Facoltà di Scienze della Formazione
Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione
Anno Accademico 2007-2008
Tesi di Sociologia della Cultura
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PROSPETTIVE CONTEMPORANEE
IN SOCIOLOGIA DELLA SALUTE
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1.
Lo status della comunicazione
medico-scientifica e della salute
La problematica
degli effetti e dell’efficienza della comunicazione e della promozione medico
scientifica e della salute è relativamente recente e si è sviluppata
soprattutto a partire dagli Settanta ed Ottanta del Ventesimo secolo, soprattutto
in considerazione della maggiore ampiezza ed importanza raggiunta dal mercato
dei prodotti farmaceutici e parafarmaceutici ed all’impatto di tali processi
nell’ambiente sociale. In particolare la dimensione della comunicazione assume
dimensioni e ritmi più elevati in relazione all’innovazione, una innovazione
che oggi tende ad essere condivisa, socializzata, e “vissuta “. Inoltre, negli
ultimi anni sono emersi due macro fenomeni che stanno condizionando la svolta
sociale, culturale ed organizzativa della sanità; il primo macro fenomeno è
relativo alla elevata crescita della complessità dell’informazione bio-medica,
il secondo fenomeno è invece relativo ai costi crescenti all’interno del
sistema delle cure che obbligano a compiere scelte difficili, comprese fra
qualità ed efficienza. In questo modo anche il processo comunicativo, da
questione scientifica e tecnica che interessa pochi soggetti specializzati,
diventa oggetto di azione sociale diffusa, che coinvolge i singoli individui, i
nuclei familiari, le istituzioni specialistiche e non specialistiche, le
imprese e le reti informali, portandoli ad adottare, a volte anche
inconsapevolmente, orientamenti e comportamenti evidenziano quelle zone di
penombra della scienza» in cui può esservi «confusione fra verità ed utilità
sociale». Il concetto di salute rappresenta uno degli aspetti più significativi
e rilevanti della sfera simbolica nella società contemporanea, al centro di
parte considerevole della comunicazione sia scientifica, sia di senso comune.
Il ruolo dei mezzi di comunicazione si configura come di indubbia importanza
nella costituzione delle rappresentazioni sociali; tuttavia esso è stato
parzialmente riconsiderato alla luce del ruolo attivo che i soggetti rivestono
nel processo di interpretazione della realtà.
In
particolare, l’informazione medico-scientifica ha lo scopo di promuovere le
conoscenze via via acquisite nella ricerca medica e farmacologia per migliorare
la descrizione del corpo umano, della malattia e dello stato di salute, secondo
tratti culturalmente peculiari. In tale ottica Guizzardi ha osservato che la
comunicazione scientifica nello spazio pubblico non costituisce un’appendice
della ricerca scientifica, «ma ne rappresenta una parte integrante», non si può
più parlare di divulgazione della scienza, in particolare di quella
medico-scientifica, ma di una «negoziazione mediatica della scienza», «in altre
parole se si sposta l’ottica della scienza alla scienza comunicata e
contemporaneamente ci si allarga dall’interno del campo scientifico allo spazio
pubblico si possono notare non soltanto le interconnessioni esistenti, e
parlare di continuum scienza-comunicazione, con i concetti relativi di natura
interattiva della comunicazione e di contesti multipli nei quali la
comunicazione della scienza si colloca, ma soprattutto porre in luce il fatto
che il campo scientifico si espande fino a comprendere non scienziati, con la
conseguenza, fra le altre, di articolare in modo complesso la figura dello
scienziato stesso».
In
tale direzione, il processo comunicativo medico-scientifico può essere studiato
e descritto attraverso l’ottica di un passaggio di informazioni tra emittente e
ricevente che assolve specifiche funzioni, o anche attraverso lo studio dei
processi di codificazione dei segni comunicativi, ma anche attraverso le
diverse controversie sulla essenzialità della persuasione nella scienza ed
ancora nella sua qualità di modulazione della relazione interpersonale, nello
specifico contesto in cui è immersa.
L’etimo
della parola comunicazione deriva dal greco koinonéo
che intende il partecipare e rinvia all’idea della comunità, ad un luogo di
interscambio di relazioni tra individui. Nel concetto di interscambio si
configura la bidirezionalità, nel senso che ciascun comunicatore è allo stesso
tempo emittente e ricevente.
Nel
definire la comunicazione per la salute dovrebbe essere tenuto in
considerazione il fatto che gli individui non costituiscono più un obiettivo,
ma sono i protagonisti fondamentali nell’ acquisizione e nell’accettazione dei
messaggi che fanno riferimento alle loro condizioni: la comunicazione e
l’informazione scientifica si realizza non solo fra mediatori della scienza ma,
soprattutto, fra attori sociali. In tale ottica la comunicazione per la salute
può definirsi come un sistema di informazione complesso sui temi della salute e
della prevenzione della salute in cui quanto comunicato e scambiato fra gli
attori sociali cessa di essere fine a se stesso, viene e verrà prodotto per
essere scambiato.
Il campo della comunicazione della salute si è
sviluppato in ambito sociologico soprattutto a partire dalla metà degli anni
Ottanta negli Stati Uniti e, successivamente, in altri paesi europei. È
indicativa di questo sviluppo l’apparizione, nel 1989, della prima rivista
scientifica dedicata specificatamente a questo settore, il Journal of Health
Communication.
Jackson
e Duffy hanno analizzato i mutamenti intervenuti nel corso degli anni Novanta
nella comunicazione medico-paziente, nell’organizzazione dei servizi sanitari,
nelle campagne di prevenzione del rischio e promozione della salute, nella
presentazione della salute nei media, compresi i siti in Internet dedicati a
questo tema: nel complesso la “questione comunicativa” sembra essere
fondamentale nel campo sanitario e in quello del benessere poiché è in grado di
modificare le dinamiche e le concezioni della salute: «in realtà esiste ormai
una ampia evidenza del fatto che il processo di costruzione dei fatti
scientifici si spinge frequentemente oltre i confini della comunità scientifica
entrando nella sfera pubblica mediale».
L’ambito
della comunicazione della salute comprende la prevenzione delle malattie, la
promozione della salute, la politica sanitaria e il miglioramento della salute
degli individui all’interno della comunità e, in questi anni, il contesto di
riferimento è progressivamente cambiato: i cambiamenti sembrano includere sia
il crescente numero dei canali disponibili, sia il numero della specificità
disciplinari. Comunicare la scienza in ambito medico- sanitario equivale ad un
impegno rigoroso nella diffusione di notizie o di informazioni sulle conoscenze
scientifiche e sulle acquisizioni tecnologiche in grado di destare interesse. L’informazione
medico scientifica è investita da una vera e propria questione morale, nell’ambito
della quale ad essere chiamati in causarono i rapporti che intercorrono fra
media, industria farmaceutica, medici, farmacisti ed informatori scientifici
sul farmaco.
La
questione sembra porsi sia in termini “morali”, ed a questo proposito il
problema si sposta nelle connessioni fra industria e medici, sia in termini di
credibilità e spendibilità di quanto offerto in termini comunicativi. A questo
proposito sembra opportuno ricordare che il ritardo alla revisione della legge
541/92 ha spinto molte regioni, in via autonoma, a legiferare sull’informazione
scientifica del farmaco per garantire un maggior controllo sull’attività di
informazione e, in via indiretta, per controllare la spesa farmaceutica
regionale. Tale fatto sembra confermare sia la confusione per la mancanza di
uno strumento normativo unico, con il rischio che si arrivi, prima o poi, a
venti leggi diverse in materia, sia all’aperto conflitto di interessi in corso
ed alla relativa mancanza di comportamenti socialmente responsabili da parte dei
produttori di informazione.
L’efficacia
terapeutica e diagnostica raggiunta oggi dalla medicina e dalla ricerca
farmacologia non rivestono solo un significato organizzativo, politico,
culturale ed economico, ma soprattutto un profondo significato sociale. A
questa maggiore efficacia si sovrappone il passaggio, avvenuto negli anni ottanta,
da una nosologia dominata dalle malattie infettive ad una nosologia dominata
dalle patologie cosiddette cronico-degenerative, ha contribuito ad una profonda
evoluzione della prevenzione e dell’educazione sanitaria impegnate sempre meno
su interventi specifici per curare singole patologie e sempre più con
l’obiettivo di migliorare gli stili di vita e l’ambiente in cui vive
l’individuo.
Il
termine educazione sanitaria, che fa riferimento agli interventi mirati
nell’ambito di un rapporto asimmetrico con l’attore sociale, ha lasciato il
posto a quello di promozione della salute: ciò ha segnato il passaggio da una
semplice strategia della prevenzione ad una strategia integrata che privilegia
la rimozione di cause di patologie o di fattori di rischio ed azioni mirate a
mantenere l’equilibrio della salute, raggiungibile solo con la
responsabilizzazione del soggetto e con il miglioramento dell’ambiente in cui
vive, oltre che un continuo aggiornamento delle conoscenze diretta alle
professioni impegnate nella costruzione della salute (medici, farmacisti,
personale sanitario). Tuttavia per tutti gli anni Ottanta con il termine
educazione sanitaria si intendevano tutte le strategie preventive ed educative
in materia sanitaria. Il dibattito terminologico fra “educazione.
sanitaria”/”educazione alla salute” e “promozione della salute” fu molto
acceso, soprattutto nel mondo anglosassone circa la distinzione tra “Health
Promotion” e “Health Education”.
Attualmente,
soprattutto nella pubblica amministrazione, si preferisce utilizzare il
concetto di Promozione della salute perché ritenuto più completo e intuitivo,
meno prescrittivo rispetto alla sola educazione sanitaria e in linea con il linguaggio
adottato da numerosi documenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L’idea
di promozione della salute si afferma anche nella informazione
medico-scientifica che riveste un ruolo specifico e riservato agli operatori
sanitari. Nell’ambito della promozione della salute i modelli di riferimento
hanno privilegiato un approccio sistemico centrato sulla persona, almeno nelle
dichiarazioni di intento. L’obiettivo, infatti, dovrebbe essere quello di
considerare l’individuo nella sua interezza, tenendo conto delle sue relazioni
sociali e familiari, dell’importanza della salute e del benessere psico-fisico,
senza dimenticare che la salute un costrutto sociale ed è soggetta a variazioni
in base al contesto in qui viene considerata. Questo modello implica l’avvio di
numerosi processi di promozione della salute in differenti ambiti (scolastico,
familiare, lavorativo, ospedaliero, sanitario).
Tuttavia,
l’osservazione su alcune caratteristiche della ricerca clinica contemporanea
segnalano un progressivo distacco delle specialità del corpo della medicina
generale e la tendenza delle stesse specializzazioni verso una
settorializzazione. Inoltre, l’efficacia diagnostica ha spostato il suo centro
da fatto assistenziale e curativa, verso un approccio diagnostico-curativo,
mentre per alcune patologie, ad esempio quelle degenerative, la ricerca sembra
essersi concentrati sulla cronicizzazione.
Una
interpretazione della forma assunta da questi fenomeni, anche nella prospettiva
comunicativa, sembra richiedere un passaggio ulteriore poiché l’individuo non
può essere considerato il semplice destinatario del progresso scientifico
Accanto all’evoluzione del sapere medico si assiste cosi ad una forte
evoluzione delle informazioni e delle rappresentazioni, documentata, ad esempio,
dal proliferare di riviste sulla salute, dalle trasmissioni televisive
sull’argomento e dai tanti ed incontrollati siti Internet dedicati. Emergono
con forza nuovi concetti di salute e di benessere, di malattia e di malessere.
La scienza, ma soprattutto la tecnica sembrano oggi impegnate non più a
ricercare la verificabilità o falsificabilità di teorie ed ipotesi in termini
di verità disinteressata, quanto piuttosto a legittimare il sapere soprattutto
in termini di successi pratici e di utilità conseguita.
È
così che la razionalità individuale si è fatta limitata ed il pensiero da forte
si è fatto debole. In particolare la biologia, la farmacologia, la medicina
pratica, con il loro sapere tecnico avanzato, suscitano una miriade di prassi
relazionali fra gli uomini e le macchine. Per vie tecnologiche si ripropongono
nuove questioni per la sorte dell’umanità, sfide che inducono ad uscire dalle
artificialità autoreferenziali e dalla limitatezza di un pensiero che guarda
solo alla tekné.
Alla
trasformazione dell’ interpretazione del concetto di salute e di conservazione
si associa l’effetto comunicativo. La comunicazione avviene in un numero
elevatissimo di contesti, dalla scuola al lavoro, attraverso una varietà di
canali, dalle relazioni interpersonali fino alla posta elettronica, per
messaggi di grande diversità e per motivazioni diverse. La comunicazione
medico- scientifica della salute assume un suo valore specifico non solo perché
si svolge in luoghi della prassi medica, ma anche perché presuppone un passaggio
di conoscenze scientifiche dalla ricerca alla società e viceversa. Questo
passaggio di conoscenze implica tutte le problematiche poste dallo scambio tra
esperti e non esperti; tuttavia, il contesto di cura e di prevenzione ha delle
particolarità che rendono la comunicazione “medico-paziente” un caso
particolarmente interessante.
Il recente sviluppo della comunicazione
medico-scientifica configura un più generale cambiamento relativo all’immagine
della salute su come viene rappresentata e come è invece attesa. In tale
ottica, l’informazione medico-scientifica è un sapere delle relazioni, vale a
dire quel sapere che ha per oggetto i processi interattivi nel quale gli attori
sociali sono immersi. In una società in cui si vive più a lungo sembra necessario
dotarsi non solo di nuovi parametri per definire la salute ma anche per rendere
effettivamente possibile una partecipazione alle scelte terapeutiche ed al
processo di prevenzione.
L’informazione
e la comunicazione medico-scientifica appare così in tutta la sua complessità:
un processo che richiede una profonda integrazione fra competenze ed ambiti
operativi diversi. Si pensi, ad esempio, alla comunicazione della salute in
ambito oncologico, il Censis ha osservato che il tumore e la malattia più temuta
dagli italiani (67,5%) «la televisione e i giornali sono le fonti di
informazione sanitaria non professionali a cui i cittadini con più frequenza fanno
riferimento. Entrambi i media evidenziano una capacità di impatto sui
comportamenti non indifferente: gli italiani, dal 15 al 18% hanno concretamente
modificato atteggiamento a seguito dell’acquisizione di informazioni sulla
salute apprese, dalla carta stampata e dalla televisione».
L’informazione
medico-scientifica e della salute si dimostra così a più dimensioni ed è
richiesta una capacità comunicativa connettiva tesa all’adozione di linguaggi
comuni e comprensibili da tutti, che faciliti il collegamento tra i diversi
sistemi relazionali, con il sostegno e la partecipazione da parte degli attori sociali.
Il
Censis ha osservato, nel 2001, che oltre quattro milioni di Italiani cercano su
Internet informazioni in tema sanitario, quasi altrettanti sono i
telespettatori delle sei principali trasmissioni televisive di medicina e più
di un milione sono i lettori di periodici dedicati alla salute Cresce
l’attenzione per la propria salute e cresce la voglia di saperne di più, è
quanto emerge da una indagine realizzata dal Forum per la Ricerca Biomedica e
dal Censis su un campione rappresentativo di (1.200) italiani. La ricerca ha
evidenziato come la cosa più importante per l’83,6% degli italiani, quando si
trova di fronte ad un problema di salute, sia capire bene cosa gli stia
succedendo, e il medico rimane, il soggetto nel quale gli italiani ripongono
maggiore fiducia e dal quale attinge informazioni per ogni evenienza (oltre il
90% gli si rivolge per malattie gravi o molto gravi il 75 7% per malattie poco
gravi ed il 66 3% anche per i piccoli disagi). Tuttavia nei casi di malattie
poco gravi e di piccoli disagi gli italiani credono ci si possa rivolgere per
ottenere informazioni anche ai media (16,5% in caso di malattie poco gravi e
16,4% in caso di piccoli disagi) e ai conoscenti (6% per malattie poco gravi e
14,5% per piccoli disagi). Cresce anche la fiducia in Internet, il cui uso da
parte dei pazienti è giudicato positivamente dal 60,2% degli intervistati
(quasi il 75% tra i più giovani), perché accresce la cultura scientifica,
mentre il 72,9% (l’84% tra i più giovani) ne valuta positivamente l’uso da
parte dei medici, perché consente l’aggiornamento in tempo reale. Il 60,6%
degli italiani considera il suo rapporto con il medico come una “collaborazione
reciproca in vista della salute”, e il 69,6% lo consulta per primo in caso di
disturbo grave.
Negli
ultimi cento anni, soprattutto a partire dalla diffusione dei cosiddetti media
elettrici, è sopraggiunta una nuova tendenza: scienza e sapere si sviluppano
secondo trame tessute da più fili, ai centri si sono sostituiti nodi e collegamenti
fra livelli, anche molto diversi. Sembra possibile osservare un significativo
cambio di paradigma, una perturbazione epistemologica nel segno della
complessità e delle reti di conoscenza. Al pensiero analitico si sostituisce
l’idea del mondo come un insieme relazionale e connesso in cui al primato
dell’affermazione della scoperta scientifica è collegato il principio della divulgazione
scientifica. Il nuovo paradigma della conoscenza ha modificato, da tempo, i
termini di riferimento di comunicazione. La ricerca scientifica si interroga
sui principi di organizzazione fondamentali è sul contesto dei fenomeni; i
sistemi comunicativi, comunque organizzati, si strutturano proprio intorno a
questo interrogativo.
Prima
di tentare di definire i contorni ditale esperienza sembra necessario tracciare
i termini di riferimento di comunicazione e di promozione della salute come un
sistema complesso di azioni di tipo educativo, politico, legislativo ed
organizzativo che possa favorire una migliore qualità e stili di vita sia a i
vello individuale sia a livello di gruppo o collettività. In altri termini,
questi sistemi complessi sono dei veri e propri sistemi cognitivi che tendono
ad orientare e guidare l’analisi e l’interpretazione delle conoscenze Infatti,
i sistemi relazionali producono ed implicano conoscenza e configurano le relazioni
sociali cosi prodotte come configurazioni dinamiche.
Il mondo della comunicazione scientifica è un
mondo estremamente eterogeneo e non ci si riferisce più al solo ambito
chimico-biologico ma anche al campo della prevenzione e della promozione della
cultura dello star bene, degli stili di vita, della sostenibilità,
dell’innovazione scientifico-tecnologica al servizio delle persone, alla cura
del corpo, al benessere ed alla qualità della vita.
La
frequenza con cui il tema della salute compare nei mezzi di comunicazione di
massa e la comunicazione trasversale e pubblicitaria di tutti i prodotti
inerenti al benessere (in Google, ad esempio, nel mese di ottobre 2004, la
parola salute compare oltre sei milioni di volte e la parola health
duecentotrentacinquemilioni di volte), lo stesso abuso del concetto di
benessere come valore
di riferimento per la vita, hanno importanti effetti sulla cultura e sui
comportamenti e le relazioni delle persone. In tale direzione, il contesto
epidemiologico che corrisponde alla scoperta dei nuovi fatti sembra essere la
pietra angolare della salute pubblica e, proprio partendo da questo punto, in
genere è proprio l’epidemiologia la base di partenza di ogni attività rivolta
all’informazione sul benessere. Tuttavia, da una parte una medicina troppo
spesso orientata solo ed esclusivamente verso la evidence based medicine,
proprio perché il contesto principale sembra essere quello epidemiologico,
dall’altra una banalizzazione ed una volgarizzazione non mediata della
informazione scientifica, rischiano di costituire una minaccia seria ai
principi d efficacia e di valutazione del sistema. L’epidemiologia è
tradizionalmente strutturata intorno ad un paradigma biomedico: il metodo in
cui la teoria è relativamente poco importante e l’approccio multidisciplinare
attraverso le teorie proprie delle scienze sociali. Sia il paradigma biomedico
sia l’approcci multidisciplinare dividono un interesse comune: la prevenzione
della saluti della popolazione, poiché si ricercano dati inconfutabili.
Tuttavia,
se gli uomini di scienza hanno il dovere di comunicare il loro sa pere critico
per mettere le società nelle condizioni di operare al meglio le diverse scelte,
alle funzioni chiave della ricerca, da tempo, si è inserita, qual variabile
ulteriore di un sistema strutturalmente instabile, l’analisi delle necessità e
sostenibilità industriali e finanziarie.
Le
osservazioni intorno ad alcuni dei problemi della comunicazione
medico-scientifica rendono estremamente complesso il campo di analisi. In
particolare, è proprio dalla costruzione del fenomeno di informazione che
sembra possibile osservare l’origine delle difficoltà; la comunicazione si
realizza in uno speciale rapporto fra due termini principali: il promotore ed
il recettore, Il promotore trasmette al recettore, tramite appropriati
strumenti e codici, la notizia. Appropriati strumenti e codici sembrano essere
la prima delle difficoltà poiché non è più vero che, più alta sarà la
specializzazione più ristretto sarà il numero dei recettori. Tradizionalmente,
infatti, si tendeva a considerare l’informazione sulla salute come un processo Top-Down in cui le informazioni più
complesse venivano riservate ad un ristretto numèro di specialisti, per poi
essere trasferite, attraverso mezzi di comunicazione più appropriate, verso un
pubblico meno specializzato, fino alla definitiva volgarizzazione. Soprattutto
nella modernità solida tali processi hanno costituito la struttura di base
delle diverse forme di comunicazione, non solo quelle riservate alla salute ed
al benessere. Ma nella cosiddetta modernità liquida non sembra possibile
configurare tale processo come quello peculiare. Il diffondersi delle
informazioni in quantità, forme e velocità, di fatto, incontrollabili, ha
completamente modificato il sistema della comunicazione scientifica.
L’esplosione
del fenomeno della comunicazione attraverso le reti informatiche ha aggiunto
non solo una diversa velocità nella propagazione di una nuova informazione e la
maggiore quantità di dati a disposizione, ha introdotto il concetto di quantità
aggiuntiva di informazione prodotta dal sistema mediale stesso. In altri
termini, Internet non è solo un nuovo media, è soprattutto un sistema
autopoietico che più o meno inconsapevolmente produce una qualità ed una
quantità aggiuntiva di informazione, spesso ridondante, in forma autonoma
rispetto al promotore della comunicazione. Sul Web ogni giorno vengono
pubblicate nuove riviste scientifiche e, se apparentemente il processo di
pubblicazione di queste riviste è identico a quello tradizionale sulla carta
stampata, i costi sono così bassi da rendere accessibile l’informazione a tutti
in tempi brevissimi. inoltre, e questo sembra essere l’elemento che introduce
la quantità aggiuntiva di informazione, poiché molte delle pubblicazioni e dei
gruppi di discussione, comunque strutturati, non sono mediati e non vi è
corresponsabilità, si tende a produrre ex
postfacto una quantità marginale di informazione. I mezzi di comunicazione
hanno una enorme responsabilità e tale responsabilità, può riassumersi nelle
raccomandazioni di Gould: «non vi nulla nella scienza che non possa essere
trasmesso in forma chiara,
rigorosa ed onesta» ed ancora «la scienza, dal n mento che viene praticata dall’uomo,
è un’attività socialmente inserita. E progredisce per impressioni,
immaginazione ed intuizione. La maggioranza dei suoi cambiamenti nel tempo non
registra un avvicinamento alla verità soluta, ma il mutamento dei contesti
culturali che la influenzano così fortemente. I fatti non sono frammenti puri e
incontaminati d’informazione; anche la cultura influenza che cosa vediamo e
come la vediamo. Se
preoccuparsi della efficacia della comunicazione scientifica e della promozione
della salute è preoccuparsi del processo della distribuzione delle conoscenze
sulla salute, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita del comunità
interessate, occorre tenere in considerazione le distorsioni presenti nel
sistema. Medicina e
sociologia necessitano di un dialogo continuo, integrato nelle mappe cognitive
a livello sociale, attraverso un flusso comunicativo complesso, non
auto-diretto o auto-referenziale. La percezione del rapporto complesso rapporto
salute/malattia, dei comportamenti utili al miglioramento del benessere
sembrano passare attraverso lo sviluppo e la connessione dei flussi
comunicativi e, in tale direzione, la comunicazione apre sia alla costruzione
ulteriore della ricerca, sia al senso ed al significato di essa.
La
scienza dovrebbe considerarsi come un vera e propria rete di modelli e di nodi
semantici e, in tale prospettiva, il concetto di sapere, nella fattispecie di
sapere scientifico, sembra ridurre i concetti di centralità e prevedibilità.
Sembra esservi una possibile divergenza fra gli standard di integrità, la
scienza ed i problemi posti sia dal conflitto di interesse nella ricerca sia
dalla difficoltà di comunicare tout court. Gli effetti delle distorsioni nei
processi comunicativi e nella produzione di nuova conoscenza scientifica sembrano
essere così tanti quanti i modi di stabilire connessioni fra sistema e pubblico.
Al processo comunicativo della
salute occorre, probabilmente associare un processo sistematico di osservazione
e di verifica dei dati raccolti, oltre la farmaco- vigilanza; un modello
concettuale basato sull’interazione fra cliente e sistema sanitario attraverso
la farmacia ed il sistema sanitario.
Il
bisogno di relazione del sistema sanitario sembra sottolineare la necessità da
parte del sistema medico scientifico di aprirsi al contributo delle scienze
sociali, in generale, ed alla sociologia della comunicazione in particolare.
Il sistema comunicativo dedicato alla salute ed
al benessere dovrebbe rendere possibile l’integrazione, la sussidiarietà, fra
saperi diversi, fra attori sociali ed Istituzioni, ed una più equa
distribuzione dei saperi stessi.
Il
malessere, nei processi comunicativi, sembra derivare da una relazione tra
individui sempre più improbabile: si assottigliano le probabilità che la
comunicazione intersoggettiva sia vissuta come significativa per i soggetti in
interazione; diminuisce la probabilità che il contesto oggettivo possa favorire
una comprensione intima tra chi comunica; diminuisce la probabilità che si
realizzino le condizioni specifiche della comunicabilità. Queste
caratteristiche della comunicazione sembrano configurarsi anche nell’
implosione delle relazioni di sostegno, di aiuto tra persone: sia la
solidarietà spontanea, di mondo vitale, tra singoli o gruppi informali, sia le
relazioni istituzionali come quella tra medico e paziente che soffrono
dell’incapacità di padroneggiare relazioni profonde e personalizzate.
Cominciare
la prevenzione, la cura e la ricerca sulla salute significa riconoscere il
valore dell’esistere proprio ed altrui in tutta la sua complessità: corrisponde
all’accoglienza dell’esistenza dell’altro come prossimo e simile.
Una
buona salute e una efficiente condizione fisica sono garantite dall’eredità
genetica, ma anche e soprattutto da un sano stile di vita. Pochi ma importanti
sono i fattori che contribuiscono a un buon invecchiamento, tra questi il
movimento fisico, la lotta all’obesità e al fumo.
Dai
dati forniti dal ministero della Salute per quanto riguarda l’attività fisica
dei cittadini italiani emerge un preoccupante andamento: aumenta il numero dei
sedentari e tale fenomeno assume particolare rilievo nelle fasce di età
giovanile.
Circa
il 60 per cento degli adulti tra i 25 e i 64 anni non svolge alcuna attività
fisica. La medicina sportiva, invece, ha potuto constatare come negli sportivi “di
vecchia data” l’uso costante e sorvegliato di un’attività sportiva adeguata
incrementa le resistenze totali dell’organismo, limita l’involuzione
muscoloscheletrica e cardiovascolare, stimola le capacità psicocerebrali del
soggetto. Un tessuto muscolare quotidianamente attivo è, infatti, il motore
attraverso cui sono impiegati la maggioranza degli zuccheri, grassi e proteine
introdotti con l’alimentazione. Un muscolo inattivo, invece, limita la potenzialità
espressiva della persona e conduce a un invecchiamento precoce e accompagnato
da tutte quelle patologie legate alla sedentarietà.
Una
regolare attività fisica previene patologie croniche come diabete di secondo tipo, disturbi
cardiocircolatori, obesità. Inoltre protegge da condizioni disabilitanti tipo
osteoporosi, artrite. Infine riduce o elimina fattori di rischio come pressione
alta, colesterolo alto.
Alcuni studi dimostrano che le persone
fisicamente attive hanno una speranza di
vita superiore ai sedentari in media di circa sei anni. Inoltre, l’esecuzione
di un’attività sportiva regolare è molto efficace nel ridurre la sintomatologia
depressiva, rallenta il declino fisico e cognitivo che talvolta caratterizza
l’invecchiamento e garantisce un buon
riposo notturno.
In un esperimento statunitense si è raggiunto
l’obiettivo di migliorare la salute e la qualità della vita dei partecipanti
semplicemente aggiungendo alla normale attività quotidiana 2000 passi in più.
Sono sufficienti 30 minuti di cammino svelto, se non tutti i giorni almeno nei
fine settimana, per ottenere risultati salutari a tutte le età.
Camminare
ogni volta che è possibile, ricordando che i benefici maggiori si ottengono con
la continuità. Sfruttare al meglio il tempo a nostra disposizione anche, per
esempio, prendendo i mezzi pubblici per andare in ufficio, scendendo una
fermata prima della destinazione, passeggiando
durante le pause lavorative, utilizzando le scale al posto dell’ascensore, andando
a parlare di persona con il collega anziché utilizzare il telefono o la
posta elettronica. L’importanza della diagnosi precoce di una
malattia e la maggiore efficacia di una terapia tempestiva sono ormai
patrimonio culturale non solo della medicina, ma sostanzialmente di tutti i
cittadini. Laddove esistono prove scientifiche dell’efficacia di pratiche in
grado di garantire ai cittadini significativi vantaggi in termine di salute, è
dovere dei servizi sanitari non lasciare la presa in carico di situazioni
cliniche all’occasionale, individuale incontro tra medici e assistiti o solo
quando si è già in presenza
di sintomatologia significativa, ma intervenire con programmi attivi e
organizzati di sanità pubblica.
Lo
screening è un programma organizzato e sistematico di diagnosi precoce condotto
su una popolazione asintomatica, cioè che non accusa nessun disturbo o sintomi
di quella specifica malattia: lo screening si rivolge a persone «che si sentono
sane». Questa popolazione viene attivamente invitata dalla struttura sanitaria
a effettuare gratuitamente un esame clinico, strumentale o di laboratorio,
attraverso il quale si può identificare una malattia in fase iniziale, perché,
tanto più è precoce la diagnosi, tanto più è probabile riuscire a modificare la
storia naturale della malattia utilizzando un trattamento dimostratosi
efficace.
Uno
screening ben gestito è considerato più efficace dei controlli clinici individuali su
richiesta, in quanto organizzato sempre con un rigoroso approccio scientifico e
fondato sulle migliori prassi disponibili.
Condizioni di salute e
ricorso ai servizi sanitari
Nel
2007 l’Istat ha pubblicato i risultati dell’indagine «Condizioni di salute e
ricorso ai servizi sanitari», in cui ha rilevato i dati del 2005 sullo stato di
salute degli italiani, il ricorso ai principali servizi sanitari, alcuni
fattori di rischio per la salute e i comportamenti di prevenzione. Nella
rilevazione il campione complessi vo
dell’indagine, che comprende circa 60.000 famiglie è analizzato riguardo
a:
Le
condizioni di salute della popolazione;
Il
consumo di farmaci;
La
prevenzione;
L’obesità
e l’abitudine al fumo;
La
fruizione dei servizi sanitari;
L’opinione
dei cittadini.
L’indagine,
tra l’altro, evidenzia che nelle quattro settimane precedenti l’intervista sono
state effettuati 31.213.000 visite mediche, con una media di 1,9 visite a
persona. Negli ultimi cinque anni il numero di visite effettuate è aumentato
del 16,7 per cento (pari 4.478.000 prestazioni) e ha riguardato soprattutto gli
ultra settantacinquenni (+36,7 per cento). Il numero di visite generiche è
cresciuto del 20,5 per cento, quello delle specialistiche del 10,5 per cento.
L’incremento complessivo delle visite si verifica in più del
la metà dei casi per ripetizione di ricette,
in 917.00 casi per malattia e 895.000 per controllo dello stato di salute. Tra
le visite specialistiche sono più numerose le visite odontoiatriche (26,9 per
cento), seguite da quelle ortopediche (11,4 per cento), oculistiche (10,8 per
cento) e cardiologiche (9,5 per cento). L’incremento maggiore rispetto al 1999-2000 si registra
per le visite urologiche (+35,4 per cento), cardiologiche (+34,3 per cento),
geriatriche (+33,0 per cento) e dietologiche (+ 32,8 per cento).
Il 57 per cento delle visite specialistiche è
pagato interamente dalle famiglie. Se non si considerano le visite
odontoiatriche si arriva a circa il 48 per cento. Marche e Umbria si
distinguono per le quote più alte di visite a pagamento; le più basse percentuali
si registrano invece in Sardegna e in Sicilia. È elevata la quota di persone di
status sociale basso (46,8 per cento) che si fanno interamente carico della
spesa. Nelle quattro settimane
precedenti la rilevazione gli esami effettuati sono stati 15.298.000,
escludendo i controlli effettuati durante eventuali ricoveri ospedalieri o in
day hospital. Sono 10.664.000 gli accertamenti di laboratorio (18,4 per 100
.persone) e 4.634.000 gli esami specialistici (8 per 100 persone), stabili
rispetto al 2000 e eseguiti più dalle donne che dagli uomini. Il 21 per cento
degli esami specialistici è a pagamento. Lazio, Puglia, Marche e Sicilia sono
le regioni nelle quali più frequentemente i controlli specialistici sono
interamente a carico degli utenti.
Le
persone di status sociale più elevato fanno più visite e accertamenti
specialistici. Le persone con livello di istruzione più basso fanno più visite
generiche (41,2 per cento contro il 18,1 per cento), accertamenti di
laboratorio (23,3 per cento contro il 16,9 per cento) e ricoveri (4,4 per cento
contro 2,3 per cento).
Si
ricorre a visite e ad accertamenti specialistici a pagamento soprattutto per la
fiducia nel medico o nella struttura di riferimento (71,5 per cento e 55,0 per
cento rispettivamente). Anche per il ricorso nelle strutture pubbliche la
fiducia è il motivo prevalente (53 per cento per visite e accertamenti
specialistici).
I diritti
dell’ammalato
I
diritti dell’ammalato: un tempo così poco riconosciuti da rendere necessaria la
creazione di un apposito «Tribunale del malato», così come si era resa
necessaria la creazione di un tribunale dei minori. Minori e ammalati due
categorie che, per diversi motivi, non possono difendersi, si trovano in
condizione di debolezza nei confronti della società, necessitano di regole
«diverse» rispetto al cittadino adulto e sano.
Il
Tribunale del malato nasce nel 1980 con il preciso scopo di tutelare i diritti
dei cittadini quando devono ricorrere alle strutture sanitarie e assistenziali
a causa di una qualsiasi infermità; si sviluppa negli anni successivi
inserendosi in un contesto reso ancora più complesso da una profonda
rivoluzione, anche culturale, del sistema sanitario: rivoluzione che è in atto
da più di venti anni e che, per alcuni aspetti, non è stata ancora a fondo metabolizzata,
né da operatori né da utenti.
La
legge 833/1978 che istituisce il Sistema sanitario nazionale recita all’art. 1:
«La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La
tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità
e della libertà della persona umana. Il servizio sanitario nazionale è
costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle
attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero la salute
fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni
individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei
cittadini nei fronti del servizio.»
Come
si vede la tutela dei diritti, la dignità, la libertà della persona umana sono
il principio ispiratore della legge, principio ispiratore che viene ribadito
nella successiva legge 502/1992, che istituisce le aziende sanitarie locali.
È
ben chiaro dunque come il diritto l’ammalato sia una delle idee centrali della
riforma e che essa si debba esprimere traverso il «rispetto della dignità e
della libertà della persona umana». È interessante allora cercare di capire
come questo principio ispiratore si sia tradotto nella pratica comune
dell’organizzazione sanitaria e come abbia inciso anche sui comportamenti del
personale sanitario.
La tutela della salute
La
tutela della salute è ovviamente l’obiettivo cruciale degli interventi sanitari
sul cittadino. Tralasciamo l’aspetto della prevenzione etimologicamente più
vicino al concetto tutela della salute, ma che trova uno spazio ridotto dallo
strapotere della «medicina cura» e che quindi ripristina una salute persa. In
fondo è questo che interessa di più al cittadino: quando ci si ammala, avere una
sposta in grado di risolvere il problema bene e il più rapidamente possibile. Il
che fortunatamente coincide con gli obiettivi che si pone un’azienda sanitaria,
anche se, criticamente, dobbiamo dire che il primo obiettivo affrontato e
raggiunto è stato quello del “presto” piuttosto che del “bene”.
Ora
si parla diffusamente anche di efficacia e non più solo di efficienza come
all’inizio della suddetta rivoluzione, e questo si traduce in una maggior
garanzia per il paziente, che si vede inserito in un percorso
diagnostico-terapeutico ottimale, sia per quanto riguarda la possibile
soluzione del suo problema nei tempi più rapidi possibili, sia per quanto
riguarda il contenimento degli errori. Già: contenimento e non eliminazione.
L’utopia
dell’eliminazione dell’errore, in medicina come in tutti gli altri campi
dell’agire umano, è stata abbandonata da tempo per una più realizzabile e
concreta ipotesi di contenimento dell’errore, mediante linee-guida, procedure
controllate, attraverso un’organizzazione del lavoro e del personale che, se
gestita in modo efficace, dovrebbe essere in grado dì raggiungere tale
obiettivo. Obiettivo che per la professione medica continua ad avere un valore
etico più ancora che legale o assicurativo.
Quello
che emerge dalle politiche sanitarie moderne dunque, e che sostanzialmente
nasce da una forte spinta al contenimento dì costi sempre più rilevanti e
insostenibili, si traduce ed evolve ora in una miglior gestione complessiva
orientata a rispondere al diritto fondamentale di ogni cittadino di avere la
miglior assistenza possibile in caso di bisogno sanitario.
Dire
che sia stato facile metabolizzare tutto questo da parte della dirigenza medica
sarebbe una menzogna: dopo un rifiuto iniziale e immediato verso il meccanismo
di controllo che tale concezione prevede, la classe medica si sta lentamente e
faticosamente riadattando a un sistema che sostituisce il clinico puro con il clinico-manager, pagando l’inesperienza e
le difficoltà che emergono ogni volta che si affronta radicalmente un sistema
organizzativo. A volte, facendolo pagare anche agli assistiti.
L’uguaglianza
Questo
diritto fondamentale deve essere assicurato a tutti, secondo un principio di
uguaglianza che oggi non è certo negato. L’esempio più evidente è l’assistenza
che viene erogata sul territorio anche a cittadini stranieri non in regola, i
quali, in caso di bisogni sanitari urgenti o che possono creare elementi di
rischio alla popolazione autoctona, possono accedere ai servizi sanitari in modo
gratuito mediante il cosiddetto codice STP (straniero temporaneamente
presente). Il libero accesso alle strutture e l’assistenza assicurata anche
agli indigenti sono solo alcuni degli aspetti che pongono il Servizio sanitario
nazionale italiano ai primi posti delle graduatorie internazionali.
Rispetto che si manifesta nella ricerca
di situazioni logistiche sempre più contorte- voli durante il ricovero,
nell’attenzione alle necessità quotidiane dei pazienti, nel tentativo sempre
più evidente di rendere la degenza in ospedale confortevole e più breve. A tal
punto che quando è possibile la degenza si trasforma in day hospital, si
comincia a parlare di «ospedale a domicilio» e, nuovamente, di servizi sanitari
territoriali, da sempre considerati «parenti poveri» nella concezione ospedalocentrica della sanità italiana, e ora assurti a
nuova vitalità.
5.
Famiglia “in crisi” e salute “a rischio”: uno sguardo sociologico sul
contemporaneo
La
famiglia è rappresentata da un gruppo di persone direttamente legate da
rapporti di parentela, all’interno del quale gli adulti hanno la responsabilità
di occuparsi dell’allevamento dei più piccoli1. I legami di parentela sono il
risultato di rapporti provenienti da ‘matrimoni o da linee di discendenza tra
consanguinei e non. In tal senso, la famiglia rappresenta un’ istituzione della
società, un gruppo primario la cui funzione fondamentale è consentire la
socializzazione, l’apprendimento, la comunicazione e lo scambio dei sentimenti.
Per un bambino l’ambiente familiare occupa dunque uno spazio primario per lo
sviluppo della propria personalità, non a caso in essa si ritrovano i più
importanti agenti di socializzazione primaria.
Talcott
Parsons, familista convinto, le ha attribuito il primato assoluto in tale
processo, sottolineando come i primi rapporti sociali della vita di un
individuo si instaurino proprio al suo interno e come questi momenti siano
decisivi per la formazione dell’identità. Distaccandosi da Emile Durkheim, che
alla famiglia contrapponeva le corporazioni come nuova istituzione di base,
Parsons ne esalta la funzione nel processo di integrazione dell’individuo nella
società, che comincia con l’assunzione di ruolo quale “perno connettore” tra i
due sistemi, quello personale e quello sociale. Obiettivo principale del pro
cesso di socializzazione è proprio di far apprendere tutto ciò che serve per
l’assunzione del ruolo sociale.
A
tal proposito Pierpaolo Donati precisa che la
famiglia non è un gruppo primario come gli altri, ma piuttosto un luogo in cui
la relazione è particolare, originale, e segue criteri di differenziazione
propria. Il tipo di relazione che ne sta a fondamento corrisponde a
esigenze «funzionali e sovra-funzionali non surrogabili da altre relazioni
sociali.
Diversamente
da altri gruppi primari la famiglia si caratterizza per un modo specifico di
vivere la differenza di gender (che
implica la sessualità) e le obbligazioni fra generazioni (che implicano la parentela)».
In base a queste due dimensioni, essa segue criteri propri di differenziazione
che la rendono diversa dagli altri gruppi primari. I fattori che originano la
famiglia sono di carattere relazionale e la sua struttura e dimensione non è la
risultante di motivazioni individuali o collettive, siano esse psicologiche,
economiche, politiche o religiose, ma le sue radici sono da ricercare nei suoi
stessi impulsi interni, che non sono per forza riconducibili a motivazioni
esterne quali il sentimento, l’utilità o il potere.
Si
tratta dunque di un sistema relazionale primordiale che «esiste all’inizio e
dall’inizio», poiché essa è all’origine dell’evoluzione della specie umana e al
contempo mediatrice dell’ingresso dell’individuo nella società. La sua
composita struttura si sostanzia di mediazioni di cui gli individui non sono
sempre esplicitamente consapevoli, ma che ritrovano una significatività nelle
relazioni interne e nella formazione della personalità di ciascun individuo che
ne entra a far parte.
In
questo quadro risulta difficile descrivere e schematizzare tutti i processi
relazionali che vivono al suo interno e che vi si auto-producono, tuttavia si
può affermare che le relazioni familiari possono essere formalizzate e
trasformare la famiglia da gruppo sociale primario a istituzione sociale «la
cui importanza sta nel rendere esplicite e regolate le mediazioni funzionali e
sovra-funzionali che la famiglia realizza fra il singolo individuo e le sfere
extrafamiliari, fra gli elementi naturali e quelli culturali, fra le dimensioni
private e quelle pubbliche della vita sociale».
Il ruolo fondamentale che essa ha, rientra nel
processo di socializzazione, fondamentale nella vita dell’individuo per la
presa di coscienza del proprio ruolo nella società, ma non solo: nella
prospettiva relazionale la famiglia acquisisce tra gli altri anche un ruolo
determinante nella salute, nella cura delle malattie, nell’igiene, nelle abitudini
alimentari, negli stili di vita e nell’educazione alla prevenzione. Questo
importante ruolo multifattoriale del rapporto tra salute e famiglia, per lungo
tempo è stato sottovalutato sia dalla scienza sia dalle istituzioni sanitarie,
isolando il paziente dal proprio contesto storico psicologico, relazionale e
sociale.
Escludere
la famiglia e il ruolo da essa compiuto nel momento della comprensione del
disturbo e della comunicazione con il paziente, può significa anche non
comprendere la malattia, lo stato di disagio vissuto, i processi che ne stanno
all’origine, se non addirittura sottovalutare le possibilità cura,
riabilitazione e prevenzione provenienti dal sistema di reti relazioni interne
alla famiglia.
In
un momento storico in cui emerge una concezione olistica della salute (di cui
peraltro si è già parlato in altri capitoli), la famiglia emerge con tutta sua
importanza, quale ambito da valutare nei processi di cura e di trattamento
delle malattie e patologie di varia natura. Alla base di questa concezione pone
l’idea che la salute sia un fatto globale, di natura processuale e relazionale
che chiama in causa tutti gli ambiti dell’esistenza umana nel loro infinito
processo di intreccio sociale.
Indubbiamente
i legami tra famiglia e salute sono evidenti anche nei fenomeni contemporanei,
quali l’incremento dell’obesità nei bambini provenienti da famiglie disagiate
sui quali torneremo oltre, o nelle forme di bulimia nervosa, che possono
originarsi come reazione a un disagio inscritto negli schemi relazionali della
famiglia. Tra gli elementi che predispongono i disturbi alimentari, si fa
accenno anche all‘importanza dei fatti familiari, come ad esempio l’esistenza di
un rapporto disturbato tra genitore figlio/a o una particolare configurazione
della dinamica familiare. Ciò che emerge dalle osservazioni allargate di
famiglie con un componente affetto anoressia nervosa, è che esiste una
molteplicità di fattori relazionali conflittuali interni alla famiglia, che
possono generare tale disturbo.
In
ogni caso risulta difficile trovare dei denominatori comuni sempre uguali in
situazioni diverse, ciò anche nel rifiuto dell’idea che vi sia una famiglia
tipica che favorisca l’insorgenza di malattie, disturbi o patologie di vario genere,
anche perché ognuna ha dinamiche proprie di trasmissione di un disturbo «Non
soltanto tipi, gradi e proprietà della diffusione variano secondo i tipi e le proprietà delle strutture familiari, anche
come “reti allargate”, ma sono rilevanti anche aspetti qualitativi differenti,
a parità di profili strutturali (intesi come le classiche variabili dell’età,
sesso, numerosità dei componenti)». In tal senso, dunque, le relazioni
familiari possono rappresentare una causa possibili disturbi del comportamento
alimentare.
La
famiglia quale istituzione sociale può giocare un duplice ruolo nel processo di
relazione con la salute da una parte essere un “canale” per la trasmissione
delle malattie, dall’altra rappresentare “un aiuto” possibile nella cura e
terapia delle stesse.
L’idea
di una correlazione diretta e univoca tra famiglia e salute, tra contatti
familiari e malattia apre un dibattito assai vasto cha va dalla vicinanza
fisica quale elemento di trasmissione di infezioni, virus o stati patologici
diversi, fino alla diffusione di concezioni, abitudini e conflitti di vario
genere, quali fattori determinanti l’origine di un disturbo. Indubbiamente il
problema va trattato su due fronti, il primo di carattere epidemiologico, il
secondo prettamente relazionale; vi è comunque la convinzione ormai accertata
che esista una suscettibilità differenziale delle famiglie nel diventare motivo
diretto o indiretto di malattia. La variabile famiglia di per sé non può
comunque essere la sola causa di uno stato di malattia, piuttosto la
correlazione con altre variabili che in qualche modo toccano la vita
dell’individuo all’interno e all’esterno della struttura familiare.
I
censimenti, le indagine e le ricerche in questo senso testimoniano un nesso tra
i tassi di morbosità e le situazioni familiari vissute dai pazienti. Nelle
famiglie conflittuali, frammentate o in cui è assente una possibilità d’aiuto,
sono maggiori le probabilità di insorgenza di un disturbo. Se si combinano
situazioni difficoltose o problematiche in famiglia con un’insufficienza di
sostegno sanitario, si verifica anche un accrescimento della suscettibilità nei
confronti di malattie fisiche, psicologiche e mentali In questo senso la
famiglia contribuisce sul piano causale all’insorgenza della malattia, in modo
scatenante o collaterale, «ma in taluni casi può essere essa stessa la malattia
soggiacente al corso esistenziale delle persone, o comunque il fattore
strutturale di amplificazione delle patologie».
Quale
canale di trasmissione, il ruolo della famiglia deve comunque essere inteso
come un rinforzo che si struttura sulla base del sistema delle risposte che la
famiglia fornisce nell’insorgenza della malattia: può contribuire ad aggravarne
lo stato di gravità, come influenzare negativamente il processo di cura.
Esistono dinamiche familiari, peraltro ancora difficili da spiegare nella loro
globalità, che arrivano a situazioni contraddittorie nel trattamento della
malattia, manifestandosi attraverso la negazione della stessa, la vergogna dell’essere
malati o la considerazione superficiale di uno stato di salute gravemente
compromesso. La letteratura psicologica evidenzia come alcuni casi di malattia
come ad esempio il diabete, siano negati nella famiglia e il trattamento del
malato sia espresso in condizioni nascoste, private; così come nel caso di
stati patologici di anoressia o bulimia nervosa ove le madri rifiutano l’ammissione di stati gravi di
disturbi del comportamento alimentare, anche di fronte a evidenze tangibili di
dimagrimento improvviso e immotivato.
Oltre
a rappresentare un canale di trasmissione delle malattie, la fan può comunque
rappresentare anche un luogo di cura e terapia, soggetto nella prevenzione e
nella riabilitazione di diverse patologie. Determinante nell’educazione alimentare,
nell’apprendimento degli stili di vita e di comportamento, nonché nelle abitudini
e nelle pratiche d’igiene, la famiglia ha un ruolo da valorizzare nei programmi
di cura e di trattamento delle patologie Ancora, preso atto che per il malato
la famiglia rappresenta un aspetto da valutare come parte del contesto storico,
sociale, culturale e psicologico in cui vive, appare inevitabile un suo
coinvolgimento al momento nel trattamento terapeutico. Nei casi di malattie
cardiovascolari, di ipertensione arteriosa, di problemi respiratori, le
abitudini quotidiane della famiglia sono coinvolte nella prevenzione; nel caso
di trattamenti specifici farmacologici o di rientri dall’ospedale dopo
interventi chirurgici di rilievo, la famiglia diventa determinante per il
rispetto dei programmi di cura; nei casi di incidenti, invalidità problemi di
mobilità, le reti familiari acquisiscono un ruolo decisivo programmi di
riabilitazione (se si pensa ai soli costi di terapie riabilitative alla
gestione quotidiana di chi con costanza deve effettuare ginnastiche o massaggi
terapeutici); infine nei casi di riuscita dalla tossicodipendenza o da disturbi
del comportamento alimentare, la rete relazionale dell’istituzione familiare,
diventa essenziale ai fini del reinserimento sociale.
Nella
concezione olistica di salute, e sulla base di una teoria relazionale come
espressa da Donati, diventa indispensabile rivalutare il ruolo della famiglia e
di "tutta la rete che si muove dentro e attorno”, quale risorsa basilare
per la comprensione e il trattamento delle malattie, senza limitarsi a ricercare
il problema nei singoli aspetti che possono averlo originato.
Tale
prospettiva ha aperto spazi di considerazione nella gestione della malattia a
domicilio: una politica che spinge a creare le possibilità domestiche per le
terapie nella cura dell’HIV o a dimettere quanto prima i pazienti anziani che
nelle strutture sanitarie vivono un’esperienza troppo forte di sradicamento.
Sia nei casi di malattie gravi, sia nella cura degli anziani o di bambini
ammalati di una delle “malattie dell’infanzia”, la tendenza odierna è di
agevolare la terapia nella famiglia, che può diventare attore principale nel
trattamento e nella cura. La rete di relazioni presente in essa, agevola così
le condizioni per una guarigione più rapida e meno faticosa della malattia, nonché
un decorso meno sgradevole. Nel caso dei bambini, la famiglia e soprattutto la
madre, rappresentano un universo senza dubbio più umano rispetto all’ospedale.
In casi di malattie che si protraggono nel tempo poi, la “domesticità” della
cura permette anche la possibilità di mantenere il contatto con la scuola e con
la dimensione dell’apprendimento, fattore determinante per la crescita
psicosociale.
Seguendo
tale prospettiva diventa inevitabile pensare alla famiglia come a un soggetto
basilare di prevenzione, di cura e di riabilitazione, proprio per la sua duplice caratteristica di possibile fonte
e possibile cura della malattia.
Lavoro e salute: la precarietà nell’età post-moderna
Nell’affrontare
la tematica dedicata alla relazione tra salute e lavoro nella società
post-moderna, ci si trova di fronte a una lunga lista di aspetti di rilevanza
sociologica. L’argomento è senza dubbio ampio e il dibattito contemporaneo
vivace: si va dall’importanza della tutela della salute, alla sicurezza e
all’igiene sul posto di lavoro, dalla discussione sulla normativa esistente
alle forme assicurative del lavoratore, dal mobbing alle nuove “malattie da
ufficio”. Ciascuno di questi apre un’ampia discussione sociologica.
Qui
ci si occuperà di alcuni di questi aspetti che, partendo dall’analisi del
contesto economico - produttivo della società contemporanea e passando
attraverso la descrizione delle nuove modalità lavorative atipiche, si sono
ritenuti importanti per capire quali siano i rischi di salute dei nuovi
lavoratori.
La
società contemporanea vive un momento di transitorietà caratterizzato da una
spiccata evoluzione tecnologica, da mutamenti economici, sociali e culturali di
entità globale. Non a caso la letteratura sociologica contemporanea pullula di
definizioni di una società post-moderna in crisi, una società dell’incertezza e
del rischio. In effetti le nuove tecnologie, la globalizzazione dei mercati e
la nascita di società multiculturali, stanno cambiando radicalmente il volto
della società contemporanea trasformandola da moderna e razionalizzata in
liquida e instabile.
Se
guardiamo soltanto ai processi in atto all’interno del mercati del lavoro
europei, appare evidente come si stia manifestando, seppur in maniera differente
a seconda del contesto nazionale, una sorta di erosione del contratto lavoro
classico, stabile, di tipo fordista
che ha caratterizzato per tutta la modernità l’occupazione nelle grandi imprese
pubbliche e private, in favore una moltiplicazione di contratti di lavoro
“marginali”.
Contemporaneamente
si sta assistendo a un indebolimento dell’opposizione tra mercati del lavoro
interni e mercati del lavoro esterni, nonché ad una complessificazione dei percorsi professionali che trattengono diversamente
i giovani nei loro percorsi di studio: Si sta verificando una redistribuzione
dei rischi economici e sociali tra imprese e lavoratori, che sta comportando la
nascita di nuove forme di precarizzazione
sociale. Questa sembra essere causa oltre che dall’emergere di nuovi mercati
transizionali, anche e soprattutto c la moltiplicazione delle forme giuridiche
dei contratti di lavoro. Le trasformazioni avvenute negli ultimi anni
all’interno dell’organizzazione delle modalità lavorative hanno profondamente
modificato il quadro dei rischi relativi salute e alla sicurezza dei lavoratori.
Si sono attenuate alcune patologie ma sono giunte di nuove, tra cui tutta una
serie di gravi malattie di cui è difficile individuare con certezza l’origine e
di cui è impossibile trovare immediatamente una relazione causale diretta con
l’attività professionale.
Al
fine di comprendere quali siano i nuovi rischi per la salute e la sicurezza di
chi oggi è attivo nel mercato del lavoro occorre valutare una molteplicità
fattori piuttosto differenziati. È necessario analizzare le trasformazioni organizzative
avviatesi con le tecnologie e valutare le conseguenze che hanno le modalità,
sulla percezione e sulla qualità del lavoro; solo in un secondo momento si
comprenderà il legame esistente «tra i cambiamenti avvenuti rapporti
contrattuali e le ripercussioni causate nell’ambito della salute e sicurezza».
Infine si focalizzerà l’attenzione sulle nuove figure professionali soggette ai
rischi sociali e di salute
Come
già era stato indicato dal CENSIS nel 2000, nel sistema economico contemporaneo dell’Italia,
innovazione, competitività e tecnologia divengono parole d’ordine sia per le
imprese sia per i lavoratori. Per le prime esse si traducono in investimenti
economici, in formazione professionale e in capacità di rischio, mentre per il
lavoratore diventano richieste di competenza, capacità organizzative e
autonomia, in una parola sola flessibilità. Ciò che il CENSIS aveva intravisto
nel 2000 era solo un anticipo di ciò che a distanza di sei anni è diventato
ancor più reale.
Il
mercato del lavoro italiano si va caratterizzando sempre più per un’occupazione
flessibile, che reclama al lavoratore una marcata autonomia, una viva
intraprendenza e una spiccata capacità organizzativa e di adattamento. Si sta
compiendo infatti l’ultimo passaggio da un modello industriale di economia a un
modello post-industriale, in cui a un accento sul volume della produzione, si
sostituisce il valore della produzione e quindi una concezione della crescita
non più quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Si sta passando
definitivamente da un’economia di scala a un’economia flessibile.
Il modello fordista che per buona parte del XX
secolo è stato a fondamento del processo produttivo, lascia il posto a forme
alternative, diverse di organizzazione del lavoro, che segnano il passaggio
storico verso un sistema nuovo, post-fordista che, pur mantenendo inalterate
alcune caratteristiche della produzione, di fatto rivoluziona l’organizzazione
del lavoro.
In
questo momento di transizione, le imprese di ogni dimensione si trovano infatti
impegnate nell’applicazione delle nuove tecnologie e implicate nelle
possibilità e nelle problematiche connesse alla globalizzazione dei mercati.
Sono alle prese con nuove esigenze del mercato, che impongono la rivisitazione
dei sistemi produttivi, coinvolgendo le strategie, le attività e le modalità
di produzione, i tempi e i
metodi di organizzazione del lavoro. Ecco perché il sistema taylorista -
fordista standardizzato e stabile, tipico delle società moderne e non più
adeguato al mercato contemporaneo, viene soppiantato da nuove modalità
organizzative caratterizzate dalla ricerca della flessibilità. Essa rappresenta
da un lato il perno del nuovo sistema e la soluzione migliore per rispondere
alle richieste del nuovo mercato, dall’altro la causa di sconvolgimenti nella
compagine lavorativa.
Se
per lungo tempo e per tutta la modernità, il lavoro ha rappresentato delle più
importanti certezze della vita privata e sociale del singolo, l’elemento
regolatore del proprio progetto di vita, fortemente collegato con il valore del
riconoscimento di sé e del proprio ruolo sociale, oggi esso acquisisce forme
nuove e sempre più difficili da definire sociologicamente. D’altronde non si
vede come esso possa mantenere le caratteristiche del passato, quando
l’applicazione delle nuove normative sul lavoro impone una rivisitazione delle
forme contrattuali e delle condizioni lavorative che puntano alla massima
flessibilità.
In
questo scenario di mutamento resta costante e stabile la funzione di
riconoscimento della condizione di cittadino, nonché la costruzione
dell’identità sociale che passano pur sempre attraverso la conduzione di
un’attività lavorativa. In un sistema discontinuo e flessibile come quello odierno
diventa quasi contraddittorio riuscire a costruire la propria identità sociale
grazie al lavoro, con una serie di problemi che ne conseguono sul piano fisico,
psicologico e sociale, correlati con la salute.
Le
opportunità offerte dal lavoro flessibile acquisiscono un’accezione negativa
nel momento in cui hanno ricadute sulla personalità del lavoratore vita
quotidiana. Il lavoro atipico in cui l’autonomia e la libertà dei lavo
rappresentano la prima regola, i lavoratori devono essere più competenti, con
un’elevata qualificazione, e al contempo più esposti al rischio di precarietà
professionale e di vulnerabilità sociale, con forti ripercussioni sullo stato
di salute.
Il
processo di de-standardizzazione del lavoro insieme al progressivo sviluppo dei
sistemi informativi, dà vita all’individualizzazione dei rapporti di lavoro col
conseguente venir meno dei legami sociali e del senso di appartenenza,
fondamentali per lo sviluppo dell’identità collettiva e dell’integrazione
professionale prima e sociale poi.
Il
rischio più grande che ne consegue diventa un disorientamento personale e
sociale che porta a un continuo stato di
incertezza col conseguente accumulo di stress e di malessere vissuto.
Le
profonde trasformazioni del mercato del lavoro, l’innalzamento dei livelli di
studio e la diversificazione dei percorsi formativi, fanno sì che il processo
di transizione al lavoro sia sempre meno un percorso lineare e prevedibile, contrassegnato
da una sequenza ordinata e coerente di esperienze formative ed episodi
lavorativi. Quello di oggi è un mercato del lavoro più aperto e dinamico, ma
anche, meno trasparente e più precario, che richiede all’individuo, spirito di
iniziativa, una buona dose di spregiudicatezza, di calcolo, progettualità e
capacità di cogliere e interpretare le tendenze del mercato. Caratterizzato da
una forte richiesta di flessibilità nei confronti del lavoratore, le
possibilità correlate al lavoro, lo mettono in condizioni di situazioni sempre
nuove in cui deve prendere abilmente decisioni operative con un carico di
responsabilità notevole che caratterizza l’operatività del lavoro flessibile.
Tra i lavoratori emerge la sofferenza di chi ha paura di non soddisfare, di non
riuscire nel compito, di non essere all’altezza, di non rispettare tempi, ritmi,
modalità e livelli di conoscenza e d’informazione; c’è inoltre il timore di non
avere esperienza sufficiente e rapidità nell’acquisizione di nuove pratiche, né
di possedere capacità di adattamento alla cultura dell’impresa. Sono queste le
paure che si sommano a uno stile di vita stressante e stressato sono stati di
sofferenza che impediscono al lavoratore post-moderno di godere di una salute
equilibrata, portandolo a un rischio più elevato di malattie.
Nella
società contemporanea il lavoro precario, massima espressione dell’incertezza e
del rischio che la caratterizza, è affiancato anche da stati di salute precaria, vissuto da coloro che
operano in condizioni lavorative più stressanti e a costante rischio malattia
Si e
avuta in passato la tendenza a pensare che la sofferenza nel lavoro fosse
se stata attenuata dalla
meccanizzazione e dalla tecnologia, che avrebbero evitato il contatto diretto
con la materia tipica delle mansioni industriali, e avrebbero convertito la
manovalanza in operatori dalle mani pulite, trasformando gli operai in
impiegati”.
Come
appare evidente, la realtà dei fatti è altra storia. Anzitutto occorre rilevare
che, oltre alle nuove categorie di lavoratori precari oggi, nonostante le
tecnologie ci siano venute in aiuto e sebbene in molte aziende gran parte del
processo produttivo sia meccanizzato, permane ancora un esercito di lavoratori
che compie lavori in situazioni di estremo pericolo per il loro stato di
salute, in condizioni ancora rischiose e non troppo diverse da quelle del passato.
È il caso di operai manutentori del nucleare, delle imprese di pulizia, degli
allevamenti di polli e dei macelli industriali, delle aziende di trasloco e di
confezioni tessili. Con fattori di nocività piuttosto eterogenei, queste nuove
categorie di lavoratori esposti a diversi rischi di salute vivono in situazioni
di pericolo esattamente come prima dell’avvento della tecnologia, e vanno
tenuti in considerazione nelle riflessioni sul sistema di salute pubblica e di
cura e tutela della salute del lavoratore.
In
secondo luogo se da un lato dobbiamo ringraziare le tecnologie per esserci di
sostegno nella catena di montaggio e nell’esclusione dell’uomo da alcuni
comparti lavorativi estremamente rischiosi, dall’altra non dobbiamo dimenticare
coloro che ancora vivono situazioni lavorative così pericolose, né
sottovalutare i problemi di salute e sicurezza connessi alle nuove tipologie di
lavoro. Queste categorie di lavoratori fanno parte della compagine lavorativa e
rischia la propria salute sul posto di lavoro. In questo scenario occorre
chiedersi se sia utile ripensare e riformulare il concetto di sicurezza e
tutela della salute sul posto di lavoro.
A
conferma della preoccupante situazione stanno i dati che emergono dalle prime
ricerche sul tema dei rischi di salute nel lavoro precario. Nella realtà
lavorativa italiana va detto anzitutto che i precari sono soprattutto “adulti/giovani”
che si attestano sulla trentina d’anni, di cui una quota significativa vive con
i genitori e la stragrande maggioranza non ha figli. Una buona parte sono donne
che se arrivate alla soglia dei quaranta anni, soltanto per un hanno un figlio.
Ben il 76% lavora per un unico datore di lavoro con trattamenti economici
alquanto contenuti e con un rapporto di “dipendenza” piuttosto particolare.
Più
della metà dei precari «svolge un orario superiore a q standard, ossia più di
trentotto ore a settimana, soprattutto nel privato. Nonostante gli orari
lavorativi lunghi, ben il 46% [...] ha una retribuzione inferiore a mille euro
al mese. Tra questi, poco meno di un quarto guadagna meno di ottocento euro. Si
tratta soprattutto di lavoratori del privato e del privato sociale. I “Tecnici”
e gli “Intellettuali”, che svolgono orari lavorativi ben sopra dell’orario
standard, hanno redditi mediamente più elevati, ma comunque di gran lunga
inferiori a quelli dei loro colleghi dipendenti e mai superiori a
millecinquecento euro mensili». In generale poi la durata dei contratti è
piuttosto breve: il 28,3% ha un contratto della durata massima di sei mesi e il
56,5% di un anno, mentre soltanto una minoranza esigua può contare su contratti
di durata superiore.
Questo
testimonia una condizione piuttosto complessa che provoca nei lavoratori un
senso di insofferenza, di malcontento malessere generale. Questi stati
psico-fisici, gli psicologici del lavoro li prendono nella frustrazione,
rilevando come essa possa avere ricadute ne ve sulla qualità del risultato e
del compito svolto, nonché sulla salute generale del lavoratore che accusa
stati costanti di affaticamento se non addirittura malattie obiettivamente
diagnosticate.
Tra
i fattori che influiscono maggiormente sullo stato d’animo di chi la in queste
condizioni, emergono soprattutto gli aspetti legati ai trattamenti contrattuali
e alla mancanza di diritti previdenziali e di tutela. «In generale, sono
abbastanza soddisfatti dei rapporti personali che hanno con i loro e colleghi e
con i loro superiori; [...] I motivi di maggiore malcontento sono in legati
alla retribuzione, alla possibilità di crescita professionale, al coinvolgimento
nelle decisioni aziendali e alla garanzia delle tutele sociali» nonché ai ritmi di vita e alle condizioni di elevato
stress in cui svolgono la propri attività.
Altre
evidenze dello stato di malessere sono rintracciabili sia nel allungamento dei
tempi necessari per raggiungere una prima posizione occupazionale, sia nella
crescente distanza tra il tipo di carriera scolastica e lo sbocco
occupazionale. Nel percorso di avvicinamento a una condizione professionale più
stabile, si susseguono e si alternano sempre più spesso periodi di studio,
esperienze lavorative a carattere formativo e prestazioni professionali
remunerate, temporanee e occasionali.
I
lavoratori flessibili devono destreggiarsi in uno scenario di doppia incertezza
che riguarda sia le propensioni e capacità personali, sia la forte
preoccupazione di perdere il lavoro, che spesso li spinge ad accettare lavori
non strettamente collegati con i loro percorsi di studio.
I
recentissimi dati pubblicati dall‘Ires presentano i lavoratori atipici come i
più preoccupati in assoluto. Sono circa il 61,9% coloro che dichiarano un
elevato stato di preoccupazione rispetto alla possibilità di restare senza
lavoro, contro il 15,2% dei lavoratori con contratto standard. Per questo
trascorrono spesso periodi di iperlavoro
che non sono seguiti da periodi di riposo e la loro libertà nella gestione del
tempo è sovente limitata. Anche se contrattualmente non devono recarsi sul
posto di lavoro tutti i giorni alla stessa ora, nella realtà dei fatti i
lavoratori flessibili sono caldamente invitati a farlo comunque. Sono liberi di
decidere se prendersi una giornata ma poi, nei periodi di maggior attività,
restano al lavoro per giorni e settimane senza dedicare tempo ad altro. Se da
un lato, quindi esiste la libertà formale di decidere e stabilire autonomamente
modalità e ritmi di lavoro, dall’altro i committenti impongono loro
un’organizzazione operativa i cui margini di discrezionalità si rivelano
piuttosto ridotti.
A
conferma di questo si aggiungono altri dati interessanti. Nell’ultimo rapporto
CENSIS, accanto alla crescita dell’economia italiana emerge che il 33,8% degli
italiani lavora abitualmente in orari faticosi: di sera, di notte, nei
week-end, e a casa oltre l’orario abituale. A questa percentuale si aggiunge un
19,8% cui capita, invece, saltuariamente di dover lavorare in orari pesanti
(durante i pasti o nelle pause di lavoro), per un totale di circa otto milioni
centotrentottomila lavoratori, (vale a dire cinquantatre su cento). L’orario atipico
più diffuso è il lavoro di sabato, che interessa ben il 29,5% dei lavoratori
italiani, seguito dall’ attività serale (11% degli occupati), domenicale (6,5
%) da quella notturna, che coinvolge complessivamente ben il 5,6% del campione.
Questo ritmo di vita, come si è visto, viene tenuto per periodi di tempo estremamente
allungati e in condizioni ai limiti della resistenza fisica, psichica e
sociale. Lo svincolo da un preciso orario di lavoro spesso si trasforma frequentemente
in uno squilibrio che influenza negativamente la sfera privata cancellando di
fatto i confini tra tempo di lavoro e tempo di riposo e di svago. Se questo è
vero, se il lavoro pervade il tempo privato dei lavoratori, invadendo il loro
spazio di vita personale e determinando prestazioni lavorative intense con
giornate di lavoro prolungate ben oltre l’orario consueto, pare evidente che ci
si trova di fronte a soggetti post-moderni particolarmente a rischio.
Gli
spazi occupati dalle attività retribuite si impadroniscono anche dello spazio di
vita privata, impedendo una relazionalità e una socialità di cui l’essere umano
ha necessità. Nella scala dei bisogni umani, come insegnano le teorie di
Abraham Maslow e quelle di Ronald Inglehart, esiste “un bisogno di relazionalità
sociale rinvenibile in quell’area” [ ] di “bisogni sociali di
autorealizzazione, appartenenza e stima”. Senso di comunità, rapporti di fratellanza,
relazioni face-to-face, produzione
intersoggettiva di senso all’interno del mondo della vita quotidiana», insieme
a interazioni sociali soddisfacenti e all’autorealizzazione, sono fondamentali
per l’equilibrio fisico e sociale dell’essere umano.
Oggi,
lo stress da iperlavoro, con la conseguente inadeguatezza nelle capacità del
singolo di regolare ritmi di vita lavorativa con spazi di vita rappresenta uno
dei principali fattori a rischio malattia, rimanendo un componenti principali
dello stato di malessere, e indubbiamente non la sola: moltéplici sono le
conseguenze sullo stato di salute provenienti da uno stile di vita incerto e precario.
Anche
se i dati che emergono dalle ricerche condotte in questo ambito nei diversi
paesi europei, non rappresentano una realtà omogenea e non permettono
generalizzazioni teoriche, di fatto sembra esistere una relazione forte tra le
trasformazioni delle relazioni salariali e i rischi correlati alla salute e
alla sicurezza sul lavoro.
Nello
specifico, in una ricerca del 2002 condotta dall’Agenzia Europea per la
Sicurezza e la Salute sul Lavoro, emerge come la velocità dei cambiamenti e la
complessità delle modalità e delle condizioni lavorative infonda, in chi è
attivo, un senso di perdita di controllo sulla propria vita e sul proprio
lavoro. A ciò si aggiunge la pressione causata dall’accelerazione dei tempi di
lavoro che comporta inevitabilmente un aumento dello stress e della fatica
nervosa.
I
dati europei sulle forze di lavoro rilevano che le malattie emergenti
caratteristiche della post-modernità quali stress, depressione, ansia, (ma
anche violenza sui luoghi di lavoro, molestie e intimidazione) rappresentano
ben il 18% dei problemi di salute sul lavoro e che un quarto di questa
percentuale è costretta a un’interruzione delle attività pari o superiore alle
due settimane. Queste patologie appaiono non tanto legate all’esposizione a un
rischio specifico sul luogo di lavoro, quanto a un insieme di fattori
differenziati che vanno a insidiare ciò che solitamente viene definito
“benessere sul luogo di lavoro”.
Le
numerose e continue responsabilità legate al ruolo, i conflitti coi colleghi,
le ansie sul futuro del proprio contratto, il carico indefinito di compiti,
l’ambiente non sempre adeguato e i ritmi pressanti, sono altre possibili fonti
di stress che possono avere conseguenze sullo stato di salute e causare anche
comportamenti di carattere “difensivo”: dall’ assenteismo, all’ incapacità di
fronteggiare le situazioni nuove nei compiti assegnati, dalla difficoltà di
socializzazione alla somatizzazione corporea dell’incertezza.
Tutto
questo carico da lavoro ha notevoli costi anche per la società: le forme di
assenteismo e di richiesta d’indennizzo per malattia professionale, ove
previste da contratto, sono in considerevole aumento. L’Organizzazione Mondiale
della Sanità ha lanciato un allarme, stimando che sia addirittura il 30% della
popolazione mondiale attiva a essere affetta da disturbi mentali di tipo non
psicotico (magari non riconosciute nel DSM-IV), presentando una situazione
alquanto preoccupante.
Le
prestazioni saltuarie, fissate soprattutto dalle specifiche tipologie
contrattuali, hanno incrementato la gravità delle situazioni di stress,
(derivanti soprattutto dall’insicurezza per il futuro), che arrivano fino
all’ansia e a forme di depressione
di diversa gravità. Tutto questo ha ripercussioni anche sullo si di salute e
sulle speranze di vita: è stato già calcolato come i disoccupati di lunga
durata rappresentino la categoria sociale che ha speranze di vita minori e che
le loro storie personali sono caratterizzate da forti depressioni, ansie e
tentativi di suicidio.
I
disoccupati non sono comunque gli unici soggetti da valutare sotto questo
profilo. Gli studi condotti sul rischio di salute nei luoghi di lavoro, hanno
subito evidenziato come l’esecuzione di compiti che hanno una quotidianità
monotona, che sono ripetitivi o faticosi, che avvengono in condizioni insalubri
o di isolamento, aumentano le probabilità di incidenti dovuti soprattutto a
disattenzione, mancato controllo, indolenza o leggerezza nello svolgimento delle
attività.
Per
quanto concerne invece i rischi che accompagnano i cambiamenti venuti nelle
relazioni contrattuali, si può affermare che esistano forti differenze tra
lavoratori permanenti che hanno un contratto a tempo indeterminato lavoratori
flessibili che hanno contratti a termine, rispetto ai temi di sicure; e tutela
della salute sui luoghi di lavoro. A uno sguardo veloce sembra che i rischi
siano gli stessi per entrambe le categorie, ma in realtà come si è accennato
esiste una specificità caratteristica del lavoratore flessibile. Emerge dunque come questa categoria
di lavoratori sia molto meno informata rispetto agli eventuali rischi del
proprio lavoro, e che i corsi di formazione, eventualmente previsti e svolti
all’interno dell’organizzazione aziendale, non siano all’altezza
dell’informazione necessaria.
Se
si osservano poi le condizioni di lavoro a cui questi ultimi sono sottoposti la
situazione appare ancora più grave. Inoltre per quanto i lavoratori a tempo
indeterminato si confrontino con richieste ed esigenze di lavoro sempre più
impegnative, i lavoratori precari vivono condizioni in cui esiste un minor
controllo sui processi lavorativi e organizzativi perché inquadrati in attività
i cui processi non sono standardizzati, vivendo stati compositi di malessere
che si sommano alla prospettiva di dover cambiare frequentemente lavoro e
all’eventualità di over restare inattivi per lunghi periodi. Nello svolgimento
di mansioni temporanee dì breve durata, e di progetti che hanno un termine
temporale inoltre, il lavoratore la “percezione gruppale del rischio”, ovvero
l’occasione di percepire gli accordi e le soluzioni implicitamente o
esplicitamente adottate dal gruppo, nel caso si trovassero a fronteggiare
situazioni di pericolo e/o di emergenza.
Se a
tutto ciò si aggiunge l’indice di infortuni riscontrato nei lavoratori precari,
emerge un dato estremamente interessante rispetto agli interinali. «Pur essendo
difficilmente verificabile sulla base dei dati quantitativi a disposizione, la
casistica dimostra uno spostamento dei rischi a sfavore dei lavoratori
temporanei e dei subappaltatori, i quali risultano nel complesso meno protetti
e/o meno consapevoli dei rischi medesimi».
È stato
rilevato infine che nonostante possa esistere una differenza di età, di occupazione e di settore, tra
lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori atipici, un nesso tra le
condizioni ergonomiche critiche e i contratti atipici sembra sempre più
considerevole.
Di
fronte a uno scenario di questo tipo i medici chiedono aiuto nella definizione
di nuove tipologie di malessere provenienti dal lavoro e correlate all’impiego
e alle condizioni in cui si svolge. I medici e gli istituti di medicina del
lavoro cominciano a lanciare l’allarme, evidenziando come a parte una diffusa e
ormai nota svogliatezza nel riprendere i ritmi di lavoro dopo un periodo di riposo
e di vacanza, si debba fronteggiare il rischio di una serie di disturbi legati
allo svolgimento della propria attività, ancora non sempre riconosciuti come
tali. Si va dalle ormai accertate conseguenze provenienti stile di vita
lavorativa sedentario, (come obesità, aumento di colesterolo alle vere e
proprie “malattie da ufficio”, fino a l’emergenza di nuove forme di disagio
legate al terziario. Senza dedicare spazio alle problematiche provenienti da
una vita sedentaria che qui richiederebbero una riflessione ben ampia sugli
stili di vita, vale la pena dedicare qualche riga alle “malattie ufficio”. Tra
queste la più conosciuta è la sick
building syndrome (“sindrome da edificio malato”) che ha cause multifattoriali
e non è considerata una vera e propria malattia: si tratta piuttosto di una
serie di disturbi che affliggo passa molte ore all’interno di un edificio
chiuso. Questi sintomi colpi soprattutto l’apparato respiratorio, ma non solo:
fastidi agli occhi, spesso arrossati e irritati, sensazioni di occlusione e secchezza
di naso e gola, disturbi causati da tosse e senso di oppressione toracica;
pelle disidratata nonché sintomi legati al sistema nervoso con senso di apatia
e svogliatezza. Sulla base delle osservazioni mediche, sembra che questi
sintomi scompaiano una che le persone si siano allontanate dall’edificio in cui
lavorano.
Se
si osserva poi la struttura del luogo di lavoro e il suo mantenimento, vengono
riscontrati altri problemi di salute legati agli impianti di ventilazione
artificiale o di condizionamento dell’aria, come pure correlati alla man di
luce solare e alla respirazione costante e quotidiana di aria “viziata”.
Effettivamente
i medici dichiarano che alcuni agenti patogeni (come batteri e parassiti)
possono essere trasmessi grazie all’aria condizionata dell’ufficio causando
asma bronchiale, alveoliti allergiche estrinseche e polmoniti del legionario.
In
Italia, in base alla rilevazione Istat anni 2002-2 005, le persone con oltre 65
anni di età sono 11.379.341 su un totale di 56.993.742 abitanti (circa il 20
per cento della popolazione). Nella programmazione dei servizi occorre dunque
considerare specificamente i bisogni assistenziali che può esprimere
quest’ampia fascia di popolazione.
I
servizi sanitari e sociosanitari in favore delle persone anziane sono
finalizzati a rafforzare l’autonomia individuale, a prevenire la non
autosufficienza, a mantenere quanto più possibile la persona nel proprio
contesto familiare, nella propria casa, assicurando — al momento del bisogno —
assistenza qualificata in ospedale, in strutture residenziali, a domicilio. I
servizi sono organizzati in rete per poter garantire continuità delle cure e
della relazione.
I
servizi di assistenza agli anziani sono presenti in ogni ASL (in genere situati
nei distretti sanitari) e hanno una funzione di coordinamento per l’assistenza
sanitaria e sociale agli anziani e alle loro famiglie.
Di
grande importanza è l’apporto delle associazioni di volontariato e dei
familiari che affiancano il lavoro dei servizi pubblici.
Le
principali azioni previste dalla programmazione sanitaria nazionale riguardano
essenzialmente:
La
promozione dell’invecchiamento attivo, con interventi miranti all’adozione di
stili di vita favorevoli alla salute;
L’assistenza
territoriale integrata, finalizzata a prevenire, contrastare e accompagnare le
condizioni di disabilità e fragilità della popolazione anziana, valorizzando in
particolare il medico di famiglia;
L’assistenza
domiciliare;
La
residenzialità e semiresidenzialità, volta a creare un sistema di offerta
sempre più differenziata e di qualità, attraverso la rete delle residenze
sanitarie, delle residenze sociali e dei servizi di accoglienza;
L’assistenza
ospedaliera, nei termini di accoglienza e di dimissioni protette;
La
sicurezza, per azioni di prevenzione sociale degli anziani soli o a rischio.
Negli
ultimi decenni è sempre più pressante la richiesta di assistenza da parte delle
persone anziane non autosufficienti che, nella quasi totalità dei casi,
sono assistite dalla famiglia, con costi
economici, psicologici e sociali elevatissimi.
Una
situazione tale da poter affermare che la condizione delle persone in stato di
totale non autosufficienza rappresenta una vera e propria emergenza sociale.
Affrontare e saper dare una risposta a tale
condizione può essere considerata una delle sfide sociali di maggiore significato
del nostro tempo. In tale contesto, i servizi per anziani non autosufficienti
devono assicurare, dunque, risposte sanitarie, assistenziali, tutelari e di
socializzazione rispetto al grado e intensità del bisogno. La condizione di non
autosufficienza, tuttavia, non riguarda unicamente
la popolazione anziana, ma una fascia ben più ampia della popolazione,
comprendente i disabili fisici, psichici e sensoriali, ovviamente in relazione
alla specifica condizione e gravità della patologia.
Si
riporta, di seguito, una definizione di «non auto- sufficienza», che
costituisce la premessa per specifiche prestazioni sanitarie e sociali. È importante
ricordare che un nodo cruciale dell’assistenza alle persone non autosufficienti
è rappresentato dalla separazione degli assetti istituzionali tra i diversi
servizi:
Aspetti
sociosanitari: il Servizio sanitario nazionale
si occupa delle problematiche assistenziali con forte valenza sanitaria,
con finanziamento statale e regionale, responsabilità organizzativa attribuita
alle regioni e gestione affidata alle ASL;
Dei
servizi e degli interventi sociali: la responsabilità è attribuita agli enti
locali, finanziati da stato, regioni e comuni.
Inoltre,
come previsto dal decreto del presidente d consiglio dei ministri 308/2001, le
strutture destina agli anziani erogano prestazioni socio-assistenziali o sociosanitarie,
finalizzate al mantenimento e al recupero delle residue capacità di autonomia
della persona e sostegno della famiglia. In particolare:
Le
prestazioni socio-assistenziali sono attività relative alla sfera sociale con
lo scopo di aiutare la persona i stato di bisogno, con problematiche di disabilità
o di emarginazione; sono di competenza dei comuni, richiedono la partecipazione
alla spesa da parte dei cittadini che ne beneficiano e si esplicano attraverso
interventi di ospitalità alberghiera presso strutture residenziali rivolte a
pazienti anziani con limitazioni anche parziali dell’autonomia, non assistibili
al proprio domicilio (decreto del presidente del consiglio dei ministri 14
febbraio 2001);
Le
prestazioni sociosanitarie sono invece tutte le attività atte a soddisfare,
mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che
richiedono sia prestazioni sanitarie sia sociali per garantire, anche nel lungo
periodo, la continuità tra gli interventi di cura e quelli di riabilitazione
(decreto legislativo 229/1999 e successive modificazioni); tali prestazioni
comprendono:
—
prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla
promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e
contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e
acquisite;
—
prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del sistema
sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con
problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute. In
questa sede si affrontano i temi legati all’assistenza sociosanitaria e, in
particolare, i servizi e le prestazioni
offerte agli anziani non autosufficienti.
3.
I malati terminali, la donna e la maternità, salute mentale e dipendenze, assistenza
farmaceutica
Focus: Non autosufficienza
Numerose
sono le definizioni di «paziente non autosufficiente». In generale, il
sovrapporsi di una patologia con la condizione socioambientale, cognitiva e
psicoaffettiva della persona determina la comparsa e il livello della non
autosufficienza. L’OCSE ha precisato nel 2005 che i soggetti non
autosufficienti sono “gli individui con disabilità mentali o fisiche di lungo
periodo, che sono diventati dipendenti dall’assistenza nelle attività
fondamentali della vita quotidiana, la gran parte delle quali appartengono ai
gruppi più anziani della popolazione” e che «hanno bisogno di servizi e
interventi di long-term care». Anche il dibattito su cosa debba essere inteso
per long-term care (LTC) o “assistenza continuativa” è tuttora aperto.
Recentemente, l’COSE ha precisato che «seppure la maggior parte dei non
autosufficienti siano anziani, il concetto di assistenza continuativa include
anche servizi rivolti a una popolazione più giovane con disabilità fisiche e
mentali e necessità terapeutiche specifiche di giovani e giovani adulti».
Per
«assistenza alle persone non autosufficienti” o Jong-term care si possono
intendere anche «tutte le forme di cura alla persona odi assistenza sanitaria,
e gli interventi di cura domestica associati, che abbiano natura continuativa.
Tali interventi sono forniti a domicilio, in centri diurni o in strutture
residenziali a individui non autosufficienti».
Focus: L’indennità di
accompagnamento
L’indennità
di accompagnamento, prevista dalla legge 11 febbraio 1~80 n. 18, è la
provvidenza eoonomica riconosciuta dallo Stato, in attuazione dei principi
sanciti dall’art. 38 della Costituzione, a favore dei cittadìni la cui
situazione di invalidità, per minorazioni o menomazioni fisiche o psichiche,
sia tale da rendere necessaria un’assistenza continua; in particolare, perché
non sono in grado di deambulare senza l’assistenza continua di una persona,
oppure perché non sono in grado di compiere autonomamente gli atti quotidiani
della vita.
L’indennità
di accompagnamento ha la natura giuridica di contributo forfetario per il
rimborso delle spese conseguenti al tatto oggettivo della situazione di
invalidità e non è pertanto assimilabile ad alcuna forma di reddito;
conseguentemente è esente da imposte. Essa è a totale carico dello Stato ed è
dovuta per il solo titolo della minorazione, indipendentemente dal reddito del
beneficiario o del suo nucleo familiare.
L’importo
corrisposto (pari nel 2007 a 457,66 euro per 12 mensilità) è annualmente
aggiornato con apposito decreto del ministero dell’interno. Il diritto alla
corresponsione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello in cui è
stata presentata la domanda. Secondo quanto previsto dal decreto del presidente
della repubblica 698/1994 sui procedimenti in materia di riconoscimento delle
minorazioni civili e relativa concessione dei benefici economici, la domanda
per l’accertamento dell’invalidità e per la concessione dei relativi benefici
tra cui l’indennità di accompagnamento) va presentata alla competente
commissione medica per gli invalidi civili dell’ASL di residenza allegando la
certificazione medica comprovante la minorazione o menomazione con diagnosi
precisa e con l’espressa attestazione, ai fini dell’ottenimento dell’indennità
di accompagnamento, il richiedente è «persona impossibilitata a deambulare
senza l’aiuto permanente di un accompagnatore», oppure che è «persona che
necessita di assistenza continua essendo in grado di compiere gli atti quotidiani
della vita”. Non può ricevere l’indennità di accompagnamento chi è ricoverato
in un istituto con pagamento della retta a carico dei servizi pubblici da più
di un mese. Il modello della domanda è disponibile presso gli uffici relazioni
con il pubblico dell’ASL, i patronati, i sindacati e le associazioni di
categoria.
La
domanda va sottoscritta dal richiedente, cioè l’invalido, oppure dal suo legale
rappresentante (uno dei genitori, se si tratta di minore; il tutore o il
curatore, se si tratta di persona interdetta o inabilitata) pure ancora da
altra persona che rappresenti il richiedente in forza di specifica cura,
generale o speciale, ad agire in suo nome e per suo conto. Se il richiedente
non è in grado di firmare, non è né interdetto o inabilitato né ha nominato un
proprio rappresentante la domanda può venire sottoscritta, in presenza del
richiedente, da due testimoni, possibilmente non familiari, davanti a un
pubblico ufficiale (per esempio, un notaio o il segretario comunale) che
autentica le sottoscrizioni. Entro tre mesi dalla presentazione della domanda
la commissione medica deve fissare la data della visita medica; se tale temine
tra- scorre inutilmente il richiedente può presentare una diffida a provvedere
all’assessorato alla sanità della regione di residenza. Questi è tenuto a
fissare la visita entro nove mesi dalla data di presentazione delta domanda, ed
entro questo termine deve comunque concludersi l’intero procedimento di
accertamento sanitario.
In
sede di accertamento sanitario l’interessato può farsi assistere, a sue spese,
dal proprio medico di fiducia. L’esito dell’accertamento deve essere comunicato
all’interessato mediante il verbale di visita. Se viene riconosciuta
un’invalidità che dà diritto all’indennità di accompagnamento, la commissione
medica trasmette direttamente il verbale di visita alta regione (o ad altro
ente da questa delegato) per istruire la procedura dì pagamento dell’indennità.
L’eventuale ricorso contro il verbale di visita dall’esito negativo va
presentato entro due mesi dalla notifica alla commissione medica superiore
presso il ministero del Tesoro, che decide entro sei mesi, intendendosi in caso
di silenzio respinto il ricorso. Vi è ulteriore possibilità di tutela
giurisdizionale davanti al giudice ordinario.
Una
volta accertato dalla commissione medica il grado d’invalidità, la procedura di
verifica degli ulteriori presupposti che danno diritto al pagamento
dell’indennità di accompagnamento deve concludersi da parte della regione o
dell’ente da questa delegato entro sei mesi dal ricevimento del verbale di visita
da parte della commissione medica. Il decreto relativo alla concessione della
provvidenza economica può venire anch’esso impugnato con ricorso, sempre entro
due mesi dalla notifica, al comitato provinciale dell’INPS, che deve decidere
entro quattro mesi, intendendosi altrimenti rigettato il ricorso e salva sempre
la possibilità di ulteriore tutela avanti il giudice ordinario.
Il pagamento materiale della provvidenza avviene
a cura dell’INPS mediante accredito su conto corrente postale o bancario intestato
al beneficiano, oppure mediante riscossione presso l’ufficio postale indicato
dallo stesso richiedente, il quale ha la possibilità di indicare anche una
persona delegata alla riscossione. La prima quota mensile comprenderà anche
tutte quelle già maturate in precedenza a partire dal mese successivo a quello
di presentazione della domanda; successivamente saranno corrisposti anche gli
interessi legali maturati sulle somme dovute sempre con Fa medesima decorrenza.
Il
beneficiano della provvidenza è poi tenuto a comunicare all’INPS, entro trenta
giorni, ogni mutamento delle condizioni e dei requisiti previsti dalla legge
per la concessione della prowidenza goduta. Nel caso di godimento
dell’indennità di accompagnamento va comunicato il venire meno del requisito
della necessità di assistenza continua, oppure il venire meno della situazione
di assistenza a domìcilio o in un istituto a pagamento, per effetto di un
eventuale ricovero a titolo gratuito in un istituto dì cura.
Il
ricovero rilevante ai fini della dichìarazione è quello nei reparti di
lungodegenza o per fini niabilitativi, non il ricovero per terapie contingenti,
di durata connessa al decorso di una malattia. Per ticovero a titolo gratuito
s’intende quello in cui la retta-base sia a to
tale
carico di un ente o struttura pubblica anche se eventualmente la persona
ricoverata corrisponde una quota supplementare per ottenere un migliore
trattamento rispetto a quello «base». Il ricovero è, invece, a pagamento quando
l’interessato (o la sua famiglia) corrisponde tutta o anche solo una quota
della retta-base (e l’altra quota sia a carico dell’ente pubblico).
Entro
il 31 marzo di ogni anno deve altresì essere trasmessa all’lNPS, al comune o all’ASL
di competenza una dichiarazione di responsabilità, ai sensi della legge del 4
gennaio 1968 n. 15, in merito alla sussistenza o meno di ricovero a titolo
gratuito. Per gli invalidi civili il cui handicap non consente loro di autocertificare
responsabilmente è sufficiente produrre un certificato medico in cui sia indicata
espressamente la diagnosi della minorazione o patologia che non consentono al
soggetto di autocertificare responsabilmente.
Numeri & confronti: La cura a
lungo termine della popolazione anziana
L’incremento
della popolazione anziana ha suscitato nell’ultimo ventennio diffusa
sensibilità e interesse: l’attenzione si è concentrata sia sulle necessità di
riordino del sistema pensionistico, sia sulla domanda dei servizi medici e
assistenziali di cui l’anziano può necessitare in caso di perdita della propria
autonomia.
Benché
esteso anche a diverse aree dell’Asia orientale e sud orientale e nell’Europa
centrale e orientale, il fenomeno risulta particolarmente evidente nelle
economie industriali avanzate. In base alle proiezioni diffuse dal Bureau of Census (l’ufficio federale di
statistica statunitense), il numero delle persone appartenenti alla fascia di
età dei 65 anni e oltre crescerà negli Stati Uniti di oltre 2 volte e mezza tra
I 2000 e il 2050, portandosi poco al di sotto degli 87 milioni di unità. La
quota dei cittadini al di sopra degli 85 anni si più che triplicherà nello
stesso periodo, passando dall’i ,5 per cento al 5 per cento circa della
popolazione complessiva residente. Viceversa, l’incremento dei residenti nella
cosiddetta working age — cioè la
fascia di popolazione in età lavorativa, compresa tra i 20 e i 64 anni — non
supererà nel cinquantennio il 35 per cento: l’incidenza del gruppo sulla
popolazione totale fletterà dal 59 per cento nel 2000 al 53 per cento circa neI
2050.
L’Italia
si colloca ai primi posti nel processo di invecchiamento demografico. La
speranza di vita alla nascita ha raggiunto nel 2004 i 77,8 anni per gli uomini
e gli 83,7 anni per le donne; un ulteriore incremento è atteso nella
prospettiva del 2030, a 81,4 anni per gli uomini e 88 per le donne. Entro il
2050 la popolazione di età pari o superiore ai 65 anni si porterà dagli attuali
11,4 milioni a oltre 18 milioni, e gli ultraottantenni passeranno da poco più
di 2,9 milioni a 7,5 milioni. L’incidenza degli ultra sessantacinquenni sulla
popolazione totale salirà dal 9,5 per cento del 2005 al 34,4 per cento del
2050; quella degli ultra ottantenni passerà dal 5 per cento al 14,3 per cento.
Le
indagini Istat sul sistema sanitario e lo stato di salute d popolazione
italiana collocano poco sopra il 19 per cento l’incidenza dei disabili sul
totale dei sessantacinquenni e oltre; ipotizzando che questa percentuale si
mantenga stabile nel tempo è possibile anticipare un incremento nel numero
degli anziani i autosufficienti dai 2,2 milioni di unità del 2005 a 3,1 milioni
2030.
Anche
se non è facile quantificarle con precisione, le conseguenze economiche
dell’incremento della popolazione anziana non autosufficiente appaiono
sicuramente rilevanti.
In
una relazione pubblicata nell’aprile 2005 il Congressional Budget Office degli
Stati Uniti stima che le spese per le cure a lungo termine (long term care, in
sigla LTC) degli anziani siano destinate a salire da 123 miliardi di dollari
nel 2000 (1,3 per cento del PIL americano) a 346 miliardi nel 2040 (1,5 per
cento). La previsione è formulata nell’ipotesi, considerata coerente con gli
andamenti registrati negli Stati Uniti nell’arco del Novecento, che l’incidenza
dei disabili sul totale della popolazione anziana si riduca dell’1,1 per cento
l’anno tra il 2000 e il 2040, passando dal 25 per cento al 16 per cento; nel
caso in cui questa discesa non si verificasse, le spese per cure a lungo
termine supererebbero nel 2040 i 480 miliardi, corrispondenti al 2 per cento
circa del PIL statunitense.
Nel
caso dell’italia è un rapporto della Ragioneria Generale dello Stato a offrire
alcune indicazioni in merito alla situazione attuale e alle prospettive della
spesa per cure a lungo termine di competenza del settore pubblico. La
Ragioneria stima che la spesa ammontava nel 2004 all’1,56 percento del PIL;
poco più di un punto di PIL poteva essere attribuito alla fascia di età dei 65enni
e oltre. La metà circa degli esborsi era da ricondurre alla componente
sanitaria; seguivano le erogazioni per indennità di accompagnamento, con una
quota del 40 per cento; il resi duo 10 per cento era rappresentato da altre
prestazioni assistenziali. Un esercizio di previsione effettuato nell’ambito de
medesimo studio anticipa un incremento degli oneri per la cura a lungo termine
a carico del bilancio pubblico pari a circa ur punto percentuale di PlLtra il
2010 e il 2050, dall’1,54 per cen to al 2,47 per cento; appare inoltre evidente
una ricomposizio ne dell’aggregato a vantaggio delle fasce più anziane della p0
polazione (Figura 2).
A
conclusioni più pessimistiche giunge un’indagine del di partimento economico
dell’OCSE, che anticipa per il 2050 ui incremento della spesa pubblica per la
cura a lungo termine ~ 3,5 per cento del PIL nell’ipotesi che gli esborsi
crescano più velocemente del reddito, in linea con gli andamenti osservati negli
ultimi due decenni; al 2,8 per cento nell’ipotesi in cui una no specificata
politica correttiva intervenga a correggere la dinE mica della spesa.
Se
le stime di OCSE e Ragioneria contribuiscono a dare un’idea della maggior
pressione che — per effetto dell’invecchiamento demografico — è destinata a
scaricarsi sulle strutture dello stato sociale, resta invece in ombra il contributo
alle spese di cura offerto direttamente dall’anziano o dalla famiglia.
Un
tentativo di allargare l’orizzonte dell’analisi è contenuto n rapporto European
Study of Long Term Care Expenditure, predisposto per la Commissione Europea nel
febbraio 2003. Utilizzando statistiche nazionali ed elaborazioni proprie, gli
autori calcolano che nel 2000 solo il 23 per cento dei disabili italiani sessantacinquenni
e oltre era ricoverato in residenze o istituti di cura specializzati; il 37 per
cento beneficiava soltanto dell’assistenza offerta gratuitamente da familiari,
amici e volontari; il 40 per cento era assistito a domicilio con la
collaborazione di fornitori privati. Il contributo economico dell’anziano o della
famiglia alla copertura degli oneri di cura appare determinante anche in caso
di ricovero. Rielaborando statistiche di fonte Istat, l’Osservatorio Terza Età
segnala che soltanto nel 5 per cento dei casi l’accesso dell’anziano ai presidi
residenziali avviene a titolo gratuito: per il 62 per cento circa dei
ricoverati il soggiorno risulta interamente a carico dell’interessato o della
famiglia, mentre il restante 33 per cento gode di una copertura parziale delle
spese di carattere sanitario offerta dal Servizio sanitario nazionale.
«Tenuto
conto del reddito medio di una persona anziana e della retta media di un
presidio assistenziale — rileva ancora ‘Osservatorio — è verosimile ritenere
che per almeno il 35/40 per cento degli ospiti le famiglie provvedano a farsi
carico di una quota della retta mensile oscillante attorno ai 250 euro.»
Alla
luce di queste osservazioni, si comprende come il tema de!la protezione sociale
dell’anziano non autosufficiente sia da valutare congiuntamente a un insieme di
fenomeni, sociali e demografici, che contribuiscono a mettere in crisi la
funzione di sostegno tradizionalmente esercitata dalla famiglia.
La
comunicazione della Commissione Europea Una
nuova solidarietà tra le generazioni di fronte ai cambiamenti demografici,
uscita nel marzo 2005, offre una sintesi efficace delle problematiche cui i
paesi europei si troveranno a far fronte nei prossimi cenni nell’assistenza
alle persone molto anziane: «...occorrerà assistenza mirata, che in numerosi
paesi è assicurata dalle I glie, in particolare dalle donne, le quali dal canto
loro parte no in misura crescente all’attività lavorativa. Inoltre sempre F
gli, raggiunta l’età adulta, vivono lontano dai genitori. Le famiglie andranno
quindi maggiormente sostenute rispetto a oggi. Sarà compito dei servizi sociali
e delle reti di solidarietà e di assistenza a livello di comunità locali».
Resta
scarso il ricorso a coperture assicurative per cure a lungo termine. Pur a
fronte dei gravosi impegni finanziari potenzialmente nessi all’assistenza di un
anziano disabile, la diffusione di coperture assicurative long term care risulta
ancora assai scarsa in Italia; appare sporadica anche l’offerta di strumenti di
natura più propriamente creditizia, progettati in partnership con enti locali e
istituzioni non-profit.
Dal
punto di vista tecnico le compagnie offrono attualmente due tipi di copertura
per la cura a lungo termine, assimilabili rispettivamente ai modelli “vita” e “malattia”.
Nel primo caso il risparmio affluisce a un fondo che, al verificarsi della
situazione non autosufficienza, eroga all’assicurato un capitale o una rendita
predeterminata (sistema cosiddetto ad accumulazione). Nel secondo caso, il
premio pagato è utilizzato esclusivamente per far fronte ai rischi relativi
all’anno in corso (sistema cosiddetto partizione): al verificarsi dell’evento
assicurato, la compagnia risponde al contraente le spese socio-assistenzali
sostenute, a un massimo mensile pattuito e per tutto il periodo nel c permane
la condizione di non autosufficienza. Per le particolari caratteristiche, le
polizze cura a lungo termine di tipo «vita» risultatano più convenienti se
stipulate in età non avanzata, in modo da accumulare un capitale idoneo a far
fronte ai rischi di non sufficienza propri della terza e della quarta età; le
polizze cura a lungo termine «malattia» risultano invece più economiche se
stipulate in prossimità dell’utilizzo.
Il rapporto annuale dell’Associazione Nazionale
fra le Imprese Assicuratrici segnala che
le 26 compagnie attive in Italia nel Ramo IV-Permanent Health Insurance, una
tipologia entro la quale sono fatte rientrare anche i prodotti cura a lungo
termine, hanno raccolto nel 2005 premi per 24 milioni di euro, pari allo 0,03
per cento della produzione complessiva dei rami vita. La quasi totalità della
raccolta realizzata nell’anno è da ricondurre al settore delle assicurazioni
collettive, in cui i broker risultano praticamente il solo canale attivo di
vendita; gli sportelli bancari e postali intervengono soltanto nel collocamento
di polizze individuali, offrendo un contributo decisamente marginale.
La
scarsa diffusione delle coperture assicurative cura a lungo termine non è un
fenomeno soltanto italiano: nel caso degli Stati Uniti, il Congressional Budget
Office stima in soli 5,7 miliardi di dollari il contributo alla copertura delle
spese di assistenza offerto nel 2004 dall’assicurazione privata, pari al 2,7
per cento delle spese complessive per cure a lungo termine.
Un’eccezione
interessante è rappresentata dalla Germania, dove dal gennaio 1995 è stato
istituito uno specifico ramo di assicurazioni sociali contro il rischio di non
autosufficienza, strettamente collegato al modello dell’assicurazione malattia.
La riforma ha reso obbligatoria la copertura assicurativa cura a lungo termine
per una quota largamente prevalente della popolazione tedesca: al 31 dicembre
2005 essa interessava circa 79 milioni di cittadini su una popolazione
complessiva di 82,5 milioni. A fine 2004 i beneficiari delle prestazioni
risultavano poco più di 2 milioni: di loro, 1,38 milioni godevano di assistenza
domiciliare, mentre 0,67 milioni erano ricoverati in istituti. In base alle informazioni
fornite dal ministero della Salute e della Previdenza Sociale, le spese per
l’assicurazione sociale cura a lungo termine si attestavano nel 2004 a 16,8
miliardi di euro, ripartiti in misura quasi paritetica tra la cura domiciliare
(8,2 miliardi) e quella ospedaliera (8,6 miliardi). Per la cura a lungo termine
un futuro tra pubblico e privato
Benché
le proposte al riguardo non manchino, l’assenza di un programma finalizzato al
sostegno degli anziani non autosufficienti costituisce una lacuna vistosa del
sistema di welfare italiano. La rilevanza attuale e in prospettiva dei fenomeni
economici connessi all’invecchiamento demografico rende difficile immaginare
soluzioni che non poggino prevalentemente sull’utilizzo di risorse pubbliche.
La
possibilità che — parallelamente a un miglioramento del modello di welfare — si
sviluppi anche un sistema di assistenza finanziato dal risparmio personale
appare strettamente legata a due elementi: la disponibilità di un’articolata
gamma di prodotti assicurativi o finanziari; la predisposizione di idonee forme
di sostegno e incentivazione da parte dello stato o di altri soggetti operanti
nella sfera pubblica o del non-profit.
L’incentivazione
fiscale potrebbe contribuire in particolare a ridurre le resistenze esistenti
dal lato della domanda, favorendo l’accesso alle coperture cura a lungo termine
anche delle fasce più giovani della popolazione. La percezione del rischio di
non autosufficienza tende, infatti, tipicamente a manifestarsi in età
intermedia o avanzata; ne deriva un significativo incremento nel costo della
copertura assicurativa, che finisce spesso per scoraggiare le adesioni.
Il contesto lavorativo odierno della società
post-moderna si trova anche per la
salute della nuova categoria sociale dei precari. Uno e cui le dinamiche
economiche, sociali e culturali sono in rapida trasformazione a causa
dell’impiego delle tecnologie di ultima generazione e della globalizzazione dei
mercati. Come si è evidenziato, il sistema produttivo fordista in tutti i paesi
avanzati ha ceduto il posto al sistema post-fordista con la conseguente
apertura di un mercato del lavoro sempre più flessibile vede nascere nei
lavoratori nuovi problemi di salute. Tutti i paesi coinvolti si trova; ad
affrontare profonde trasformazioni che riguardano non solo la s mercato del
lavoro e l’occupazione, ma anche l’ambiente e gli aspetti nuove forme della
salute e della sicurezza sul lavoro. Nello specifico proprio il mondo del
lavoro è stato soggetto di radicali cambiamenti che ne hanno alterato il
profilo tradizionale, sconvolgendo il sistema di carriera la incentrata sul
posto fisso, su contratti a tempo indeterminato e su orari. Le nuove forme di
lavoro atipico offrono senza dubbio dei vantaggi alle imprese, che adattano
rapidamente la consistenza della forza lavoro ala variabilità della domanda del
mercato, e in molti casi anche ai lavoratori che si vedono offerta la
possibilità di accedere rapidamente al mercato de personalizzando la propria
strada professionale e pianificando a lo] mento la carriera. In questo sistema
però si possono riscontrare gli effetti collaterali, se così si può dire, di
cui abbiamo più o meno lungamente parlato che sono stati ben evidenziati nel
2002 dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro.
Gli
effetti collaterali di un contratto di lavoro atipico coprono un ampio spettro
di ambiti personali e professioni che si caratterizzano per la precarietà,
l’insicurezza e soprattutto il rischio per la proprio equilibrio psico-fisico e
per il proprio stato di salute. L’eccessiva flessibilizzazione porta a una
minore attenzione verso la tutela degli stati di salute e di considerazione
verso le norme di sicurezza. Tutto ciò avviene sia perché le modalità
lavorative spesso sfuggono al controllo quotidiano del datore di lavoro, sia
perché le persone con contratti atipici e precari sono più esposte al rischio
di perdita dell’occupazione, hanno minore accesso alle opportunità formative,
trattamenti retributivi e condizioni di lavoro peggiori e, soprattutto, minori
tutele sia per quanto riguarda gli aspetti previdenziali, sia per quanto
concerne le garanzie contro infortuni e malattie professionali. L’intreccio di
questi fattori è sintetizzabile in un termine molto in voga tra gli studiosi,
flexicurity che in uno stesso concetto, vuole evidenziare la necessaria
compresenza dell’idea di flessibilità e sicurezza. Tale principio poggia su
quattro pilastri fondamentali: 1) la
creazione di “mercati di transizione”, che possano rendere piùfl
passaggi
tra occupazione e disoccupazione, tra forme di lavoro a k pieno e forme di
lavoro a tempo parziale, tra contratti di lavoro diji dente e contratti di
lavoro autonomo, tra il sistema formativo e quc occupazionale, tra lavoro e
pensione;
2) lo sviluppo di strategie che possano
sostenere l’occupazione attfa~
la
riorganizzazione degli orari di lavoro;
3) la pratica di processi di formazione a lungo
periodo che siano in gi
di
sostenere i lavoratori nei processi di cambiamento e durante tufi vita
lavorativa;
4) l’attivazione di garanzie di copertura previdenziale
e assistenziale, particolare per coloro che hanno carriere lavorative precarie
e frammentate.
Con
tale principio si cerca di evidenziare la necessità di ricorrere alla flessibilità
nel mercato del lavoro, senza minimizzarne i rischi sociali. Un approccio della
flexicurity ideato e pensato in questo modo, non si è mai tradotto in un
sistema di idee concrete e di misure operative da realizzare, ma la fili che ne
sta a fondamento ribadisce che la flessibilità non deve essere solo una “deregolazione”
delle condizioni contrattuali e di impiego. Al contrario, essa deve
rappresentare un cambiamento paradigmatico del mondo del lavoro, da accompagnare
con una serie di interventi istituzionali anche a livello di welfare.
Si
potrebbe immaginare la possibilità di fronteggiare le sfide in primo luogo, con
un’integrazione efficace tra la materia della salute e della sicurezza la
gestione delle complesse realtà contrattuali; in secondo luogo, con la predisposizione
di strumenti atti a garantire ai lavoratori flessibili un’adeguata conoscenza
dei rischi inerenti la propria attività e delle misure preventive a bili. Non
si può dimenticare inoltre che su questo terreno la legislazione corrente è
piuttosto inadeguata, dato che i monitoraggi e le patologie codificate sono
generalmente strutturali in riferimento alle tipologie di lavoro del periodo
fordista.
Una
strategia globale che punti alla salute e sicurezza sul luogo di lai dovrebbe
tenere presenti anche le nuove esigenze del lavoratore, noncli concezioni di
salute e malattia post-moderne, l’obiettivo unico potrebbe q di puntare al
“continuo miglioramento del benessere, sia esso fisico, morale, sociale, sul
luogo di lavoro”.
Il
raggiungimento di uno stato di benessere così concepito può essere seguito solo
attraverso il congiungimento di obiettivi complementari e diversificati, che
puntino anzitutto alla ridefinizione di tutte le tipologie di malattie professionali,
con relativo riconoscimento delle stesse, nonché a un’integrazione degli
infortuni sul lavoro con particolare attenzione alle peculiarità dei lavoratori
di nuova generazione. Questi interventi potrebbero strutturarsi sul
rafforzamento della prevenzione delle malattie professionali, attraverso
un’attenta analisi dei rischi nuovi ed emergenti, e di tutte le trasformazioni
sociali riguardanti le forme di occupazione e le modalità organizzative del
lavoro.
Le
famiglie italiane dispongono generalmente di un discreto livello di ricchezza
totale. Una parte assai ampia di questa ricchezza è mantenuta però in forme
scarsamente o per nulla liquide, in particolare la casa; ciò contribuisce a
spiegare perché molti nuclei familiari abbiano difficoltà a mantenere un tenore
di vita adeguato in età avanzata, quando i redditi calano e i bisogni
aumentano.
L’ultimo
censimento della popolazione segnala la presenza in Italia di circa 7,15
milioni di famiglie con capofamiglia di età superiore ai 65 anni; il 74 per
cento di esse risulta proprietaria almeno dell’abitazione di residenza.
Ipotizzando che il valore degli immobili posseduti oscilli mediamente tra i
163.000 e 213.000 euro (i valori sono tratti da Banca d’italia, Indagine sui
bilanci de/le famiglie italiane), si perviene a una stima del patrimonio
immobiliare complessivamente in possesso delle famiglie con capofamiglia
anziano compresa tra 860 e 1.100 miliardi.
Allo
scopo di agevolare almeno in parte la liquidazione di questa enorme massa di
ricchezza e sostenere i consumi delle fasce di età più avanzate, la legge
finanziaria per il 2006 ha introdotto nell’ordinamento italiano il prestito
vitalizio ipotecario. Lo strumento è mutuato dall’esperienza dei reverse
mortgages e dei lifetime mortgages, presenti da diverso tempo rispettivamente
sui mercati americano e inglese.
Anche
per l’italia il legislatore ha abbozzato a fine 2005 ur strumento assai simile
a quelli descritti con riferimento ai mercati anglosassoni, denominandolo
prestito vitalizio ipotecario. legge finanziaria 2005-2006 si limita, infatti,
a stabilire che il prestito ha per oggetto «... la concessione da parte di
aziende ed istituti di credito, nonché da parte di intermediari finanziari, ...
di finanziamenti a medio e lungo termine con capitalizzazione annua di
interessi e spese e rimborso integrale in unica soluzione a scadenza, assistiti
da ipoteca di primo grado su immobili residenziali, riservati a persone fisiche
con età superiore ai 65 anni compiuti». Non essendo stato seguito da alcun
decreto attuativo, lo strumento resta dunque in attesa di una più puntuale sistemazione
normativa.
Da
parte degli intermediari si avverte in particolare l’esiger di una normativa
secondaria che permetta di recuperare capi le e interessi in tempi certi e brevi
dopo il decesso del mutuatario; tale certezza costituisce un prerequisito
fondamentale per l’avvio di eventuali operazioni di cartolarizzazione dei
crediti, finalizzate a trasferire dagli intermediari al mercato una parte del
rischio immobiliare connesso all’erogazione di prestiti vitalizi. La novità e
la complessità dello strumento suggeriscono inoltre l’opportunità di definire
un insieme di regole a garanzia della correttezza della trasparenza del
rapporto contrattuale, con particolare rifE mento ai meccanismo di pricing, al
fine di assicurare ai mutua ri la necessaria protezione da truffe e raggiri.
L’esperienza
anglosassone segnala peraltro che — pur in p senza di un bacino di interesse
potenzialmente assai ampio — dimensioni effettive del mercato dei prestiti
vitalizi tendono a mantenersi contenute. Nel caso del Regno Unito, l’institute
of Actuaries stima che il patrimonio immobiliare libero da ipoteche p seduto
dalla popolazione sopra i 65 ammonti a circa 1.1001 miliardi di sterline; a
fronte di questa evidenza, il volume dei pre ti concessi sotto forma di
lifetime mortgage si è attestato nel 2C a 1,05 miliardi, pari allo 0,5 per
cento circa dei valore dei nuovi mutui accesi nel paese nei corso dell’anno.
Analogo il caso degli Stati Uniti, dove oltre 14 milioni di persone con più di
62 anni sono proprietarie di un’abitazione, ma solo 60.000 risultano
intestatarie di un reverse mortgage.
A
ridurre la richiesta di finanziamenti contribuisce sicuramente la riluttanza
dei potenziali clienti ad assumere un nuovo debito in tarda età, una volta che
abbiano interamente rimborsato Ogni altro prestito contratto in precedenza
Sono
tuttavia i costi a rappresentare il principale fattore disincentivante: dedotte
le voci di spesa richiamate in precedenza e in relazione all’età del
prenditore, l’ammontare del finanziamen to erogabile può scendere sotto il 30
per cento del valore dell’immobile conferito a garanzia. Con riferimento
all’offerta, la difficoltà a raggiungere dimensioni minime del business idonee
a giustificare le spese fisse — in particolare quelle relative al personale
specializzato nel collocamento — ha costretto diversi investitori statunitensi
ad abbandonare il mercato.
Le
condizioni perché anche in Italia si sviluppi un mercato dei prestiti alle
fasce più anziane della popolazione tuttavia non mancano. Si è già detto dello
squilibrio tra la ricchezza reale e finanziaria delle famiglie, che rende i
nuclei appartenenti alle fasce di età più avanzate sempre più house rich, casb poor (ricche in immobili, povere di liquidità); uno squilibrio
destinato ad accentuarsi nel futuro, per effetto della riduzione delle rendite
della sicurezza sociale. Crescono parallelamente le aspettative di vita e il
costo della salute, mentre il calo della natalità rende in prospettiva meno
stringente il movente ereditario.
Alla
luce delle dinamiche richiamate, appare particolarmente interessante il legame
tra prestito vitalizio e assistenza a lungo termine: per il mercato americano
sono già stati strutturati prodotti che consentono di finanziare il premio di
una polizza assicurativa per l’assistenza a lungo termine utilizzando gli
interessi maturati sulla linea di credito aperta a favore del cliente
attraverso un reverse mortgage.
Prima
dell’avvento dell’organizzazione post-fordista e dell’era del lavoro flessibile
la sicurezza sul lavoro e la tutela della salute erano affrontate come
problematiche da risolvere attraverso azioni ex-post mirate se non
all’eliminazione perlomeno al contenimento dei fattori di rischio presenti
nelle attività. Nell’era fordista è sempre prevalsa questa impostazione,
preferita alla prevenzione e alla possibilità di prevedere situazioni di
pericolo. Ora invece, nella società del rischio, nell’era della flessibilità,
si sente la necessità di affrontare i problemi anticipatamente, aggredendo
all’origine le possibili cause determinanti situazioni di pericolo e/o di
eventuali infortuni. Si tratta dunque di passare da un’accezione ex-post, se
vogliamo “in negativo”, della sicurezza e della salute sul lavoro, che risolve
i problemi dopo che sono accaduti (eliminando i fattori di rischio che hanno
causato l’evento infortunistico), a un’accezione ex-ante, “in positivo”, che si
fondi sulla prevenzione e che presupponga il coinvolgimerito preventivo tra le
parti, sulla base del presupposto che la salute e la sicurezza siano elementi
fondamentali per la qualità del lavoro. Questo ribaltamento di fronte
presuppone una concezione di qualità del lavoro e di valorizzazione delle
risorse umane, nell’ottica del miglioramento delle condizioni di vita
professionale, e anche personale e sociale. Se si vuole procedere in questa
direzione, l’attenzione va rivolta non più solo al progresso tecnologico e ai
grandi investimenti, ma anche alla capacità di riconoscere e rispettare i
limiti entro i quali poter configurare uno sviluppo tecnologico senza intaccare
il benessere dei lavoratori e nel rispetto della loro persona e del loro stato
di salute.
Con
questo obiettivo sarebbe interessante rivalutare le strategie avviatesi negli
anni Novanta sulla valorizzazione delle risorse umane, in termini di
miglioramento delle condizioni lavorative.
Lo
stato di benessere non può fondarsi soltanto sull’idea di condizioni fisiche
migliori ma, considerato che i bisogni rilevati dai lavoratori precari vertono
su aspetti legati al riconoscimento di sé e della propria identità sociale, e
dato che si ragiona sempre più in termini di salute olistica, esso deve puntare
anche al benessere psicologico e sociale. La salute così intesa no può
misurarsi semplicemente con strumenti tecnici correlati a fattori fisici
ambientali e non può derivare soltanto dall’assenza di infortuni e malattie
professionali. Essa si riferisce piuttosto alla ricerca della sicurezza e del]
salute in termini previdenziali, progettando e attivando ambienti professionali
e relazionali che siano rispettosi deI contesto sociale e portatori di u stile
lavorativo qualitativamente migliore. In questa ottica il problema della sicurezza
e della salute sul lavoro investe direttamente il processo di trasformazione
dell’organizzazione del lavoro, come pure gli interventi tecnici nella strutturazione
fisica degli spazi e delle postazioni di lavoro.
A
tal proposito sarebbe auspicabile anche un coinvolgimento sempre pi attivo dei
lavoratori nei processi decisionali che riguardano la vita quotidiana nel luogo
di lavoro e gli interventi da attuare.
Pur
trattandosi di idee ambiziose, questo progetto potrebbe rappresentar la nuova
fase di cambiamento e di intervento sulle problematiche correlate alla salute
sul posto di lavoro. D’altronde, dopo le lotte sindacali degli anni Sessanta e
Settanta sulla contrattazione collettiva sul problema e dopo 1 formalizzazione
istituzionale delle richieste di una salute migliore sui luoghi di lavoro,
accontentate prima dalle normative locali poi dai piani nazionali fino al D.
lgs. del 19 Settembre 1994, n. 626 sulla sicurezza, questa nuova fase deve
avviarsi aprendo la strada al dibattito. Lo scenario produttivo senza dubbio
più complesso, più articolato e sicuramente differenziato a suo interno, ma gli
inquadramenti legislativi non appaiono sufficienti a coprire tutte le
problematiche di salute correlate alle nuove forme di lavoro. Sicurezza e
salute sul posto di lavoro si inscrivono oggi nel quadro delle attività
economiche in trasformazione, della società post-moderna sempre pii complessa,
delle forme di occupazione sempre più diversificate.
È
indubbio che l’importanza di un posto di lavoro sano, sicuro e organizzato per
rispondere alle molteplici esigenze, rappresenti una determinante fondamentale
per il miglioramento della qualità della vita lavorativa. Il riscontro può
aversi sul piano della qualità dei prodotti e/o dei servizi aziendali, della
competitività dell’impresa e quindi anche dell’economia del Paese.
Dal
punto di vista economico certamente le difficoltà non mancano. Le imprese
grandi e piccole si trovano ad affrontare le spese per gli adegua menti, per
gli indennizzi, per i costi sociali derivanti dagli infortuni e dalle malattie
professionali, ma l’impegno verso un sistema di qualità produttiva
organizzativa permetterebbe di superare anche problematiche di questo genere.
Attraverso
l’acquisizione dei dati necessari alla valutazione dell’ambiente di lavoro, con
la ricostruzione dell’intero ciclo produttivo e della mappa dettagliata dei
rischi, si potranno avviare interventi necessari e delineare le strategie che
portano alla prevenzione. In tale ottica potrebbe rientrare la creazione di
canali informativi e l’attivazione di percorsi formativi ad hoc in materia di
sicurezza e salute sul lavoro.
Se
esiste una relazione così stretta tra salute e lavoro, e se il lavoro è così
centrale nella vita degli individui, l’attività produttiva che occupa una
cospicua parte della quotidianità di ciascuna persona, può essere una fonte di
rischio che va controllata, limitata e vigilata. D’altro canto il lavoro può
anche rappresentare un’opportunità per il miglioramento delle condizioni di
vita e per la promozione della salute. In sostanza si tratta di trovare il
giusto equilibrio tra condizioni di lavoro e vita esterna anche in vista
dell’attuazione di politiche preventive e di promozione della salute.
D’altronde
sono gli stessi attori della società post-moderna a reclamare riflessioni
basate sul presupposto preventivo. A tal proposito spesso si è evidenziato come
tutti gli individui in qualche modo siano costretti a interrogarsi sulle
problematiche della salute, anche alla ricerca di elementi che permettano
l’attivazione di interventi di autocura31. Tra questi elementi spiccano i
comportamenti preventivi, di cui gran parte degli individui, a livello pil~ o
meno approfondito hanno senz’altro sentito parlare. Sotto questo profilo, in
materia di sicurezza e salute sul lavoro, un ragionamento in termini preventivi
rientrerebbe nelle esigenze più volte espresse da coloro che vivono la
contemporaneità.
Già
il filosofo medievale Tommaso d’Aquino pose il problema della commisurazione
del tributo rispetto ai bisogni pubblici e della proporzionalità dello stesso
alla capacità contributiva individuale. A quell’epoca non esisteva naturalmente
l’esigenza di garantire un livello minimo di prestazioni sanitarie pubbliche e
le cure ai malati erano per lo più offerte da confraternite religiose e da enti
associativi a carattere mutualistico.
Tuttavia,
affermando la necessità di un equilibrio tra entrate e spese pubbliche,
equilibrio radicato sul principio di capacità contributiva, Tommaso d’Aquino
esprimeva un criterio che sarebbe sopravvissuto lungo il corso del tempo, fino
a essere incorporato nelle carte costituzionali delle principali democrazie
occidentali; un principio, inoltre, che si prestava a essere adattato
all’evoluzione dei bisogni e dei diritti all’interno della società.
La
causa del tributo, ossia la sua giustificazione in termini economico-giuridici
all’interno del sistema sociale, consiste proprio nell’essere a disposizione
per la soddisfazione di bisogni pubblici, che sono espressi dalle voci passive
del bilancio dello Stato.
Esiste
una stretta correlazione tra il principio di capacità contributiva — il
principio per cui ognuno di rispondere dell’obbligazione tributaria in ragione
della propria attitudine alla contribuzione, ossia della ~ ricchezza — e la
causa del tributo. Non a caso, i due p fili si compenetrano all’interno dell’art.
53 della Costituzione, in base al quale «tutti sono tenuti a concorrere alle
spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Il dovere di
concorso alle spese pubbliche è altresì tradizionalmente collegato al dovere di
solidarietà politica, economica e sociale solennemente sancito dall’art. 2
della nostra Costituzione.
La
spesa sanitaria rappresenta uno dei principali capitoli di spesa pubblica e uno
degli snodi fondamentali del welfare state. La nostra Costituzione, all’art. 3
stabilisce che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli
indigenti..
I
principi testé accennati presentano un forte legame tra loro: difatti, le
imposte prelevate dalle classi sociali più abbienti servono al finanziamento di
una parte d spesa pubblica — quella sanitaria, per l’appunto — solitamente
fruita dalle classi sociali meno agiate.
Così,
specialmente nell’ambito descritto, si verifica una redistribuzione
(perequazione) di risorse a favore delle classi sociali più deboli, le stesse
che, proprio in ragione della loro ridotta capacità contributiva, partecipano
meno al finanziamento delle pubbliche spese in generale, e di quella sanitaria
in particolare.
Si è
dunque accennato alla funzione perequativa dei tributi nel quadro del
finanziamento della spesa sanitaria. Adesso prenderemo in considerazione alcune
misure fiscali previste a favore dei contribuenti che affrontano spese mediche,
per proprio conto o per conto delle persone legate da particolari vincoli
familiari, di lavoro ecc.
L’assistenza
sanitaria dei cittadini italiani all’estero è normata da regolamenti e convenzioni
internazionali, sulla base del principio di reciprocità.
La
legge che ha dato vita al Servizio sanitario nazionale (legge 833/1978)
assicura ai cittadini italiani l’assistenza sanitaria in Italia ma non
riconosce un diritto incondizionato alla copertura sanitaria fuori del
territorio nazionale.
Esistono
differenti modalità di erogazione dell’assistenza a seconda del motivo per cui
ci si reca all’estero (temporaneo soggiorno, cure ad alta specializzazione,
lavoro, studio ecc.).
Tutti
i cittadini italiani iscritti al Servizio sanitario nazionale che soggiornano
temporaneamente in. stati dell’Unione Europea hanno diritto a ricevere
prestazioni sanitarie in caso di urgenza presso le locali strutture pubbliche.
Oltre ai lavoratori dipendenti e autonomi, e ai loro familiari, hanno diritto
all’assistenza anche talune categorie di cittadini temporaneamente all’estero,
come i borsisti, i ministri del culto, i dipendenti pubblici e i militari in
servizio all’estero. Nell’Unione Europea e negli stati che hanno stipulato
apposite convenzioni bilaterali con l’Italia, anche i turisti beneficiano
dell’assistenza, solo per le cure urgenti. In quei casi le strutture sanitarie
locali erogano direttamente l’assistenza ai beneficiari. Naturalmente gli
interessi devono munirsi dell’apposita certificazione rilasciata dalle ASL.
Nei
paesi non convenzionati, i cittadini temporaneamente all’estero per motivi di
lavoro o di studio hanno diritto al rimborso delle spese mediche sostenute secondo
la procedura prevista dal decreto del presidente della repubblica 618/1980. Nei
paesi non convenzionati i cittadini temporaneamente all’estero per motivi
diversi dal lavoro o studio (turismo, motivi di fami ecc.) non hanno diritto al
rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero per cure mediche urgenti. Sarebbe,
pertanto, prudente tutelarsi con una polizza assicurativa privata contro eventi
sanitari imprevisti. Qualora invece essi si rechino all’estero allo scopo di ricevere
cure mediche (cure presso centri di alta specializzazione all’estero, trapianti
di organo, o casi in non sia possibile ricevere cure tempestive in Italia), devono
preventivamente mettersi in contatto con la propria ASL.
Che
cosa devo fare prima di andare all’estero per motivi di turismo o di svago per
tutelare la mia salute? Cosa devo fare se, durante un viaggio di questo tipo, mi
sento male?
Se
lo stato in questione appartiene all’Unione Europea, per ottenere l’assistenza,
il cittadino deve munirsi prima della partenza dall’Italia di un apposito modulo
denominato «tessera europea di assicurazione malattia» (TEAM). L’emissione e la
distribuzione della i sera europea di assicurazione malattia a tutti gli iscritti
al Servizio sanitario nazionale viene effettuata dal Ministero dell’Economia e
Finanze tranne che per gli assistiti della Lombardia per i quali è la Regione
che provvede a distribuirla
La
tessera europea di assicurazione malattia è entrata in vigore, anche in Italia,
dal i novembre 2004. Esibendo tale tessera nel paese di soggiorno temporaneo,
il cittadino italiano ha diritto al medesimo trattamento fornito ai cittadini
di quello stato.
Si
rammenta che la tessera europea di assicurazione malattia (o il certificato
sostitutivo provvisorio) permette a un cittadino in temporaneo soggiorno
all’estero di ricevere nello stato UE in cui si trova le cure «medicalmente
necessarie» e non solo le cure urgenti.
Nel
caso in cui il cittadino non abbia ricevuto la tessera europea di assicurazione
malattia e debba recarsi in uno stato europeo, fino al 31 dicembre 2005 doveva
rivolgersi presso gli uffici della competente ASL per il rilascio del
«certificato che sostituisce provvisoriamente la tessera europea»; dopo tale
data il certificato viene rilasciato solo in caso di furto o smarrimento della
tessera.
La
tessera distribuita ai cittadini italiani è contemporaneamente tessera
sanitaria (TS) per l’Italia e tessera europea di assicurazione malattia (TEAM).
La tessera sanitaria mostra, sul fronte, le informazioni già riportate sul
tesserino di codice fiscale e i dati sanitari riservati alla regione. La
tessera è riconoscibile anche dalle persone non vedenti, grazie all’uso di
caratteri in rilievo. Il retro della tessera sanitaria ha validità di tessera
europea di assicurazione malattie, dal 1 gennaio 2006, è utilizzata da chi si
reca in soggiorno temporaneo in uno degli stati dell’UE, oltre che dello Spazio
economico europeo (SEE: Norvegia, Islanda, Liechtenstein) e in Svizzera.
La
tessera ha validità 5 anni, salvo diversa indicazione da parte della Regione o
dell’ASL di assistenza. In prossimità della scadenza, l’Agenzia delle entrate provvede
automaticamente a inviare la nuova tessera a tutti i soggetti per i quali non è
decaduto il diritto all’assistenza.
Se
lo stato non fa parte dell’UE né dello SEE bisogna accertarsi se abbia siglato
o no un accordo con l’Italia in materia sanitaria. Infatti, esiste tutta una
serie di accordi bilaterali stipulati tra l’Italia e gli altri stati
extracomunitari per quanto riguarda l’assistenza sanitaria:
Argentina,
Australia, Brasile, Croazia, Slovenia, Principato di Monaco, Repubblica di San
Marino. Nel caso in cui lo stato non faccia parte dell’UE e neanche dello SEE,
è necessario farsi rilasciare dalla ASL l’attestato di copertura sanitaria in
quello stato.
In
tutti gli altri paesi con i quali lo Stato non ha firmato nessuna convenzione o
accordo i cittadini temporaneamente all’estero per motivi diversi dal lavoro o
studio non hanno diritto al rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero
per cure mediche urgenti. Pertanto, per i paesi non inclusi nell’Unione
Europea, come gli Stati Uniti o il Canada, per esempio, è consigliabile munirsi
di una apposita polizza assicurativa.
Mediamente
la polizza deve contenere: rientro in
Italia su aereo sanitario; anticipo di denaro in caso di furto o spese
improvvise per malattia o altro. Il viaggio di un familiare per raggiungere il
malato o l’infortunato è spesso previsto solo se c’è una degenza che eccede i
sette giorni: occorre verificare quali siano le spese sostenute per questo
familiare, perché quasi sempre riguardano solo il viaggio. Il rimborso delle
spese mediche è gravato da franchigia (assunzione di una parte del danno da
parte dell’assicurato) e riferito, in genere, ai casi di infortunio e non
malattia.
È
necessario ricordare che sono quasi sempre escluse dai rimborsi quelle
patologie di cui l’assicurato soffriva prima della partenza.
Quando
si torna dal viaggio occorre fare la richiesta di rimborso con raccomandata A/R
nei termini previsti dal contratto, allegando tutte le carte del caso, comprese
le ricevute per l’acquisto di farmaci.
Il rimborso da parte del Servizio sanitario
nazionale delle spese per visite o esami specialistici sostenuti durante una
vacanza all’estero dipende dal tipo di stato estero. Infatti, per le cure non
urgenti prestate in uno stato dell’Unione Europea il rimborso è previsto dal
Servizio sanitario nazionale unicamente se esiste un accordo bilaterale tra
l’Italia e lo Stato estero interessato che preveda un rimborso per quel tipo di
spese.
Quanto
al rimborso delle cure di alta specializzazione all’estero il Servizio
sanitario nazionale assicura tutte le prestazioni comprese nei livelli
essenziali di assistenza. Nel caso di prestazioni ad altissima specializzazione
non ottenibili in Italia in forma appropriata e tempestiva alla particolarità
del caso clinico si può richiedere una specifica autorizzazione dell’ASL, che
poi consente il rimborso delle spese in forma totale o parziale.
Il
servizio sanitario nazionale disciplina l’assistenza sanitaria dei cittadini italiani
e dei loro familiari durante la permanenza all’estero dovuta a motivi di
lavoro. È loro riconosciuta la piena tutela assicurativa sia in forma diretta,
sia in forma indiretta. Anche in questo
caso si possono presentare quattro situazioni:
1. Soggiorno
temporaneo: i lavoratori subordinati pubblici e privati), i lavoratori autonomi
e i lavoratori dei trasporti internazionali utilizzano la tessera europea di
assicurazione malattia (o il certificato sostituti-vo provvisorio).
2. Residenza: i lavoratori che trasferiscono per
motivi di lavoro la residenza all’estero (intesa come abituale dimora) hanno
diritto al rilascio da parte dell’ASL del modello E106, che assicura per sé e
per i propri familiari l’assistenza sanitaria secondo le stesse regole e gli
stessi livelli riconosciuti ai lavoratori residenti.
3. Stati convenzionati: nei paesi che hanno
stipulato accordi bilaterali con l’Italia, l’assistenza sanitaria per i
lavoratori e loro familiari che trasferiscono per motivi di lavoro la residenza
all’estero è assicurata in forma diretta o indiretta, a seconda di quanto
previsto dalla convenzione.
4. Paesi non convenzionati: l’assistenza
sanitaria all’estero è garantita dal decreto del presidente della repubblica
618/1980, che assicura la copertura assistenziale in qualsiasi paese del mondo
ai cittadini italiani che si recano all’estero in distacco lavorativo per brevi
periodi. Prima di partire, bisogna richiedere alla propria ASL di appartenenza
l’attestato previsto dall’art. 15 del decreto del presidente della repubblica
618/1980, contenente una dichiarazione del datore di lavoro, da dove risulti
l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale per sé e i familiari. Tale
dichiarazione dovrà essere presentata, in caso di necessità, al consolato
italiano competente unitamente alle fatture relative alle spese sanitarie
sostenute e alla domanda di rimborso; il consolato provvederà a trasmettere al
ministero della Salute la domanda di rimborso. Si hanno tre mesi di tempo dalla
data delle fatture per presentare domanda di rimborso ai consolati, che nel
caso di spese ingenti possono provvedere a degli anticipi fino al 50 per cento
del valore.
All’estero,
entro tre mesi dalla prestazione sanitaria ricevuta, è possibile richiedere il
rimborso per le spese sanitarie sostenute all’ambasciata o al consolato
territorialmente competente.
Non
rientrano tra le categorie assistite all’estero: le persone che già
usufruiscono nello stato estero di prestazioni sanitarie garantite da
un’assicurazione pubblica o privata contro il rischio malattia prevista dalla
normativa locale, né i lavoratori che hanno un’assicurazione sanitaria
garantita dal datore di lavoro.
Gli
studenti e i titolari di borsa di studio godono della copertura sanitaria
all’estero secondo due diverse modalità, a seconda dello stato prescelto:
1.
stati dell’Unione Europea, Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera:
l’assistenza sanitaria è equivalente a quella dei lavoratori ed è assicurata
dalla tessera europea di assicurazione malattia (o in mancanza dal certificato
sostitutivo);
2. paesi non convenzionali: l’assistenza
sanitaria all’estero è garantita dal decreto del presidente della repubblica
618/1980, che assicura la copertura assistenziale ai cittadini italiani che si
recano in qualsiasi paese del mondo; prima di partire bisogna richiedere sempre
alla propria ASL l’attestato previsto dall’art. 15 del decreto.
Quando
ci si trova all’estero, entro tre mesi dalla prestazione sanitaria, è possibile
richiedere il rimborso per le spese sanitarie sostenute all’Ambasciata o al
Consolato territorialmente competente.
Se
si è emigrati residenti all’estero e durante uno dei soggiorni in Italia si ha
bisogno di assistenza sanitaria, occorre esibire una dichiarazione del
consolato italiano del luogo dove si risiede, che attesti lo status di
emigrato. L’assistenza sanitaria è concessa per un periodo di tempo non
superiore ai 90 giorni, anche cumulabili, per anno solare.
Per
tutti i cittadini la Costituzione italiana riconosce come fondamentale il
diritto alla tutela della salute, affermando, nell’art. 32: «la Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti... i cittadini devono collaborare
al mantenimento della salute, sia osservando i comportamenti richiesti
nell’interesse collettivo, sia partecipando alle spese necessarie, in rapporto
alle loro diverse capacità contributive». L’art. 3 afferma: «tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale... senza distinzione di razza, sesso, religione,
opinioni politiche, condizioni personali e sociali». Il diritto alla salute era
stato ribadito a livello internazionale dalla «Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo».
Il «Patto internazionale sui diritti economici,
sociali e culturali» del 1966 afferma che «ogni individuo ha diritto a un
livello di vita adeguato per sé è la sua famiglia che includa un’alimentazione,
vestiario e un alloggio, adeguati».
Nella
convenzione dell’QNU sui diritti dell’infanzia, approvata dall’assemblea
generale il 20 novembre 1989, è citato espressamente l’emigrante e la sua
tutela anche sanitaria.
Le
indicazioni costituzionali e quelle derivanti da patti e convenzioni
internazionali rispondono a una logica di solidarietà umana e di prevenzione
collettiva, ma non hanno una natura immediatamente attuativa; resta affidata al
legislatore nazionale l’individuazione e la determinazione degli strumenti, dei
tempi e dei modi di attuazione. Ciò ha fatto sì che per anni in Italia
l’immigrazione, non regolamentata né tutelata, abbia generato l’esclusione non
solo dalla normativa, ma anche dall’accesso ai servizi, anche dei più
elementari, di coloro che non avevano alcun diritto a prestazioni, pur vivendo
accanto a cittadini italiani nello stesso territorio.
Dalla
metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, a fronte di un diritto di
salute negato per legge agli immigrati clandestini o inaccessibile ai più dei
regolari (per complessi iter burocratici, o perché connesso ad alcune
condizioni giuridiche precise quali la residenza, la condizione lavorativa
ecc.), è stato il volontariato a supplire alla carenza di tutela della salute
da parte pubblica, garantendo di fatto un diritto all’assistenza sanitaria.
Con
la legge 39/1990, la cosiddetta «legge Martelli», sono state introdotte norme
sull’ingresso «il soggiorno in Italia per motivi non solo di lavoro, ma anche
di studio, di famiglia o di cure mediche. Sono cominciati così i
ricongiungimenti familiari, che tanta importanza hanno assunto negli anni
successivi nel modificare le
caratteristiche socio-demografiche della popolazione straniera presente in Italia. In particolare
l’art. 9, comma 12, stabilisce che: «i cittadini extracomunitari e gli apolidi
che chiedono di regolarizzare la loro posizione, sono a domanda assicurati al Servizio
sanitario nazionale e iscritti alla USL del comune di effettiva dimora».
Negli anni successivi vengono attuati vari
interventi legislativi che non vanno però a modificare, se non in piccola
parte, la legge 39. Il successivo
decreto in materia di immigrazione, il decreto legge 489/1995 (decreto Dini)
dal titolo: (Disposizioni urgenti in materia di politica dell’immigrazione e
per la regolamentazione ingresso e soggiorno nel territorio nazionale dei
cittadini dei paesi non appartenenti all’Unione Europea», dedica maggiore
attenzione alle problematiche sanitarie dei cittadini stranieri presenti in
Italia. Il decreto estende il diritto alle cure ordinarie e continuative e i
programmi di medicina preventiva, anche agli irregolari e ai clandestini. Vengono
inoltre erogate senza oneri a carico dei richiedenti, le prestazioni preventive, come quelle per
la tutela della maternità e della gravidanza.
Dopo l’entrata in vigore del trattato di
Maastricht (1993) e dell’accordo di Schengen (1997), un traguardo importante
per la tutela della salute dello straniero extracomunitario, si è raggiunto con
l’emanazione della legge 40/1998 (legge quadro sull’immigrazione, detta
anche «Turco-Napolitano») confluita con
decreto legislativo 286/1998 nel Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero», le cui disposizioni sanitarie rappresentano
una svolta rilevante rispetto al passato.
La motivazione di fondo della legge del 1998
partiva dalla consapevolezza che l’immigrazione rappresentava una risorsa
economica, demografica e culturale importante, che tale fenomeno era ormai
strutturale e necessitava di una politica di risposta ai bisogni di salute dei
nuovi cittadini. In particolare gli artt. 34, 35, 36 recano le disposizioni in
materia sanitaria, che affrontano i punti che avevano impedito allo straniero
di godere del diritto alla salute, che secondo la Costituzione dovrebbe essere
effettivamente garantito a ogni cittadino. Significativi sono stati i
cambiamenti sia per coloro che possono iscriversi al Servizio sanitario
nazionale, sia per i cittadini stranieri non in regola con le norme relative
all’ingresso e al soggiorno, i quali con l’emanazione di questa legge hanno
potuto godere di un diritto per tanti anni negato o nascosto.
Il Testo unico riconosce, a prescindere dalla
condizione giuridica, «i diritti fondamentali della persona umana» e sancisce
l’inclusione a pieno titolo degli immigrati in condizione di regolarità
giuridica nel sistema di diritti e doveri attinenti l’assistenza sanitaria, a
parità di condizioni e opportunità con il cittadino italiano, estendendo tali
diritti anche a coloro che sono presenti in Italia in situazione di
irregolarità giuridica e clandestinità. La legge Bossi-Fini (legge 189/2002, Modifica
alla normativa in materia di immigrazione e di asilo») non ha modificato questi
principi stabiliti dal Testo unico.
I principi e le disposizioni contenute nel
Testo unico hanno trovato maggiore concretezza applicativa con l’emanazione del
regolamento di attuazione (il decreto del presidente della repubblica
394/1999), che disciplina le modalità più opportune per garantire che le cure
essenziali e continuative e le modalità di erogazione nell’ambito delle
strutture della medicina nel territorio o nei presidi sanitari, pubblici e
privati accreditati. L’art. 43 contempla particolari procedure per evitare che
la condizione di clandestinità influisca sull’erogazione delle cure necessarie.
A questo proposito, il regolamento di attuazione prevede per la registrazione
delle prestazioni erogate a tali soggetti e per le eventuali prescrizioni
diagnostiche terapeutiche, l’utilizzo di un codice a sigla STP (straniero temporaneamente
presente), tale codice viene rilasciato da tutte le strutture sanitarie
pubbliche, è riconosciuto su tutto il territorio nazionale e identifica
l’assistito per tutte le prestazioni previste. È subordinato alla dichiarazione
d’indigenza, rilasciata dallo straniero attraverso la compilazione del modello
1.STP predisposto dal Ministero della Sanità, che rimane agli atti della
struttura che l’ha emesso. Lo straniero in possesso ditale codice è esentato
dal pagamento del ticket, per tutte le prestazioni di primo livello e per
quelle che sono in esenzione per i cittadini italiani, alle medesime condizioni
(patologia, età e reddito).
Ulteriori
chiarimenti e dettagli operativi al riguardo sono inoltre stati forniti dal
ministero della Sanità con la circolare n. 5 del 24/3/2000 che contiene le
indicazioni applicative del decreto legislativo 2286/1998. La circolare
fornisce la distinzione tra cure urgenti ed essenziali: sono urgenti «le cure
che non possono essere differite senza pericolo per la vita o danno per la
salute della persona»; essenziali «le prestazioni sanitarie, diagnostiche,
terapeutiche relative a patologie non pericolose nell’immediato e nel breve
termine, ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o
rischi per la vita».
Nei
piani sanitari nazionali degli ultimi anni, a partire da quello 1998-2000 (tale
documento, per la rilevanza che ha rivestito in termini di programmazione su
base nazionale, ha assunto un significato storico: per la prima volta, infatti,
la salute degli stranieri immigrati è stata riconosciuta tra le priorità del
Servizio sanitario nazionale e dell’intera collettività che esso tutela), è
ribadita la necessità di assicurare l’accesso delle popolazioni immigrate al
Servizio sanitario nazionale rendendo l’offerta di assistenza pubblica visibile
e facilmente accessibile. In particolare il piano 2006-08 dedica ampio spazio
«agli interventi in materia di salute degli immigrati e delle fasce sociali
marginali» ed evidenzia la necessità di promuovere politiche di prevenzione in
campo sanitario per giovani e minori, studi e ricerche sulla diffusione di
malattie infettive nonché interventi di formazione per gli operatori sanitari,
focalizzando l’attenzione sul settore materno-infantile, sugli infortuni sul
lavoro, sulle condizioni sanitarie delle popolazioni rom e sulle condizioni
delle popolazioni senza fissa dimora.
Chi
proviene da un paese straniero, e non appartiene all’Unione Europea, ha il
diritto, ma anche il dovere, di iscriversi al Servizio sanitario nazionale
italiano, che un tempo si chiamava «la mutua». Basta avere un regolare permesso
di soggiorno, richiesto per lavoro, motivi familiari, adozione, affidamento,
acquisto di cittadinanza, asilo politico o umanitario.
Per
iscriversi bisogna recarsi all’ASL del quartiere dove si risiede, presentando
il permesso di soggiorno, il codice fiscale e il certificato di residenza che
può essere compilato anche da soli (si chiama autocertificazione del
domicilio). Poi è possibile scegliere il medico di famiglia e il pediatra di
fiducia da una lista di nominativi che la ASL mette a disposizione dei
cittadini. L’iscrizione al Servizio sanitario nazionale vale fino allo scadere
del permesso di soggiorno, ma per mantenerla valida nel periodo di rinnovo del
certificato basta mostrare il cedolino rilasciato dalla questura che attesta la
richiesta. È poi precisato che, in mancanza di residenza, il cittadino
straniero e i suoi familiari a carico sono iscritti negli elenchi degli
assistibili dell’ASL nel cui territorio hanno effettiva dimora; per luogo di
effettiva dimora si intende quello riportato sul permesso di soggiorno. Tale
innovazione è volta a favorire l’iscrizione di quanti, a causa di una precarietà
economica o lavorati va, sono costretti a continui spostamenti sul
territorio nazionale, con corrispondenti
cambiamenti di alloggio.
Con l’iscrizione al Servizio sanitario
nazionale si ottengono gli stessi diritti e doveri dei cittadini italiani: è possibile
scegliere il medico di famiglia e il pediatra, fare tutte le visite e gli esami
specialistici che il medico riterrà opportuno prescrivere, essere ricoverati in
ospedale, fare un’operazione chirurgica e ottenere le ricette per acquistare i
farmaci. Non tutto è gratis. In alcuni casi, regola che vale per tutti, lo
Stato chiede di contribuire alla spesa sanitaria facendo pagare una somma di
denaro chiamata ticket.
L’assistenza sanitaria è garantita anche ai
familiari di primo grado a carico del capofamiglia — coniuge, fratelli,
genitori e figli — che soggiornano regolarmente in Italia.
Chi
risiede in Italia per motivi di studio, religiosi o è collocato alla pari, ha due possibilità:
procurarsi, prima di partire, un’assicurazione sanitaria riconosciuta dall’Italia
contro il rischio di malattie, infortunio o maternità, oppure fare un’iscrizione
volontaria al Servizio sanitario nazionale, pagando una quota fissa che però va
rinnovata ogni anno. Con quest’ultima formula sono assistiti anche i familiari
a carico. Chi ha un permesso di soggiorno di breve durata — per esempio, per
affari o turismo — e non ha un’assicurazione privata deve pagare per intero le
cure che riceve e gli esami che fa.
Anche
in assenza di un permesso di soggiorno valido (perché è scaduto, non è stato rinnovato,
oppure non è mai stato ottenuto) è possibile essere curati in ospedale o in
ambulatorio presentando la tessera STP (straniero temporaneamente presente),
che va richiesta all’ASL e prevede l’erogazione anche «ai cittadini stranieri
presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative
all’ingresso e al soggiorno» delle cure ambulatoriali urgenti o comunque
essenziali, anche continuative, per malattia e infortunio, e l’estensione dei
«programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e
collettiva». Inoltre l’articolo garantisce: la «tutela sociale della gravidanza
e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane» (comma 3,
lettera a), «la tutela della salute del minore in esecuzione alla Convenzione
sui diritti del fanciullo del 20/11/1989» (comma 3, lettera b), «le
vaccinazioni secondo la normativa e nell’ambito di interventi di campagne di
prevenzione collettiva autorizzati dalle regioni» (comma 3, lettera c), «gli
interventi di profilassi internazionale» (comma 3, lettera d), e «la
profilassi, la diagnosi, e la cura delle malattie infettive» (comma 3, lettera
c).
In
molte città, inoltre, è possibile rivolgersi anche alle associazioni in cui
lavorano medici e dentisti volontari.
Tutti
gli immigrati irregolarmente presenti in Italia che richiedono prestazioni
sanitarie gratuite o soggette a ticket non devono pagare perché si trovano in
condizioni di indigenza. Questa condizione deve essere attestata da un’autocertificazione
che va compilata su un apposito modulo (dichiarazione d’indigenza) al momento
della richiesta. Per ottenere le prestazioni gratuite o parzialmente gratuite
occorre eseguire le visite e gli esami nelle strutture pubbliche o
convenzionate.
Un
clandestino che va da un medico o in ospedale non rischia di essere denunciato.
Chi si rivolge a una struttura sanitaria riceverà le cure necessarie e non sarà
denunciato per il fatto di non avere il permesso di soggiorno.
Le
donne immigrate prive di permesso di soggiorno possono rivolgersi ai seguenti
servizi, nel rispetto della riservatezza:
Consultorio
familiare per: contraccezione (con pagamento ticket); gravidanza (prestazione
gratuita); certificazione per interruzione di gravidanza (prestazione gratuita);
controllo menopausa (con pagamento ticket). ~i ospedali per: controllo
gravidanza (assistenza e esami) (prestazione gratuita); assistenza al parto
(prestazione gratuita); interruzione di gravidanza (prestazione gratuita);
Spazi
prevenzione della lega tumore per esami dell’apparato genitale femminile per la
prevenzione (con pagamento ticket).
Ai
minori irregolari è garantita la tutela della salute in esecuzione della
convenzione sui diritti dell’infanzia, che prevede, per tutti i minori di 18
anni «il diritto al godimento del miglior stato di salute possibile e a
beneficiare dei servizi medici e di riabilitazione».
Tuttavia
i minori stranieri irregolari non possono essere iscritti al Servizio sanitario
nazionale e non possono usufruire del pediatra di libera scelta. Hanno però
diritto a usufruire delle cure mediche presso strutture sanitarie pubbliche,
quali ambulatori specialistici, ospedali, consultori pediatrici di zona. I
bambini di età compresa tra i O e i 6 anni, anche se irregolari, hanno diritto alle
cure mediche di base e specialistiche presso le strutture ospedaliere e
territoriali, in forma gratuita. Se dopo la nascita si richiede un permesso di
soggiorno temporaneo, per i sei mesi successivi si ha diritto all’iscrizione al
Servizio sanitario nazionale presso il distretto della zona di competenza e ad
accedere a tutte le cure previste per i bambini italiani, tra cui il pediatra
di base. Le vaccinazioni sono obbligatorie, il bambino può riceverle
gratuitamente presso i consultori e i centri di vaccinazione. Tutti i minori
irregolari con un’età superiore ai 6 anni hanno diritto fino al compimento del
diciottesimo anno a tutte le prestazioni di primo livello. Le prestazioni
specialistiche sono erogate in seguito al pagamento del ticket, a parità dei
cittadini italiani.
Chi
è ancora all’estero e vuole venire in Italia a curarsi, con un suo eventuale
accompagnatore, deve presentare una dichiarazione rilasciata dalla struttura
sanitaria italiana per ottenere uno specifico visto di ingresso e relativo permesso
di soggiorno per cure mediche. I requisiti che deve possedere tale
dichiarazione sono: il tipo di cura, la data d’inizio, e la durata del trattamento
terapeutico. Deve, inoltre, dimostrare di potersi pagare il vitto e l’alloggio
(per tutto il periodo di permanenza) e versare alla struttura, in genere l’ospedale,
il 30 per cento delle spese previste, come deposito. È inoltre necessario farsi
rilasciare dall’ambasciata italiana un visto di ingresso e un permesso di
soggiorno.
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