Nell’affrontare
la tematica dedicata alla relazione tra salute e lavoro nella società
post-moderna, ci si trova di fronte a una lunga lista di aspetti di rilevanza
sociologica. L’argomento è senza dubbio ampio e il dibattito contemporaneo
vivace: si va dall’importanza della tutela della salute, alla sicurezza e
all’igiene sul posto di lavoro, dalla discussione sulla normativa esistente
alle forme assicurative del lavoratore, dal mobbing alle nuove “malattie da
ufficio”. Ciascuno di questi apre un’ampia discussione sociologica.
Qui
ci si occuperà di alcuni di questi aspetti che, partendo dall’analisi del
contesto economico - produttivo della società contemporanea e passando
attraverso la descrizione delle nuove modalità lavorative atipiche, si sono
ritenuti importanti per capire quali siano i rischi di salute dei nuovi
lavoratori.
La
società contemporanea vive un momento di transitorietà caratterizzato da una
spiccata evoluzione tecnologica, da mutamenti economici, sociali e culturali di
entità globale. Non a caso la letteratura sociologica contemporanea pullula di
definizioni di una società post-moderna in crisi, una società dell’incertezza e
del rischio. In effetti le nuove tecnologie, la globalizzazione dei mercati e
la nascita di società multiculturali, stanno cambiando radicalmente il volto
della società contemporanea trasformandola da moderna e razionalizzata in
liquida e instabile.
Se
guardiamo soltanto ai processi in atto all’interno del mercati del lavoro
europei, appare evidente come si stia manifestando, seppur in maniera differente
a seconda del contesto nazionale, una sorta di erosione del contratto lavoro
classico, stabile, di tipo fordista
che ha caratterizzato per tutta la modernità l’occupazione nelle grandi imprese
pubbliche e private, in favore una moltiplicazione di contratti di lavoro
“marginali”.
Contemporaneamente
si sta assistendo a un indebolimento dell’opposizione tra mercati del lavoro
interni e mercati del lavoro esterni, nonché ad una complessificazione dei percorsi professionali che trattengono diversamente
i giovani nei loro percorsi di studio: Si sta verificando una redistribuzione
dei rischi economici e sociali tra imprese e lavoratori, che sta comportando la
nascita di nuove forme di precarizzazione
sociale. Questa sembra essere causa oltre che dall’emergere di nuovi mercati
transizionali, anche e soprattutto c la moltiplicazione delle forme giuridiche
dei contratti di lavoro. Le trasformazioni avvenute negli ultimi anni
all’interno dell’organizzazione delle modalità lavorative hanno profondamente
modificato il quadro dei rischi relativi salute e alla sicurezza dei lavoratori.
Si sono attenuate alcune patologie ma sono giunte di nuove, tra cui tutta una
serie di gravi malattie di cui è difficile individuare con certezza l’origine e
di cui è impossibile trovare immediatamente una relazione causale diretta con
l’attività professionale.
Al
fine di comprendere quali siano i nuovi rischi per la salute e la sicurezza di
chi oggi è attivo nel mercato del lavoro occorre valutare una molteplicità
fattori piuttosto differenziati. È necessario analizzare le trasformazioni organizzative
avviatesi con le tecnologie e valutare le conseguenze che hanno le modalità,
sulla percezione e sulla qualità del lavoro; solo in un secondo momento si
comprenderà il legame esistente «tra i cambiamenti avvenuti rapporti
contrattuali e le ripercussioni causate nell’ambito della salute e sicurezza».
Infine si focalizzerà l’attenzione sulle nuove figure professionali soggette ai
rischi sociali e di salute
Come
già era stato indicato dal CENSIS nel 2000, nel sistema economico contemporaneo dell’Italia,
innovazione, competitività e tecnologia divengono parole d’ordine sia per le
imprese sia per i lavoratori. Per le prime esse si traducono in investimenti
economici, in formazione professionale e in capacità di rischio, mentre per il
lavoratore diventano richieste di competenza, capacità organizzative e
autonomia, in una parola sola flessibilità. Ciò che il CENSIS aveva intravisto
nel 2000 era solo un anticipo di ciò che a distanza di sei anni è diventato
ancor più reale.
Il
mercato del lavoro italiano si va caratterizzando sempre più per un’occupazione
flessibile, che reclama al lavoratore una marcata autonomia, una viva
intraprendenza e una spiccata capacità organizzativa e di adattamento. Si sta
compiendo infatti l’ultimo passaggio da un modello industriale di economia a un
modello post-industriale, in cui a un accento sul volume della produzione, si
sostituisce il valore della produzione e quindi una concezione della crescita
non più quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Si sta passando
definitivamente da un’economia di scala a un’economia flessibile.
Il modello fordista che per buona parte del XX
secolo è stato a fondamento del processo produttivo, lascia il posto a forme
alternative, diverse di organizzazione del lavoro, che segnano il passaggio
storico verso un sistema nuovo, post-fordista che, pur mantenendo inalterate
alcune caratteristiche della produzione, di fatto rivoluziona l’organizzazione
del lavoro.
In
questo momento di transizione, le imprese di ogni dimensione si trovano infatti
impegnate nell’applicazione delle nuove tecnologie e implicate nelle
possibilità e nelle problematiche connesse alla globalizzazione dei mercati.
Sono alle prese con nuove esigenze del mercato, che impongono la rivisitazione
dei sistemi produttivi, coinvolgendo le strategie, le attività e le modalità
di produzione, i tempi e i
metodi di organizzazione del lavoro. Ecco perché il sistema taylorista -
fordista standardizzato e stabile, tipico delle società moderne e non più
adeguato al mercato contemporaneo, viene soppiantato da nuove modalità
organizzative caratterizzate dalla ricerca della flessibilità. Essa rappresenta
da un lato il perno del nuovo sistema e la soluzione migliore per rispondere
alle richieste del nuovo mercato, dall’altro la causa di sconvolgimenti nella
compagine lavorativa.
Se
per lungo tempo e per tutta la modernità, il lavoro ha rappresentato delle più
importanti certezze della vita privata e sociale del singolo, l’elemento
regolatore del proprio progetto di vita, fortemente collegato con il valore del
riconoscimento di sé e del proprio ruolo sociale, oggi esso acquisisce forme
nuove e sempre più difficili da definire sociologicamente. D’altronde non si
vede come esso possa mantenere le caratteristiche del passato, quando
l’applicazione delle nuove normative sul lavoro impone una rivisitazione delle
forme contrattuali e delle condizioni lavorative che puntano alla massima
flessibilità.
In
questo scenario di mutamento resta costante e stabile la funzione di
riconoscimento della condizione di cittadino, nonché la costruzione
dell’identità sociale che passano pur sempre attraverso la conduzione di
un’attività lavorativa. In un sistema discontinuo e flessibile come quello odierno
diventa quasi contraddittorio riuscire a costruire la propria identità sociale
grazie al lavoro, con una serie di problemi che ne conseguono sul piano fisico,
psicologico e sociale, correlati con la salute.
Le
opportunità offerte dal lavoro flessibile acquisiscono un’accezione negativa
nel momento in cui hanno ricadute sulla personalità del lavoratore vita
quotidiana. Il lavoro atipico in cui l’autonomia e la libertà dei lavo
rappresentano la prima regola, i lavoratori devono essere più competenti, con
un’elevata qualificazione, e al contempo più esposti al rischio di precarietà
professionale e di vulnerabilità sociale, con forti ripercussioni sullo stato
di salute.
Il
processo di de-standardizzazione del lavoro insieme al progressivo sviluppo dei
sistemi informativi, dà vita all’individualizzazione dei rapporti di lavoro col
conseguente venir meno dei legami sociali e del senso di appartenenza,
fondamentali per lo sviluppo dell’identità collettiva e dell’integrazione
professionale prima e sociale poi.
Il
rischio più grande che ne consegue diventa un disorientamento personale e
sociale che porta a un continuo stato di
incertezza col conseguente accumulo di stress e di malessere vissuto.
Le
profonde trasformazioni del mercato del lavoro, l’innalzamento dei livelli di
studio e la diversificazione dei percorsi formativi, fanno sì che il processo
di transizione al lavoro sia sempre meno un percorso lineare e prevedibile, contrassegnato
da una sequenza ordinata e coerente di esperienze formative ed episodi
lavorativi. Quello di oggi è un mercato del lavoro più aperto e dinamico, ma
anche, meno trasparente e più precario, che richiede all’individuo, spirito di
iniziativa, una buona dose di spregiudicatezza, di calcolo, progettualità e
capacità di cogliere e interpretare le tendenze del mercato. Caratterizzato da
una forte richiesta di flessibilità nei confronti del lavoratore, le
possibilità correlate al lavoro, lo mettono in condizioni di situazioni sempre
nuove in cui deve prendere abilmente decisioni operative con un carico di
responsabilità notevole che caratterizza l’operatività del lavoro flessibile.
Tra i lavoratori emerge la sofferenza di chi ha paura di non soddisfare, di non
riuscire nel compito, di non essere all’altezza, di non rispettare tempi, ritmi,
modalità e livelli di conoscenza e d’informazione; c’è inoltre il timore di non
avere esperienza sufficiente e rapidità nell’acquisizione di nuove pratiche, né
di possedere capacità di adattamento alla cultura dell’impresa. Sono queste le
paure che si sommano a uno stile di vita stressante e stressato sono stati di
sofferenza che impediscono al lavoratore post-moderno di godere di una salute
equilibrata, portandolo a un rischio più elevato di malattie.
Nella
società contemporanea il lavoro precario, massima espressione dell’incertezza e
del rischio che la caratterizza, è affiancato anche da stati di salute precaria, vissuto da coloro che
operano in condizioni lavorative più stressanti e a costante rischio malattia
Si e
avuta in passato la tendenza a pensare che la sofferenza nel lavoro fosse
se stata attenuata dalla
meccanizzazione e dalla tecnologia, che avrebbero evitato il contatto diretto
con la materia tipica delle mansioni industriali, e avrebbero convertito la
manovalanza in operatori dalle mani pulite, trasformando gli operai in
impiegati”.
Come
appare evidente, la realtà dei fatti è altra storia. Anzitutto occorre rilevare
che, oltre alle nuove categorie di lavoratori precari oggi, nonostante le
tecnologie ci siano venute in aiuto e sebbene in molte aziende gran parte del
processo produttivo sia meccanizzato, permane ancora un esercito di lavoratori
che compie lavori in situazioni di estremo pericolo per il loro stato di
salute, in condizioni ancora rischiose e non troppo diverse da quelle del passato.
È il caso di operai manutentori del nucleare, delle imprese di pulizia, degli
allevamenti di polli e dei macelli industriali, delle aziende di trasloco e di
confezioni tessili. Con fattori di nocività piuttosto eterogenei, queste nuove
categorie di lavoratori esposti a diversi rischi di salute vivono in situazioni
di pericolo esattamente come prima dell’avvento della tecnologia, e vanno
tenuti in considerazione nelle riflessioni sul sistema di salute pubblica e di
cura e tutela della salute del lavoratore.
In
secondo luogo se da un lato dobbiamo ringraziare le tecnologie per esserci di
sostegno nella catena di montaggio e nell’esclusione dell’uomo da alcuni
comparti lavorativi estremamente rischiosi, dall’altra non dobbiamo dimenticare
coloro che ancora vivono situazioni lavorative così pericolose, né
sottovalutare i problemi di salute e sicurezza connessi alle nuove tipologie di
lavoro. Queste categorie di lavoratori fanno parte della compagine lavorativa e
rischia la propria salute sul posto di lavoro. In questo scenario occorre
chiedersi se sia utile ripensare e riformulare il concetto di sicurezza e
tutela della salute sul posto di lavoro.
A
conferma della preoccupante situazione stanno i dati che emergono dalle prime
ricerche sul tema dei rischi di salute nel lavoro precario. Nella realtà
lavorativa italiana va detto anzitutto che i precari sono soprattutto “adulti/giovani”
che si attestano sulla trentina d’anni, di cui una quota significativa vive con
i genitori e la stragrande maggioranza non ha figli. Una buona parte sono donne
che se arrivate alla soglia dei quaranta anni, soltanto per un hanno un figlio.
Ben il 76% lavora per un unico datore di lavoro con trattamenti economici
alquanto contenuti e con un rapporto di “dipendenza” piuttosto particolare.
Più
della metà dei precari «svolge un orario superiore a q standard, ossia più di
trentotto ore a settimana, soprattutto nel privato. Nonostante gli orari
lavorativi lunghi, ben il 46% [...] ha una retribuzione inferiore a mille euro
al mese. Tra questi, poco meno di un quarto guadagna meno di ottocento euro. Si
tratta soprattutto di lavoratori del privato e del privato sociale. I “Tecnici”
e gli “Intellettuali”, che svolgono orari lavorativi ben sopra dell’orario
standard, hanno redditi mediamente più elevati, ma comunque di gran lunga
inferiori a quelli dei loro colleghi dipendenti e mai superiori a
millecinquecento euro mensili». In generale poi la durata dei contratti è
piuttosto breve: il 28,3% ha un contratto della durata massima di sei mesi e il
56,5% di un anno, mentre soltanto una minoranza esigua può contare su contratti
di durata superiore.
Questo
testimonia una condizione piuttosto complessa che provoca nei lavoratori un
senso di insofferenza, di malcontento malessere generale. Questi stati
psico-fisici, gli psicologici del lavoro li prendono nella frustrazione,
rilevando come essa possa avere ricadute ne ve sulla qualità del risultato e
del compito svolto, nonché sulla salute generale del lavoratore che accusa
stati costanti di affaticamento se non addirittura malattie obiettivamente
diagnosticate.
Tra
i fattori che influiscono maggiormente sullo stato d’animo di chi la in queste
condizioni, emergono soprattutto gli aspetti legati ai trattamenti contrattuali
e alla mancanza di diritti previdenziali e di tutela. «In generale, sono
abbastanza soddisfatti dei rapporti personali che hanno con i loro e colleghi e
con i loro superiori; [...] I motivi di maggiore malcontento sono in legati
alla retribuzione, alla possibilità di crescita professionale, al coinvolgimento
nelle decisioni aziendali e alla garanzia delle tutele sociali» nonché ai ritmi di vita e alle condizioni di elevato
stress in cui svolgono la propri attività.
Altre
evidenze dello stato di malessere sono rintracciabili sia nel allungamento dei
tempi necessari per raggiungere una prima posizione occupazionale, sia nella
crescente distanza tra il tipo di carriera scolastica e lo sbocco
occupazionale. Nel percorso di avvicinamento a una condizione professionale più
stabile, si susseguono e si alternano sempre più spesso periodi di studio,
esperienze lavorative a carattere formativo e prestazioni professionali
remunerate, temporanee e occasionali.
I
lavoratori flessibili devono destreggiarsi in uno scenario di doppia incertezza
che riguarda sia le propensioni e capacità personali, sia la forte
preoccupazione di perdere il lavoro, che spesso li spinge ad accettare lavori
non strettamente collegati con i loro percorsi di studio.
I
recentissimi dati pubblicati dall‘Ires presentano i lavoratori atipici come i
più preoccupati in assoluto. Sono circa il 61,9% coloro che dichiarano un
elevato stato di preoccupazione rispetto alla possibilità di restare senza
lavoro, contro il 15,2% dei lavoratori con contratto standard. Per questo
trascorrono spesso periodi di iperlavoro
che non sono seguiti da periodi di riposo e la loro libertà nella gestione del
tempo è sovente limitata. Anche se contrattualmente non devono recarsi sul
posto di lavoro tutti i giorni alla stessa ora, nella realtà dei fatti i
lavoratori flessibili sono caldamente invitati a farlo comunque. Sono liberi di
decidere se prendersi una giornata ma poi, nei periodi di maggior attività,
restano al lavoro per giorni e settimane senza dedicare tempo ad altro. Se da
un lato, quindi esiste la libertà formale di decidere e stabilire autonomamente
modalità e ritmi di lavoro, dall’altro i committenti impongono loro
un’organizzazione operativa i cui margini di discrezionalità si rivelano
piuttosto ridotti.
A
conferma di questo si aggiungono altri dati interessanti. Nell’ultimo rapporto
CENSIS, accanto alla crescita dell’economia italiana emerge che il 33,8% degli
italiani lavora abitualmente in orari faticosi: di sera, di notte, nei
week-end, e a casa oltre l’orario abituale. A questa percentuale si aggiunge un
19,8% cui capita, invece, saltuariamente di dover lavorare in orari pesanti
(durante i pasti o nelle pause di lavoro), per un totale di circa otto milioni
centotrentottomila lavoratori, (vale a dire cinquantatre su cento). L’orario atipico
più diffuso è il lavoro di sabato, che interessa ben il 29,5% dei lavoratori
italiani, seguito dall’ attività serale (11% degli occupati), domenicale (6,5
%) da quella notturna, che coinvolge complessivamente ben il 5,6% del campione.
Questo ritmo di vita, come si è visto, viene tenuto per periodi di tempo estremamente
allungati e in condizioni ai limiti della resistenza fisica, psichica e
sociale. Lo svincolo da un preciso orario di lavoro spesso si trasforma frequentemente
in uno squilibrio che influenza negativamente la sfera privata cancellando di
fatto i confini tra tempo di lavoro e tempo di riposo e di svago. Se questo è
vero, se il lavoro pervade il tempo privato dei lavoratori, invadendo il loro
spazio di vita personale e determinando prestazioni lavorative intense con
giornate di lavoro prolungate ben oltre l’orario consueto, pare evidente che ci
si trova di fronte a soggetti post-moderni particolarmente a rischio.
Gli
spazi occupati dalle attività retribuite si impadroniscono anche dello spazio di
vita privata, impedendo una relazionalità e una socialità di cui l’essere umano
ha necessità. Nella scala dei bisogni umani, come insegnano le teorie di
Abraham Maslow e quelle di Ronald Inglehart, esiste “un bisogno di relazionalità
sociale rinvenibile in quell’area” [ ] di “bisogni sociali di
autorealizzazione, appartenenza e stima”. Senso di comunità, rapporti di fratellanza,
relazioni face-to-face, produzione
intersoggettiva di senso all’interno del mondo della vita quotidiana», insieme
a interazioni sociali soddisfacenti e all’autorealizzazione, sono fondamentali
per l’equilibrio fisico e sociale dell’essere umano.
Oggi,
lo stress da iperlavoro, con la conseguente inadeguatezza nelle capacità del
singolo di regolare ritmi di vita lavorativa con spazi di vita rappresenta uno
dei principali fattori a rischio malattia, rimanendo un componenti principali
dello stato di malessere, e indubbiamente non la sola: moltéplici sono le
conseguenze sullo stato di salute provenienti da uno stile di vita incerto e precario.
Anche
se i dati che emergono dalle ricerche condotte in questo ambito nei diversi
paesi europei, non rappresentano una realtà omogenea e non permettono
generalizzazioni teoriche, di fatto sembra esistere una relazione forte tra le
trasformazioni delle relazioni salariali e i rischi correlati alla salute e
alla sicurezza sul lavoro.
Nello
specifico, in una ricerca del 2002 condotta dall’Agenzia Europea per la
Sicurezza e la Salute sul Lavoro, emerge come la velocità dei cambiamenti e la
complessità delle modalità e delle condizioni lavorative infonda, in chi è
attivo, un senso di perdita di controllo sulla propria vita e sul proprio
lavoro. A ciò si aggiunge la pressione causata dall’accelerazione dei tempi di
lavoro che comporta inevitabilmente un aumento dello stress e della fatica
nervosa.
I
dati europei sulle forze di lavoro rilevano che le malattie emergenti
caratteristiche della post-modernità quali stress, depressione, ansia, (ma
anche violenza sui luoghi di lavoro, molestie e intimidazione) rappresentano
ben il 18% dei problemi di salute sul lavoro e che un quarto di questa
percentuale è costretta a un’interruzione delle attività pari o superiore alle
due settimane. Queste patologie appaiono non tanto legate all’esposizione a un
rischio specifico sul luogo di lavoro, quanto a un insieme di fattori
differenziati che vanno a insidiare ciò che solitamente viene definito
“benessere sul luogo di lavoro”.
Le
numerose e continue responsabilità legate al ruolo, i conflitti coi colleghi,
le ansie sul futuro del proprio contratto, il carico indefinito di compiti,
l’ambiente non sempre adeguato e i ritmi pressanti, sono altre possibili fonti
di stress che possono avere conseguenze sullo stato di salute e causare anche
comportamenti di carattere “difensivo”: dall’ assenteismo, all’ incapacità di
fronteggiare le situazioni nuove nei compiti assegnati, dalla difficoltà di
socializzazione alla somatizzazione corporea dell’incertezza.
Tutto
questo carico da lavoro ha notevoli costi anche per la società: le forme di
assenteismo e di richiesta d’indennizzo per malattia professionale, ove
previste da contratto, sono in considerevole aumento. L’Organizzazione Mondiale
della Sanità ha lanciato un allarme, stimando che sia addirittura il 30% della
popolazione mondiale attiva a essere affetta da disturbi mentali di tipo non
psicotico (magari non riconosciute nel DSM-IV), presentando una situazione
alquanto preoccupante.
Le
prestazioni saltuarie, fissate soprattutto dalle specifiche tipologie
contrattuali, hanno incrementato la gravità delle situazioni di stress,
(derivanti soprattutto dall’insicurezza per il futuro), che arrivano fino
all’ansia e a forme di depressione
di diversa gravità. Tutto questo ha ripercussioni anche sullo si di salute e
sulle speranze di vita: è stato già calcolato come i disoccupati di lunga
durata rappresentino la categoria sociale che ha speranze di vita minori e che
le loro storie personali sono caratterizzate da forti depressioni, ansie e
tentativi di suicidio.
I
disoccupati non sono comunque gli unici soggetti da valutare sotto questo
profilo. Gli studi condotti sul rischio di salute nei luoghi di lavoro, hanno
subito evidenziato come l’esecuzione di compiti che hanno una quotidianità
monotona, che sono ripetitivi o faticosi, che avvengono in condizioni insalubri
o di isolamento, aumentano le probabilità di incidenti dovuti soprattutto a
disattenzione, mancato controllo, indolenza o leggerezza nello svolgimento delle
attività.
Per
quanto concerne invece i rischi che accompagnano i cambiamenti venuti nelle
relazioni contrattuali, si può affermare che esistano forti differenze tra
lavoratori permanenti che hanno un contratto a tempo indeterminato lavoratori
flessibili che hanno contratti a termine, rispetto ai temi di sicure; e tutela
della salute sui luoghi di lavoro. A uno sguardo veloce sembra che i rischi
siano gli stessi per entrambe le categorie, ma in realtà come si è accennato
esiste una specificità caratteristica del lavoratore flessibile. Emerge dunque come questa categoria
di lavoratori sia molto meno informata rispetto agli eventuali rischi del
proprio lavoro, e che i corsi di formazione, eventualmente previsti e svolti
all’interno dell’organizzazione aziendale, non siano all’altezza
dell’informazione necessaria.
Se
si osservano poi le condizioni di lavoro a cui questi ultimi sono sottoposti la
situazione appare ancora più grave. Inoltre per quanto i lavoratori a tempo
indeterminato si confrontino con richieste ed esigenze di lavoro sempre più
impegnative, i lavoratori precari vivono condizioni in cui esiste un minor
controllo sui processi lavorativi e organizzativi perché inquadrati in attività
i cui processi non sono standardizzati, vivendo stati compositi di malessere
che si sommano alla prospettiva di dover cambiare frequentemente lavoro e
all’eventualità di over restare inattivi per lunghi periodi. Nello svolgimento
di mansioni temporanee dì breve durata, e di progetti che hanno un termine
temporale inoltre, il lavoratore la “percezione gruppale del rischio”, ovvero
l’occasione di percepire gli accordi e le soluzioni implicitamente o
esplicitamente adottate dal gruppo, nel caso si trovassero a fronteggiare
situazioni di pericolo e/o di emergenza.
Se a
tutto ciò si aggiunge l’indice di infortuni riscontrato nei lavoratori precari,
emerge un dato estremamente interessante rispetto agli interinali. «Pur essendo
difficilmente verificabile sulla base dei dati quantitativi a disposizione, la
casistica dimostra uno spostamento dei rischi a sfavore dei lavoratori
temporanei e dei subappaltatori, i quali risultano nel complesso meno protetti
e/o meno consapevoli dei rischi medesimi».
È stato
rilevato infine che nonostante possa esistere una differenza di età, di occupazione e di settore, tra
lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori atipici, un nesso tra le
condizioni ergonomiche critiche e i contratti atipici sembra sempre più
considerevole.
Di
fronte a uno scenario di questo tipo i medici chiedono aiuto nella definizione
di nuove tipologie di malessere provenienti dal lavoro e correlate all’impiego
e alle condizioni in cui si svolge. I medici e gli istituti di medicina del
lavoro cominciano a lanciare l’allarme, evidenziando come a parte una diffusa e
ormai nota svogliatezza nel riprendere i ritmi di lavoro dopo un periodo di riposo
e di vacanza, si debba fronteggiare il rischio di una serie di disturbi legati
allo svolgimento della propria attività, ancora non sempre riconosciuti come
tali. Si va dalle ormai accertate conseguenze provenienti stile di vita
lavorativa sedentario, (come obesità, aumento di colesterolo alle vere e
proprie “malattie da ufficio”, fino a l’emergenza di nuove forme di disagio
legate al terziario. Senza dedicare spazio alle problematiche provenienti da
una vita sedentaria che qui richiederebbero una riflessione ben ampia sugli
stili di vita, vale la pena dedicare qualche riga alle “malattie ufficio”. Tra
queste la più conosciuta è la sick
building syndrome (“sindrome da edificio malato”) che ha cause multifattoriali
e non è considerata una vera e propria malattia: si tratta piuttosto di una
serie di disturbi che affliggo passa molte ore all’interno di un edificio
chiuso. Questi sintomi colpi soprattutto l’apparato respiratorio, ma non solo:
fastidi agli occhi, spesso arrossati e irritati, sensazioni di occlusione e secchezza
di naso e gola, disturbi causati da tosse e senso di oppressione toracica;
pelle disidratata nonché sintomi legati al sistema nervoso con senso di apatia
e svogliatezza. Sulla base delle osservazioni mediche, sembra che questi
sintomi scompaiano una che le persone si siano allontanate dall’edificio in cui
lavorano.
Se
si osserva poi la struttura del luogo di lavoro e il suo mantenimento, vengono
riscontrati altri problemi di salute legati agli impianti di ventilazione
artificiale o di condizionamento dell’aria, come pure correlati alla man di
luce solare e alla respirazione costante e quotidiana di aria “viziata”.
Effettivamente
i medici dichiarano che alcuni agenti patogeni (come batteri e parassiti)
possono essere trasmessi grazie all’aria condizionata dell’ufficio causando
asma bronchiale, alveoliti allergiche estrinseche e polmoniti del legionario.
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