Cosa succede nel momento magico (o deludente)
in cui qualcuno dà vita ad un personaggio e cerca di coinvolgere il
pubblico, di trascinarlo con sé entro un altro universo emotivo? Per
secoli si
è affrontato il problema affidandosi al mito della naturalezza:
"l’attore deve immedesimarsi nelle passioni che rappresenta, solo così
gli riuscirà efficace". La formulazione di questo assunto è
antichissima; già Orazio scrive: "non basta che la poesia sia
bella, bisogna che sia dolce e che trascini, a suo piacimento, l’animo
degli ascoltatori". Rivolgendosi agli attori scrive: "i volti umani
ridono con chi ride e piangono con chi piange. Se vuoi che io pianga,
prima devi provare dolore tu: allora la tua sofferenza mi
toccherà; ma se farai male la tua parte, mi addormenterò
o mi metterò a ridere".
Per secoli domina un’idea di rispecchiamento,
di mimesi naturale: l’attore cerca di sentire le emozioni che il testo
suggerisce, così le
può esprimere in modo da comunicarle al pubblico.
Fu Diderot (1713-1784), scrittore filosofo
francese,
ad andare per primo contro corrente, sostenendo la tesi opposta:
"l’attore - sostiene Diderot nel saggio critico 'Paradoxe sur le
comedien' (pubblicato solo nel 1830) - è veramente grande solo
quando resta privo di sensibilità e dirige il proprio corpo come fa il
burattinaio con il burattino".
L’attore diventa superiore, non solo all’uomo
naturale, ma anche al personaggio delineato dal testo. Il testo teatrale
è come una specie d’automa, che l’attore manovra e trasforma in
qualcosa di nuovo. Il distacco emotivo e l’artificio diventano gli
ingredienti fondamentali di quello che chiamiamo arte.
Un altro momento di svolta, in direzione della
modernità,
è in genere individuato nel "sistema" ideato da Konstantin
Stanislavskij (1863-1938): per gli attori si tratta di un metodo che ha
esercitato una grossa influenza sulle esperienze teatrali delle
avanguardie. Esso comporta un vero e proprio percorso, che coinvolge il
corpo, la mente e l’etica stessa dell’attore. L’idea centrale
è che si
giunge a plasmare la mente, agendo sull’universo psichico
dell’attore, così da risvegliare in lui una dimensione creativa, che
darà nuovo spessore anche ai gesti e agli atteggiamenti del corpo.
Il metodo Stanislavskij prevede un
allenamento, grazie al quale l’attore diventa tramite creativo fra il
testo teatrale e il pubblico. Questo si può realizzare grazie alla
capacità dell’attore di creare con
le immagini della fantasia. Immagini che, se da un lato sono
ispirate al testo e quindi suggerite dall’autore, dall’altro si nutrono
di un intenso lavoro personale fatto dall’attore stesso. "Continuate a
concentrare l’attenzione sulle immagini che sono davanti agli occhi
della vostra mente", dice Stanislavskij a proposito di come ci si
prepara a recitare una scena particolare. "Formate i pensieri e le
immagini della fantasia secondo il testo e le circostanze fornite
dall’autore e dal regista. Ma siccome li avete fatti nascere entrambi –
pensieri e immagini – dal vostro cuore, le parole e la verità che voi
mettete in queste parole, proprio come se fossero la vostra vita, si
fonderanno nel cerchio della vostra immaginazione e sulla scena"
(L’attore creativo. Conversazioni al Teatro Bol’Soj, 1918-1922).
Si tratta dunque di attivare una dimensione creativa della memoria,
facendo leva sul fatto che "la mente di un attore e di un regista
è una forza possente". Per riattivare le forze creative, per
ritrovare il "tesoro" nascosto e renderlo visibile, bisogna che l’attore
raggiunga una disciplina tale da porre ordine nella sua mente; questo
significa riuscire a ricomporre i brandelli dei pensieri e delle
emozioni, così da ricondurli entro contorni vivi e precisi, così da
costruire immagini che si collochino in uno spazio interiore ordinato
(quello che Stanislavskij chiama il "circolo creativo"). "Un saggio
indiano – egli dice agli allievi– paragonò una volta la mente dell’uomo
ad una scimmia… Ora, diceva il saggio, date da bere alla scimmia un po’
di vino. I suoi movimenti somiglieranno ai movimenti di una trottola.
Supponiamo ancora che questa scimmia ubriaca sia punta da uno scorpione,
essa somiglierà alla mente indisciplinata dell’uomo. Anche se la vostra
mente non
è indisciplinata a tal punto, in ogni caso assomiglia lo stesso
ad un vento turbinoso. Date ad un uomo uno specchio magico in cui possa
vedere i suoi pensieri: comunicati, interrotti e di nuovo lasciati
cadere, simili ad una nave naufragata. Brandelli, schegge di alberi
spezzati, chiodi che fuoriescono da scatole galleggianti, uomini pigiati
su scialuppe, rottami, vestiti sparpagliati e così via. A tutto ciò
assomigliano i pensieri di un principiante che non sa concentrare
l’attenzione né tenerla fissa interamente su un oggetto".
E vediamo un esempio di come l’attore possa
ricomporre il caos delle immagini interiori entro immagini vive, capaci
di comunicare la bellezza dell’arte, di imprimersi nella memoria del
pubblico. "Quando ho impersonato Stockmann, un personaggio de Il nemico del popolo
di Ibsen - dice ad esempio Stanislavskij - con l’intuizione ho creato
l’aspetto esteriore di Stockmann che nacque naturalmente dall’uomo
interiore. Il corpo e l’anima di Stockmann e Stanislavskij si fusero
organicamente l’uno nell’altro. Non ho dovuto far altro che pensare ai
desideri e ai problemi del dottor Stockmann, e subito apparve da sé la
sua miopia, e vidi il corpo inchinato in avanti, e l’andatura
affrettata. E subito il primo dito e il secondo si spinsero da sé in
avanti come se volessero ficcare i miei sentimenti, parole e pensieri
nell’anima stessa dell’uomo con cui stavo parlando".
Le parole del testo si traducono dunque,
creativamente, in immagini interiori che hanno la doppia funzione di far
ricordare il testo e di tradurlo in immagini corporee vive ed efficaci.
Siamo davanti a una specie di fisiognomica teatrale, dove le
caratteristiche fisiche e le qualità morali e psicologiche si traducono
immediatamente le une nelle altre.
Un ulteriore contributo sulla ricerca della
verità scenica viene da Artaud, il quale nel teatro della crudeltà fa
rivivere la parola attraverso la fisicità carnale dell’attore.
L’attenzione
è posta ora
sull’azione, l’incontro fra interiorità corporea e
comunicazione. Nell’azione fisica ed emotiva, attraverso il processo
dell’improvvisazione, non c’è manipolazione,
né finzione, non c’è costruzione di artificiosità. Il teatro
delle passioni artificiali
è abolito per un processo di creazioni le cui tappe sono:
- L’improvvisazione libera
- La formalizzazione dell’azione
- L’applicazione del testo all’azione
Il montaggio avviene come su pellicola
cinematografica, dove nella fase 2 si imprimono le immagini e nella fase
3 il suono. Dopo di che si tagliano e si incollano le varie sequenze di
fotogrammi.
Questa metodologia l’ho appresa dall’Odin Teatret di Eugenio
Barba.
Ora veniamo alla funzione terapeutica del teatro.
Nella fase 1 la creatività dell’attore ha
libero campo. Egli mostra il suo grado di scissione tra ciò che
è, e ciò che vorrebbe essere. Questa scissione non va
assolutamente negata, pena la caduta della creatività. Neumann nel suo
libro "L’uomo creativo e la trasformazione", spiega che
l’esperienza creativa non può esistere come qualcosa che ha relazione
con il "superamento della scissione" operata dalla coscienza e con il
ritrovamento della realtà originaria, poiché essa
è in continua evoluzione.
Improvvisando una scena, l’attore entra in contatto con la sua realtà originaria, il suo
Sé profondo, ma non lo può afferrare né fissare in quanto esso
è in continua trasformazione. Egli può, attraverso la momentanea scissione della personalità, intravederne l’altra
immagine e farla sua nell’azione scenica.
Il personaggio mostra così a chi osserva il riflesso del
Sé dell’attore, della sua realtà originaria, quella che si dice essere
vera.
La scissione, la mancata fedeltà al sé quotidiano, quando si mostra nell’improvvisazione teatrale si pone come altro da
sé, come stravolgimento di un qualcosa di statico ed è alla base d’ogni copione o elaborazione
drammaturgica.
L’osservatore critico interno
L’osservatore critico interno
La scissione nell’Io dell’attore mostra
aspetti che vanno ben al di là della sua individualità per abbracciare
contenuti collettivi dell’esperienza umana.
Per avere un buon impatto emotivo sul
pubblico, il "mistero" che
l'attore esprime deve rimanere tale. Se il mistero resta tale,
il pubblico, per rispecchiamento, potrebbe avere la visione del mai
visto prima.
Il teatro gioca in occidente una funzione importante, in quanto rispecchia l’Io di un uomo che per costituzione psicologica
è costretto a una personalità multipla, divisa tra molti personaggi da interpretare.
La scissione è diventata nell’Io occidentale
una funzione, una prestazione fisiologica e non più occasionale. "L’Io
occidentale non ha memoria circa la nascita della scissione come
dinamica
difensiva (una reazione psichica per eludere un pericolo
esterno), ma concepisce la scissione come norma permanente".
Nel Trattato Italiano di Psichiatria , al
capitolo "Modificazione dello Stato di Coscienza", si legge:
"Caratteristica delle condizioni di coscienza normali
è la capacità di scissione fra un Io osservante ed un Io
osservato, soprattutto per quanto riguarda la ricostruzione delle
sequenze temporali di eventi, sulle quali si
è costruita l’identità personale…".
A. Kleinman è chiaro al proposito: "…ogni
individuo nel moderno occidente soffre di una dissociazione della
sensibilità. Tale dissociazione lo pone in una situazione che lo
costringe a cambiare continuamente la sua collocazione per passare, non
senza difficoltà, dal partecipare emotivamente alla vita ad adottare un
atteggiamento che lo pone sopra ed al di fuori del sistema nel quale
è coinvolto......La potenza razionalizzante del moderno e
secolare occidente, ha determinato ed intensificato la costruzione di un osservatore critico interno che guarda e commenta l’esperienza stessa". Questo osservatore critico interno
è simile ad un forte Super-io che giudica le azioni e le intenzioni (vedi: Teatro
delle normalità, Orioli, 1996).
La dissociazione dalla sensibilità della
coscienza e la formazione di un osservatore critico interno
è affrontabile in sede teatrale dove il soggetto è messo
continuamente in contatto con il corpo emotivo. Nel teatro, l’attore
esplora la mancata unità con se stesso attraverso il lavoro su
mente-corpo-azione.
La questione della verità scenica
è stata sollevata da Stanislavskij, ma è Grotowski che,
attraverso una ricerca complessa sulle
azioni vocali e corporee, giunge alla definizione dell’azione
scenica come la qualità pura del vero Sé. Sin dalle origini la ricerca
di Grotowski, regista polacco, ruota intorno a
Stanislavskij che, nei primissimi anni del Novecento, cerca la
via della realtà scenica attraverso uno scavo nella memoria emotiva
dell’attore. Ma quello che più interessa inizialmente al regista polacco
sono le ultime definizioni del "lavoro dell’attore su se stesso".
Dunque l’analisi delle 'azioni fisiche', per cui l’interprete
non deve tendere a rievocare dentro di sé un’emozione allo stato puro,
ma capire quale effetto fisico ha l’emotività e come il moto interiore
si trascrive nel gesto e nell’atteggiamento, tentando di ridefinire il
movimento fisico generato dall’interno. Ma se in Stanislawskij tutto il
procedimento era finalizzato a una comunicazione indirizzata verso lo
spettatore e realizzata attraverso un personaggio, in Grotowski la
ricerca si sposta
sulla non necessità di un confronto esterno per dedicare la massima importanza al confronto interno senza un supplementare elemento di
finzione.
Così il procedimento non può che compiere una
traiettoria all’inverso, tornando al mito, svelando i segni arcaici
della cultura interiore, come un graffito ancestrale che si incide nella
coscienza dell’attore.
Grotowski non ha lasciato un metodo come fu
per Stanislavskij, ma ha lasciato un percorso di ricerca, un
procedimento. Ancor oggi, assistendo alle dimostrazioni di lavoro del
suo Centro di Ricerca a Pontedera (Pisa), si rimane stupiti di come
questi giovani attori comunichino non un testo o qualcosa che assomiglia
a uno spettacolo, ma energia allo stato puro.
Così scrive un critico teatrale: "Si compone
un complesso universo di relazioni spaziali e figurali fra quegli
attori, e queste segnano percorsi emotivi e interiori che i sei si
comunicano fra di loro attraverso una precisa partitura. Così come a noi
resta il segno fortissimo di un’energia che questi attori si rimandano
fra di loro e fanno rimbalzare su di noi, ma che non
è l’impennata emotiva di una comunicazione momentanea, ma
costruita con un lavoro artigianale sui mezzi più elementari della
percezione di sè, e sul trasferimento di questi nella voce e nel gesto."
Ecco cosa può succedere nel momento magico in
cui qualcuno dà vita ad un personaggio cercando di coinvolgere se stesso
e il suo universo emotivo:
" Lascio che accada il terremoto interiore:
ho smesso di difendermi, ho smesso di controllare, ho lasciato cadere il
passato. Desidero solo essere, mostrare ciò che mostro, dire ciò che dico".
In queste poche battute prese dal diario di un allievo del nostro
laboratorio di teatroterapia, non c’è più traccia di scissione e neppure di identificazione, ma semplicemente
presa di coscienza di essere ciò che si è.
Raccogliendo l’eredità di Stanislavskij circa
la disciplina della mente,
le azioni fisiche di Diderot sull’estraneamento, di Artaud sul
teatro della crudeltà, di Grotowski sul processo di ricerca e di Barba
sulla messa in scena, abbiamo un’ottima rete nella quale pescare i
frutti di molti anni di studio sul lavoro dell’attore, premessa
indispensabile per creare un teatro
che possa curare e nutrire le nostre anime.
Bibliografia:
- E. Barba - "La canoa di carta" - Il Mulino, 1993.
- K. Stanislavskij - "L’attore creativo" - La casa Usher, 1980.
- K. Stanislavskij - "Il lavoro dell’attore su se stesso" - Laterza, 1985.
- T. Richards - "Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche" - Ubulibri, 1993.
- W. Orioli - "Far teatro per capirsi" - Macro Edizioni, 1995.
- W. Orioli - "Teatro come terapia" - Macro Edizioni, 2001.
- Attualità di psicologia, Ed. Universitarie Romane, n.4 anno XII.
- Il sole 24 ore,inserto "Domenica", 14/4/98, di A. Audino, Una sera nell’eremo del principe Costante.
- Regolazione delle emozioni e arti-terapie, Carocci, a cura di Pio E. R. Bitti,1988.
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