Translate

lunedì 29 aprile 2013

Aspetti professionali: la formazione nell'area del disagio





Quando si parla di “area del disagio” e cerchiamo definizioni e categorie all’interno delle quali circoscrivere tale ambito, la complessità dei soggetti e delle modalità attraverso le quali si esprimono ci appaiono al limite dell’indecifrabile.

Chi sono i “soggetti disagiati” e rispetto a che cosa e a chi ?

Possiamo forse parlare di condizioni di: 

·         debolezza di capacità relative alla costruzione di un futuro (scolastico, professionale, esistenziale e cioè mancanza di potere cioè possibilità di immaginare un progetto……… ma allora ci sono migliaia e migliaia di soggetti in tali condizioni e quindi li definiamo deboli?

·         debolezza rispetto ad un ordine determinato, un’axis mundi, che determina percorsi definiti e collettivamente legittimati, che non tollerano “deviazioni” dalla via maestra né scartamenti laterali; ma questi, ordine e percorsi, mutano, cambiano con il tempo e con i “poteri esterni”, spesso chiedono passività e sudditanza, piuttosto che attività e creatività

·         debolezza rispetto a sè stessi ed alle relazioni con l’altro, incapacità di auto definirsi in un contenitore unitario che chiamiamo “identità”; ma questo contenitore mi pare essere più semantico che sostanziale, paradigma al limite dell’imperscrutabile

E quindi giungere ad una prima conclusione:  il disagio ci appartiene, non è estraneo a ciascuno di noi, è costitutivo dell’esperienza esistenziale che conduciamo quotidianamente.

A partire da queste prime considerazioni si può iniziare a parlare di formazione e psicologia. I termini del discorso sono riconoscere il conflitto tra una metafora (cioè paradigma) di identità come unità, individuazione, integrazione e un’altra come plurima, diversa e differente, e che non si preoccupa di integrare e identificare parti in un unicum: la polarità tra caos e ordine, molteplicità e unità, può anche non essere sciolta.

Conseguenza è che le stranezze e le devianze che ciascuno di noi porta e agisce sono insieme “me e non me”, utilizzando queste “patologizzazioni” (come le chiama Hillman) per guardarci dentro e fuori, identificando il normale e il deviante, il distorto e il normale. E questo atteggiamento può essere efficace (ma anche significativo) se siamo convinti (con Platone) che “la ragione da sola non governa il mondo né fissa le sue regole”. E cioè se la “fantasia (forse Fantasma) della normalità” non distorce le cose, facendoci perdere il contatto con le nostre individuali anormalità, provocando l’instaurarsi di norme nella nostra visione del mondo che non sono altro che un’idealizzazione repressiva delle parti anomale che ne hanno consentito l’emergere.
Consapevoli anche che il patrimonio delle nostre esperienze esistenziali, porta con sè l’intrusione costante di intenzioni inconsce nel comportamento quotidiano che noi consideriamo normali ma che da altri potrebbero essere giudicate come anomale e patologiche.

In questo quadro le parole chiave della nostra professione assumono un senso altro.

Apprendere significa mettere dentro di noi qualcosa di nuovo o diverso, aggiungere o spostare parti delle nostra credenze, sviluppare certe “parti” invece che altre, scoprire regioni di noi o del mondo la cui esistenza preme per alterare il nostro precedente equilibrio. Ogni apprendimento implica un cambiamento della nostra forma precedente. Significa spostare parti del nostro mondo e spostare queste parti implica cambiare la forma del nostro mondo interno. Vuol dire rischiare la colpa, l’incertezza, l’emarginazione; da qui nascono l’ambivalenza e le difese. Anche perché le cosiddette capacità psicologiche sono un concetto indefinito, e si possono trattare solo se si lavora su il loro collegamento al comportamento (compito, azione, etc.).  

Eccoci alla seconda conclusione (inconcludente):  l’essere e il divenire, l’immutabilità e il cambiamento, non sono antitesi che devono giungere a sintesi, quanto piuttosto luoghi di un dilemma che ci stupisce nel momento in cui scopriamo che la sua ricorrenza è al fondo del nostro esistere. Nessuna delle due posizioni mi sembra adeguata: come il bambino della metafora platonica contenuta nel Sofista, noi formatori della psiche, di fronte alla scelta, potremo optare per entrambe: convincerci che il cambiamento è connesso all’immutabilità, che il futuro cresce nella vulnerabilità stessa del nostro esistere che al fondo è bisogno di non crescere mai.

E per me ciò significa smettere di pensare (e di far pensare) che evolvere significa tendere a rinnegare il passato e che, in questo senso, ciò che vogliamo/dobbiamo  cambiare è ciò di cui vorremmo sbarazzarci perché anomalo, perturbante, deviante, debole. Credo che il nostro compito (oggi più che mai e con le persone che mostrano sintomi di disagio) sia quello di evitare la rimozione di sè stessi (o delle parti) come anomali e perturbanti; e cioè lavorare perché le forze psichiche aumentino le loro capacità di risvegliare sentimenti e che le emozioni abbiano almeno dignità di essere in qualche modo rappresentate nelle azioni quotidiane.

Si tratta quindi di "emozioni". John Dewey (nel lontano 1939) ben esprimeva ciò che sto cercando di dire:  “La scissione esistente nell’attuale vita sociale tra idee che hanno autorità scientifica e le emozioni incontrollate che dominano nella pratica, la scissione tra l’affettivo e il cognitivo, è forse una delle principali sorgenti di disadattamento e di intollerabile tensione di cui il mondo soffre”.

L’emozione è diventata un concetto peggiore di irrazionalità, al punto di equipararlo al concetto di follia. Sembra che l’unica e possibile realtà sia quella rappresentata da Prometeo l’eroe civilizzatore, simbolo della fatica, della produttività, del progresso; ma io credo anche che alla nostra vita appartenga Orfeo che antagonista alla logica della ragione, agisce alla luce del pathos tentando di afferrarne la bellezza contro lo scorrere del tempo. 

In altre parole riconoscere e far riconoscere le emozioni come principio di realtà significa:

·         riconoscere che le emozioni sono un modo di percepire, conoscere,  adattarsi, e cioè un modo di “essere al mondo”

·         riconoscere che sono dirette verso qualcosa (impauriti di qualcosa, sorpresi di qualcosa) e che la cognizione non è solo concomitante all’emozione ma ne è elemento costitutivo

·         riconoscere che la ragione si rivela nell’emozione, per il modo di apprendere e  influenzare la realtà, in termini di valore di attrazione del nostro comportamento.

E inoltre con James Hillman potremo dire che:

·         l’emozione significa un mondo psichico obiettivo di qualità e valori, cioè l’emozione dà senso al mondo interno ed esterno e al nostro stare in quei mondi

·         l’emozione ha una componente razionale o è razionale in sè e perciò n

·         l’emozione significa qualcosa,  è essa stessa significazione; dove vi è emozione, vi è significato; dove vi è significato, vi è emozione

·         l’emozione è anche il solo modo di apprendere, di conoscere, e di sperimentare alcuni aspetti dell’esistenza; solo attraverso l’emozione arriviamo ad un’alta corrispondenza spirituale ed estetica.

E infine la terza conclusione (inconcludente). Possiamo e dobbiamo riconsiderare cosa vuol dire fare formazione della psiche, formazione psicologica, a partire da noi stessi professionisti di questo ambito.

Lavorare non per la correzione delle emozioni (ricondurre a norma) ne per l’oblio delle stesse (rinnegare il passato). Lavorare per la significazione della molteplicità che ci abita, l’emersione della consapevolezza di non essere del tutto consapevoli e della paura che ciò provoca nell’azione quotidiana. Lavorare per l’interiorizzazione della devianza come propulsore di creatività e immaginazione, di sviluppo di poteri e nuove direttrici.

Promuovere una capacità di avere esperienza della vita anche attraverso la sensualità (estetica) che consente di immaginarla (la vita) attraverso questa prospettiva (de-formata) senza preoccupazione per la necessità di adattamento o legittimazione.

Nella consapevolezza del processo degeneratorio che queste categorie subiscono (nel tempo e nella vita) e dell’inutilità di perseguire obiettivi di “cambiamento a tutti i costi”: perché chi ha scelto come me di sviluppare apprendimento non intende (né intenderà mai) prescrivere ricette o decretare sentenze o sancire norme collettive di comportamento.

Nessun commento:

Posta un commento

Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale