Quando si parla di “area del disagio” e cerchiamo
definizioni e categorie all’interno delle quali circoscrivere tale ambito, la
complessità dei soggetti e delle modalità attraverso le quali si esprimono ci
appaiono al limite dell’indecifrabile.
Chi sono i “soggetti disagiati” e rispetto a che cosa e a
chi ?
Possiamo forse parlare di condizioni di:
· debolezza di
capacità relative alla costruzione di un futuro (scolastico, professionale,
esistenziale e cioè mancanza di potere cioè possibilità di immaginare un
progetto……… ma allora ci sono migliaia e migliaia di soggetti in tali
condizioni e quindi li definiamo deboli?
· debolezza
rispetto ad un ordine determinato, un’axis mundi, che determina percorsi
definiti e collettivamente legittimati, che non tollerano “deviazioni” dalla
via maestra né scartamenti laterali; ma questi, ordine e percorsi, mutano,
cambiano con il tempo e con i “poteri esterni”, spesso chiedono passività e
sudditanza, piuttosto che attività e creatività
· debolezza
rispetto a sè stessi ed alle relazioni con l’altro, incapacità di auto
definirsi in un contenitore unitario che chiamiamo “identità”; ma questo
contenitore mi pare essere più semantico che sostanziale, paradigma al limite
dell’imperscrutabile
E quindi giungere ad una prima conclusione: il disagio ci appartiene, non è estraneo a
ciascuno di noi, è costitutivo dell’esperienza esistenziale che conduciamo
quotidianamente.
A partire da queste prime considerazioni si può iniziare a
parlare di formazione e psicologia. I termini del discorso sono riconoscere il
conflitto tra una metafora (cioè paradigma) di identità come unità,
individuazione, integrazione e un’altra come plurima, diversa e differente, e
che non si preoccupa di integrare e identificare parti in un unicum: la
polarità tra caos e ordine, molteplicità e unità, può anche non essere sciolta.
Conseguenza è che le stranezze e le devianze che ciascuno di
noi porta e agisce sono insieme “me e non me”, utilizzando queste
“patologizzazioni” (come le chiama Hillman) per guardarci dentro e fuori,
identificando il normale e il deviante, il distorto e il normale. E questo
atteggiamento può essere efficace (ma anche significativo) se siamo convinti
(con Platone) che “la ragione da sola non governa il mondo né fissa le sue
regole”. E cioè se la “fantasia (forse Fantasma) della normalità” non distorce
le cose, facendoci perdere il contatto con le nostre individuali anormalità,
provocando l’instaurarsi di norme nella nostra visione del mondo che non sono
altro che un’idealizzazione repressiva delle parti anomale che ne hanno
consentito l’emergere.
Consapevoli anche che il patrimonio delle nostre esperienze
esistenziali, porta con sè l’intrusione costante di intenzioni inconsce nel
comportamento quotidiano che noi consideriamo normali ma che da altri
potrebbero essere giudicate come anomale e patologiche.
In questo quadro le parole chiave della nostra professione
assumono un senso altro.
Apprendere significa mettere dentro di noi qualcosa di nuovo
o diverso, aggiungere o spostare parti delle nostra credenze, sviluppare certe
“parti” invece che altre, scoprire regioni di noi o del mondo la cui esistenza
preme per alterare il nostro precedente equilibrio. Ogni apprendimento implica
un cambiamento della nostra forma precedente. Significa spostare parti del
nostro mondo e spostare queste parti implica cambiare la forma del nostro mondo
interno. Vuol dire rischiare la colpa, l’incertezza, l’emarginazione; da qui
nascono l’ambivalenza e le difese. Anche perché le cosiddette capacità
psicologiche sono un concetto indefinito, e si possono trattare solo se si
lavora su il loro collegamento al comportamento (compito, azione, etc.).
Eccoci alla seconda conclusione (inconcludente): l’essere e il divenire, l’immutabilità e il
cambiamento, non sono antitesi che devono giungere a sintesi, quanto piuttosto
luoghi di un dilemma che ci stupisce nel momento in cui scopriamo che la sua
ricorrenza è al fondo del nostro esistere. Nessuna delle due posizioni mi
sembra adeguata: come il bambino della metafora platonica contenuta nel
Sofista, noi formatori della psiche, di fronte alla scelta, potremo optare per
entrambe: convincerci che il cambiamento è connesso all’immutabilità, che il
futuro cresce nella vulnerabilità stessa del nostro esistere che al fondo è
bisogno di non crescere mai.
E per me ciò significa smettere di pensare (e di far
pensare) che evolvere significa tendere a rinnegare il passato e che, in questo
senso, ciò che vogliamo/dobbiamo
cambiare è ciò di cui vorremmo sbarazzarci perché anomalo, perturbante,
deviante, debole. Credo che il nostro compito (oggi più che mai e con le
persone che mostrano sintomi di disagio) sia quello di evitare la rimozione di
sè stessi (o delle parti) come anomali e perturbanti; e cioè lavorare perché le
forze psichiche aumentino le loro capacità di risvegliare sentimenti e che le
emozioni abbiano almeno dignità di essere in qualche modo rappresentate nelle
azioni quotidiane.
Si tratta quindi di "emozioni". John Dewey (nel
lontano 1939) ben esprimeva ciò che sto cercando di dire: “La scissione esistente nell’attuale vita
sociale tra idee che hanno autorità scientifica e le emozioni incontrollate che
dominano nella pratica, la scissione tra l’affettivo e il cognitivo, è forse
una delle principali sorgenti di disadattamento e di intollerabile tensione di
cui il mondo soffre”.
L’emozione è diventata un concetto peggiore di
irrazionalità, al punto di equipararlo al concetto di follia. Sembra che
l’unica e possibile realtà sia quella rappresentata da Prometeo l’eroe
civilizzatore, simbolo della fatica, della produttività, del progresso; ma io
credo anche che alla nostra vita appartenga Orfeo che antagonista alla logica
della ragione, agisce alla luce del pathos tentando di afferrarne la bellezza
contro lo scorrere del tempo.
In altre parole riconoscere e far riconoscere le emozioni
come principio di realtà significa:
· riconoscere
che le emozioni sono un modo di percepire, conoscere, adattarsi, e cioè un modo di “essere al
mondo”
· riconoscere
che sono dirette verso qualcosa (impauriti di qualcosa, sorpresi di qualcosa) e
che la cognizione non è solo concomitante all’emozione ma ne è elemento costitutivo
· riconoscere
che la ragione si rivela nell’emozione, per il modo di apprendere e influenzare la realtà, in termini di valore
di attrazione del nostro comportamento.
E inoltre con James Hillman potremo dire che:
· l’emozione significa
un mondo psichico obiettivo di qualità e valori, cioè l’emozione dà senso al
mondo interno ed esterno e al nostro stare in quei mondi
· l’emozione
ha una componente razionale o è razionale in sè e perciò n
· l’emozione
significa qualcosa, è essa stessa
significazione; dove vi è emozione, vi è significato; dove vi è significato, vi
è emozione
· l’emozione è
anche il solo modo di apprendere, di conoscere, e di sperimentare alcuni
aspetti dell’esistenza; solo attraverso l’emozione arriviamo ad un’alta
corrispondenza spirituale ed estetica.
E infine la terza conclusione (inconcludente). Possiamo e
dobbiamo riconsiderare cosa vuol dire fare formazione della psiche, formazione
psicologica, a partire da noi stessi professionisti di questo ambito.
Lavorare non per la correzione delle emozioni (ricondurre a
norma) ne per l’oblio delle stesse (rinnegare il passato). Lavorare per la
significazione della molteplicità che ci abita, l’emersione della
consapevolezza di non essere del tutto consapevoli e della paura che ciò
provoca nell’azione quotidiana. Lavorare per l’interiorizzazione della devianza
come propulsore di creatività e immaginazione, di sviluppo di poteri e nuove
direttrici.
Promuovere una capacità di avere esperienza della vita anche
attraverso la sensualità (estetica) che consente di immaginarla (la vita)
attraverso questa prospettiva (de-formata) senza preoccupazione per la
necessità di adattamento o legittimazione.
Nella consapevolezza del processo degeneratorio che queste
categorie subiscono (nel tempo e nella vita) e dell’inutilità di perseguire
obiettivi di “cambiamento a tutti i costi”: perché chi ha scelto come me di
sviluppare apprendimento non intende (né intenderà mai) prescrivere ricette o
decretare sentenze o sancire norme collettive di comportamento.
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