavori in situazioni di estremo pericolo per il loro stato di salute, in condizioni ancora rischiose e non troppo diverse da quelle del passato. È il caso di operai manutentori del nucleare, delle imprese di pulizia, degli allevamenti di polli e dei macelli industriali, delle aziende di trasloco e di confezioni tessili. Con fattori di nocività piuttosto eterogenei, queste nuove categorie di lavoratori esposti a diversi rischi di salute vivono in situazioni di pericolo esattamente come prima dell’avvento della tecnologia, e vanno tenuti in considerazione nelle riflessioni sul sistema di salute pubblica e di cura e tutela della salute del lavoratore.
In secondo luogo se da un lato dobbiamo ringraziare le tecnologie per esserci di sostegno nella catena di montaggio e nell’esclusione dell’uomo da alcuni comparti lavorativi estremamente rischiosi, dall’altra non dobbiamo dimenticare coloro che ancora vivono situazioni lavorative così pericolose, né sottovalutare i problemi di salute e sicurezza connessi alle nuove tipologie di lavoro. Queste categorie di lavoratori fanno parte della compagine lavorativa e rischia la propria salute sul posto di lavoro. In questo scenario occorre chiedersi se sia utile ripensare e riformulare il concetto di sicurezza e tutela della salute sul posto di lavoro.
A conferma della preoccupante situazione stanno i dati che emergono dalle prime ricerche sul tema dei rischi di salute nel lavoro precario. Nella realtà lavorativa italiana va detto anzitutto che i precari sono soprattutto “adulti/giovani” che si attestano sulla trentina d’anni, di cui una quota significativa vive con i genitori e la stragrande maggioranza non ha figli. Una buona parte sono donne che se arrivate alla soglia dei quaranta anni, soltanto per un hanno un figlio. Ben il 76% lavora per un unico datore di lavoro con trattamenti economici alquanto contenuti e con un rapporto di “dipendenza” piuttosto particolare.
Più della metà dei precari «svolge un orario superiore a q standard, ossia più di trentotto ore a settimana, soprattutto nel privato. Nonostante gli orari lavorativi lunghi, ben il 46% [...] ha una retribuzione inferiore a mille euro al mese. Tra questi, poco meno di un quarto guadagna meno di ottocento euro. Si tratta soprattutto di lavoratori del privato e del privato sociale. I “Tecnici” e gli “Intellettuali”, che svolgono orari lavorativi ben sopra dell’orario standard, hanno redditi mediamente più elevati, ma comunque di gran lunga inferiori a quelli dei loro colleghi dipendenti e mai superiori a millecinquecento euro mensili». In generale poi la durata dei contratti è piuttosto breve: il 28,3% ha un contratto della durata massima di sei mesi e il 56,5% di un anno, mentre soltanto una minoranza esigua può contare su contratti di durata superiore.
Questo testimonia una condizione piuttosto complessa che provoca nei lavoratori un senso di insofferenza, di malcontento malessere generale. Questi stati psico-fisici, gli psicologici del lavoro li prendono nella frustrazione, rilevando come essa possa avere ricadute ne ve sulla qualità del risultato e del compito svolto, nonché sulla salute generale del lavoratore che accusa stati costanti di affaticamento se non addirittura malattie obiettivamente diagnosticate.
Tra i fattori che influiscono maggiormente sullo stato d’animo di chi la in queste condizioni, emergono soprattutto gli aspetti legati ai trattamenti contrattuali e alla mancanza di diritti previdenziali e di tutela. «In generale, sono abbastanza soddisfatti dei rapporti personali che hanno con i loro e colleghi e con i loro superiori; [...] I motivi di maggiore malcontento sono in legati alla retribuzione, alla possibilità di crescita professionale, al coinvolgimento nelle decisioni aziendali e alla garanzia delle tutele sociali» nonché  ai ritmi di vita e alle condizioni di elevato stress in cui svolgono la propri attività.
Altre evidenze dello stato di malessere sono rintracciabili sia nel allungamento dei tempi necessari per raggiungere una prima posizione occupazionale, sia nella crescente distanza tra il tipo di carriera scolastica e lo sbocco occupazionale. Nel percorso di avvicinamento a una condizione professionale più stabile, si susseguono e si alternano sempre più spesso periodi di studio, esperienze lavorative a carattere formativo e prestazioni professionali remunerate, temporanee e occasionali.
I lavoratori flessibili devono destreggiarsi in uno scenario di doppia incertezza che riguarda sia le propensioni e capacità personali, sia la forte preoccupazione di perdere il lavoro, che spesso li spinge ad accettare lavori non strettamente collegati con i loro percorsi di studio.
I recentissimi dati pubblicati dall‘Ires presentano i lavoratori atipici come i più preoccupati in assoluto. Sono circa il 61,9% coloro che dichiarano un elevato stato di preoccupazione rispetto alla possibilità di restare senza lavoro, contro il 15,2% dei lavoratori con contratto standard. Per questo trascorrono spesso periodi di iperlavoro che non sono seguiti da periodi di riposo e la loro libertà nella gestione del tempo è sovente limitata. Anche se contrattualmente non devono recarsi sul posto di lavoro tutti i giorni alla stessa ora, nella realtà dei fatti i lavoratori flessibili sono caldamente invitati a farlo comunque. Sono liberi di decidere se prendersi una giornata ma poi, nei periodi di maggior attività, restano al lavoro per giorni e settimane senza dedicare tempo ad altro. Se da un lato, quindi esiste la libertà formale di decidere e stabilire autonomamente modalità e ritmi di lavoro, dall’altro i committenti impongono loro un’organizzazione operativa i cui margini di discrezionalità si rivelano piuttosto ridotti.
A conferma di questo si aggiungono altri dati interessanti. Nell’ultimo rapporto CENSIS, accanto alla crescita dell’economia italiana emerge che il 33,8% degli italiani lavora abitualmente in orari faticosi: di sera, di notte, nei week-end, e a casa oltre l’orario abituale. A questa percentuale si aggiunge un 19,8% cui capita, invece, saltuariamente di dover lavorare in orari pesanti (durante i pasti o nelle pause di lavoro), per un totale di circa otto milioni centotrentottomila lavoratori, (vale a dire cinquantatre su cento). L’orario atipico più diffuso è il lavoro di sabato, che interessa ben il 29,5% dei lavoratori italiani, seguito dall’ attività serale (11% degli occupati), domenicale (6,5 %) da quella notturna, che coinvolge complessivamente ben il 5,6% del campione. Questo ritmo di vita, come si è visto, viene tenuto per periodi di tempo estremamente allungati e in condizioni ai limiti della resistenza fisica, psichica e sociale. Lo svincolo da un preciso orario di lavoro spesso si trasforma frequentemente in uno squilibrio che influenza negativamente la sfera privata cancellando di fatto i confini tra tempo di lavoro e tempo di riposo e di svago. Se questo è vero, se il lavoro pervade il tempo privato dei lavoratori, invadendo il loro spazio di vita personale e determinando prestazioni lavorative intense con giornate di lavoro prolungate ben oltre l’orario consueto, pare evidente che ci si trova di fronte a soggetti post-moderni particolarmente a rischio.
Gli spazi occupati dalle attività retribuite si impadroniscono anche dello spazio di vita privata, impedendo una relazionalità e una socialità di cui l’essere umano ha necessità. Nella scala dei bisogni umani, come insegnano le teorie di Abraham Maslow e quelle di Ronald Inglehart, esiste “un bisogno di relazionalità sociale rinvenibile in quell’area” [ ] di “bisogni sociali di autorealizzazione, appartenenza e stima”. Senso di comunità, rapporti di fratellanza, relazioni face-to-face, produzione intersoggettiva di senso all’interno del mondo della vita quotidiana», insieme a interazioni sociali soddisfacenti e all’autorealizzazione, sono fondamentali per l’equilibrio fisico e sociale dell’essere umano.
Oggi, lo stress da iperlavoro, con la conseguente inadeguatezza nelle capacità del singolo di regolare ritmi di vita lavorativa con spazi di vita rappresenta uno dei principali fattori a rischio malattia, rimanendo un componenti principali dello stato di malessere, e indubbiamente non la sola: moltéplici sono le conseguenze sullo stato di salute provenienti da uno stile di vita incerto e precario.
Anche se i dati che emergono dalle ricerche condotte in questo ambito nei diversi paesi europei, non rappresentano una realtà omogenea e non permettono generalizzazioni teoriche, di fatto sembra esistere una relazione forte tra le trasformazioni delle relazioni salariali e i rischi correlati alla salute e alla sicurezza sul lavoro.
Nello specifico, in una ricerca del 2002 condotta dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, emerge come la velocità dei cambiamenti e la complessità delle modalità e delle condizioni lavorative infonda, in chi è attivo, un senso di perdita di controllo sulla propria vita e sul proprio lavoro. A ciò si aggiunge la pressione causata dall’accelerazione dei tempi di lavoro che comporta inevitabilmente un aumento dello stress e della fatica nervosa.
I dati europei sulle forze di lavoro rilevano che le malattie emergenti caratteristiche della post-modernità quali stress, depressione, ansia, (ma anche violenza sui luoghi di lavoro, molestie e intimidazione) rappresentano ben il 18% dei problemi di salute sul lavoro e che un quarto di questa percentuale è costretta a un’interruzione delle attività pari o superiore alle due settimane. Queste patologie appaiono non tanto legate all’esposizione a un rischio specifico sul luogo di lavoro, quanto a un insieme di fattori differenziati che vanno a insidiare ciò che solitamente viene definito “benessere sul luogo di lavoro”.
Le numerose e continue responsabilità legate al ruolo, i conflitti coi colleghi, le ansie sul futuro del proprio contratto, il carico indefinito di compiti, l’ambiente non sempre adeguato e i ritmi pressanti, sono altre possibili fonti di stress che possono avere conseguenze sullo stato di salute e causare anche comportamenti di carattere “difensivo”: dall’ assenteismo, all’ incapacità di fronteggiare le situazioni nuove nei compiti assegnati, dalla difficoltà di socializzazione alla somatizzazione corporea dell’incertezza.
Tutto questo carico da lavoro ha notevoli costi anche per la società: le forme di assenteismo e di richiesta d’indennizzo per malattia professionale, ove previste da contratto, sono in considerevole aumento. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato un allarme, stimando che sia addirittura il 30% della popolazione mondiale attiva a essere affetta da disturbi mentali di tipo non psicotico (magari non riconosciute nel DSM-IV), presentando una situazione alquanto preoccupante.
Le prestazioni saltuarie, fissate soprattutto dalle specifiche tipologie contrattuali, hanno incrementato la gravità delle situazioni di stress, (derivanti soprattutto dall’insicurezza per il futuro), che arrivano fino all’ansia e a forme di depressione di diversa gravità. Tutto questo ha ripercussioni anche sullo si di salute e sulle speranze di vita: è stato già calcolato come i disoccupati di lunga durata rappresentino la categoria sociale che ha speranze di vita minori e che le loro storie personali sono caratterizzate da forti depressioni, ansie e tentativi di suicidio.
I disoccupati non sono comunque gli unici soggetti da valutare sotto questo profilo. Gli studi condotti sul rischio di salute nei luoghi di lavoro, hanno subito evidenziato come l’esecuzione di compiti che hanno una quotidianità monotona, che sono ripetitivi o faticosi, che avvengono in condizioni insalubri o di isolamento, aumentano le probabilità di incidenti dovuti soprattutto a disattenzione, mancato controllo, indolenza o leggerezza nello svolgimento delle attività.
Per quanto concerne invece i rischi che accompagnano i cambiamenti venuti nelle relazioni contrattuali, si può affermare che esistano forti differenze tra lavoratori permanenti che hanno un contratto a tempo indeterminato lavoratori flessibili che hanno contratti a termine, rispetto ai temi di sicure; e tutela della salute sui luoghi di lavoro. A uno sguardo veloce sembra che i rischi siano gli stessi per entrambe le categorie, ma in realtà come si è accennato esiste una specificità caratteristica del lavoratore flessibile. Emerge dunque come questa categoria di lavoratori sia molto meno informata rispetto agli eventuali rischi del proprio lavoro, e che i corsi di formazione, eventualmente previsti e svolti all’interno dell’organizzazione aziendale, non siano all’altezza dell’informazione necessaria.
Se si osservano poi le condizioni di lavoro a cui questi ultimi sono sottoposti la situazione appare ancora più grave. Inoltre per quanto i lavoratori a tempo indeterminato si confrontino con richieste ed esigenze di lavoro sempre più impegnative, i lavoratori precari vivono condizioni in cui esiste un minor controllo sui processi lavorativi e organizzativi perché inquadrati in attività i cui processi non sono standardizzati, vivendo stati compositi di malessere che si sommano alla prospettiva di dover cambiare frequentemente lavoro e all’eventualità di over restare inattivi per lunghi periodi. Nello svolgimento di mansioni temporanee dì breve durata, e di progetti che hanno un termine temporale inoltre, il lavoratore la “percezione gruppale del rischio”, ovvero l’occasione di percepire gli accordi e le soluzioni implicitamente o esplicitamente adottate dal gruppo, nel caso si trovassero a fronteggiare situazioni di pericolo e/o di emergenza.
Se a tutto ciò si aggiunge l’indice di infortuni riscontrato nei lavoratori precari, emerge un dato estremamente interessante rispetto agli interinali. «Pur essendo difficilmente verificabile sulla base dei dati quantitativi a disposizione, la casistica dimostra uno spostamento dei rischi a sfavore dei lavoratori temporanei e dei subappaltatori, i quali risultano nel complesso meno protetti e/o meno consapevoli dei rischi medesimi».
È stato rilevato infine che nonostante possa esistere una differenza di età, di occupazione e di settore, tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori atipici, un nesso tra le condizioni ergonomiche critiche e i contratti atipici sembra sempre più considerevole.
Di fronte a uno scenario di questo tipo i medici chiedono aiuto nella definizione di nuove tipologie di malessere provenienti dal lavoro e correlate all’impiego e alle condizioni in cui si svolge. I medici e gli istituti di medicina del lavoro cominciano a lanciare l’allarme, evidenziando come a parte una diffusa e ormai nota svogliatezza nel riprendere i ritmi di lavoro dopo un periodo di riposo e di vacanza, si debba fronteggiare il rischio di una serie di disturbi legati allo svolgimento della propria attività, ancora non sempre riconosciuti come tali. Si va dalle ormai accertate conseguenze provenienti stile di vita lavorativa sedentario, (come obesità, aumento di colesterolo alle vere e proprie “malattie da ufficio”, fino a l’emergenza di nuove forme di disagio legate al terziario. Senza dedicare spazio alle problematiche provenienti da una vita sedentaria che qui richiederebbero una riflessione ben ampia sugli stili di vita, vale la pena dedicare qualche riga alle “malattie ufficio”. Tra queste la più conosciuta è la sick building syndrome (“sindrome da edificio malato”) che ha cause multifattoriali e non è considerata una vera e propria malattia: si tratta piuttosto di una serie di disturbi che affliggo passa molte ore all’interno di un edificio chiuso. Questi sintomi colpi soprattutto l’apparato respiratorio, ma non solo: fastidi agli occhi, spesso arrossati e irritati, sensazioni di occlusione e secchezza di naso e gola, disturbi causati da tosse e senso di oppressione toracica; pelle disidratata nonché sintomi legati al sistema nervoso con senso di apatia e svogliatezza. Sulla base delle osservazioni mediche, sembra che questi sintomi scompaiano una che le persone si siano allontanate dall’edificio in cui lavorano.
Se si osserva poi la struttura del luogo di lavoro e il suo mantenimento, vengono riscontrati altri problemi di salute legati agli impianti di ventilazione artificiale o di condizionamento dell’aria, come pure correlati alla man di luce solare e alla respirazione costante e quotidiana di aria “viziata”.
Effettivamente i medici dichiarano che alcuni agenti patogeni (come batteri e parassiti) possono essere trasmessi grazie all’aria condizionata dell’ufficio causando asma bronchiale, alveoliti allergiche estrinseche e polmoniti del legionario.

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