Prendendo
 le mosse dalla teoria psicoanalitica di Freud, ma contrapponendosi a 
essa si sono sviluppate altre teorie delle dinamiche psicologiche del 
profondo. Le maggiori scuole di pensiero sono quelle che fanno 
riferimento alla psicologia analitica di Jung, alla psicologia 
individuale di Adler, alla psicologia dell'Io di Erickson e alle teorie 
di Melanie Klein.
 • 
Jung
 Lo psichiatra svizzero 
Carl Gustav Jung (1875-1961) è considerato il fondatore della 
psicologia analitica.
 Laureatosi in medicina nel 1900, entrò come assistente nel prestigioso 
ospedale psichiatrico di Zurigo, e divenne allievo di J. Bleuler, che 
aveva individuato nell'ampio genere della demenza i tratti specifici 
della schizofrenia. Nel 1906 entrò in contatto con Freud e aderì 
all'Associazione Psicoanalitica Internazionale. Nel 1913 ruppe con 
Freud, dalle cui teorie psicoanalitiche si discostò nell'interpretazione
 dell'inconscio e della libido. Anche per contrassegnare il proprio 
rispetto, comunque mantenuto, nei confronti di Freud, Jung chiamò la 
propria teoria “psicologia analitica”.
 Fedele alle teorie di Bleuler, Jung ritiene che 
l'inconscio precede la coscienza come una radice, piuttosto che seguirla come conseguenza di una rimozione.
 Ciò significa che per comprendere lo psichico non bisogna partire dalla
 costruzione dell'Io (come voleva Freud), ma dall'inconscio da cui l'Io 
si genera. 
Per Jung “inconscio” non è un luogo psichico come per Freud, 
ma
 un aggettivo che designa un insieme di “complessi” o gruppi di 
rappresentazioni a tonalità affettiva molto elevata, che l'Io può 
controllare o non controllare (in questo secondo caso siamo in 
presenza della schizofrenia quale destrutturazione dei rapporti con la 
realtà). All'inconscio si accede attraverso approcci metaforici, o 
figure, quali l'
anima, che designa la parte femminile nel maschio; l'
animus, che designa la parte maschile nella femmina; l'“
ombra”, che è la parte negativa della personalità e che il soggetto tende a nascondere; la “
persona”, o maschera, che l'Io assume nelle sue relazioni sociali fino ad identificarvisi quando non è sicuro di sé.
 Oltre
 all'inconscio personale, in cui sedimentano le tracce delle esperienze 
vissute, dimenticate o rimosse, Jung riconosce anche un 
inconscio collettivo, in cui resta depositato il patrimonio psicologico dell'umanità.
 Con questi termini non si deve però intendere un particolare contenuto 
comune a tutti gli uomini, ma “forme a priori” dell'immaginazione, 
disposizioni a fare esperienza in un modo piuttosto che in un altro. 
Tali sono gli 
archetipi della “grande madre”, o del 
puer o del 
senex, per i quali si decide il modo di fare esperienza in maniera materna, o infantile, o senile.
 
La dinamica psichica è concepita da Jung come relazione tra il Sé e l'Io. Con il termine 
Sé Jung intese 
l'unità complessiva della personalità:
 “Il Sé non è soltanto il centro, ma anche l'intero perimetro che 
abbraccia coscienza e inconscio, è il centro di questa totalità, così 
come l'Io è il centro della mente cosciente”. 
Del Sé Jung parlò in due accezioni: come momento iniziale della vita psichica e come 
sua realizzazione o meta.
 Come antecedente dell'Io, il Sé è l'espressione indifferenziata di 
tutte le possibilità umane: una indifferenziazione mitologicamente 
espressa dalla divinità rispetto alla quale un giorno l'uomo si era 
emancipato inaugurando, con la ragione, identità e differenze: questa 
emancipazione ha consentito all'uomo di uscire dalla notte 
dell'indifferenziato, dove appunto abita la follia. Come figura 
ulteriore rispetto all'ambito circoscritto della coscienza razionale, il
 Sé rappresenta poi il riferimento per una nuova ricerca di senso volta 
al recupero di motivi esistenziali rimossi per una adeguata costruzione 
dell'Io. 
La dinamica psichica in vista dell'autorealizzazione prevede una prima fase di adattamento alla realtà volta alla 
costruzione dell'Io, e una seconda fase di 
individuazione che si articola attraverso le due operazioni della 
differenziazione e dell'integrazione,
 da considerarsi a livello intrapsichico e interpsichico. Nel primo caso
 “individuarsi” significa differenziare l'Io dalle istanze psichiche 
inconsce, per passare successivamente a un'integrazione delle parti 
rimosse che possono concorrere alla crescita dell'Io ormai consolidato. 
Nel secondo caso individuarsi significa differenziarsi dall'adesione 
acritica alle forme collettive d'esistenza, per passare poi 
all'integrazione critica di forme e modelli culturali esistenti, da 
sostituire a quelli che hanno presieduto per il passato alla crescita e 
che ora si rivelano insufficienti. 
Operatore del processo di individuazione per Jung è il 
simbolo,
 che, a differenza di quanto ritiene Freud,  non è un segno che rinvia a
 una cosa nota (campanile =                  fallo, caverna =    
contenitore materno ecc.), ma è 
ciò che rimanda a qualcosa di fondamentalmente sconosciuto e per il quale non c'è espressione razionale adeguata.
 Jung
 scorse nella produzione simbolica individuale e collettiva delle 
eccedenze di senso rispetto all'insieme dei significati codificati. Da 
queste eccedenze scaturiscono quelle trasformazioni individuali e 
collettive in cui si esprime, a livello individuale, il senso di ogni 
biografia e, a livello collettivo, quello di storia. In tal modo Jung 
ampliò il concetto di psiche, lo emancipò dallo sfondo naturalistico in 
cui Freud l'aveva contenuto, 
identificando la psiche con le 
pulsioni dell'uomo in quanto organismo biologico, e in definitiva lo 
integrò con la nozione di storia: la storia come modificabilità della psiche in base alle trasformazioni epocali. Da questa esposizione si deduce che per Jung 
non esistono contenuti simbolici se non per un inconscio che li instaura;
 i simboli sono storici, perché non appena partoriscono il loro 
significato cessano di essere simboli diventando segni; il simbolo non è
 un significato, ma un'azione che mantiene in tensione gli opposti; nel 
simbolo c'è un'eccedenza di senso verso cui si orienta il processo di 
individuazione psichica.
 Se l'
archetipo fa riferimento alla natura umana indicando ciò che è comune, la 
tipologia psicologica
 fa riferimento a ciò che diversifica individuo da individuo, per cui se
 è ipotizzabile una visione oggettiva della psiche a livello 
archetipico, questa visione si frantuma a livello tipologico, dove è di 
volta in volta diverso il modo di essere uomo e di essere sé stesso. Ciò
 spiega come per la psicologia analitica non si dia una dottrina 
generale delle nevrosi, perché anche il modo di declinarsi della 
malattia rispecchia l'individualità.
 La psicologia elaborata da Jung viene definita dall'autore stesso con il termine di 
Psicologia analitica. Staccandosi da una precedente adesione al pensiero psicoanalitico di Freud, nel 1912 con l'opera 
Simboli della trasformazione
 Jung prospettò una lettura dell'energia psichica o libido non più 
limitata alle sole manifestazioni pulsionali come aveva ritenuto Freud, 
ma estesa anche alle espressioni culturali con finalità creative.
 Dopo Jung la psicologia analitica ha percorso due itinerari tipici che si discostano dallo junghismo classico. L'
itinerario archetipico, promosso da E. Neumann e J. Hillman,
 che vuol sostituire al linguaggio concettuale in cui si esprime la 
psicologia del profondo, il linguaggio immaginale proprio degli 
archetipi mitologici, perché l'immagine è il modo specifico di narrarsi 
della psiche, che non può essere distorto dalla sovrapposizione di un 
linguaggio concettuale ad essa estraneo. Dall'altra parte 
l'itinerario ermeneutico-epistemologico, promosso in Italia da Trevi,
 il cui modello ermeneutico, conduce al dialogo dei punti di vista 
prospettici e perciò stesso delle psicologie, tutte vere purché coerenti
 con le loro premesse, e tutte relative perché storicamente, 
psicologicamente ed esistenzialmente condizionate.
 • 
Adler
 Medico e psicologo austriaco 
A. Adler
 fu all'inizio il membro più autorevole del piccolo gruppo che, fin dal 
1902, si riuniva il mercoledì nella casa di Freud. Nel 1911 si distaccò 
polemicamente da esso e fondò la 
Società per la Psicologia Individuale.
 Il termine individuale allude alla considerazione 
dell'individuo come unità inscindibile sia in sé, sia nei rapporti con la società. Secondo la psicologia individuale la psiche è mossa dalla 
volontà di potenza, concetto tratto da Nietzsche ma inteso in senso più benevolo: esprime il 
bisogno di affermarsi ai fini della sopravvivenza
 e ripara all'originario sentimento di inferiorità del bambino. Alla 
volontà di potenza fa da contrappunto il sentimento sociale, che si 
esprime nella capacità di solidarizzare emotivamente con gli altri e 
dunque di cooperare nella società. Lo squilibrio tra queste due 
componenti porta alla nevrosi.
 Sul piano terapeutico scopo della psicologia individuale è di effettuare una 
correzione
 delle impostazioni erronee, derivanti da uno stile di vita inadeguato, 
aiutando il paziente a vivere secondo una rinnovata progettualità. La psicologia individuale ha avuto seguito specie in Inghilterra e negli USA, anche per la sua 
sensibilità al sociale, trovando inoltre convergenze con la psicoanalisi dei neofreudiani.
 • 
La psicologia dell'Io e Erikson
 L'idea centrale della 
psicologia dell'Io (cui aderì anche Anna Freud) 
è che esiste una sfera dell'Io autonoma dai conflitti pulsionali:
 la sfera dell'Io non deriva per differenziazione dall'Es, come voleva 
Freud, né tanto meno dai processi di identificazione, bensì è innata. 
Consiste in un'ampia serie di funzioni, quali il controllo della 
motilità, il linguaggio, la memoria, l'intelligenza, l'esame della 
realtà: sono 
funzioni messe in azione non dalla libido, ma da forme di energia neutra, o neutralizzata;
 all'insistenza sugli aspetti psichici delle funzioni dell'Io, fanno da 
contrappunto i riferimenti neurofisiologici, al fine di 
fondare biologicamente l'autonomia dell'Io.
 È comunque in forza del suo carattere autonomo che 
l'Io può opporsi alle pulsioni e regolare i rapporti con l'ambiente: il problema 
dell'adattamento all'ambiente
 diventa così centrale nella psicologia dell'Io, che aggiunge un punto 
di vista adattivo e inoltre uno genetico (per l'attenzione prestata ai 
processi evolutivi) ai tre punti considerati nella metapsicologia 
freudiana (topico, dinamico ed economico). Lo scarso peso attribuito 
invece alla dimensione fantasmatica inconscia fa sì che 
le relazioni con il mondo esterno vengano lette in un'ottica per lo più realistica.
 Con 
Rapaport si ha inoltre il più importante tentativo di una 
sistemazione epistemologica della psicoanalisi,
 secondo i canoni dell'empirismo logico dominanti al tempo; vi prevale 
una visione meccanicistica e obiettivistica della psiche.
 La 
psicologia dell'Io ha trovato fortuna negli Stai Uniti anche perché si 
incontrava con due questioni sentite nella cultura locale: il rapporto 
con l'ambiente e con la società; la scientificità della psicoanalisi e 
la sua integrazione nella psicologia accademica.
 Uno studioso riconducibile per certi versi alla Psicologia dell'Io è 
E. Erikson,
 psicoanalista statunitense di origine tedesca. Formatosi con Anna Freud
 a Vienna (ma è da sottolineare che prima aveva insegnato attività 
artistiche ai bambini), emigrò negli Stati Uniti nel 1933, dove insegnò 
in varie università. Si occupò prevalentemente di 
psicoanalisi dell'età evolutiva, studiando il bambino nel contesto sociologico e antropologico. Nella concezione di Erickson 
l'acquisizione dell'identità individuale e di quella sociale sono complementari:
 da una parte è sottolineata la funzione di sintesi e di integrazione 
svolta dall'Io nel corso dello sviluppo, dall'altra è dimostrata (con 
una famosa ricerca in cui veniva confrontata l'educazione nelle tribù 
Sioux, cacciatori, con quella nelle tribù Yurok, pescatori) 
l'interazione tra la formazione dell'Io e la struttura della società.
 • 
Melanie Klein
 Psicoanalista
 inglese, di origine austriaca, si accostò alla psicoanalisi nel 1914 
attraverso Ferenczi, allievo di Freud; ma riconobbe come maestro K. 
Abraham a Berlino, dove si trasferì nel 1921. La morte precoce di 
Abraham la indusse a stabilirsi definitivamente a Londra nel 1926. Qui 
fu dapprima accolta con favore, ma dagli anni Quaranta incontrò la 
vivace opposizione del gruppo ortodosso, capeggiato da Glover e da Anna 
Freud.
 La Klein aveva iniziato la sua pratica come analista di 
bambini, nella cura dei quali traspose direttamente i principi 
freudiani. 
Utilizzando il gioco, lo interpretava al bambino in 
termini simbolici al pari del sogno negli adulti, vedendovi 
l'espressione di pulsioni, di conflitti, di angosce inconsce. Ne trasse le prime tesi originali: il 
complesso di Edipo compare già nei primi anni di vita; 
il bambino mostra un universo fantasmatico assai ricco, popolato di oggetti dal carattere di quasi-persone, ora crudeli, ora dotate di mirabili qualità.
 Il rigido 
dualismo pulsionale (pulsioni lipidiche e pulsioni aggressive o di morte), la visione della 
mente come mondo interno
 (cioè un contenitore di oggetti di volta in volta proiettati 
all'esterno o introiettati), nonché l'allargamento della cura ad adulti 
psicotici favorirono l'elaborazione delle nozioni di 
posizione paranoide-schizoide e 
posizione depressiva. Le due posizioni compaiono rispettivamente nel primo e nel secondo semestre di vita del bambino. La posizione 
paranoide-schizoide
 è qualificata dalla percezione del seno materno da parte del bambino 
ora come oggetto buono, ora come oggetto cattivo (in quanto il 
seno è investito di pulsioni sia lipidiche, sia aggressive), dalla 
presenza di angoscia persecutoria (per una sorta di timore di vendetta 
al seguito degli immaginari attacchi al seno), o, al contrario, di 
straordinarie idealizzazioni. 
La posizione depressiva suppone dal canto suo la 
riunificazione del seno in un unico oggetto (sentito come buono):
 il soggetto vive conseguentemente se stesso come cattivo, donde 
l'angoscia depressiva. Nelle ultime opere la Klein accentuò il 
peso dei sentimenti, postulando nel bambino un'originaria invidia e una necessità di  farvi fronte con atteggiamenti riparatori.
Altri orientamenti
In
 una seconda fase, accanto alle grandi scuole analitiche, si sono 
sviluppate altri indirizzi interpretativi e terapeutici, dalla 
psicologia umanistica di Maslow e Rogers alle psicoterapie 
comportamentiste e cognitiviste e alle teorie dei tratti. 
• 
Maslow e Rogers: le teorie umanistiche 
Abraham Maslow, di cui 
abbiamo già analizzato 
la teoria dei bisogni e delle 
motivazioni, fondò nel 1962 la Società Americana di 
Psicologia Umanistica. 
Maslow sottolineò 
l'importanza dei valori nello sviluppo della personalità,
 criticando l'impostazione del comportamentismo e della psicoanalisi, 
ritenuta troppo riduttiva e meccanicistica. Il suo approccio si 
caratterizzò anche per la tendenza a 
studiare persone definite come sane,
 dalla cui osservazione e analisi Maslow derivò le caratteristiche delle
 persone autorealizzate, che rispecchiano da molti punti di vista la 
personalità comune, da cui traggono il meglio essendo a proprio agio con
 sé stesse e capaci di affrontare i propri limiti. La teoria 
dell'autorealizzazione di Maslow fu tuttavia criticata come 
eccessivamente indefinita e imprecisa (spesso, notano i detrattori dello
 studioso statunitense, anche la gerarchia dei bisogni da lui 
prospettata non viene rispettata in maniera rigorosa). 
Carl Rogers,
 altro psicologo statunitense, di formazione psicopedagogica, nel 1930 
divenne direttore della società per la prevenzione della crudeltà ai 
bambini a Rochester (NY). Professore di psicologia in varie università, 
fondò centri di consulenza, avviando in essi il metodo della 
terapia centrata sul cliente. Ne è premessa l'idea che 
la fonte principale del comportamento sia il bisogno di autorealizzazione,
 il quale porta ad uno sviluppo spontaneo e lineare (a meno di 
scontrarsi con l'ambiente). Pertanto, criticando sia le terapie 
direttive come quella comportamentista (vedi sotto 
Le teorie comportamentali e cognitiviste), sia la psicoanalisi, sostenne che 
l'approccio al paziente debba essere fondato sull'empatia,
 cioè un rapporto a tu per tu, benevolo comprensivo, che valorizza la 
spinta autonoma alla crescita. La peculiarità del rapporto 
terapeuta-cliente determina tempi e modalità di ciascun trattamento. Le 
tesi di Rogers, accostabili alla psicologia umanistica di Maslow, hanno 
avuto successo anche in Europa. 
• 
Le teorie comportamentali e cognitiviste 
Secondo i 
comportamentisti la personalità dipende dall'insieme 
dei comportamenti appresi sulla base del 
condizionamento operante, nel quale, come si è visto, ha un'importanza significativa il ruolo del rinforzo. La 
psicoterapia ispirata al comportamentismo pensa di 
togliere il sintomo senza coinvolgere l'insieme della personalità:
 essendo il sintomo un errore di apprendimento, occorre decondizionare 
il soggetto, avvicinandolo gradualmente all'elemento patogeno e 
mostrandogli che non sussistono i pericoli che teme. 
Secondo i 
cognitivisti    le
 differenti personalità deriverebbero dai diversi processi di pensiero e
 dalle rappresentazioni mentali degli altri e della realtà che ci 
circonda. Il loro intervento si può avvicinare a quello 
prospettato dai comportamentisti: presupponendo che il comportamento si 
basa su cognizioni e schemi. Mira alla riorganizzazione delle cognizioni
 errate del paziente su sé stesso e sugli altri. 
• 
Le teorie dei tratti 
Alcune delle prime teorie che hanno preso direttamente in considerazione la 
personalità (quelle di Allport, Cattel e Eysenk) l'hanno intesa come 
caratterizzata da un insieme di tratti innati o disposizioni stabili applicabili a tutti gli individui, sia pure con differenze per quanto riguarda il numero e il tipo di tratti esistenti. 
Gordon Allport, psicologo americano, intese dunque la personalità come l'insieme di diversi 
tratti (
cardinali, che influenzano ogni azione compiuta dalla persona; 
centrali, che pur essendo forti non possono vantare la coerenza dei cardinali, 
e secondari,
 che si esprime in ambiti più limitati dei centrali) che, sebbene comuni
 in molte persone, possono indurre ogni individuo a comportarsi in 
maniera diversa. Secondo Allport 
non possono esistere due persone identiche: la sua teoria ha pertanto lo scopo di 
salvaguardare l'unicità e irripetibilità dell'individuo.
 Nel comportamento di un individuo è pertanto importante analizzare sia 
la combinazione dei tratti, sia le differenze situazionali. 
Anche 
Raimond Cattel contribuì allo sviluppo della teoria dei tratti della personalità, identificando ed elaborando un elenco di 
16 fattori che potevano essere utilizzati per descrivere tutti gli individui e predirne il comportamento, fornendo una rappresentazione adeguata della loro personalità. Egli distinse i 
tratti superficiali (caratteristiche comuni che è possibile trovare in più persone diverse) dai 
tratti originari (fattori fondamentali della personalità). 
Hans Eysenk
 sostenne insieme a Allport e Cattel l'esistenza nella personalità di 
diversi tratti comuni relativamente stabili e misurabili; in particolare
 egli distinse la personalità in 
tre fattori principali (
introversione-estroversione, nevroticismo e psicoticismo) che isolò utilizzando la metodologia statistica dell'analisi 
fattoriale.
I disturbi del comportamento
La
 sofferenza mentale e i disturbi del comportamento  sono comunemente 
suddivisi i due grandi gruppi a seconda che il soggetto  conservi o 
perda il senso della realtà: nel primo caso abbiamo la famiglia delle  
nevrosi, nel secondo il gruppo delle psicosi.
 • 
Nevrosi
 In psicopatologia, con il termine 
nevrosi ci si riferisce a una 
famiglia di disturbi mentali di origine psichica in cui il  soggetto, diversamente dalla psicosi, conserva il senso della realtà.
 Il
 significato di nevrosi è assai variato nel corso del  tempo e in 
funzione delle diverse correnti di psichiatria e psicopatologia. Il  
termine venne introdotto dallo scozzese Cullen nel 1777, per indicare 
sia le  malattie mentali, sia quelle attribuibili al sistema nervoso. La
 scuola di 
J.M Charcot (seconda metà dell'Ottocento) 
           distingueva le malattie nervose organiche da quelle funzionali,
 dovute cioè a difetti del funzionamento del sistema nervoso  senza 
compromissione anatomica: sono le nevrosi nel senso odierno.
 La 
psicopatologia  contemporanea è concorde sulla definizione negativa delle nevrosi, come un 
insieme di disturbi del comportamento di cui non si trova patogenesi organica.
 Freud insistendo sull'origine puramente psichica  dell'isteria, che 
riteneva causata da rappresentazioni mentali che il soggetto non 
riusciva ad accettare, fondò la psicoanalisi su una concezione psicogena
 della nevrosi.
 La nevrosi nelle 
classificazioni psicopatologiche è abitualmente 
distinta sia dalla psicosi, in cui il soggetto, sopraffatto dalle dinamiche inconsce, dà luogo a deliri e allucinazioni; 
sia dalla perversione e dalla  psicopatia, in cui non vi è rimozione della pulsione; 
sia dal disturbo psicosomatico, che presenta lesioni  organiche obiettive. 
  La psicoanalisi
 nello  sterminato repertorio dei sintomi nevrotici individua alcuni 
quadri di nevrosi,  basati non tanto sulla classificazione dei sintomi 
quanto sulle dinamiche psichiche atte a spiegare detti quadri. La 
nevrosi appare così 
 l'esito di un conflitto psichico, 
radicato nella storia  infantile del soggetto, e il sintomo nevrotico è 
il compromesso tra un desiderio  inaccettabile e la difesa da esso. Il 
sintomo ha dunque un carattere simbolico:  rinvia alla rappresentazione 
di un desiderio come al suo significato. 
Comportamentismo e riflessologia spiegano 
la nevrosi come la risposta inadeguata allo stress, ovvero come errore di apprendimento a seguito di apprendimenti sfavorevoli.
 Si distingue tra isteria e nevrosi ossessiva. 
L'isteria è caratterizzata dalla conversione del conflitto  psichico in sintomi somatici (paralisi funzionali, anestesie, afasie, cecità  e tanti altri), senza compromissione anatomica. 
La  nevrosi ossessiva presenta sintomi meramente psichici,
 quali coazioni a  ripetere azioni insensate, pensieri ossessivi 
(blasfemi, di colpa, o altro), a  cui il soggetto non può sottrarsi. La 
nevrosi fobica, cioè la paura immotivata  di oggetti, animali, luoghi, è
 da taluni accostata alla nevrosi ossessiva  (nevrosi fobico-ossessiva),
 da altri, come Freud, all'isteria (isteria d'angoscia). 
Freud accomunò le nevrosi appena elencate  con il nome di nevrosi di transfert:
 in tutte permane la relazione con  oggetti (reali o di fantasia), 
relazione che inoltre il soggetto può indirizzare  ad altre persone, 
come accade nel transfert verso il terapeuta. 
Contrappose le nevrosi di transfert alle nevrosi narcisistiche o psicosi (per le quali il soggetto, chiuso nel suo mondo perde la capacità di relazionarsi con gli oggetti esterni) 
   e alle nevrosi attuali
   . Quest'ultima famiglia di nevrosi, la cui consistenza è oggi 
discussa, non ha origine da un conflitto infantile, ma attuale (per 
esempio, la nevrosi d'angoscia deriverebbe da un mancato deflusso delle 
eccitazioni sessuali). Condivisa invece anche al di fuori della 
psicoanalisi è la nozione di 
           nevrosi traumatica,
 che scoppia a seguito di eventi sconvolgenti. Ma il fatto che non tutti
 gli individui reagiscano con la nevrosi a un trauma o a forti emozioni,
 fa pensare che siano comunque decisive le componenti nevrotiche 
pregresse.
 • 
   Psicosi
 Il termine 
psicosi fa invece  riferimento a 
disturbi psichici gravi di origine  organica.
 Proprio la diversa origine differenzia le psicosi dalle nevrosi:  le 
nevrosi non hanno cause organiche (somatiche) ma solo cause psichiche; 
mentre  le psicosi hanno nella loro insorgenza fondazioni organiche che,
 per alcune,  sono conosciute e dimostrabili e, per altre, sono soltanto
 ipotizzabili. Le  nevrosi si possono definire anche come esperienze 
psicopatologiche  contrassegnate da deviazioni quantitative dalla norma 
(intesa in senso  statistico), e le 
psicosi quali esperienze  psicopatologiche caratterizzate da deviazioni qualitative dalla norma .
 Nel contesto delle psicosi si devono preliminarmente distinguere quelle 
 correlabili a cause organiche dimostrabili.
 Sono, queste, le psicosi chiamate da E. Kraepelin psicosi organiche: le
 più comuni sono conseguenti a lesioni traumatiche dell'encefalo, a sue 
lesioni degenerative o vascolari, a sue forme infettive e, in 
particolare, all'infezione luetica che conduceva, quando non era ancora 
adeguatamente curata, all'insorgenza della cosiddetta paralisi 
progressiva, malattia oggi praticamente scomparsa, ma della quale morì, 
per esempio, Nietzsche. Le psicosi organiche, indipendentemente dalle 
loro cause, presentano una 
sintomatologia psichica comune che si differenzia per ciascuna solamente sulla base dell'evoluzione. Le psicosi organiche acute  sono caratterizzate essenzialmente da 
disturbi della  coscienza,
 e cioè dalla compromissione più o meno profonda ed estesa, fino  alla 
perdita totale, delle capacità di orientarsi nello spazio e nel tempo. 
Le  psicosi organiche acute sono patologie che hanno un duplice 
possibile andamento: possono 
risolversi anche completamente, o possono  sconfinare nelle psicosi organiche croniche                                                         . Queste ultime non presentano disturbi della coscienza ma si hanno 
       disturbi dell'intelligenza e della personalità, ad andamento strisciante e  progredente, fino alla loro profonda destrutturazione nelle forme cosiddette demenziali.
 Antitetiche e contrapposte alle psicosi organiche sono quelle convenzionalmente chiamate 
         endogene          .
 
 
           Origini e cause sono ancora oggi  oscure e indimostrate
 Origini e cause sono ancora oggi  oscure e indimostrate,
 anche se l'indirizzo scientifico prevalente è quello  inteso a 
considerarle di natura organica, benché non si possa escludere  
l'influenza di fattori integrativi di natura ambientale e 
interpersonale. Delle  psicosi endogene fanno parte sostanzialmente
 due  sole grandi
   forme cliniche che sono state  genialmente
      individuate e
 descritte da Kraepelin                    : la psicosi maniaco-depressiva e la dementia praecox (schizofrenia). In realtà il termine di
 psicosi maniaco-depressiva,
 che vuole  indicare la presenza e la successione in una stessa persona 
di episodi maniacali  e di episodi depressivi, viene oggi sostituito da 
una duplice denominazione:  quella di depressione bipolare e quella di 
depressione monopolare. La prima  intende caratterizzare le forme 
cliniche in cui, come nella definizione  originaria di Kraepelin, 
episodi maniacali ed episodi depressivi si alternano  nel corso della 
vita di una persona, ad intervalli diversi di caso in caso; la  seconda 
intende invece indicare le forme cliniche, molto più frequenti, in cui  
si alternano nel corso della vita solo episodi di natura depressiva. Se 
il  termine di psicosi maniaco-depressiva continua a sopravvivere in 
alcuni circoli  psichiatrici di forte ascendenza kraepeliana, non si 
parla più di 
dementia praecox, ma la stessa sintomatologia e la
  stessa formula clinica vengono definite come schizofrenia. Fu Bleuler a
  introdurre in psichiatria il termine di
     schizofrenia, infinitamente più adatto a cogliere gli aspetti costitutivi della malattia (con schizofrenia, dal greco 
 schízein
                                                                        
                                           , “scindere, dividere” 
 prhén,
 “mente” si esprime etimologicamente il concetto di scissione, di 
dissociazione, di lacerazione della vita psichica), malattia nella quale
 la demenza è solo apparente.
 
             Delle due
 psicosi endogene , le
 depressioni bipolari e le depressioni monopolari              sono contrassegnate dalla presenza di un sintomo fondamentale, costituito dal 
disturbo della vita affettiva, della vita emozionale,
  al quale sono aggregati altri sintomi più o meno importanti e 
significativi  clinicamente. Il disturbo dell'affettività è 
contrassegnato nel corso degli  episodi maniacali, che si osservano solo
 nelle depressioni bipolari, da una  condizione di gaiezza (euforia) 
patologica che mantiene solo alcune analogie  tematiche con la normale 
allegria.
 L'euforia patologica nella fase maniacale non  è 
infatti motivata, cioè non è determinata da eventi significativi che 
abbiano a  giustificarla, ma è del tutto immotivata. Essa inoltre si 
accompagna ad una  concitazione psicomotoria talora molto accentuata, 
che entra in conflitto  flagrante con le norme e le consuetudini sociali
 ed istituzionali. Il disturbo  dell'affettività che si constata nella 
depressione psicotica (nella depressione  che si alterna alla 
eccitazione maniacale e in quella che si ripete da sola nel  corso di 
una vita) è contrassegnato dalla presenza di uno stato d'animo  
(immotivato) di tristezza e di malinconia più o meno intenso e più o 
meno  doloroso. A questa tristezza patologica, a questa depressione 
clinica, si  accompagna una condizione di apatia e disgusto della vita 
che, in alcune forme  cliniche, sconfinano nel rifiuto di vivere e nella
 ricerca disperata della morte  volontaria, del suicidio. Nel corso di 
una depressione di questa natura non si  riesce più ad entrare in 
contatto con il mondo degli altri e ci si rinchiude  sempre più 
profondamente nei confini della propria interiorità, del proprio io.
 Se curati bene, sia gli episodi maniacali sia quelli  depressivi regrediscono e si risolvono . 
       La sintomatologia e l'evoluzione della
       schizofrenia
                                                                        
                                                                        
                                        sono invece molto più oscure
 ed enigmatiche. Insorge abitualmente in età giovanile e la sua 
evoluzione nel tempo può avvenire in forma acuta o in forma cronica, 
ciascuna di queste forme ha una diversa sensibilità all'azione 
terapeutica dei farmaci.
 La sintomatologia della schizofrenia
 è multiforme e  camaleontica, benché la sua struttura portante si 
riconosca in una scissione e  in una dislocazione della personalità e 
delle diverse funzioni che compongono la vita psichica nel suo insieme. 
 Sono
 comunque sintomi ricorrenti di questa psicosi: un  ripiegamento sul 
mondo interiore e un rifiuto di contatti esterni ( autismo              
                ), repentini passaggi dall'attaccamento al disprezzo per
 il medesimo oggetto ( 
                                  ambivalenza),  comportamenti bizzarri. Nel
 linguaggio si osserva una  seria destrutturazione della sintassi,
 mentre singole parole – talora  costruite artificiosamente e ripetute 
ossessivamente – concentrano in sé un gran  numero di significati; le 
parole inoltre sono prese per cose, ignorando i sensi metaforici 
(“perdere la testa” per qualcosa equivale, per esempio, a essere senza 
testa, decapitato). Il
 corpo infine è spesso  sentito come cosa estranea : il soggetto può infliggersi terribili trattamenti, senza provare dolore.
 
  Accanto al
   fattore ereditario e a quello costituzionale                              , sui quali specie in passato si insisteva, sono state studiate in tempi recenti le
       concomitanti biochimiche nel
 cervello di schizofrenici (iperattività dei neuroni  sensibili alla 
dopamina): esse però non tolgono il concorso di importanti  fattori 
ambientali e psichici. Questi ultimi nell'ottica psicodinamica,  
risalgono alla prima infanzia: a modalità assai disturbate nel rapporto 
con la  madre, specie nel passaggio dalla fase simbiotica, alla 
separazione e alla relazione con gli oggetti. La
             
                                                            Klein 
sottolineò la  presenza di assetti schizoidi già nel primo anno di  vita, caratterizzati
  dalla scissione dell'Io e dell'oggetto con cui il bambino si rapporta e
  dall'affiorare di angoscia persecutoria. Infine la
     scuola sistemica         , o di Palo Alto, ha
 insistito sul ruolo schizofrenogeno esercitato da famiglie
                                         in cui le modalità di 
comunicazione tra i membri sono perverse, paradossali, caratterizzate 
dal
            doppio legame.  Secondo G. 
Bateson e la scuola di Palo Alto, questa è una modalità comunicativa  in
 cui l'emittente invia al destinatario segnali contraddittori o 
contrastanti  con altri messaggi non verbali, ponendolo in una 
situazione paradossale. Il  carattere patogeno deriva, oltre che dalla 
contraddittorietà dei messaggi, dalla  natura intensa del legame tra i 
partner e dall'impossibilità del destinatario di  parlare della 
comunicazione al fine di risolvere l'incongruenza. Il conflitto si  
riversa sul paziente designato, cioè l'anello debole della catena  
familiare.
 
 
In sintesi