Translate

martedì 22 maggio 2012

L’informazione (medico - scientifica) nella prospettiva sociologica


Facoltà di Scienze della Formazione
Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione
Anno Accademico 2007-2008
Tesi di Sociologia della Cultura 
PROSPETTIVE CONTEMPORANEE
IN SOCIOLOGIA DELLA SALUTE

1.   Lo status della comunicazione medico-scientifica e della salute
La problematica degli effetti e dell’efficienza della comunicazione e della promozione medico scientifica e della salute è relativamente recente e si è sviluppata soprattutto a partire dagli Settanta ed Ottanta del Ventesimo secolo, soprattutto in considerazione della maggiore ampiezza ed importanza raggiunta dal mercato dei prodotti farmaceutici e parafarmaceutici ed all’impatto di tali processi nell’ambiente sociale. In particolare la dimensione della comunicazione assume dimensioni e ritmi più elevati in relazione all’innovazione, una innovazione che oggi tende ad essere condivisa, socializzata, e “vissuta “. Inoltre, negli ultimi anni sono emersi due macro fenomeni che stanno condizionando la svolta sociale, culturale ed organizzativa della sanità; il primo macro fenomeno è relativo alla elevata crescita della complessità dell’informazione bio-medica, il secondo fenomeno è invece relativo ai costi crescenti all’interno del sistema delle cure che obbligano a compiere scelte difficili, comprese fra qualità ed efficienza. In questo modo anche il processo comunicativo, da questione scientifica e tecnica che interessa pochi soggetti specializzati, diventa oggetto di azione sociale diffusa, che coinvolge i singoli individui, i nuclei familiari, le istituzioni specialistiche e non specialistiche, le imprese e le reti informali, portandoli ad adottare, a volte anche inconsapevolmente, orientamenti e comportamenti evidenziano quelle zone di penombra della scienza» in cui può esservi «confusione fra verità ed utilità sociale». Il concetto di salute rappresenta uno degli aspetti più significativi e rilevanti della sfera simbolica nella società contemporanea, al centro di parte considerevole della comunicazione sia scientifica, sia di senso comune. Il ruolo dei mezzi di comunicazione si configura come di indubbia importanza nella costituzione delle rappresentazioni sociali; tuttavia esso è stato parzialmente riconsiderato alla luce del ruolo attivo che i soggetti rivestono nel processo di interpretazione della realtà.
In particolare, l’informazione medico-scientifica ha lo scopo di promuovere le conoscenze via via acquisite nella ricerca medica e farmacologia per migliorare la descrizione del corpo umano, della malattia e dello stato di salute, secondo tratti culturalmente peculiari. In tale ottica Guizzardi ha osservato che la comunicazione scientifica nello spazio pubblico non costituisce un’appendice della ricerca scientifica, «ma ne rappresenta una parte integrante», non si può più parlare di divulgazione della scienza, in particolare di quella medico-scientifica, ma di una «negoziazione mediatica della scienza», «in altre parole se si sposta l’ottica della scienza alla scienza comunicata e contemporaneamente ci si allarga dall’interno del campo scientifico allo spazio pubblico si possono notare non soltanto le interconnessioni esistenti, e parlare di continuum scienza-comunicazione, con i concetti relativi di natura interattiva della comunicazione e di contesti multipli nei quali la comunicazione della scienza si colloca, ma soprattutto porre in luce il fatto che il campo scientifico si espande fino a comprendere non scienziati, con la conseguenza, fra le altre, di articolare in modo complesso la figura dello scienziato stesso».
In tale direzione, il processo comunicativo medico-scientifico può essere studiato e descritto attraverso l’ottica di un passaggio di informazioni tra emittente e ricevente che assolve specifiche funzioni, o anche attraverso lo studio dei processi di codificazione dei segni comunicativi, ma anche attraverso le diverse controversie sulla essenzialità della persuasione nella scienza ed ancora nella sua qualità di modulazione della relazione interpersonale, nello specifico contesto in cui è immersa.
L’etimo della parola comunicazione deriva dal greco koinonéo che intende il partecipare e rinvia all’idea della comunità, ad un luogo di interscambio di relazioni tra individui. Nel concetto di interscambio si configura la bidirezionalità, nel senso che ciascun comunicatore è allo stesso tempo emittente e ricevente.
Nel definire la comunicazione per la salute dovrebbe essere tenuto in considerazione il fatto che gli individui non costituiscono più un obiettivo, ma sono i protagonisti fondamentali nell’ acquisizione e nell’accettazione dei messaggi che fanno riferimento alle loro condizioni: la comunicazione e l’informazione scientifica si realizza non solo fra mediatori della scienza ma, soprattutto, fra attori sociali. In tale ottica la comunicazione per la salute può definirsi come un sistema di informazione complesso sui temi della salute e della prevenzione della salute in cui quanto comunicato e scambiato fra gli attori sociali cessa di essere fine a se stesso, viene e verrà prodotto per essere scambiato.
Il  campo della comunicazione della salute si è sviluppato in ambito sociologico soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti e, successivamente, in altri paesi europei. È indicativa di questo sviluppo l’apparizione, nel 1989, della prima rivista scientifica dedicata specificatamente a questo settore, il Journal of Health Communication.
Jackson e Duffy hanno analizzato i mutamenti intervenuti nel corso degli anni Novanta nella comunicazione medico-paziente, nell’organizzazione dei servizi sanitari, nelle campagne di prevenzione del rischio e promozione della salute, nella presentazione della salute nei media, compresi i siti in Internet dedicati a questo tema: nel complesso la “questione comunicativa” sembra essere fondamentale nel campo sanitario e in quello del benessere poiché è in grado di modificare le dinamiche e le concezioni della salute: «in realtà esiste ormai una ampia evidenza del fatto che il processo di costruzione dei fatti scientifici si spinge frequentemente oltre i confini della comunità scientifica entrando nella sfera pubblica mediale».
L’ambito della comunicazione della salute comprende la prevenzione delle malattie, la promozione della salute, la politica sanitaria e il miglioramento della salute degli individui all’interno della comunità e, in questi anni, il contesto di riferimento è progressivamente cambiato: i cambiamenti sembrano includere sia il crescente numero dei canali disponibili, sia il numero della specificità disciplinari. Comunicare la scienza in ambito medico- sanitario equivale ad un impegno rigoroso nella diffusione di notizie o di informazioni sulle conoscenze scientifiche e sulle acquisizioni tecnologiche in grado di destare interesse. L’informazione medico scientifica è investita da una vera e propria questione morale, nell’ambito della quale ad essere chiamati in causarono i rapporti che intercorrono fra media, industria farmaceutica, medici, farmacisti ed informatori scientifici sul farmaco.
La questione sembra porsi sia in termini “morali”, ed a questo proposito il problema si sposta nelle connessioni fra industria e medici, sia in termini di credibilità e spendibilità di quanto offerto in termini comunicativi. A questo proposito sembra opportuno ricordare che il ritardo alla revisione della legge 541/92 ha spinto molte regioni, in via autonoma, a legiferare sull’informazione scientifica del farmaco per garantire un maggior controllo sull’attività di informazione e, in via indiretta, per controllare la spesa farmaceutica regionale. Tale fatto sembra confermare sia la confusione per la mancanza di uno strumento normativo unico, con il rischio che si arrivi, prima o poi, a venti leggi diverse in materia, sia all’aperto conflitto di interessi in corso ed alla relativa mancanza di comportamenti socialmente responsabili da parte dei produttori di informazione.
L’efficacia terapeutica e diagnostica raggiunta oggi dalla medicina e dalla ricerca farmacologia non rivestono solo un significato organizzativo, politico, culturale ed economico, ma soprattutto un profondo significato sociale. A questa maggiore efficacia si sovrappone il passaggio, avvenuto negli anni ottanta, da una nosologia dominata dalle malattie infettive ad una nosologia dominata dalle patologie cosiddette cronico-degenerative, ha contribuito ad una profonda evoluzione della prevenzione e dell’educazione sanitaria impegnate sempre meno su interventi specifici per curare singole patologie e sempre più con l’obiettivo di migliorare gli stili di vita e l’ambiente in cui vive l’individuo.
Il termine educazione sanitaria, che fa riferimento agli interventi mirati nell’ambito di un rapporto asimmetrico con l’attore sociale, ha lasciato il posto a quello di promozione della salute: ciò ha segnato il passaggio da una semplice strategia della prevenzione ad una strategia integrata che privilegia la rimozione di cause di patologie o di fattori di rischio ed azioni mirate a mantenere l’equilibrio della salute, raggiungibile solo con la responsabilizzazione del soggetto e con il miglioramento dell’ambiente in cui vive, oltre che un continuo aggiornamento delle conoscenze diretta alle professioni impegnate nella costruzione della salute (medici, farmacisti, personale sanitario). Tuttavia per tutti gli anni Ottanta con il termine educazione sanitaria si intendevano tutte le strategie preventive ed educative in materia sanitaria. Il dibattito terminologico fra “educazione. sanitaria”/”educazione alla salute” e “promozione della salute” fu molto acceso, soprattutto nel mondo anglosassone circa la distinzione tra “Health Promotion” e “Health Education”.
Attualmente, soprattutto nella pubblica amministrazione, si preferisce utilizzare il concetto di Promozione della salute perché ritenuto più completo e intuitivo, meno prescrittivo rispetto alla sola educazione sanitaria e in linea con il linguaggio adottato da numerosi documenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L’idea di promozione della salute si afferma anche nella informazione medico-scientifica che riveste un ruolo specifico e riservato agli operatori sanitari. Nell’ambito della promozione della salute i modelli di riferimento hanno privilegiato un approccio sistemico centrato sulla persona, almeno nelle dichiarazioni di intento. L’obiettivo, infatti, dovrebbe essere quello di considerare l’individuo nella sua interezza, tenendo conto delle sue relazioni sociali e familiari, dell’importanza della salute e del benessere psico-fisico, senza dimenticare che la salute un costrutto sociale ed è soggetta a variazioni in base al contesto in qui viene considerata. Questo modello implica l’avvio di numerosi processi di promozione della salute in differenti ambiti (scolastico, familiare, lavorativo, ospedaliero, sanitario).
Tuttavia, l’osservazione su alcune caratteristiche della ricerca clinica contemporanea segnalano un progressivo distacco delle specialità del corpo della medicina generale e la tendenza delle stesse specializzazioni verso una settorializzazione. Inoltre, l’efficacia diagnostica ha spostato il suo centro da fatto assistenziale e curativa, verso un approccio diagnostico-curativo, mentre per alcune patologie, ad esempio quelle degenerative, la ricerca sembra essersi concentrati sulla cronicizzazione.
Una interpretazione della forma assunta da questi fenomeni, anche nella prospettiva comunicativa, sembra richiedere un passaggio ulteriore poiché l’individuo non può essere considerato il semplice destinatario del progresso scientifico Accanto all’evoluzione del sapere medico si assiste cosi ad una forte evoluzione delle informazioni e delle rappresentazioni, documentata, ad esempio, dal proliferare di riviste sulla salute, dalle trasmissioni televisive sull’argomento e dai tanti ed incontrollati siti Internet dedicati. Emergono con forza nuovi concetti di salute e di benessere, di malattia e di malessere. La scienza, ma soprattutto la tecnica sembrano oggi impegnate non più a ricercare la verificabilità o falsificabilità di teorie ed ipotesi in termini di verità disinteressata, quanto piuttosto a legittimare il sapere soprattutto in termini di successi pratici e di utilità conseguita.
È così che la razionalità individuale si è fatta limitata ed il pensiero da forte si è fatto debole. In particolare la biologia, la farmacologia, la medicina pratica, con il loro sapere tecnico avanzato, suscitano una miriade di prassi relazionali fra gli uomini e le macchine. Per vie tecnologiche si ripropongono nuove questioni per la sorte dell’umanità, sfide che inducono ad uscire dalle artificialità autoreferenziali e dalla limitatezza di un pensiero che guarda solo alla tekné.
Alla trasformazione dell’ interpretazione del concetto di salute e di conservazione si associa l’effetto comunicativo. La comunicazione avviene in un numero elevatissimo di contesti, dalla scuola al lavoro, attraverso una varietà di canali, dalle relazioni interpersonali fino alla posta elettronica, per messaggi di grande diversità e per motivazioni diverse. La comunicazione medico- scientifica della salute assume un suo valore specifico non solo perché si svolge in luoghi della prassi medica, ma anche perché presuppone un passaggio di conoscenze scientifiche dalla ricerca alla società e viceversa. Questo passaggio di conoscenze implica tutte le problematiche poste dallo scambio tra esperti e non esperti; tuttavia, il contesto di cura e di prevenzione ha delle particolarità che rendono la comunicazione “medico-paziente” un caso particolarmente interessante.
 Il recente sviluppo della comunicazione medico-scientifica configura un più generale cambiamento relativo all’immagine della salute su come viene rappresentata e come è invece attesa. In tale ottica, l’informazione medico-scientifica è un sapere delle relazioni, vale a dire quel sapere che ha per oggetto i processi interattivi nel quale gli attori sociali sono immersi. In una società in cui si vive più a lungo sembra necessario dotarsi non solo di nuovi parametri per definire la salute ma anche per rendere effettivamente possibile una partecipazione alle scelte terapeutiche ed al processo di prevenzione.
L’informazione e la comunicazione medico-scientifica appare così in tutta la sua complessità: un processo che richiede una profonda integrazione fra competenze ed ambiti operativi diversi. Si pensi, ad esempio, alla comunicazione della salute in ambito oncologico, il Censis ha osservato che il tumore e la malattia più temuta dagli italiani (67,5%) «la televisione e i giornali sono le fonti di informazione sanitaria non professionali a cui i cittadini con più frequenza fanno riferimento. Entrambi i media evidenziano una capacità di impatto sui comportamenti non indifferente: gli italiani, dal 15 al 18% hanno concretamente modificato atteggiamento a seguito dell’acquisizione di informazioni sulla salute apprese, dalla carta stampata e dalla televisione».
L’informazione medico-scientifica e della salute si dimostra così a più dimensioni ed è richiesta una capacità comunicativa connettiva tesa all’adozione di linguaggi comuni e comprensibili da tutti, che faciliti il collegamento tra i diversi sistemi relazionali, con il sostegno e la partecipazione da parte degli attori sociali.
Il Censis ha osservato, nel 2001, che oltre quattro milioni di Italiani cercano su Internet informazioni in tema sanitario, quasi altrettanti sono i telespettatori delle sei principali trasmissioni televisive di medicina e più di un milione sono i lettori di periodici dedicati alla salute Cresce l’attenzione per la propria salute e cresce la voglia di saperne di più, è quanto emerge da una indagine realizzata dal Forum per la Ricerca Biomedica e dal Censis su un campione rappresentativo di (1.200) italiani. La ricerca ha evidenziato come la cosa più importante per l’83,6% degli italiani, quando si trova di fronte ad un problema di salute, sia capire bene cosa gli stia succedendo, e il medico rimane, il soggetto nel quale gli italiani ripongono maggiore fiducia e dal quale attinge informazioni per ogni evenienza (oltre il 90% gli si rivolge per malattie gravi o molto gravi il 75 7% per malattie poco gravi ed il 66 3% anche per i piccoli disagi). Tuttavia nei casi di malattie poco gravi e di piccoli disagi gli italiani credono ci si possa rivolgere per ottenere informazioni anche ai media (16,5% in caso di malattie poco gravi e 16,4% in caso di piccoli disagi) e ai conoscenti (6% per malattie poco gravi e 14,5% per piccoli disagi). Cresce anche la fiducia in Internet, il cui uso da parte dei pazienti è giudicato positivamente dal 60,2% degli intervistati (quasi il 75% tra i più giovani), perché accresce la cultura scientifica, mentre il 72,9% (l’84% tra i più giovani) ne valuta positivamente l’uso da parte dei medici, perché consente l’aggiornamento in tempo reale. Il 60,6% degli italiani considera il suo rapporto con il medico come una “collaborazione reciproca in vista della salute”, e il 69,6% lo consulta per primo in caso di disturbo grave.

Negli ultimi cento anni, soprattutto a partire dalla diffusione dei cosiddetti media elettrici, è sopraggiunta una nuova tendenza: scienza e sapere si sviluppano secondo trame tessute da più fili, ai centri si sono sostituiti nodi e collegamenti fra livelli, anche molto diversi. Sembra possibile osservare un significativo cambio di paradigma, una perturbazione epistemologica nel segno della complessità e delle reti di conoscenza. Al pensiero analitico si sostituisce l’idea del mondo come un insieme relazionale e connesso in cui al primato dell’affermazione della scoperta scientifica è collegato il principio della divulgazione scientifica. Il nuovo paradigma della conoscenza ha modificato, da tempo, i termini di riferimento di comunicazione. La ricerca scientifica si interroga sui principi di organizzazione fondamentali è sul contesto dei fenomeni; i sistemi comunicativi, comunque organizzati, si strutturano proprio intorno a questo interrogativo.
Prima di tentare di definire i contorni ditale esperienza sembra necessario tracciare i termini di riferimento di comunicazione e di promozione della salute come un sistema complesso di azioni di tipo educativo, politico, legislativo ed organizzativo che possa favorire una migliore qualità e stili di vita sia a i vello individuale sia a livello di gruppo o collettività. In altri termini, questi sistemi complessi sono dei veri e propri sistemi cognitivi che tendono ad orientare e guidare l’analisi e l’interpretazione delle conoscenze Infatti, i sistemi relazionali producono ed implicano conoscenza e configurano le relazioni sociali cosi prodotte come configurazioni dinamiche.
Il  mondo della comunicazione scientifica è un mondo estremamente eterogeneo e non ci si riferisce più al solo ambito chimico-biologico ma anche al campo della prevenzione e della promozione della cultura dello star bene, degli stili di vita, della sostenibilità, dell’innovazione scientifico-tecnologica al servizio delle persone, alla cura del corpo, al benessere ed alla qualità della vita.
La frequenza con cui il tema della salute compare nei mezzi di comunicazione di massa e la comunicazione trasversale e pubblicitaria di tutti i prodotti inerenti al benessere (in Google, ad esempio, nel mese di ottobre 2004, la parola salute compare oltre sei milioni di volte e la parola health duecentotrentacinquemilioni di volte), lo stesso abuso del concetto di benessere come valore di riferimento per la vita, hanno importanti effetti sulla cultura e sui comportamenti e le relazioni delle persone. In tale direzione, il contesto epidemiologico che corrisponde alla scoperta dei nuovi fatti sembra essere la pietra angolare della salute pubblica e, proprio partendo da questo punto, in genere è proprio l’epidemiologia la base di partenza di ogni attività rivolta all’informazione sul benessere. Tuttavia, da una parte una medicina troppo spesso orientata solo ed esclusivamente verso la evidence based medicine, proprio perché il contesto principale sembra essere quello epidemiologico, dall’altra una banalizzazione ed una volgarizzazione non mediata della informazione scientifica, rischiano di costituire una minaccia seria ai principi d efficacia e di valutazione del sistema. L’epidemiologia è tradizionalmente strutturata intorno ad un paradigma biomedico: il metodo in cui la teoria è relativamente poco importante e l’approccio multidisciplinare attraverso le teorie proprie delle scienze sociali. Sia il paradigma biomedico sia l’approcci multidisciplinare dividono un interesse comune: la prevenzione della saluti della popolazione, poiché si ricercano dati inconfutabili.
Tuttavia, se gli uomini di scienza hanno il dovere di comunicare il loro sa pere critico per mettere le società nelle condizioni di operare al meglio le diverse scelte, alle funzioni chiave della ricerca, da tempo, si è inserita, qual variabile ulteriore di un sistema strutturalmente instabile, l’analisi delle necessità e sostenibilità industriali e finanziarie.
Le osservazioni intorno ad alcuni dei problemi della comunicazione medico-scientifica rendono estremamente complesso il campo di analisi. In particolare, è proprio dalla costruzione del fenomeno di informazione che sembra possibile osservare l’origine delle difficoltà; la comunicazione si realizza in uno speciale rapporto fra due termini principali: il promotore ed il recettore, Il promotore trasmette al recettore, tramite appropriati strumenti e codici, la notizia. Appropriati strumenti e codici sembrano essere la prima delle difficoltà poiché non è più vero che, più alta sarà la specializzazione più ristretto sarà il numero dei recettori. Tradizionalmente, infatti, si tendeva a considerare l’informazione sulla salute come un processo Top-Down in cui le informazioni più complesse venivano riservate ad un ristretto numèro di specialisti, per poi essere trasferite, attraverso mezzi di comunicazione più appropriate, verso un pubblico meno specializzato, fino alla definitiva volgarizzazione. Soprattutto nella modernità solida tali processi hanno costituito la struttura di base delle diverse forme di comunicazione, non solo quelle riservate alla salute ed al benessere. Ma nella cosiddetta modernità liquida non sembra possibile configurare tale processo come quello peculiare. Il diffondersi delle informazioni in quantità, forme e velocità, di fatto, incontrollabili, ha completamente modificato il sistema della comunicazione scientifica.
L’esplosione del fenomeno della comunicazione attraverso le reti informatiche ha aggiunto non solo una diversa velocità nella propagazione di una nuova informazione e la maggiore quantità di dati a disposizione, ha introdotto il concetto di quantità aggiuntiva di informazione prodotta dal sistema mediale stesso. In altri termini, Internet non è solo un nuovo media, è soprattutto un sistema autopoietico che più o meno inconsapevolmente produce una qualità ed una quantità aggiuntiva di informazione, spesso ridondante, in forma autonoma rispetto al promotore della comunicazione. Sul Web ogni giorno vengono pubblicate nuove riviste scientifiche e, se apparentemente il processo di pubblicazione di queste riviste è identico a quello tradizionale sulla carta stampata, i costi sono così bassi da rendere accessibile l’informazione a tutti in tempi brevissimi. inoltre, e questo sembra essere l’elemento che introduce la quantità aggiuntiva di informazione, poiché molte delle pubblicazioni e dei gruppi di discussione, comunque strutturati, non sono mediati e non vi è corresponsabilità, si tende a produrre ex postfacto una quantità marginale di informazione. I mezzi di comunicazione hanno una enorme responsabilità e tale responsabilità, può riassumersi nelle raccomandazioni di Gould: «non vi nulla nella scienza che non possa essere trasmesso in forma chiara, rigorosa ed onesta» ed ancora «la scienza, dal n mento che viene praticata dall’uomo, è un’attività socialmente inserita. E progredisce per impressioni, immaginazione ed intuizione. La maggioranza dei suoi cambiamenti nel tempo non registra un avvicinamento alla verità soluta, ma il mutamento dei contesti culturali che la influenzano così fortemente. I fatti non sono frammenti puri e incontaminati d’informazione; anche la cultura influenza che cosa vediamo e come la vediamo. Se preoccuparsi della efficacia della comunicazione scientifica e della promozione della salute è preoccuparsi del processo della distribuzione delle conoscenze sulla salute, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita del comunità interessate, occorre tenere in considerazione le distorsioni presenti nel sistema. Medicina e sociologia necessitano di un dialogo continuo, integrato nelle mappe cognitive a livello sociale, attraverso un flusso comunicativo complesso, non auto-diretto o auto-referenziale. La percezione del rapporto complesso rapporto salute/malattia, dei comportamenti utili al miglioramento del benessere sembrano passare attraverso lo sviluppo e la connessione dei flussi comunicativi e, in tale direzione, la comunicazione apre sia alla costruzione ulteriore della ricerca, sia al senso ed al significato di essa.
La scienza dovrebbe considerarsi come un vera e propria rete di modelli e di nodi semantici e, in tale prospettiva, il concetto di sapere, nella fattispecie di sapere scientifico, sembra ridurre i concetti di centralità e prevedibilità. Sembra esservi una possibile divergenza fra gli standard di integrità, la scienza ed i problemi posti sia dal conflitto di interesse nella ricerca sia dalla difficoltà di comunicare tout court. Gli effetti delle distorsioni nei processi comunicativi e nella produzione di nuova conoscenza scientifica sembrano essere così tanti quanti i modi di stabilire connessioni fra sistema e pubblico. Al processo comunicativo della salute occorre, probabilmente associare un processo sistematico di osservazione e di verifica dei dati raccolti, oltre la farmaco- vigilanza; un modello concettuale basato sull’interazione fra cliente e sistema sanitario attraverso la farmacia ed il sistema sanitario.
Il bisogno di relazione del sistema sanitario sembra sottolineare la necessità da parte del sistema medico scientifico di aprirsi al contributo delle scienze sociali, in generale, ed alla sociologia della comunicazione in particolare.
Il  sistema comunicativo dedicato alla salute ed al benessere dovrebbe rendere possibile l’integrazione, la sussidiarietà, fra saperi diversi, fra attori sociali ed Istituzioni, ed una più equa distribuzione dei saperi stessi.
Il malessere, nei processi comunicativi, sembra derivare da una relazione tra individui sempre più improbabile: si assottigliano le probabilità che la comunicazione intersoggettiva sia vissuta come significativa per i soggetti in interazione; diminuisce la probabilità che il contesto oggettivo possa favorire una comprensione intima tra chi comunica; diminuisce la probabilità che si realizzino le condizioni specifiche della comunicabilità. Queste caratteristiche della comunicazione sembrano configurarsi anche nell’ implosione delle relazioni di sostegno, di aiuto tra persone: sia la solidarietà spontanea, di mondo vitale, tra singoli o gruppi informali, sia le relazioni istituzionali come quella tra medico e paziente che soffrono dell’incapacità di padroneggiare relazioni profonde e personalizzate.
Cominciare la prevenzione, la cura e la ricerca sulla salute significa riconoscere il valore dell’esistere proprio ed altrui in tutta la sua complessità: corrisponde all’accoglienza dell’esistenza dell’altro come prossimo e simile.

Una buona salute e una efficiente condizione fisica sono garantite dall’eredità genetica, ma anche e soprattutto da un sano stile di vita. Pochi ma importanti sono i fattori che contribuiscono a un buon invecchiamento, tra questi il movimento fisico, la lotta all’obesità e al fumo.
Dai dati forniti dal ministero della Salute per quanto riguarda l’attività fisica dei cittadini italiani emerge un preoccupante andamento: aumenta il numero dei sedentari e tale fenomeno assume particolare rilievo nelle fasce di età giovanile.
Circa il 60 per cento degli adulti tra i 25 e i 64 anni non svolge alcuna attività fisica. La medicina sportiva, invece, ha potuto constatare come negli sportivi “di vecchia data” l’uso costante e sorvegliato di un’attività sportiva adeguata incrementa le resistenze totali dell’organismo, limita l’involuzione muscoloscheletrica e cardiovascolare, stimola le capacità psicocerebrali del soggetto. Un tessuto muscolare quotidianamente attivo è, infatti, il motore attraverso cui sono impiegati la maggioranza degli zuccheri, grassi e proteine introdotti con l’alimentazione. Un muscolo inattivo, invece, limita la potenzialità espressiva della persona e conduce a un invecchiamento precoce e accompagnato da tutte quelle patologie legate alla sedentarietà. 
Una regolare attività fisica previene patologie croniche come   diabete di secondo tipo, disturbi cardiocircolatori, obesità. Inoltre protegge da condizioni disabilitanti tipo osteoporosi, artrite. Infine riduce o elimina fattori di rischio come pressione alta, colesterolo alto. 
 Alcuni studi dimostrano che le persone fisicamente  attive hanno una speranza di vita superiore ai sedentari in media di circa sei anni. Inoltre, l’esecuzione di un’attività sportiva regolare è molto efficace nel ridurre la sintomatologia depressiva, rallenta il declino fisico e cognitivo che talvolta caratterizza l’invecchiamento  e garantisce un buon riposo notturno. 
 In un esperimento statunitense si è raggiunto l’obiettivo di migliorare la salute e la qualità della vita dei partecipanti semplicemente aggiungendo alla normale attività quotidiana 2000 passi in più. Sono sufficienti 30 minuti di cammino svelto, se non tutti i giorni almeno nei fine settimana, per ottenere risultati salutari a tutte le età.

Camminare ogni volta che è possibile, ricordando che i benefici maggiori si ottengono con la continuità. Sfruttare al meglio il tempo a nostra disposizione anche, per esempio, prendendo i mezzi pubblici per andare in ufficio, scendendo una fermata prima della destinazione,  passeggiando durante le pause lavorative, utilizzando le scale al posto dell’ascensore, andando a parlare di persona con il collega anziché utilizzare il telefono o la posta  elettronica.  L’importanza della diagnosi precoce di una malattia e la maggiore efficacia di una terapia tempestiva sono ormai patrimonio culturale non solo della medicina, ma sostanzialmente di tutti i cittadini. Laddove esistono prove scientifiche dell’efficacia di pratiche in grado di garantire ai cittadini significativi vantaggi in termine di salute, è dovere dei servizi sanitari non lasciare la presa in carico di situazioni cliniche all’occasionale, individuale incontro tra medici e assistiti o solo quando si è già in presenza di sintomatologia significativa, ma intervenire con programmi attivi e organizzati di sanità pubblica.
Lo screening è un programma organizzato e sistematico di diagnosi precoce condotto su una popolazione asintomatica, cioè che non accusa nessun disturbo o sintomi di quella specifica malattia: lo screening si rivolge a persone «che si sentono sane». Questa popolazione viene attivamente invitata dalla struttura sanitaria a effettuare gratuitamente un esame clinico, strumentale o di laboratorio, attraverso il quale si può identificare una malattia in fase iniziale, perché, tanto più è precoce la diagnosi, tanto più è probabile riuscire a modificare la storia naturale della malattia utilizzando un trattamento dimostratosi efficace.
Uno screening ben gestito è considerato più efficace  dei controlli clinici individuali su richiesta, in quanto organizzato sempre con un rigoroso approccio scientifico e fondato sulle migliori prassi disponibili.

Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari
Nel 2007 l’Istat ha pubblicato i risultati dell’indagine «Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari», in cui ha rilevato i dati del 2005 sullo stato di salute degli italiani, il ricorso ai principali servizi sanitari, alcuni fattori di rischio per la salute e i comportamenti di prevenzione. Nella rilevazione il campione complessi vo dell’indagine, che comprende circa 60.000 famiglie è analizzato riguardo a: 
Le condizioni di salute della popolazione; 
Il consumo di farmaci; 
La prevenzione; 
L’obesità e l’abitudine al fumo; 
La fruizione dei servizi sanitari; 
L’opinione dei cittadini. 
L’indagine, tra l’altro, evidenzia che nelle quattro settimane precedenti l’intervista sono state effettuati 31.213.000 visite mediche, con una media di 1,9 visite a persona. Negli ultimi cinque anni il numero di visite effettuate è aumentato del 16,7 per cento (pari 4.478.000 prestazioni) e ha riguardato soprattutto gli ultra settantacinquenni (+36,7 per cento). Il numero di visite generiche è cresciuto del 20,5 per cento, quello delle specialistiche del 10,5 per cento. L’incremento complessivo delle visite si verifica in più del 
 la metà dei casi per ripetizione di ricette, in 917.00 casi per malattia e 895.000 per controllo dello stato di salute. Tra le visite specialistiche sono più numerose le visite odontoiatriche (26,9 per cento), seguite da quelle ortopediche (11,4 per cento), oculistiche (10,8 per cento) e cardiologiche (9,5 per cento). L’incremento  maggiore rispetto al 1999-2000 si registra per le visite urologiche (+35,4 per cento), cardiologiche (+34,3 per cento), geriatriche (+33,0 per cento) e dietologiche (+ 32,8 per cento). 
 Il 57 per cento delle visite specialistiche è pagato interamente dalle famiglie. Se non si considerano le visite odontoiatriche si arriva a circa il 48 per cento. Marche e Umbria si distinguono per le quote più alte di visite a pagamento; le più basse percentuali si registrano invece in Sardegna e in Sicilia. È elevata la quota di persone di status sociale basso (46,8 per cento) che si fanno interamente carico della spesa.  Nelle quattro settimane precedenti la rilevazione gli esami effettuati sono stati 15.298.000, escludendo i controlli effettuati durante eventuali ricoveri ospedalieri o in day hospital. Sono 10.664.000 gli accertamenti di laboratorio (18,4 per 100 .persone) e 4.634.000 gli esami specialistici (8 per 100 persone), stabili rispetto al 2000 e eseguiti più dalle donne che dagli uomini. Il 21 per cento degli esami specialistici è a pagamento. Lazio, Puglia, Marche e Sicilia sono le regioni nelle quali più frequentemente i controlli specialistici sono interamente a carico degli utenti.
Le persone di status sociale più elevato fanno più visite e accertamenti specialistici. Le persone con livello di istruzione più basso fanno più visite generiche (41,2 per cento contro il 18,1 per cento), accertamenti di laboratorio (23,3 per cento contro il 16,9 per cento) e ricoveri (4,4 per cento contro 2,3 per cento).
Si ricorre a visite e ad accertamenti specialistici a pagamento soprattutto per la fiducia nel medico o nella struttura di riferimento (71,5 per cento e 55,0 per cento rispettivamente). Anche per il ricorso nelle strutture pubbliche la fiducia è il motivo prevalente (53 per cento per visite e accertamenti specialistici).

I diritti dell’ammalato
I diritti dell’ammalato: un tempo così poco riconosciuti da rendere necessaria la creazione di un apposito «Tribunale del malato», così come si era resa necessaria la creazione di un tribunale dei minori. Minori e ammalati due categorie che, per diversi motivi, non possono difendersi, si trovano in condizione di debolezza nei confronti della società, necessitano di regole «diverse» rispetto al cittadino adulto e sano.
Il Tribunale del malato nasce nel 1980 con il preciso scopo di tutelare i diritti dei cittadini quando devono ricorrere alle strutture sanitarie e assistenziali a causa di una qualsiasi infermità; si sviluppa negli anni successivi inserendosi in un contesto reso ancora più complesso da una profonda rivoluzione, anche culturale, del sistema sanitario: rivoluzione che è in atto da più di venti anni e che, per alcuni aspetti, non è stata ancora a fondo metabolizzata, né da operatori né da utenti.
La legge 833/1978 che istituisce il Sistema sanitario nazionale recita all’art. 1:
«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero la salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei fronti del servizio.»
Come si vede la tutela dei diritti, la dignità, la libertà della persona umana sono il principio ispiratore della legge, principio ispiratore che viene ribadito nella successiva legge 502/1992, che istituisce le aziende sanitarie locali.
È ben chiaro dunque come il diritto l’ammalato sia una delle idee centrali della riforma e che essa si debba esprimere traverso il «rispetto della dignità e della libertà della persona umana». È interessante allora cercare di capire come questo principio ispiratore si sia tradotto nella pratica comune dell’organizzazione sanitaria e come abbia inciso anche sui comportamenti del personale sanitario.

La tutela della salute
La tutela della salute è ovviamente l’obiettivo cruciale degli interventi sanitari sul cittadino. Tralasciamo l’aspetto della prevenzione etimologicamente più vicino al concetto tutela della salute, ma che trova uno spazio ridotto dallo strapotere della «medicina cura» e che quindi ripristina una salute persa. In fondo è questo che interessa di più al cittadino: quando ci si ammala, avere una sposta in grado di risolvere il problema bene e il più rapidamente possibile. Il che fortunatamente coincide con gli obiettivi che si pone un’azienda sanitaria, anche se, criticamente, dobbiamo dire che il primo obiettivo affrontato e raggiunto è stato quello del “presto” piuttosto che del “bene”.
Ora si parla diffusamente anche di efficacia e non più solo di efficienza come all’inizio della suddetta rivoluzione, e questo si traduce in una maggior garanzia per il paziente, che si vede inserito in un percorso diagnostico-terapeutico ottimale, sia per quanto riguarda la possibile soluzione del suo problema nei tempi più rapidi possibili, sia per quanto riguarda il contenimento degli errori. Già: contenimento e non eliminazione.
L’utopia dell’eliminazione dell’errore, in medicina come in tutti gli altri campi dell’agire umano, è stata abbandonata da tempo per una più realizzabile e concreta ipotesi di contenimento dell’errore, mediante linee-guida, procedure controllate, attraverso un’organizzazione del lavoro e del personale che, se gestita in modo efficace, dovrebbe essere in grado dì raggiungere tale obiettivo. Obiettivo che per la professione medica continua ad avere un valore etico più ancora che legale o assicurativo.
Quello che emerge dalle politiche sanitarie moderne dunque, e che sostanzialmente nasce da una forte spinta al contenimento dì costi sempre più rilevanti e insostenibili, si traduce ed evolve ora in una miglior gestione complessiva orientata a rispondere al diritto fondamentale di ogni cittadino di avere la miglior assistenza possibile in caso di bisogno sanitario.
Dire che sia stato facile metabolizzare tutto questo da parte della dirigenza medica sarebbe una menzogna: dopo un rifiuto iniziale e immediato verso il meccanismo di controllo che tale concezione prevede, la classe medica si sta lentamente e faticosamente riadattando a un sistema che sostituisce il clinico puro con il clinico-manager, pagando l’inesperienza e le difficoltà che emergono ogni volta che si affronta radicalmente un sistema organizzativo. A volte, facendolo pagare anche agli assistiti.

L’uguaglianza
Questo diritto fondamentale deve essere assicurato a tutti, secondo un principio di uguaglianza che oggi non è certo negato. L’esempio più evidente è l’assistenza che viene erogata sul territorio anche a cittadini stranieri non in regola, i quali, in caso di bisogni sanitari urgenti o che possono creare elementi di rischio alla popolazione autoctona, possono accedere ai servizi sanitari in modo gratuito mediante il cosiddetto codice STP (straniero temporaneamente presente). Il libero accesso alle strutture e l’assistenza assicurata anche agli indigenti sono solo alcuni degli aspetti che pongono il Servizio sanitario nazionale italiano ai primi posti delle graduatorie internazionali.





La famiglia è rappresentata da un gruppo di persone direttamente legate da rapporti di parentela, all’interno del quale gli adulti hanno la responsabilità di occuparsi dell’allevamento dei più piccoli1. I legami di parentela sono il risultato di rapporti provenienti da ‘matrimoni o da linee di discendenza tra consanguinei e non. In tal senso, la famiglia rappresenta un’ istituzione della società, un gruppo primario la cui funzione fondamentale è consentire la socializzazione, l’apprendimento, la comunicazione e lo scambio dei sentimenti. Per un bambino l’ambiente familiare occupa dunque uno spazio primario per lo sviluppo della propria personalità, non a caso in essa si ritrovano i più importanti agenti di socializzazione primaria.
Talcott Parsons, familista convinto, le ha attribuito il primato assoluto in tale processo, sottolineando come i primi rapporti sociali della vita di un individuo si instaurino proprio al suo interno e come questi momenti siano decisivi per la formazione dell’identità. Distaccandosi da Emile Durkheim, che alla famiglia contrapponeva le corporazioni come nuova istituzione di base, Parsons ne esalta la funzione nel processo di integrazione dell’individuo nella società, che comincia con l’assunzione di ruolo quale “perno connettore” tra i due sistemi, quello personale e quello sociale. Obiettivo principale del pro cesso di socializzazione è proprio di far apprendere tutto ciò che serve per l’assunzione del ruolo sociale.
A tal proposito Pierpaolo Donati precisa che la famiglia non è un gruppo primario come gli altri, ma piuttosto un luogo in cui la relazione è particolare, originale, e segue criteri di differenziazione propria. Il tipo di relazione che ne sta a fondamento corrisponde a esigenze «funzionali e sovra-funzionali non surrogabili da altre relazioni sociali.
Diversamente da altri gruppi primari la famiglia si caratterizza per un modo specifico di vivere la differenza di gender (che implica la sessualità) e le obbligazioni fra generazioni (che implicano la parentela)». In base a queste due dimensioni, essa segue criteri propri di differenziazione che la rendono diversa dagli altri gruppi primari. I fattori che originano la famiglia sono di carattere relazionale e la sua struttura e dimensione non è la risultante di motivazioni individuali o collettive, siano esse psicologiche, economiche, politiche o religiose, ma le sue radici sono da ricercare nei suoi stessi impulsi interni, che non sono per forza riconducibili a motivazioni esterne quali il sentimento, l’utilità o il potere.
Si tratta dunque di un sistema relazionale primordiale che «esiste all’inizio e dall’inizio», poiché essa è all’origine dell’evoluzione della specie umana e al contempo mediatrice dell’ingresso dell’individuo nella società. La sua composita struttura si sostanzia di mediazioni di cui gli individui non sono sempre esplicitamente consapevoli, ma che ritrovano una significatività nelle relazioni interne e nella formazione della personalità di ciascun individuo che ne entra a far parte.
In questo quadro risulta difficile descrivere e schematizzare tutti i processi relazionali che vivono al suo interno e che vi si auto-producono, tuttavia si può affermare che le relazioni familiari possono essere formalizzate e trasformare la famiglia da gruppo sociale primario a istituzione sociale «la cui importanza sta nel rendere esplicite e regolate le mediazioni funzionali e sovra-funzionali che la famiglia realizza fra il singolo individuo e le sfere extrafamiliari, fra gli elementi naturali e quelli culturali, fra le dimensioni private e quelle pubbliche della vita sociale».
Il  ruolo fondamentale che essa ha, rientra nel processo di socializzazione, fondamentale nella vita dell’individuo per la presa di coscienza del proprio ruolo nella società, ma non solo: nella prospettiva relazionale la famiglia acquisisce tra gli altri anche un ruolo determinante nella salute, nella cura delle malattie, nell’igiene, nelle abitudini alimentari, negli stili di vita e nell’educazione alla prevenzione. Questo importante ruolo multifattoriale del rapporto tra salute e famiglia, per lungo tempo è stato sottovalutato sia dalla scienza sia dalle istituzioni sanitarie, isolando il paziente dal proprio contesto storico psicologico, relazionale e sociale.
Escludere la famiglia e il ruolo da essa compiuto nel momento della comprensione del disturbo e della comunicazione con il paziente, può significa anche non comprendere la malattia, lo stato di disagio vissuto, i processi che ne stanno all’origine, se non addirittura sottovalutare le possibilità cura, riabilitazione e prevenzione provenienti dal sistema di reti relazioni interne alla famiglia.
In un momento storico in cui emerge una concezione olistica della salute (di cui peraltro si è già parlato in altri capitoli), la famiglia emerge con tutta sua importanza, quale ambito da valutare nei processi di cura e di trattamento delle malattie e patologie di varia natura. Alla base di questa concezione pone l’idea che la salute sia un fatto globale, di natura processuale e relazionale che chiama in causa tutti gli ambiti dell’esistenza umana nel loro infinito processo di intreccio sociale.
Indubbiamente i legami tra famiglia e salute sono evidenti anche nei fenomeni contemporanei, quali l’incremento dell’obesità nei bambini provenienti da famiglie disagiate sui quali torneremo oltre, o nelle forme di bulimia nervosa, che possono originarsi come reazione a un disagio inscritto negli schemi relazionali della famiglia. Tra gli elementi che predispongono i disturbi alimentari, si fa accenno anche all‘importanza dei fatti familiari, come ad esempio l’esistenza di un rapporto disturbato tra genitore figlio/a o una particolare configurazione della dinamica familiare. Ciò che emerge dalle osservazioni allargate di famiglie con un componente affetto anoressia nervosa, è che esiste una molteplicità di fattori relazionali conflittuali interni alla famiglia, che possono generare tale disturbo.
In ogni caso risulta difficile trovare dei denominatori comuni sempre uguali in situazioni diverse, ciò anche nel rifiuto dell’idea che vi sia una famiglia tipica che favorisca l’insorgenza di malattie, disturbi o patologie di vario genere, anche perché ognuna ha dinamiche proprie di trasmissione di un disturbo «Non soltanto tipi, gradi e proprietà della diffusione variano secondo i tipi e le  proprietà delle strutture familiari, anche come “reti allargate”, ma sono rilevanti anche aspetti qualitativi differenti, a parità di profili strutturali (intesi come le classiche variabili dell’età, sesso, numerosità dei componenti)». In tal senso, dunque, le relazioni familiari possono rappresentare una causa possibili disturbi del comportamento alimentare.

La famiglia quale istituzione sociale può giocare un duplice ruolo nel processo di relazione con la salute da una parte essere un “canale” per la trasmissione delle malattie, dall’altra rappresentare “un aiuto” possibile nella cura e terapia delle stesse.
L’idea di una correlazione diretta e univoca tra famiglia e salute, tra contatti familiari e malattia apre un dibattito assai vasto cha va dalla vicinanza fisica quale elemento di trasmissione di infezioni, virus o stati patologici diversi, fino alla diffusione di concezioni, abitudini e conflitti di vario genere, quali fattori determinanti l’origine di un disturbo. Indubbiamente il problema va trattato su due fronti, il primo di carattere epidemiologico, il secondo prettamente relazionale; vi è comunque la convinzione ormai accertata che esista una suscettibilità differenziale delle famiglie nel diventare motivo diretto o indiretto di malattia. La variabile famiglia di per sé non può comunque essere la sola causa di uno stato di malattia, piuttosto la correlazione con altre variabili che in qualche modo toccano la vita dell’individuo all’interno e all’esterno della struttura familiare.
I censimenti, le indagine e le ricerche in questo senso testimoniano un nesso tra i tassi di morbosità e le situazioni familiari vissute dai pazienti. Nelle famiglie conflittuali, frammentate o in cui è assente una possibilità d’aiuto, sono maggiori le probabilità di insorgenza di un disturbo. Se si combinano situazioni difficoltose o problematiche in famiglia con un’insufficienza di sostegno sanitario, si verifica anche un accrescimento della suscettibilità nei confronti di malattie fisiche, psicologiche e mentali In questo senso la famiglia contribuisce sul piano causale all’insorgenza della malattia, in modo scatenante o collaterale, «ma in taluni casi può essere essa stessa la malattia soggiacente al corso esistenziale delle persone, o comunque il fattore strutturale di amplificazione delle patologie».
Quale canale di trasmissione, il ruolo della famiglia deve comunque essere inteso come un rinforzo che si struttura sulla base del sistema delle risposte che la famiglia fornisce nell’insorgenza della malattia: può contribuire ad aggravarne lo stato di gravità, come influenzare negativamente il processo di cura. Esistono dinamiche familiari, peraltro ancora difficili da spiegare nella loro globalità, che arrivano a situazioni contraddittorie nel trattamento della malattia, manifestandosi attraverso la negazione della stessa, la vergogna dell’essere malati o la considerazione superficiale di uno stato di salute gravemente compromesso. La letteratura psicologica evidenzia come alcuni casi di malattia come ad esempio il diabete, siano negati nella famiglia e il trattamento del malato sia espresso in condizioni nascoste, private; così come nel caso di stati patologici di anoressia o bulimia nervosa ove le madri rifiutano l’ammissione di stati gravi di disturbi del comportamento alimentare, anche di fronte a evidenze tangibili di dimagrimento improvviso e immotivato.
Oltre a rappresentare un canale di trasmissione delle malattie, la fan può comunque rappresentare anche un luogo di cura e terapia, soggetto nella prevenzione e nella riabilitazione di diverse patologie. Determinante nell’educazione alimentare, nell’apprendimento degli stili di vita e di comportamento, nonché nelle abitudini e nelle pratiche d’igiene, la famiglia ha un ruolo da valorizzare nei programmi di cura e di trattamento delle patologie Ancora, preso atto che per il malato la famiglia rappresenta un aspetto da valutare come parte del contesto storico, sociale, culturale e psicologico in cui vive, appare inevitabile un suo coinvolgimento al momento nel trattamento terapeutico. Nei casi di malattie cardiovascolari, di ipertensione arteriosa, di problemi respiratori, le abitudini quotidiane della famiglia sono coinvolte nella prevenzione; nel caso di trattamenti specifici farmacologici o di rientri dall’ospedale dopo interventi chirurgici di rilievo, la famiglia diventa determinante per il rispetto dei programmi di cura; nei casi di incidenti, invalidità problemi di mobilità, le reti familiari acquisiscono un ruolo decisivo programmi di riabilitazione (se si pensa ai soli costi di terapie riabilitative alla gestione quotidiana di chi con costanza deve effettuare ginnastiche o massaggi terapeutici); infine nei casi di riuscita dalla tossicodipendenza o da disturbi del comportamento alimentare, la rete relazionale dell’istituzione familiare, diventa essenziale ai fini del reinserimento sociale.
Nella concezione olistica di salute, e sulla base di una teoria relazionale come espressa da Donati, diventa indispensabile rivalutare il ruolo della famiglia e di "tutta la rete che si muove dentro e attorno”, quale risorsa basilare per la comprensione e il trattamento delle malattie, senza limitarsi a ricercare il problema nei singoli aspetti che possono averlo originato.
Tale prospettiva ha aperto spazi di considerazione nella gestione della malattia a domicilio: una politica che spinge a creare le possibilità domestiche per le terapie nella cura dell’HIV o a dimettere quanto prima i pazienti anziani che nelle strutture sanitarie vivono un’esperienza troppo forte di sradicamento. Sia nei casi di malattie gravi, sia nella cura degli anziani o di bambini ammalati di una delle “malattie dell’infanzia”, la tendenza odierna è di agevolare la terapia nella famiglia, che può diventare attore principale nel trattamento e nella cura. La rete di relazioni presente in essa, agevola così le condizioni per una guarigione più rapida e meno faticosa della malattia, nonché un decorso meno sgradevole. Nel caso dei bambini, la famiglia e soprattutto la madre, rappresentano un universo senza dubbio più umano rispetto all’ospedale. In casi di malattie che si protraggono nel tempo poi, la “domesticità” della cura permette anche la possibilità di mantenere il contatto con la scuola e con la dimensione dell’apprendimento, fattore determinante per la crescita psicosociale.
Seguendo tale prospettiva diventa inevitabile pensare alla famiglia come a un soggetto basilare di prevenzione, di cura e di riabilitazione, proprio per la  sua duplice caratteristica di possibile fonte e possibile cura della malattia.

Lavoro e salute: la precarietà nell’età post-moderna

Nell’affrontare la tematica dedicata alla relazione tra salute e lavoro nella società post-moderna, ci si trova di fronte a una lunga lista di aspetti di rilevanza sociologica. L’argomento è senza dubbio ampio e il dibattito contemporaneo vivace: si va dall’importanza della tutela della salute, alla sicurezza e all’igiene sul posto di lavoro, dalla discussione sulla normativa esistente alle forme assicurative del lavoratore, dal mobbing alle nuove “malattie da ufficio”. Ciascuno di questi apre un’ampia discussione sociologica.
Qui ci si occuperà di alcuni di questi aspetti che, partendo dall’analisi del contesto economico - produttivo della società contemporanea e passando attraverso la descrizione delle nuove modalità lavorative atipiche, si sono ritenuti importanti per capire quali siano i rischi di salute dei nuovi lavoratori.
La società contemporanea vive un momento di transitorietà caratterizzato da una spiccata evoluzione tecnologica, da mutamenti economici, sociali e culturali di entità globale. Non a caso la letteratura sociologica contemporanea pullula di definizioni di una società post-moderna in crisi, una società dell’incertezza e del rischio. In effetti le nuove tecnologie, la globalizzazione dei mercati e la nascita di società multiculturali, stanno cambiando radicalmente il volto della società contemporanea trasformandola da moderna e razionalizzata in liquida e instabile.
Se guardiamo soltanto ai processi in atto all’interno del mercati del lavoro europei, appare evidente come si stia manifestando, seppur in maniera differente a seconda del contesto nazionale, una sorta di erosione del contratto lavoro classico, stabile, di tipo fordista che ha caratterizzato per tutta la modernità l’occupazione nelle grandi imprese pubbliche e private, in favore una moltiplicazione di contratti di lavoro “marginali”.
Contemporaneamente si sta assistendo a un indebolimento dell’opposizione tra mercati del lavoro interni e mercati del lavoro esterni, nonché ad una complessificazione dei percorsi professionali che trattengono diversamente i giovani nei loro percorsi di studio: Si sta verificando una redistribuzione dei rischi economici e sociali tra imprese e lavoratori, che sta comportando la nascita di nuove forme di precarizzazione sociale. Questa sembra essere causa oltre che dall’emergere di nuovi mercati transizionali, anche e soprattutto c la moltiplicazione delle forme giuridiche dei contratti di lavoro. Le trasformazioni avvenute negli ultimi anni all’interno dell’organizzazione delle modalità lavorative hanno profondamente modificato il quadro dei rischi relativi salute e alla sicurezza dei lavoratori. Si sono attenuate alcune patologie ma sono giunte di nuove, tra cui tutta una serie di gravi malattie di cui è difficile individuare con certezza l’origine e di cui è impossibile trovare immediatamente una relazione causale diretta con l’attività professionale.
Al fine di comprendere quali siano i nuovi rischi per la salute e la sicurezza di chi oggi è attivo nel mercato del lavoro occorre valutare una molteplicità fattori piuttosto differenziati. È necessario analizzare le trasformazioni organizzative avviatesi con le tecnologie e valutare le conseguenze che hanno le modalità, sulla percezione e sulla qualità del lavoro; solo in un secondo momento si comprenderà il legame esistente «tra i cambiamenti avvenuti rapporti contrattuali e le ripercussioni causate nell’ambito della salute e sicurezza». Infine si focalizzerà l’attenzione sulle nuove figure professionali soggette ai rischi sociali e di salute
Come già era stato indicato dal CENSIS nel 2000, nel sistema economico contemporaneo dell’Italia, innovazione, competitività e tecnologia divengono parole d’ordine sia per le imprese sia per i lavoratori. Per le prime esse si traducono in investimenti economici, in formazione professionale e in capacità di rischio, mentre per il lavoratore diventano richieste di competenza, capacità organizzative e autonomia, in una parola sola flessibilità. Ciò che il CENSIS aveva intravisto nel 2000 era solo un anticipo di ciò che a distanza di sei anni è diventato ancor più reale.
Il mercato del lavoro italiano si va caratterizzando sempre più per un’occupazione flessibile, che reclama al lavoratore una marcata autonomia, una viva intraprendenza e una spiccata capacità organizzativa e di adattamento. Si sta compiendo infatti l’ultimo passaggio da un modello industriale di economia a un modello post-industriale, in cui a un accento sul volume della produzione, si sostituisce il valore della produzione e quindi una concezione della crescita non più quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Si sta passando definitivamente da un’economia di scala a un’economia flessibile.
Il  modello fordista che per buona parte del XX secolo è stato a fondamento del processo produttivo, lascia il posto a forme alternative, diverse di organizzazione del lavoro, che segnano il passaggio storico verso un sistema nuovo, post-fordista che, pur mantenendo inalterate alcune caratteristiche della produzione, di fatto rivoluziona l’organizzazione del lavoro.
In questo momento di transizione, le imprese di ogni dimensione si trovano infatti impegnate nell’applicazione delle nuove tecnologie e implicate nelle possibilità e nelle problematiche connesse alla globalizzazione dei mercati. Sono alle prese con nuove esigenze del mercato, che impongono la rivisitazione dei sistemi produttivi, coinvolgendo le strategie, le attività e le modalità di produzione, i tempi e i metodi di organizzazione del lavoro. Ecco perché il sistema taylorista - fordista standardizzato e stabile, tipico delle società moderne e non più adeguato al mercato contemporaneo, viene soppiantato da nuove modalità organizzative caratterizzate dalla ricerca della flessibilità. Essa rappresenta da un lato il perno del nuovo sistema e la soluzione migliore per rispondere alle richieste del nuovo mercato, dall’altro la causa di sconvolgimenti nella compagine lavorativa.
Se per lungo tempo e per tutta la modernità, il lavoro ha rappresentato delle più importanti certezze della vita privata e sociale del singolo, l’elemento regolatore del proprio progetto di vita, fortemente collegato con il valore del riconoscimento di sé e del proprio ruolo sociale, oggi esso acquisisce forme nuove e sempre più difficili da definire sociologicamente. D’altronde non si vede come esso possa mantenere le caratteristiche del passato, quando l’applicazione delle nuove normative sul lavoro impone una rivisitazione delle forme contrattuali e delle condizioni lavorative che puntano alla massima flessibilità.
In questo scenario di mutamento resta costante e stabile la funzione di riconoscimento della condizione di cittadino, nonché la costruzione dell’identità sociale che passano pur sempre attraverso la conduzione di un’attività lavorativa. In un sistema discontinuo e flessibile come quello odierno diventa quasi contraddittorio riuscire a costruire la propria identità sociale grazie al lavoro, con una serie di problemi che ne conseguono sul piano fisico, psicologico e sociale, correlati con la salute.  
Le opportunità offerte dal lavoro flessibile acquisiscono un’accezione negativa nel momento in cui hanno ricadute sulla personalità del lavoratore vita quotidiana. Il lavoro atipico in cui l’autonomia e la libertà dei lavo rappresentano la prima regola, i lavoratori devono essere più competenti, con un’elevata qualificazione, e al contempo più esposti al rischio di precarietà professionale e di vulnerabilità sociale, con forti ripercussioni sullo stato di salute.
Il processo di de-standardizzazione del lavoro insieme al progressivo sviluppo dei sistemi informativi, dà vita all’individualizzazione dei rapporti di lavoro col conseguente venir meno dei legami sociali e del senso di appartenenza, fondamentali per lo sviluppo dell’identità collettiva e dell’integrazione professionale prima e sociale poi.
Il rischio più grande che ne consegue diventa un disorientamento personale e sociale che porta a un continuo stato  di incertezza col conseguente accumulo di stress e di malessere vissuto.
Le profonde trasformazioni del mercato del lavoro, l’innalzamento dei livelli di studio e la diversificazione dei percorsi formativi, fanno sì che il processo di transizione al lavoro sia sempre meno un percorso lineare e prevedibile, contrassegnato da una sequenza ordinata e coerente di esperienze formative ed episodi lavorativi. Quello di oggi è un mercato del lavoro più aperto e dinamico, ma anche, meno trasparente e più precario, che richiede all’individuo, spirito di iniziativa, una buona dose di spregiudicatezza, di calcolo, progettualità e capacità di cogliere e interpretare le tendenze del mercato. Caratterizzato da una forte richiesta di flessibilità nei confronti del lavoratore, le possibilità correlate al lavoro, lo mettono in condizioni di situazioni sempre nuove in cui deve prendere abilmente decisioni operative con un carico di responsabilità notevole che caratterizza l’operatività del lavoro flessibile. Tra i lavoratori emerge la sofferenza di chi ha paura di non soddisfare, di non riuscire nel compito, di non essere all’altezza, di non rispettare tempi, ritmi, modalità e livelli di conoscenza e d’informazione; c’è inoltre il timore di non avere esperienza sufficiente e rapidità nell’acquisizione di nuove pratiche, né di possedere capacità di adattamento alla cultura dell’impresa. Sono queste le paure che si sommano a uno stile di vita stressante e stressato sono stati di sofferenza che impediscono al lavoratore post-moderno di godere di una salute equilibrata, portandolo a un rischio più elevato di malattie.
Nella società contemporanea il lavoro precario, massima espressione dell’incertezza e del rischio che la caratterizza, è affiancato anche da stati di salute precaria, vissuto da coloro che operano in condizioni lavorative più stressanti e a costante rischio malattia
Si e avuta in passato la tendenza a pensare che la sofferenza nel lavoro fosse se stata attenuata dalla meccanizzazione e dalla tecnologia, che avrebbero evitato il contatto diretto con la materia tipica delle mansioni industriali, e avrebbero convertito la manovalanza in operatori dalle mani pulite, trasformando gli operai in impiegati”.
Come appare evidente, la realtà dei fatti è altra storia. Anzitutto occorre rilevare che, oltre alle nuove categorie di lavoratori precari oggi, nonostante le tecnologie ci siano venute in aiuto e sebbene in molte aziende gran parte del processo produttivo sia meccanizzato, permane ancora un esercito di lavoratori che compie lavori in situazioni di estremo pericolo per il loro stato di salute, in condizioni ancora rischiose e non troppo diverse da quelle del passato. È il caso di operai manutentori del nucleare, delle imprese di pulizia, degli allevamenti di polli e dei macelli industriali, delle aziende di trasloco e di confezioni tessili. Con fattori di nocività piuttosto eterogenei, queste nuove categorie di lavoratori esposti a diversi rischi di salute vivono in situazioni di pericolo esattamente come prima dell’avvento della tecnologia, e vanno tenuti in considerazione nelle riflessioni sul sistema di salute pubblica e di cura e tutela della salute del lavoratore.
In secondo luogo se da un lato dobbiamo ringraziare le tecnologie per esserci di sostegno nella catena di montaggio e nell’esclusione dell’uomo da alcuni comparti lavorativi estremamente rischiosi, dall’altra non dobbiamo dimenticare coloro che ancora vivono situazioni lavorative così pericolose, né sottovalutare i problemi di salute e sicurezza connessi alle nuove tipologie di lavoro. Queste categorie di lavoratori fanno parte della compagine lavorativa e rischia la propria salute sul posto di lavoro. In questo scenario occorre chiedersi se sia utile ripensare e riformulare il concetto di sicurezza e tutela della salute sul posto di lavoro.
A conferma della preoccupante situazione stanno i dati che emergono dalle prime ricerche sul tema dei rischi di salute nel lavoro precario. Nella realtà lavorativa italiana va detto anzitutto che i precari sono soprattutto “adulti/giovani” che si attestano sulla trentina d’anni, di cui una quota significativa vive con i genitori e la stragrande maggioranza non ha figli. Una buona parte sono donne che se arrivate alla soglia dei quaranta anni, soltanto per un hanno un figlio. Ben il 76% lavora per un unico datore di lavoro con trattamenti economici alquanto contenuti e con un rapporto di “dipendenza” piuttosto particolare.
Più della metà dei precari «svolge un orario superiore a q standard, ossia più di trentotto ore a settimana, soprattutto nel privato. Nonostante gli orari lavorativi lunghi, ben il 46% [...] ha una retribuzione inferiore a mille euro al mese. Tra questi, poco meno di un quarto guadagna meno di ottocento euro. Si tratta soprattutto di lavoratori del privato e del privato sociale. I “Tecnici” e gli “Intellettuali”, che svolgono orari lavorativi ben sopra dell’orario standard, hanno redditi mediamente più elevati, ma comunque di gran lunga inferiori a quelli dei loro colleghi dipendenti e mai superiori a millecinquecento euro mensili». In generale poi la durata dei contratti è piuttosto breve: il 28,3% ha un contratto della durata massima di sei mesi e il 56,5% di un anno, mentre soltanto una minoranza esigua può contare su contratti di durata superiore.
Questo testimonia una condizione piuttosto complessa che provoca nei lavoratori un senso di insofferenza, di malcontento malessere generale. Questi stati psico-fisici, gli psicologici del lavoro li prendono nella frustrazione, rilevando come essa possa avere ricadute ne ve sulla qualità del risultato e del compito svolto, nonché sulla salute generale del lavoratore che accusa stati costanti di affaticamento se non addirittura malattie obiettivamente diagnosticate.
Tra i fattori che influiscono maggiormente sullo stato d’animo di chi la in queste condizioni, emergono soprattutto gli aspetti legati ai trattamenti contrattuali e alla mancanza di diritti previdenziali e di tutela. «In generale, sono abbastanza soddisfatti dei rapporti personali che hanno con i loro e colleghi e con i loro superiori; [...] I motivi di maggiore malcontento sono in legati alla retribuzione, alla possibilità di crescita professionale, al coinvolgimento nelle decisioni aziendali e alla garanzia delle tutele sociali» nonché  ai ritmi di vita e alle condizioni di elevato stress in cui svolgono la propri attività.
Altre evidenze dello stato di malessere sono rintracciabili sia nel allungamento dei tempi necessari per raggiungere una prima posizione occupazionale, sia nella crescente distanza tra il tipo di carriera scolastica e lo sbocco occupazionale. Nel percorso di avvicinamento a una condizione professionale più stabile, si susseguono e si alternano sempre più spesso periodi di studio, esperienze lavorative a carattere formativo e prestazioni professionali remunerate, temporanee e occasionali.
I lavoratori flessibili devono destreggiarsi in uno scenario di doppia incertezza che riguarda sia le propensioni e capacità personali, sia la forte preoccupazione di perdere il lavoro, che spesso li spinge ad accettare lavori non strettamente collegati con i loro percorsi di studio.
I recentissimi dati pubblicati dall‘Ires presentano i lavoratori atipici come i più preoccupati in assoluto. Sono circa il 61,9% coloro che dichiarano un elevato stato di preoccupazione rispetto alla possibilità di restare senza lavoro, contro il 15,2% dei lavoratori con contratto standard. Per questo trascorrono spesso periodi di iperlavoro che non sono seguiti da periodi di riposo e la loro libertà nella gestione del tempo è sovente limitata. Anche se contrattualmente non devono recarsi sul posto di lavoro tutti i giorni alla stessa ora, nella realtà dei fatti i lavoratori flessibili sono caldamente invitati a farlo comunque. Sono liberi di decidere se prendersi una giornata ma poi, nei periodi di maggior attività, restano al lavoro per giorni e settimane senza dedicare tempo ad altro. Se da un lato, quindi esiste la libertà formale di decidere e stabilire autonomamente modalità e ritmi di lavoro, dall’altro i committenti impongono loro un’organizzazione operativa i cui margini di discrezionalità si rivelano piuttosto ridotti.
A conferma di questo si aggiungono altri dati interessanti. Nell’ultimo rapporto CENSIS, accanto alla crescita dell’economia italiana emerge che il 33,8% degli italiani lavora abitualmente in orari faticosi: di sera, di notte, nei week-end, e a casa oltre l’orario abituale. A questa percentuale si aggiunge un 19,8% cui capita, invece, saltuariamente di dover lavorare in orari pesanti (durante i pasti o nelle pause di lavoro), per un totale di circa otto milioni centotrentottomila lavoratori, (vale a dire cinquantatre su cento). L’orario atipico più diffuso è il lavoro di sabato, che interessa ben il 29,5% dei lavoratori italiani, seguito dall’ attività serale (11% degli occupati), domenicale (6,5 %) da quella notturna, che coinvolge complessivamente ben il 5,6% del campione. Questo ritmo di vita, come si è visto, viene tenuto per periodi di tempo estremamente allungati e in condizioni ai limiti della resistenza fisica, psichica e sociale. Lo svincolo da un preciso orario di lavoro spesso si trasforma frequentemente in uno squilibrio che influenza negativamente la sfera privata cancellando di fatto i confini tra tempo di lavoro e tempo di riposo e di svago. Se questo è vero, se il lavoro pervade il tempo privato dei lavoratori, invadendo il loro spazio di vita personale e determinando prestazioni lavorative intense con giornate di lavoro prolungate ben oltre l’orario consueto, pare evidente che ci si trova di fronte a soggetti post-moderni particolarmente a rischio.
Gli spazi occupati dalle attività retribuite si impadroniscono anche dello spazio di vita privata, impedendo una relazionalità e una socialità di cui l’essere umano ha necessità. Nella scala dei bisogni umani, come insegnano le teorie di Abraham Maslow e quelle di Ronald Inglehart, esiste “un bisogno di relazionalità sociale rinvenibile in quell’area” [ ] di “bisogni sociali di autorealizzazione, appartenenza e stima”. Senso di comunità, rapporti di fratellanza, relazioni face-to-face, produzione intersoggettiva di senso all’interno del mondo della vita quotidiana», insieme a interazioni sociali soddisfacenti e all’autorealizzazione, sono fondamentali per l’equilibrio fisico e sociale dell’essere umano.
Oggi, lo stress da iperlavoro, con la conseguente inadeguatezza nelle capacità del singolo di regolare ritmi di vita lavorativa con spazi di vita rappresenta uno dei principali fattori a rischio malattia, rimanendo un componenti principali dello stato di malessere, e indubbiamente non la sola: moltéplici sono le conseguenze sullo stato di salute provenienti da uno stile di vita incerto e precario.
Anche se i dati che emergono dalle ricerche condotte in questo ambito nei diversi paesi europei, non rappresentano una realtà omogenea e non permettono generalizzazioni teoriche, di fatto sembra esistere una relazione forte tra le trasformazioni delle relazioni salariali e i rischi correlati alla salute e alla sicurezza sul lavoro.
Nello specifico, in una ricerca del 2002 condotta dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, emerge come la velocità dei cambiamenti e la complessità delle modalità e delle condizioni lavorative infonda, in chi è attivo, un senso di perdita di controllo sulla propria vita e sul proprio lavoro. A ciò si aggiunge la pressione causata dall’accelerazione dei tempi di lavoro che comporta inevitabilmente un aumento dello stress e della fatica nervosa.
I dati europei sulle forze di lavoro rilevano che le malattie emergenti caratteristiche della post-modernità quali stress, depressione, ansia, (ma anche violenza sui luoghi di lavoro, molestie e intimidazione) rappresentano ben il 18% dei problemi di salute sul lavoro e che un quarto di questa percentuale è costretta a un’interruzione delle attività pari o superiore alle due settimane. Queste patologie appaiono non tanto legate all’esposizione a un rischio specifico sul luogo di lavoro, quanto a un insieme di fattori differenziati che vanno a insidiare ciò che solitamente viene definito “benessere sul luogo di lavoro”.
Le numerose e continue responsabilità legate al ruolo, i conflitti coi colleghi, le ansie sul futuro del proprio contratto, il carico indefinito di compiti, l’ambiente non sempre adeguato e i ritmi pressanti, sono altre possibili fonti di stress che possono avere conseguenze sullo stato di salute e causare anche comportamenti di carattere “difensivo”: dall’ assenteismo, all’ incapacità di fronteggiare le situazioni nuove nei compiti assegnati, dalla difficoltà di socializzazione alla somatizzazione corporea dell’incertezza.
Tutto questo carico da lavoro ha notevoli costi anche per la società: le forme di assenteismo e di richiesta d’indennizzo per malattia professionale, ove previste da contratto, sono in considerevole aumento. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato un allarme, stimando che sia addirittura il 30% della popolazione mondiale attiva a essere affetta da disturbi mentali di tipo non psicotico (magari non riconosciute nel DSM-IV), presentando una situazione alquanto preoccupante.
Le prestazioni saltuarie, fissate soprattutto dalle specifiche tipologie contrattuali, hanno incrementato la gravità delle situazioni di stress, (derivanti soprattutto dall’insicurezza per il futuro), che arrivano fino all’ansia e a forme di depressione di diversa gravità. Tutto questo ha ripercussioni anche sullo si di salute e sulle speranze di vita: è stato già calcolato come i disoccupati di lunga durata rappresentino la categoria sociale che ha speranze di vita minori e che le loro storie personali sono caratterizzate da forti depressioni, ansie e tentativi di suicidio.
I disoccupati non sono comunque gli unici soggetti da valutare sotto questo profilo. Gli studi condotti sul rischio di salute nei luoghi di lavoro, hanno subito evidenziato come l’esecuzione di compiti che hanno una quotidianità monotona, che sono ripetitivi o faticosi, che avvengono in condizioni insalubri o di isolamento, aumentano le probabilità di incidenti dovuti soprattutto a disattenzione, mancato controllo, indolenza o leggerezza nello svolgimento delle attività.
Per quanto concerne invece i rischi che accompagnano i cambiamenti venuti nelle relazioni contrattuali, si può affermare che esistano forti differenze tra lavoratori permanenti che hanno un contratto a tempo indeterminato lavoratori flessibili che hanno contratti a termine, rispetto ai temi di sicure; e tutela della salute sui luoghi di lavoro. A uno sguardo veloce sembra che i rischi siano gli stessi per entrambe le categorie, ma in realtà come si è accennato esiste una specificità caratteristica del lavoratore flessibile. Emerge dunque come questa categoria di lavoratori sia molto meno informata rispetto agli eventuali rischi del proprio lavoro, e che i corsi di formazione, eventualmente previsti e svolti all’interno dell’organizzazione aziendale, non siano all’altezza dell’informazione necessaria.
Se si osservano poi le condizioni di lavoro a cui questi ultimi sono sottoposti la situazione appare ancora più grave. Inoltre per quanto i lavoratori a tempo indeterminato si confrontino con richieste ed esigenze di lavoro sempre più impegnative, i lavoratori precari vivono condizioni in cui esiste un minor controllo sui processi lavorativi e organizzativi perché inquadrati in attività i cui processi non sono standardizzati, vivendo stati compositi di malessere che si sommano alla prospettiva di dover cambiare frequentemente lavoro e all’eventualità di over restare inattivi per lunghi periodi. Nello svolgimento di mansioni temporanee dì breve durata, e di progetti che hanno un termine temporale inoltre, il lavoratore la “percezione gruppale del rischio”, ovvero l’occasione di percepire gli accordi e le soluzioni implicitamente o esplicitamente adottate dal gruppo, nel caso si trovassero a fronteggiare situazioni di pericolo e/o di emergenza.
Se a tutto ciò si aggiunge l’indice di infortuni riscontrato nei lavoratori precari, emerge un dato estremamente interessante rispetto agli interinali. «Pur essendo difficilmente verificabile sulla base dei dati quantitativi a disposizione, la casistica dimostra uno spostamento dei rischi a sfavore dei lavoratori temporanei e dei subappaltatori, i quali risultano nel complesso meno protetti e/o meno consapevoli dei rischi medesimi».
È stato rilevato infine che nonostante possa esistere una differenza di età, di occupazione e di settore, tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori atipici, un nesso tra le condizioni ergonomiche critiche e i contratti atipici sembra sempre più considerevole.
Di fronte a uno scenario di questo tipo i medici chiedono aiuto nella definizione di nuove tipologie di malessere provenienti dal lavoro e correlate all’impiego e alle condizioni in cui si svolge. I medici e gli istituti di medicina del lavoro cominciano a lanciare l’allarme, evidenziando come a parte una diffusa e ormai nota svogliatezza nel riprendere i ritmi di lavoro dopo un periodo di riposo e di vacanza, si debba fronteggiare il rischio di una serie di disturbi legati allo svolgimento della propria attività, ancora non sempre riconosciuti come tali. Si va dalle ormai accertate conseguenze provenienti stile di vita lavorativa sedentario, (come obesità, aumento di colesterolo alle vere e proprie “malattie da ufficio”, fino a l’emergenza di nuove forme di disagio legate al terziario. Senza dedicare spazio alle problematiche provenienti da una vita sedentaria che qui richiederebbero una riflessione ben ampia sugli stili di vita, vale la pena dedicare qualche riga alle “malattie ufficio”. Tra queste la più conosciuta è la sick building syndrome (“sindrome da edificio malato”) che ha cause multifattoriali e non è considerata una vera e propria malattia: si tratta piuttosto di una serie di disturbi che affliggo passa molte ore all’interno di un edificio chiuso. Questi sintomi colpi soprattutto l’apparato respiratorio, ma non solo: fastidi agli occhi, spesso arrossati e irritati, sensazioni di occlusione e secchezza di naso e gola, disturbi causati da tosse e senso di oppressione toracica; pelle disidratata nonché sintomi legati al sistema nervoso con senso di apatia e svogliatezza. Sulla base delle osservazioni mediche, sembra che questi sintomi scompaiano una che le persone si siano allontanate dall’edificio in cui lavorano.
Se si osserva poi la struttura del luogo di lavoro e il suo mantenimento, vengono riscontrati altri problemi di salute legati agli impianti di ventilazione artificiale o di condizionamento dell’aria, come pure correlati alla man di luce solare e alla respirazione costante e quotidiana di aria “viziata”.
Effettivamente i medici dichiarano che alcuni agenti patogeni (come batteri e parassiti) possono essere trasmessi grazie all’aria condizionata dell’ufficio causando asma bronchiale, alveoliti allergiche estrinseche e polmoniti del legionario.

In Italia, in base alla rilevazione Istat anni 2002-2 005, le persone con oltre 65 anni di età sono 11.379.341 su un totale di 56.993.742 abitanti (circa il 20 per cento della popolazione). Nella programmazione dei servizi occorre dunque considerare specificamente i bisogni assistenziali che può esprimere quest’ampia fascia di popolazione.
I servizi sanitari e sociosanitari in favore delle persone anziane sono finalizzati a rafforzare l’autonomia individuale, a prevenire la non autosufficienza, a mantenere quanto più possibile la persona nel proprio contesto familiare, nella propria casa, assicurando — al momento del bisogno — assistenza qualificata in ospedale, in strutture residenziali, a domicilio. I servizi sono organizzati in rete per poter garantire continuità delle cure e della relazione.
I servizi di assistenza agli anziani sono presenti in ogni ASL (in genere situati nei distretti sanitari) e hanno una funzione di coordinamento per l’assistenza sanitaria e sociale agli anziani e alle loro famiglie.
Di grande importanza è l’apporto delle associazioni di volontariato e dei familiari che affiancano il lavoro dei servizi pubblici.
Le principali azioni previste dalla programmazione sanitaria nazionale riguardano essenzialmente:
La promozione dell’invecchiamento attivo, con interventi miranti all’adozione di stili di vita favorevoli alla salute;
L’assistenza territoriale integrata, finalizzata a prevenire, contrastare e accompagnare le condizioni di disabilità e fragilità della popolazione anziana, valorizzando in particolare il medico di famiglia;
L’assistenza domiciliare;
La residenzialità e semiresidenzialità, volta a creare un sistema di offerta sempre più differenziata e di qualità, attraverso la rete delle residenze sanitarie, delle residenze sociali e dei servizi di accoglienza;
L’assistenza ospedaliera, nei termini di accoglienza e di dimissioni protette;
La sicurezza, per azioni di prevenzione sociale degli anziani soli o a rischio.
Negli ultimi decenni è sempre più pressante la richiesta di assistenza da parte delle persone anziane non autosufficienti che, nella quasi totalità dei casi, sono  assistite dalla famiglia, con costi economici, psicologici e sociali elevatissimi. 
Una situazione tale da poter affermare che la condizione delle persone in stato di totale non autosufficienza rappresenta una vera e propria emergenza sociale.  
 Affrontare e saper dare una risposta a tale condizione può essere considerata una delle sfide sociali di maggiore significato del nostro tempo. In tale contesto, i servizi per anziani non autosufficienti devono assicurare, dunque, risposte sanitarie, assistenziali, tutelari e di socializzazione rispetto al grado e intensità del bisogno. La condizione di non autosufficienza, tuttavia, non riguarda  unicamente la popolazione anziana, ma una fascia ben più ampia della popolazione, comprendente i disabili fisici, psichici e sensoriali, ovviamente in relazione alla specifica condizione e gravità della patologia.
Si riporta, di seguito, una definizione di «non auto- sufficienza», che costituisce la premessa per specifiche prestazioni sanitarie e sociali. È importante ricordare che un nodo cruciale dell’assistenza alle persone non autosufficienti è rappresentato dalla separazione degli assetti istituzionali tra i diversi servizi:
Aspetti sociosanitari: il Servizio sanitario nazionale  si occupa delle problematiche assistenziali con forte valenza sanitaria, con finanziamento statale e regionale, responsabilità organizzativa attribuita alle regioni e gestione affidata alle ASL;
Dei servizi e degli interventi sociali: la responsabilità è attribuita agli enti locali, finanziati da stato, regioni e  comuni.
Inoltre, come previsto dal decreto del presidente d consiglio dei ministri 308/2001, le strutture destina agli anziani erogano prestazioni socio-assistenziali o sociosanitarie, finalizzate al mantenimento e al recupero delle residue capacità di autonomia della persona e sostegno della famiglia. In particolare:
Le prestazioni socio-assistenziali sono attività relative alla sfera sociale con lo scopo di aiutare la persona i stato di bisogno, con problematiche di disabilità o di emarginazione; sono di competenza dei comuni, richiedono la partecipazione alla spesa da parte dei cittadini che ne beneficiano e si esplicano attraverso interventi di ospitalità alberghiera presso strutture residenziali rivolte a pazienti anziani con limitazioni anche parziali dell’autonomia, non assistibili al proprio domicilio (decreto del presidente del consiglio dei ministri 14 febbraio 2001);
Le prestazioni sociosanitarie sono invece tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono sia prestazioni sanitarie sia sociali per garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra gli interventi di cura e quelli di riabilitazione (decreto legislativo 229/1999 e successive modificazioni); tali prestazioni comprendono:
— prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite;
— prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute. In questa sede si affrontano i temi legati all’assistenza sociosanitaria e, in particolare, i servizi  e le prestazioni offerte agli anziani non autosufficienti.




Focus: Non autosufficienza
Numerose sono le definizioni di «paziente non autosufficiente». In generale, il sovrapporsi di una patologia con la condizione socioambientale, cognitiva e psicoaffettiva della persona determina la comparsa e il livello della non autosufficienza. L’OCSE ha precisato nel 2005 che i soggetti non autosufficienti sono “gli individui con disabilità mentali o fisiche di lungo periodo, che sono diventati dipendenti dall’assistenza nelle attività fondamentali della vita quotidiana, la gran parte delle quali appartengono ai gruppi più anziani della popolazione” e che «hanno bisogno di servizi e interventi di long-term care». Anche il dibattito su cosa debba essere inteso per long-term care (LTC) o “assistenza continuativa” è tuttora aperto. Recentemente, l’COSE ha precisato che «seppure la maggior parte dei non autosufficienti siano anziani, il concetto di assistenza continuativa include anche servizi rivolti a una popolazione più giovane con disabilità fisiche e mentali e necessità terapeutiche specifiche di giovani e giovani adulti».
Per «assistenza alle persone non autosufficienti” o Jong-term care si possono intendere anche «tutte le forme di cura alla persona odi assistenza sanitaria, e gli interventi di cura domestica associati, che abbiano natura continuativa. Tali interventi sono forniti a domicilio, in centri diurni o in strutture residenziali a individui non autosufficienti».

Focus: L’indennità di accompagnamento
L’indennità di accompagnamento, prevista dalla legge 11 febbraio 1~80 n. 18, è la provvidenza eoonomica riconosciuta dallo Stato, in attuazione dei principi sanciti dall’art. 38 della Costituzione, a favore dei cittadìni la cui situazione di invalidità, per minorazioni o menomazioni fisiche o psichiche, sia tale da rendere necessaria un’assistenza continua; in particolare, perché non sono in grado di deambulare senza l’assistenza continua di una persona, oppure perché non sono in grado di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita.
L’indennità di accompagnamento ha la natura giuridica di contributo forfetario per il rimborso delle spese conseguenti al tatto oggettivo della situazione di invalidità e non è pertanto assimilabile ad alcuna forma di reddito; conseguentemente è esente da imposte. Essa è a totale carico dello Stato ed è dovuta per il solo titolo della minorazione, indipendentemente dal reddito del beneficiario o del suo nucleo familiare.
L’importo corrisposto (pari nel 2007 a 457,66 euro per 12 mensilità) è annualmente aggiornato con apposito decreto del ministero dell’interno. Il diritto alla corresponsione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello in cui è stata presentata la domanda. Secondo quanto previsto dal decreto del presidente della repubblica 698/1994 sui procedimenti in materia di riconoscimento delle minorazioni civili e relativa concessione dei benefici economici, la domanda per l’accertamento dell’invalidità e per la concessione dei relativi benefici tra cui l’indennità di accompagnamento) va presentata alla competente commissione medica per gli invalidi civili dell’ASL di residenza allegando la certificazione medica comprovante la minorazione o menomazione con diagnosi precisa e con l’espressa attestazione, ai fini dell’ottenimento dell’indennità di accompagnamento, il richiedente è «persona impossibilitata a deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore», oppure che è «persona che necessita di assistenza continua essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita”. Non può ricevere l’indennità di accompagnamento chi è ricoverato in un istituto con pagamento della retta a carico dei servizi pubblici da più di un mese. Il modello della domanda è disponibile presso gli uffici relazioni con il pubblico dell’ASL, i patronati, i sindacati e le associazioni di categoria.
La domanda va sottoscritta dal richiedente, cioè l’invalido, oppure dal suo legale rappresentante (uno dei genitori, se si tratta di minore; il tutore o il curatore, se si tratta di persona interdetta o inabilitata) pure ancora da altra persona che rappresenti il richiedente in forza di specifica cura, generale o speciale, ad agire in suo nome e per suo conto. Se il richiedente non è in grado di firmare, non è né interdetto o inabilitato né ha nominato un proprio rappresentante la domanda può venire sottoscritta, in presenza del richiedente, da due testimoni, possibilmente non familiari, davanti a un pubblico ufficiale (per esempio, un notaio o il segretario comunale) che autentica le sottoscrizioni. Entro tre mesi dalla presentazione della domanda la commissione medica deve fissare la data della visita medica; se tale temine tra- scorre inutilmente il richiedente può presentare una diffida a provvedere all’assessorato alla sanità della regione di residenza. Questi è tenuto a fissare la visita entro nove mesi dalla data di presentazione delta domanda, ed entro questo termine deve comunque concludersi l’intero procedimento di accertamento sanitario.
In sede di accertamento sanitario l’interessato può farsi assistere, a sue spese, dal proprio medico di fiducia. L’esito dell’accertamento deve essere comunicato all’interessato mediante il verbale di visita. Se viene riconosciuta un’invalidità che dà diritto all’indennità di accompagnamento, la commissione medica trasmette direttamente il verbale di visita alta regione (o ad altro ente da questa delegato) per istruire la procedura dì pagamento dell’indennità. L’eventuale ricorso contro il verbale di visita dall’esito negativo va presentato entro due mesi dalla notifica alla commissione medica superiore presso il ministero del Tesoro, che decide entro sei mesi, intendendosi in caso di silenzio respinto il ricorso. Vi è ulteriore possibilità di tutela giurisdizionale davanti al giudice ordinario.
Una volta accertato dalla commissione medica il grado d’invalidità, la procedura di verifica degli ulteriori presupposti che danno diritto al pagamento dell’indennità di accompagnamento deve concludersi da parte della regione o dell’ente da questa delegato entro sei mesi dal ricevimento del verbale di visita da parte della commissione medica. Il decreto relativo alla concessione della provvidenza economica può venire anch’esso impugnato con ricorso, sempre entro due mesi dalla notifica, al comitato provinciale dell’INPS, che deve decidere entro quattro mesi, intendendosi altrimenti rigettato il ricorso e salva sempre la possibilità di ulteriore tutela avanti il giudice ordinario.
Il  pagamento materiale della provvidenza avviene a cura dell’INPS mediante accredito su conto corrente postale o bancario intestato al beneficiano, oppure mediante riscossione presso l’ufficio postale indicato dallo stesso richiedente, il quale ha la possibilità di indicare anche una persona delegata alla riscossione. La prima quota mensile comprenderà anche tutte quelle già maturate in precedenza a partire dal mese successivo a quello di presentazione della domanda; successivamente saranno corrisposti anche gli interessi legali maturati sulle somme dovute sempre con Fa medesima decorrenza.
Il beneficiano della provvidenza è poi tenuto a comunicare all’INPS, entro trenta giorni, ogni mutamento delle condizioni e dei requisiti previsti dalla legge per la concessione della prowidenza goduta. Nel caso di godimento dell’indennità di accompagnamento va comunicato il venire meno del requisito della necessità di assistenza continua, oppure il venire meno della situazione di assistenza a domìcilio o in un istituto a pagamento, per effetto di un eventuale ricovero a titolo gratuito in un istituto dì cura.
Il ricovero rilevante ai fini della dichìarazione è quello nei reparti di lungodegenza o per fini niabilitativi, non il ricovero per terapie contingenti, di durata connessa al decorso di una malattia. Per ticovero a titolo gratuito s’intende quello in cui la retta-base sia a to
tale carico di un ente o struttura pubblica anche se eventualmente la persona ricoverata corrisponde una quota supplementare per ottenere un migliore trattamento rispetto a quello «base». Il ricovero è, invece, a pagamento quando l’interessato (o la sua famiglia) corrisponde tutta o anche solo una quota della retta-base (e l’altra quota sia a carico dell’ente pubblico).
Entro il 31 marzo di ogni anno deve altresì essere trasmessa all’lNPS, al comune o all’ASL di competenza una dichiarazione di responsabilità, ai sensi della legge del 4 gennaio 1968 n. 15, in merito alla sussistenza o meno di ricovero a titolo gratuito. Per gli invalidi civili il cui handicap non consente loro di autocertificare responsabilmente è sufficiente produrre un certificato medico in cui sia indicata espressamente la diagnosi della minorazione o patologia che non consentono al soggetto di autocertificare responsabilmente.

Numeri & confronti: La cura a lungo termine della popolazione anziana
L’incremento della popolazione anziana ha suscitato nell’ultimo ventennio diffusa sensibilità e interesse: l’attenzione si è concentrata sia sulle necessità di riordino del sistema pensionistico, sia sulla domanda dei servizi medici e assistenziali di cui l’anziano può necessitare in caso di perdita della propria autonomia.
Benché esteso anche a diverse aree dell’Asia orientale e sud orientale e nell’Europa centrale e orientale, il fenomeno risulta particolarmente evidente nelle economie industriali avanzate. In base alle proiezioni diffuse dal Bureau of Census (l’ufficio federale di statistica statunitense), il numero delle persone appartenenti alla fascia di età dei 65 anni e oltre crescerà negli Stati Uniti di oltre 2 volte e mezza tra I 2000 e il 2050, portandosi poco al di sotto degli 87 milioni di unità. La quota dei cittadini al di sopra degli 85 anni si più che triplicherà nello stesso periodo, passando dall’i ,5 per cento al 5 per cento circa della popolazione complessiva residente. Viceversa, l’incremento dei residenti nella cosiddetta working age — cioè la fascia di popolazione in età lavorativa, compresa tra i 20 e i 64 anni — non supererà nel cinquantennio il 35 per cento: l’incidenza del gruppo sulla popolazione totale fletterà dal 59 per cento nel 2000 al 53 per cento circa neI 2050.
L’Italia si colloca ai primi posti nel processo di invecchiamento demografico. La speranza di vita alla nascita ha raggiunto nel 2004 i 77,8 anni per gli uomini e gli 83,7 anni per le donne; un ulteriore incremento è atteso nella prospettiva del 2030, a 81,4 anni per gli uomini e 88 per le donne. Entro il 2050 la popolazione di età pari o superiore ai 65 anni si porterà dagli attuali 11,4 milioni a oltre 18 milioni, e gli ultraottantenni passeranno da poco più di 2,9 milioni a 7,5 milioni. L’incidenza degli ultra sessantacinquenni sulla popolazione totale salirà dal 9,5 per cento del 2005 al 34,4 per cento del 2050; quella degli ultra ottantenni passerà dal 5 per cento al 14,3 per cento.
Le indagini Istat sul sistema sanitario e lo stato di salute d popolazione italiana collocano poco sopra il 19 per cento l’incidenza dei disabili sul totale dei sessantacinquenni e oltre; ipotizzando che questa percentuale si mantenga stabile nel tempo è possibile anticipare un incremento nel numero degli anziani i autosufficienti dai 2,2 milioni di unità del 2005 a 3,1 milioni 2030.
Anche se non è facile quantificarle con precisione, le conseguenze economiche dell’incremento della popolazione anziana non autosufficiente appaiono sicuramente rilevanti.
In una relazione pubblicata nell’aprile 2005 il Congressional Budget Office degli Stati Uniti stima che le spese per le cure a lungo termine (long term care, in sigla LTC) degli anziani siano destinate a salire da 123 miliardi di dollari nel 2000 (1,3 per cento del PIL americano) a 346 miliardi nel 2040 (1,5 per cento). La previsione è formulata nell’ipotesi, considerata coerente con gli andamenti registrati negli Stati Uniti nell’arco del Novecento, che l’incidenza dei disabili sul totale della popolazione anziana si riduca dell’1,1 per cento l’anno tra il 2000 e il 2040, passando dal 25 per cento al 16 per cento; nel caso in cui questa discesa non si verificasse, le spese per cure a lungo termine supererebbero nel 2040 i 480 miliardi, corrispondenti al 2 per cento circa del PIL statunitense.
Nel caso dell’italia è un rapporto della Ragioneria Generale dello Stato a offrire alcune indicazioni in merito alla situazione attuale e alle prospettive della spesa per cure a lungo termine di competenza del settore pubblico. La Ragioneria stima che la spesa ammontava nel 2004 all’1,56 percento del PIL; poco più di un punto di PIL poteva essere attribuito alla fascia di età dei 65enni e oltre. La metà circa degli esborsi era da ricondurre alla componente sanitaria; seguivano le erogazioni per indennità di accompagnamento, con una quota del 40 per cento; il resi duo 10 per cento era rappresentato da altre prestazioni assistenziali. Un esercizio di previsione effettuato nell’ambito de medesimo studio anticipa un incremento degli oneri per la cura a lungo termine a carico del bilancio pubblico pari a circa ur punto percentuale di PlLtra il 2010 e il 2050, dall’1,54 per cen to al 2,47 per cento; appare inoltre evidente una ricomposizio ne dell’aggregato a vantaggio delle fasce più anziane della p0 polazione (Figura 2).
A conclusioni più pessimistiche giunge un’indagine del di partimento economico dell’OCSE, che anticipa per il 2050 ui incremento della spesa pubblica per la cura a lungo termine ~ 3,5 per cento del PIL nell’ipotesi che gli esborsi crescano più velocemente del reddito, in linea con gli andamenti osservati negli ultimi due decenni; al 2,8 per cento nell’ipotesi in cui una no specificata politica correttiva intervenga a correggere la dinE mica della spesa.
Se le stime di OCSE e Ragioneria contribuiscono a dare un’idea della maggior pressione che — per effetto dell’invecchiamento demografico — è destinata a scaricarsi sulle strutture dello stato sociale, resta invece in ombra il contributo alle spese di cura offerto direttamente dall’anziano o dalla famiglia.
Un tentativo di allargare l’orizzonte dell’analisi è contenuto n rapporto European Study of Long Term Care Expenditure, predisposto per la Commissione Europea nel febbraio 2003. Utilizzando statistiche nazionali ed elaborazioni proprie, gli autori calcolano che nel 2000 solo il 23 per cento dei disabili italiani sessantacinquenni e oltre era ricoverato in residenze o istituti di cura specializzati; il 37 per cento beneficiava soltanto dell’assistenza offerta gratuitamente da familiari, amici e volontari; il 40 per cento era assistito a domicilio con la collaborazione di fornitori privati. Il  contributo economico dell’anziano o della famiglia alla copertura degli oneri di cura appare determinante anche in caso di ricovero. Rielaborando statistiche di fonte Istat, l’Osservatorio Terza Età segnala che soltanto nel 5 per cento dei casi l’accesso dell’anziano ai presidi residenziali avviene a titolo gratuito: per il 62 per cento circa dei ricoverati il soggiorno risulta interamente a carico dell’interessato o della famiglia, mentre il restante 33 per cento gode di una copertura parziale delle spese di carattere sanitario offerta dal Servizio sanitario nazionale.
«Tenuto conto del reddito medio di una persona anziana e della retta media di un presidio assistenziale — rileva ancora ‘Osservatorio — è verosimile ritenere che per almeno il 35/40 per cento degli ospiti le famiglie provvedano a farsi carico di una quota della retta mensile oscillante attorno ai 250 euro.»
Alla luce di queste osservazioni, si comprende come il tema de!la protezione sociale dell’anziano non autosufficiente sia da valutare congiuntamente a un insieme di fenomeni, sociali e demografici, che contribuiscono a mettere in crisi la funzione di sostegno tradizionalmente esercitata dalla famiglia.
La comunicazione della Commissione Europea Una nuova solidarietà tra le generazioni di fronte ai cambiamenti demografici, uscita nel marzo 2005, offre una sintesi efficace delle problematiche cui i paesi europei si troveranno a far fronte nei prossimi cenni nell’assistenza alle persone molto anziane: «...occorrerà assistenza mirata, che in numerosi paesi è assicurata dalle I glie, in particolare dalle donne, le quali dal canto loro parte no in misura crescente all’attività lavorativa. Inoltre sempre F gli, raggiunta l’età adulta, vivono lontano dai genitori. Le famiglie andranno quindi maggiormente sostenute rispetto a oggi. Sarà compito dei servizi sociali e delle reti di solidarietà e di assistenza a livello di comunità locali».
Resta scarso il ricorso a coperture assicurative per cure a lungo termine. Pur a fronte dei gravosi impegni finanziari potenzialmente nessi all’assistenza di un anziano disabile, la diffusione di coperture assicurative long term care risulta ancora assai scarsa in Italia; appare sporadica anche l’offerta di strumenti di natura più propriamente creditizia, progettati in partnership con enti locali e istituzioni non-profit.
Dal punto di vista tecnico le compagnie offrono attualmente due tipi di copertura per la cura a lungo termine, assimilabili rispettivamente ai modelli “vita” e “malattia”. Nel primo caso il risparmio affluisce a un fondo che, al verificarsi della situazione non autosufficienza, eroga all’assicurato un capitale o una rendita predeterminata (sistema cosiddetto ad accumulazione). Nel secondo caso, il premio pagato è utilizzato esclusivamente per far fronte ai rischi relativi all’anno in corso (sistema cosiddetto partizione): al verificarsi dell’evento assicurato, la compagnia risponde al contraente le spese socio-assistenzali sostenute, a un massimo mensile pattuito e per tutto il periodo nel c permane la condizione di non autosufficienza. Per le particolari caratteristiche, le polizze cura a lungo termine di tipo «vita» risultatano più convenienti se stipulate in età non avanzata, in modo da accumulare un capitale idoneo a far fronte ai rischi di non sufficienza propri della terza e della quarta età; le polizze cura a lungo termine «malattia» risultano invece più economiche se stipulate in prossimità dell’utilizzo.
Il  rapporto annuale dell’Associazione Nazionale fra le Imprese  Assicuratrici segnala che le 26 compagnie attive in Italia nel Ramo IV-Permanent Health Insurance, una tipologia entro la quale sono fatte rientrare anche i prodotti cura a lungo termine, hanno raccolto nel 2005 premi per 24 milioni di euro, pari allo 0,03 per cento della produzione complessiva dei rami vita. La quasi totalità della raccolta realizzata nell’anno è da ricondurre al settore delle assicurazioni collettive, in cui i broker risultano praticamente il solo canale attivo di vendita; gli sportelli bancari e postali intervengono soltanto nel collocamento di polizze individuali, offrendo un contributo decisamente marginale.
La scarsa diffusione delle coperture assicurative cura a lungo termine non è un fenomeno soltanto italiano: nel caso degli Stati Uniti, il Congressional Budget Office stima in soli 5,7 miliardi di dollari il contributo alla copertura delle spese di assistenza offerto nel 2004 dall’assicurazione privata, pari al 2,7 per cento delle spese complessive per cure a lungo termine.
Un’eccezione interessante è rappresentata dalla Germania, dove dal gennaio 1995 è stato istituito uno specifico ramo di assicurazioni sociali contro il rischio di non autosufficienza, strettamente collegato al modello dell’assicurazione malattia. La riforma ha reso obbligatoria la copertura assicurativa cura a lungo termine per una quota largamente prevalente della popolazione tedesca: al 31 dicembre 2005 essa interessava circa 79 milioni di cittadini su una popolazione complessiva di 82,5 milioni. A fine 2004 i beneficiari delle prestazioni risultavano poco più di 2 milioni: di loro, 1,38 milioni godevano di assistenza domiciliare, mentre 0,67 milioni erano ricoverati in istituti. In base alle informazioni fornite dal ministero della Salute e della Previdenza Sociale, le spese per l’assicurazione sociale cura a lungo termine si attestavano nel 2004 a 16,8 miliardi di euro, ripartiti in misura quasi paritetica tra la cura domiciliare (8,2 miliardi) e quella ospedaliera (8,6 miliardi). Per la cura a lungo termine un futuro tra pubblico e privato
Benché le proposte al riguardo non manchino, l’assenza di un programma finalizzato al sostegno degli anziani non autosufficienti costituisce una lacuna vistosa del sistema di welfare italiano. La rilevanza attuale e in prospettiva dei fenomeni economici connessi all’invecchiamento demografico rende difficile immaginare soluzioni che non poggino prevalentemente sull’utilizzo di risorse pubbliche.
La possibilità che — parallelamente a un miglioramento del modello di welfare — si sviluppi anche un sistema di assistenza finanziato dal risparmio personale appare strettamente legata a due elementi: la disponibilità di un’articolata gamma di prodotti assicurativi o finanziari; la predisposizione di idonee forme di sostegno e incentivazione da parte dello stato o di altri soggetti operanti nella sfera pubblica o del non-profit.
L’incentivazione fiscale potrebbe contribuire in particolare a ridurre le resistenze esistenti dal lato della domanda, favorendo l’accesso alle coperture cura a lungo termine anche delle fasce più giovani della popolazione. La percezione del rischio di non autosufficienza tende, infatti, tipicamente a manifestarsi in età intermedia o avanzata; ne deriva un significativo incremento nel costo della copertura assicurativa, che finisce spesso per scoraggiare le adesioni.

Il  contesto lavorativo odierno della società post-moderna si trova  anche per la salute della nuova categoria sociale dei precari. Uno e cui le dinamiche economiche, sociali e culturali sono in rapida trasformazione a causa dell’impiego delle tecnologie di ultima generazione e della globalizzazione dei mercati. Come si è evidenziato, il sistema produttivo fordista in tutti i paesi avanzati ha ceduto il posto al sistema post-fordista con la conseguente apertura di un mercato del lavoro sempre più flessibile vede nascere nei lavoratori nuovi problemi di salute. Tutti i paesi coinvolti si trova; ad affrontare profonde trasformazioni che riguardano non solo la s mercato del lavoro e l’occupazione, ma anche l’ambiente e gli aspetti nuove forme della salute e della sicurezza sul lavoro. Nello specifico proprio il mondo del lavoro è stato soggetto di radicali cambiamenti che ne hanno alterato il profilo tradizionale, sconvolgendo il sistema di carriera la incentrata sul posto fisso, su contratti a tempo indeterminato e su orari. Le nuove forme di lavoro atipico offrono senza dubbio dei vantaggi alle imprese, che adattano rapidamente la consistenza della forza lavoro ala variabilità della domanda del mercato, e in molti casi anche ai lavoratori che si vedono offerta la possibilità di accedere rapidamente al mercato de personalizzando la propria strada professionale e pianificando a lo] mento la carriera. In questo sistema però si possono riscontrare gli effetti collaterali, se così si può dire, di cui abbiamo più o meno lungamente  parlato che sono stati ben evidenziati nel 2002 dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro.
Gli effetti collaterali di un contratto di lavoro atipico coprono un ampio spettro di ambiti personali e professioni che si caratterizzano per la precarietà, l’insicurezza e soprattutto il rischio per la proprio equilibrio psico-fisico e per il proprio stato di salute. L’eccessiva flessibilizzazione porta a una minore attenzione verso la tutela degli stati di salute e di considerazione verso le norme di sicurezza. Tutto ciò avviene sia perché le modalità lavorative spesso sfuggono al controllo quotidiano del datore di lavoro, sia perché le persone con contratti atipici e precari sono più esposte al rischio di perdita dell’occupazione, hanno minore accesso alle opportunità formative, trattamenti retributivi e condizioni di lavoro peggiori e, soprattutto, minori tutele sia per quanto riguarda gli aspetti previdenziali, sia per quanto concerne le garanzie contro infortuni e malattie professionali. L’intreccio di questi fattori è sintetizzabile in un termine molto in voga tra gli studiosi, flexicurity che in uno stesso concetto, vuole evidenziare la necessaria compresenza dell’idea di flessibilità e sicurezza. Tale principio poggia su quattro pilastri fondamentali: 1)  la creazione di “mercati di transizione”, che possano rendere piùfl 

passaggi tra occupazione e disoccupazione, tra forme di lavoro a k pieno e forme di lavoro a tempo parziale, tra contratti di lavoro diji dente e contratti di lavoro autonomo, tra il sistema formativo e quc occupazionale, tra lavoro e pensione;
2)  lo sviluppo di strategie che possano sostenere l’occupazione attfa~ 

la riorganizzazione degli orari di lavoro;
3)  la pratica di processi di formazione a lungo periodo che siano in gi 

di sostenere i lavoratori nei processi di cambiamento e durante tufi vita lavorativa;
4)  l’attivazione di garanzie di copertura previdenziale e assistenziale, particolare per coloro che hanno carriere lavorative precarie e frammentate.
Con tale principio si cerca di evidenziare la necessità di ricorrere alla flessibilità nel mercato del lavoro, senza minimizzarne i rischi sociali. Un approccio della flexicurity ideato e pensato in questo modo, non si è mai tradotto in un sistema di idee concrete e di misure operative da realizzare, ma la fili che ne sta a fondamento ribadisce che la flessibilità non deve essere solo una “deregolazione” delle condizioni contrattuali e di impiego. Al contrario, essa deve rappresentare un cambiamento paradigmatico del mondo del lavoro, da accompagnare con una serie di interventi istituzionali anche a livello di welfare.
Si potrebbe immaginare la possibilità di fronteggiare le sfide in primo luogo, con un’integrazione efficace tra la materia della salute e della sicurezza la gestione delle complesse realtà contrattuali; in secondo luogo, con la predisposizione di strumenti atti a garantire ai lavoratori flessibili un’adeguata conoscenza dei rischi inerenti la propria attività e delle misure preventive a bili. Non si può dimenticare inoltre che su questo terreno la legislazione corrente è piuttosto inadeguata, dato che i monitoraggi e le patologie codificate sono generalmente strutturali in riferimento alle tipologie di lavoro del periodo fordista.
Una strategia globale che punti alla salute e sicurezza sul luogo di lai dovrebbe tenere presenti anche le nuove esigenze del lavoratore, noncli concezioni di salute e malattia post-moderne, l’obiettivo unico potrebbe q di puntare al “continuo miglioramento del benessere, sia esso fisico, morale, sociale, sul luogo di lavoro”.
Il raggiungimento di uno stato di benessere così concepito può essere seguito solo attraverso il congiungimento di obiettivi complementari e diversificati, che puntino anzitutto alla ridefinizione di tutte le tipologie di malattie professionali, con relativo riconoscimento delle stesse, nonché a un’integrazione degli infortuni sul lavoro con particolare attenzione alle peculiarità dei lavoratori di nuova generazione. Questi interventi potrebbero strutturarsi sul rafforzamento della prevenzione delle malattie professionali, attraverso un’attenta analisi dei rischi nuovi ed emergenti, e di tutte le trasformazioni sociali riguardanti le forme di occupazione e le modalità organizzative del lavoro.

Le famiglie italiane dispongono generalmente di un discreto livello di ricchezza totale. Una parte assai ampia di questa ricchezza è mantenuta però in forme scarsamente o per nulla liquide, in particolare la casa; ciò contribuisce a spiegare perché molti nuclei familiari abbiano difficoltà a mantenere un tenore di vita adeguato in età avanzata, quando i redditi calano e i bisogni aumentano.
L’ultimo censimento della popolazione segnala la presenza in Italia di circa 7,15 milioni di famiglie con capofamiglia di età superiore ai 65 anni; il 74 per cento di esse risulta proprietaria almeno dell’abitazione di residenza. Ipotizzando che il valore degli immobili posseduti oscilli mediamente tra i 163.000 e 213.000 euro (i valori sono tratti da Banca d’italia, Indagine sui bilanci de/le famiglie italiane), si perviene a una stima del patrimonio immobiliare complessivamente in possesso delle famiglie con capofamiglia anziano compresa tra 860 e 1.100 miliardi.
Allo scopo di agevolare almeno in parte la liquidazione di questa enorme massa di ricchezza e sostenere i consumi delle fasce di età più avanzate, la legge finanziaria per il 2006 ha introdotto nell’ordinamento italiano il prestito vitalizio ipotecario. Lo strumento è mutuato dall’esperienza dei reverse mortgages e dei lifetime mortgages, presenti da diverso tempo rispettivamente sui mercati americano e inglese.
Anche per l’italia il legislatore ha abbozzato a fine 2005 ur strumento assai simile a quelli descritti con riferimento ai mercati anglosassoni, denominandolo prestito vitalizio ipotecario. legge finanziaria 2005-2006 si limita, infatti, a stabilire che il prestito ha per oggetto «... la concessione da parte di aziende ed istituti di credito, nonché da parte di intermediari finanziari, ... di finanziamenti a medio e lungo termine con capitalizzazione annua di interessi e spese e rimborso integrale in unica soluzione a scadenza, assistiti da ipoteca di primo grado su immobili residenziali, riservati a persone fisiche con età superiore ai 65 anni compiuti». Non essendo stato seguito da alcun decreto attuativo, lo strumento resta dunque in attesa di una più puntuale sistemazione normativa.
Da parte degli intermediari si avverte in particolare l’esiger di una normativa secondaria che permetta di recuperare capi le e interessi in tempi certi e brevi dopo il decesso del mutuatario; tale certezza costituisce un prerequisito fondamentale per l’avvio di eventuali operazioni di cartolarizzazione dei crediti, finalizzate a trasferire dagli intermediari al mercato una parte del rischio immobiliare connesso all’erogazione di prestiti vitalizi. La novità e la complessità dello strumento suggeriscono inoltre l’opportunità di definire un insieme di regole a garanzia della correttezza della trasparenza del rapporto contrattuale, con particolare rifE mento ai meccanismo di pricing, al fine di assicurare ai mutua ri la necessaria protezione da truffe e raggiri.
L’esperienza anglosassone segnala peraltro che — pur in p senza di un bacino di interesse potenzialmente assai ampio — dimensioni effettive del mercato dei prestiti vitalizi tendono a mantenersi contenute. Nel caso del Regno Unito, l’institute of Actuaries stima che il patrimonio immobiliare libero da ipoteche p seduto dalla popolazione sopra i 65 ammonti a circa 1.1001 miliardi di sterline; a fronte di questa evidenza, il volume dei pre ti concessi sotto forma di lifetime mortgage si è attestato nel 2C a 1,05 miliardi, pari allo 0,5 per cento circa dei valore dei nuovi mutui accesi nel paese nei corso dell’anno. Analogo il caso degli Stati Uniti, dove oltre 14 milioni di persone con più di 62 anni sono proprietarie di un’abitazione, ma solo 60.000 risultano intestatarie di un reverse mortgage.
A ridurre la richiesta di finanziamenti contribuisce sicuramente la riluttanza dei potenziali clienti ad assumere un nuovo debito in tarda età, una volta che abbiano interamente rimborsato Ogni altro prestito contratto in precedenza
Sono tuttavia i costi a rappresentare il principale fattore disincentivante: dedotte le voci di spesa richiamate in precedenza e in relazione all’età del prenditore, l’ammontare del finanziamen to erogabile può scendere sotto il 30 per cento del valore dell’immobile conferito a garanzia. Con riferimento all’offerta, la difficoltà a raggiungere dimensioni minime del business idonee a giustificare le spese fisse — in particolare quelle relative al personale specializzato nel collocamento — ha costretto diversi investitori statunitensi ad abbandonare il mercato.
Le condizioni perché anche in Italia si sviluppi un mercato dei prestiti alle fasce più anziane della popolazione tuttavia non mancano. Si è già detto dello squilibrio tra la ricchezza reale e finanziaria delle famiglie, che rende i nuclei appartenenti alle fasce di età più avanzate sempre più house rich, casb poor (ricche in immobili, povere di liquidità); uno squilibrio destinato ad accentuarsi nel futuro, per effetto della riduzione delle rendite della sicurezza sociale. Crescono parallelamente le aspettative di vita e il costo della salute, mentre il calo della natalità rende in prospettiva meno stringente il movente ereditario.
Alla luce delle dinamiche richiamate, appare particolarmente interessante il legame tra prestito vitalizio e assistenza a lungo termine: per il mercato americano sono già stati strutturati prodotti che consentono di finanziare il premio di una polizza assicurativa per l’assistenza a lungo termine utilizzando gli interessi maturati sulla linea di credito aperta a favore del cliente attraverso un reverse mortgage.

Prima dell’avvento dell’organizzazione post-fordista e dell’era del lavoro flessibile la sicurezza sul lavoro e la tutela della salute erano affrontate come problematiche da risolvere attraverso azioni ex-post mirate se non all’eliminazione perlomeno al contenimento dei fattori di rischio presenti nelle attività. Nell’era fordista è sempre prevalsa questa impostazione, preferita alla prevenzione e alla possibilità di prevedere situazioni di pericolo. Ora invece, nella società del rischio, nell’era della flessibilità, si sente la necessità di affrontare i problemi anticipatamente, aggredendo all’origine le possibili cause determinanti situazioni di pericolo e/o di eventuali infortuni. Si tratta dunque di passare da un’accezione ex-post, se vogliamo “in negativo”, della sicurezza e della salute sul lavoro, che risolve i problemi dopo che sono accaduti (eliminando i fattori di rischio che hanno causato l’evento infortunistico), a un’accezione ex-ante, “in positivo”, che si fondi sulla prevenzione e che presupponga il coinvolgimerito preventivo tra le parti, sulla base del presupposto che la salute e la sicurezza siano elementi fondamentali per la qualità del lavoro. Questo ribaltamento di fronte presuppone una concezione di qualità del lavoro e di valorizzazione delle risorse umane, nell’ottica del miglioramento delle condizioni di vita professionale, e anche personale e sociale. Se si vuole procedere in questa direzione, l’attenzione va rivolta non più solo al progresso tecnologico e ai grandi investimenti, ma anche alla capacità di riconoscere e rispettare i limiti entro i quali poter configurare uno sviluppo tecnologico senza intaccare il benessere dei lavoratori e nel rispetto della loro persona e del loro stato di salute.
Con questo obiettivo sarebbe interessante rivalutare le strategie avviatesi negli anni Novanta sulla valorizzazione delle risorse umane, in termini di miglioramento delle condizioni lavorative.
Lo stato di benessere non può fondarsi soltanto sull’idea di condizioni fisiche migliori ma, considerato che i bisogni rilevati dai lavoratori precari vertono su aspetti legati al riconoscimento di sé e della propria identità sociale, e dato che si ragiona sempre più in termini di salute olistica, esso deve puntare anche al benessere psicologico e sociale. La salute così intesa no può misurarsi semplicemente con strumenti tecnici correlati a fattori fisici ambientali e non può derivare soltanto dall’assenza di infortuni e malattie professionali. Essa si riferisce piuttosto alla ricerca della sicurezza e del] salute in termini previdenziali, progettando e attivando ambienti professionali e relazionali che siano rispettosi deI contesto sociale e portatori di u stile lavorativo qualitativamente migliore. In questa ottica il problema della sicurezza e della salute sul lavoro investe direttamente il processo di trasformazione dell’organizzazione del lavoro, come pure gli interventi tecnici nella strutturazione fisica degli spazi e delle postazioni di lavoro.
A tal proposito sarebbe auspicabile anche un coinvolgimento sempre pi attivo dei lavoratori nei processi decisionali che riguardano la vita quotidiana nel luogo di lavoro e gli interventi da attuare.
Pur trattandosi di idee ambiziose, questo progetto potrebbe rappresentar la nuova fase di cambiamento e di intervento sulle problematiche correlate alla salute sul posto di lavoro. D’altronde, dopo le lotte sindacali degli anni Sessanta e Settanta sulla contrattazione collettiva sul problema e dopo 1 formalizzazione istituzionale delle richieste di una salute migliore sui luoghi di lavoro, accontentate prima dalle normative locali poi dai piani nazionali fino al D. lgs. del 19 Settembre 1994, n. 626 sulla sicurezza, questa nuova fase deve avviarsi aprendo la strada al dibattito. Lo scenario produttivo senza dubbio più complesso, più articolato e sicuramente differenziato a suo interno, ma gli inquadramenti legislativi non appaiono sufficienti a coprire tutte le problematiche di salute correlate alle nuove forme di lavoro. Sicurezza e salute sul posto di lavoro si inscrivono oggi nel quadro delle attività economiche in trasformazione, della società post-moderna sempre pii complessa, delle forme di occupazione sempre più diversificate.
È indubbio che l’importanza di un posto di lavoro sano, sicuro e organizzato per rispondere alle molteplici esigenze, rappresenti una determinante fondamentale per il miglioramento della qualità della vita lavorativa. Il riscontro può aversi sul piano della qualità dei prodotti e/o dei servizi aziendali, della competitività dell’impresa e quindi anche dell’economia del Paese.
Dal punto di vista economico certamente le difficoltà non mancano. Le imprese grandi e piccole si trovano ad affrontare le spese per gli adegua menti, per gli indennizzi, per i costi sociali derivanti dagli infortuni e dalle malattie professionali, ma l’impegno verso un sistema di qualità produttiva organizzativa permetterebbe di superare anche problematiche di questo genere.
Attraverso l’acquisizione dei dati necessari alla valutazione dell’ambiente di lavoro, con la ricostruzione dell’intero ciclo produttivo e della mappa dettagliata dei rischi, si potranno avviare interventi necessari e delineare le strategie che portano alla prevenzione. In tale ottica potrebbe rientrare la creazione di canali informativi e l’attivazione di percorsi formativi ad hoc in materia di sicurezza e salute sul lavoro.
Se esiste una relazione così stretta tra salute e lavoro, e se il lavoro è così centrale nella vita degli individui, l’attività produttiva che occupa una cospicua parte della quotidianità di ciascuna persona, può essere una fonte di rischio che va controllata, limitata e vigilata. D’altro canto il lavoro può anche rappresentare un’opportunità per il miglioramento delle condizioni di vita e per la promozione della salute. In sostanza si tratta di trovare il giusto equilibrio tra condizioni di lavoro e vita esterna anche in vista dell’attuazione di politiche preventive e di promozione della salute.
D’altronde sono gli stessi attori della società post-moderna a reclamare riflessioni basate sul presupposto preventivo. A tal proposito spesso si è evidenziato come tutti gli individui in qualche modo siano costretti a interrogarsi sulle problematiche della salute, anche alla ricerca di elementi che permettano l’attivazione di interventi di autocura31. Tra questi elementi spiccano i comportamenti preventivi, di cui gran parte degli individui, a livello pil~ o meno approfondito hanno senz’altro sentito parlare. Sotto questo profilo, in materia di sicurezza e salute sul lavoro, un ragionamento in termini preventivi rientrerebbe nelle esigenze più volte espresse da coloro che vivono la contemporaneità.


Già il filosofo medievale Tommaso d’Aquino pose il problema della commisurazione del tributo rispetto ai bisogni pubblici e della proporzionalità dello stesso alla capacità contributiva individuale. A quell’epoca non esisteva naturalmente l’esigenza di garantire un livello minimo di prestazioni sanitarie pubbliche e le cure ai malati erano per lo più offerte da confraternite religiose e da enti associativi a carattere mutualistico.
Tuttavia, affermando la necessità di un equilibrio tra entrate e spese pubbliche, equilibrio radicato sul principio di capacità contributiva, Tommaso d’Aquino esprimeva un criterio che sarebbe sopravvissuto lungo il corso del tempo, fino a essere incorporato nelle carte costituzionali delle principali democrazie occidentali; un principio, inoltre, che si prestava a essere adattato all’evoluzione dei bisogni e dei diritti all’interno della società.
La causa del tributo, ossia la sua giustificazione in termini economico-giuridici all’interno del sistema sociale, consiste proprio nell’essere a disposizione per la soddisfazione di bisogni pubblici, che sono espressi dalle voci passive del bilancio dello Stato.
Esiste una stretta correlazione tra il principio di capacità contributiva — il principio per cui ognuno di rispondere dell’obbligazione tributaria in ragione della propria attitudine alla contribuzione, ossia della ~ ricchezza — e la causa del tributo. Non a caso, i due p fili si compenetrano all’interno dell’art. 53 della Costituzione, in base al quale «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Il dovere di concorso alle spese pubbliche è altresì tradizionalmente collegato al dovere di solidarietà politica, economica e sociale solennemente sancito dall’art. 2 della nostra Costituzione.
La spesa sanitaria rappresenta uno dei principali capitoli di spesa pubblica e uno degli snodi fondamentali del welfare state. La nostra Costituzione, all’art. 3 stabilisce che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti..
I principi testé accennati presentano un forte legame tra loro: difatti, le imposte prelevate dalle classi sociali più abbienti servono al finanziamento di una parte d spesa pubblica — quella sanitaria, per l’appunto — solitamente fruita dalle classi sociali meno agiate.
Così, specialmente nell’ambito descritto, si verifica una redistribuzione (perequazione) di risorse a favore delle classi sociali più deboli, le stesse che, proprio in ragione della loro ridotta capacità contributiva, partecipano meno al finanziamento delle pubbliche spese in generale, e di quella sanitaria in particolare.
Si è dunque accennato alla funzione perequativa dei tributi nel quadro del finanziamento della spesa sanitaria. Adesso prenderemo in considerazione alcune misure fiscali previste a favore dei contribuenti che affrontano spese mediche, per proprio conto o per conto delle persone legate da particolari vincoli familiari, di lavoro ecc.

L’assistenza sanitaria dei cittadini italiani all’estero è normata da regolamenti e convenzioni internazionali, sulla base del principio di reciprocità.
La legge che ha dato vita al Servizio sanitario nazionale (legge 833/1978) assicura ai cittadini italiani l’assistenza sanitaria in Italia ma non riconosce un diritto incondizionato alla copertura sanitaria fuori del territorio nazionale.
Esistono differenti modalità di erogazione dell’assistenza a seconda del motivo per cui ci si reca all’estero (temporaneo soggiorno, cure ad alta specializzazione, lavoro, studio ecc.).
Tutti i cittadini italiani iscritti al Servizio sanitario nazionale che soggiornano temporaneamente in. stati dell’Unione Europea hanno diritto a ricevere prestazioni sanitarie in caso di urgenza presso le locali strutture pubbliche. Oltre ai lavoratori dipendenti e autonomi, e ai loro familiari, hanno diritto all’assistenza anche talune categorie di cittadini temporaneamente all’estero, come i borsisti, i ministri del culto, i dipendenti pubblici e i militari in servizio all’estero. Nell’Unione Europea e negli stati che hanno stipulato apposite convenzioni bilaterali con l’Italia, anche i turisti beneficiano dell’assistenza, solo per le cure urgenti. In quei casi le strutture sanitarie locali erogano direttamente l’assistenza ai beneficiari. Naturalmente gli interessi devono munirsi dell’apposita certificazione rilasciata dalle ASL.
Nei paesi non convenzionati, i cittadini temporaneamente all’estero per motivi di lavoro o di studio hanno diritto al rimborso delle spese mediche sostenute secondo la procedura prevista dal decreto del presidente della repubblica 618/1980. Nei paesi non convenzionati i cittadini temporaneamente all’estero per motivi diversi dal lavoro o studio (turismo, motivi di fami ecc.) non hanno diritto al rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero per cure mediche urgenti. Sarebbe, pertanto, prudente tutelarsi con una polizza assicurativa privata contro eventi sanitari imprevisti. Qualora invece essi si rechino all’estero allo scopo di ricevere cure mediche (cure presso centri di alta specializzazione all’estero, trapianti di organo, o casi in non sia possibile ricevere cure tempestive in Italia), devono preventivamente mettersi in contatto con la propria ASL.
Che cosa devo fare prima di andare all’estero per motivi di turismo o di svago per tutelare la mia salute? Cosa devo fare se, durante un viaggio di questo tipo, mi sento male?
Se lo stato in questione appartiene all’Unione Europea, per ottenere l’assistenza, il cittadino deve munirsi prima della partenza dall’Italia di un apposito modulo denominato «tessera europea di assicurazione malattia» (TEAM). L’emissione e la distribuzione della i sera europea di assicurazione malattia a tutti gli iscritti al Servizio sanitario nazionale viene effettuata dal Ministero dell’Economia e Finanze tranne che per gli assistiti della Lombardia per i quali è la Regione che provvede a distribuirla
La tessera europea di assicurazione malattia è entrata in vigore, anche in Italia, dal i novembre 2004. Esibendo tale tessera nel paese di soggiorno temporaneo, il cittadino italiano ha diritto al medesimo trattamento fornito ai cittadini di quello stato.
Si rammenta che la tessera europea di assicurazione malattia (o il certificato sostitutivo provvisorio) permette a un cittadino in temporaneo soggiorno all’estero di ricevere nello stato UE in cui si trova le cure «medicalmente necessarie» e non solo le cure urgenti.
Nel caso in cui il cittadino non abbia ricevuto la tessera europea di assicurazione malattia e debba recarsi in uno stato europeo, fino al 31 dicembre 2005 doveva rivolgersi presso gli uffici della competente ASL per il rilascio del «certificato che sostituisce provvisoriamente la tessera europea»; dopo tale data il certificato viene rilasciato solo in caso di furto o smarrimento della tessera.
La tessera distribuita ai cittadini italiani è contemporaneamente tessera sanitaria (TS) per l’Italia e tessera europea di assicurazione malattia (TEAM). La tessera sanitaria mostra, sul fronte, le informazioni già riportate sul tesserino di codice fiscale e i dati sanitari riservati alla regione. La tessera è riconoscibile anche dalle persone non vedenti, grazie all’uso di caratteri in rilievo. Il retro della tessera sanitaria ha validità di tessera europea di assicurazione malattie, dal 1 gennaio 2006, è utilizzata da chi si reca in soggiorno temporaneo in uno degli stati dell’UE, oltre che dello Spazio economico europeo (SEE: Norvegia, Islanda, Liechtenstein) e in Svizzera.
La tessera ha validità 5 anni, salvo diversa indicazione da parte della Regione o dell’ASL di assistenza. In prossimità della scadenza, l’Agenzia delle entrate provvede automaticamente a inviare la nuova tessera a tutti i soggetti per i quali non è decaduto il diritto all’assistenza.
Se lo stato non fa parte dell’UE né dello SEE bisogna accertarsi se abbia siglato o no un accordo con l’Italia in materia sanitaria. Infatti, esiste tutta una serie di accordi bilaterali stipulati tra l’Italia e gli altri stati extracomunitari per quanto riguarda l’assistenza sanitaria:
Argentina, Australia, Brasile, Croazia, Slovenia, Principato di Monaco, Repubblica di San Marino. Nel caso in cui lo stato non faccia parte dell’UE e neanche dello SEE, è necessario farsi rilasciare dalla ASL l’attestato di copertura sanitaria in quello stato.
In tutti gli altri paesi con i quali lo Stato non ha firmato nessuna convenzione o accordo i cittadini temporaneamente all’estero per motivi diversi dal lavoro o studio non hanno diritto al rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero per cure mediche urgenti. Pertanto, per i paesi non inclusi nell’Unione Europea, come gli Stati Uniti o il Canada, per esempio, è consigliabile munirsi di una apposita polizza assicurativa.
Mediamente la polizza deve contenere:  rientro in Italia su aereo sanitario; anticipo di denaro in caso di furto o spese improvvise per malattia o altro. Il viaggio di un familiare per raggiungere il malato o l’infortunato è spesso previsto solo se c’è una degenza che eccede i sette giorni: occorre verificare quali siano le spese sostenute per questo familiare, perché quasi sempre riguardano solo il viaggio. Il rimborso delle spese mediche è gravato da franchigia (assunzione di una parte del danno da parte dell’assicurato) e riferito, in genere, ai casi di infortunio e non malattia.
È necessario ricordare che sono quasi sempre escluse dai rimborsi quelle patologie di cui l’assicurato soffriva prima della partenza.
Quando si torna dal viaggio occorre fare la richiesta di rimborso con raccomandata A/R nei termini previsti dal contratto, allegando tutte le carte del caso, comprese le ricevute per l’acquisto di farmaci.
Il  rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale delle spese per visite o esami specialistici sostenuti durante una vacanza all’estero dipende dal tipo di stato estero. Infatti, per le cure non urgenti prestate in uno stato dell’Unione Europea il rimborso è previsto dal Servizio sanitario nazionale unicamente se esiste un accordo bilaterale tra l’Italia e lo Stato estero interessato che preveda un rimborso per quel tipo di spese.
Quanto al rimborso delle cure di alta specializzazione all’estero il Servizio sanitario nazionale assicura tutte le prestazioni comprese nei livelli essenziali di assistenza. Nel caso di prestazioni ad altissima specializzazione non ottenibili in Italia in forma appropriata e tempestiva alla particolarità del caso clinico si può richiedere una specifica autorizzazione dell’ASL, che poi consente il rimborso delle spese in forma totale o parziale.
Il servizio sanitario nazionale disciplina l’assistenza sanitaria dei cittadini italiani e dei loro familiari durante la permanenza all’estero dovuta a motivi di lavoro. È loro riconosciuta la piena tutela assicurativa sia in forma diretta, sia in forma indiretta. Anche in questo   caso si possono presentare quattro situazioni: 
  1.  Soggiorno temporaneo: i lavoratori subordinati pubblici e privati), i lavoratori autonomi e i lavoratori dei trasporti internazionali utilizzano la tessera europea di assicurazione malattia (o il certificato sostituti-vo provvisorio).
2.  Residenza: i lavoratori che trasferiscono per motivi di lavoro la residenza all’estero (intesa come abituale dimora) hanno diritto al rilascio da parte dell’ASL del modello E106, che assicura per sé e per i propri familiari l’assistenza sanitaria secondo le stesse regole e gli stessi livelli riconosciuti ai lavoratori residenti.
3.  Stati convenzionati: nei paesi che hanno stipulato accordi bilaterali con l’Italia, l’assistenza sanitaria per i lavoratori e loro familiari che trasferiscono per motivi di lavoro la residenza all’estero è assicurata in forma diretta o indiretta, a seconda di quanto previsto dalla convenzione.
4.  Paesi non convenzionati: l’assistenza sanitaria all’estero è garantita dal decreto del presidente della repubblica 618/1980, che assicura la copertura assistenziale in qualsiasi paese del mondo ai cittadini italiani che si recano all’estero in distacco lavorativo per brevi periodi. Prima di partire, bisogna richiedere alla propria ASL di appartenenza l’attestato previsto dall’art. 15 del decreto del presidente della repubblica 618/1980, contenente una dichiarazione del datore di lavoro, da dove risulti l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale per sé e i familiari. Tale dichiarazione dovrà essere presentata, in caso di necessità, al consolato italiano competente unitamente alle fatture relative alle spese sanitarie sostenute e alla domanda di rimborso; il consolato provvederà a trasmettere al ministero della Salute la domanda di rimborso. Si hanno tre mesi di tempo dalla data delle fatture per presentare domanda di rimborso ai consolati, che nel caso di spese ingenti possono provvedere a degli anticipi fino al 50 per cento del valore.
All’estero, entro tre mesi dalla prestazione sanitaria ricevuta, è possibile richiedere il rimborso per le spese sanitarie sostenute all’ambasciata o al consolato territorialmente competente.
Non rientrano tra le categorie assistite all’estero: le persone che già usufruiscono nello stato estero di prestazioni sanitarie garantite da un’assicurazione pubblica o privata contro il rischio malattia prevista dalla normativa locale, né i lavoratori che hanno un’assicurazione sanitaria garantita dal datore di lavoro.
Gli studenti e i titolari di borsa di studio godono della copertura sanitaria all’estero secondo due diverse modalità, a seconda dello stato prescelto:
1. stati dell’Unione Europea, Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera: l’assistenza sanitaria è equivalente a quella dei lavoratori ed è assicurata dalla tessera europea di assicurazione malattia (o in mancanza dal certificato sostitutivo);
2.  paesi non convenzionali: l’assistenza sanitaria all’estero è garantita dal decreto del presidente della repubblica 618/1980, che assicura la copertura assistenziale ai cittadini italiani che si recano in qualsiasi paese del mondo; prima di partire bisogna richiedere sempre alla propria ASL l’attestato previsto dall’art. 15 del decreto.
Quando ci si trova all’estero, entro tre mesi dalla prestazione sanitaria, è possibile richiedere il rimborso per le spese sanitarie sostenute all’Ambasciata o al Consolato territorialmente competente.
Se si è emigrati residenti all’estero e durante uno dei soggiorni in Italia si ha bisogno di assistenza sanitaria, occorre esibire una dichiarazione del consolato italiano del luogo dove si risiede, che attesti lo status di emigrato. L’assistenza sanitaria è concessa per un periodo di tempo non superiore ai 90 giorni, anche cumulabili, per anno solare.

Per tutti i cittadini la Costituzione italiana riconosce come fondamentale il diritto alla tutela della salute, affermando, nell’art. 32: «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti... i cittadini devono collaborare al mantenimento della salute, sia osservando i comportamenti richiesti nell’interesse collettivo, sia partecipando alle spese necessarie, in rapporto alle loro diverse capacità contributive». L’art. 3 afferma: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale... senza distinzione di razza, sesso, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali». Il diritto alla salute era stato ribadito a livello internazionale dalla «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo».
Il  «Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali» del 1966 afferma che «ogni individuo ha diritto a un livello di vita adeguato per sé è la sua famiglia che includa un’alimentazione, vestiario e un alloggio, adeguati».
Nella convenzione dell’QNU sui diritti dell’infanzia, approvata dall’assemblea generale il 20 novembre 1989, è citato espressamente l’emigrante e la sua tutela anche sanitaria.
Le indicazioni costituzionali e quelle derivanti da patti e convenzioni internazionali rispondono a una logica di solidarietà umana e di prevenzione collettiva, ma non hanno una natura immediatamente attuativa; resta affidata al legislatore nazionale l’individuazione e la determinazione degli strumenti, dei tempi e dei modi di attuazione. Ciò ha fatto sì che per anni in Italia l’immigrazione, non regolamentata né tutelata, abbia generato l’esclusione non solo dalla normativa, ma anche dall’accesso ai servizi, anche dei più elementari, di coloro che non avevano alcun diritto a prestazioni, pur vivendo accanto a cittadini italiani nello stesso territorio.
Dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, a fronte di un diritto di salute negato per legge agli immigrati clandestini o inaccessibile ai più dei regolari (per complessi iter burocratici, o perché connesso ad alcune condizioni giuridiche precise quali la residenza, la condizione lavorativa ecc.), è stato il volontariato a supplire alla carenza di tutela della salute da parte pubblica, garantendo di fatto un diritto all’assistenza sanitaria.
Con la legge 39/1990, la cosiddetta «legge Martelli», sono state introdotte norme sull’ingresso «il soggiorno in Italia per motivi non solo di lavoro, ma anche di studio, di famiglia o di cure mediche. Sono cominciati così i ricongiungimenti familiari, che tanta importanza hanno assunto negli anni successivi nel modificare le  caratteristiche socio-demografiche della popolazione   straniera presente in Italia. In particolare l’art. 9, comma 12, stabilisce che: «i cittadini extracomunitari e gli apolidi che chiedono di regolarizzare la loro posizione,  sono a domanda assicurati al Servizio sanitario nazionale e iscritti alla USL del comune di effettiva dimora». 
 Negli anni successivi vengono attuati vari interventi legislativi che non vanno però a modificare, se non in piccola parte, la legge 39.  Il successivo decreto in materia di immigrazione, il decreto legge 489/1995 (decreto Dini) dal titolo: (Disposizioni urgenti in materia di politica dell’immigrazione e per la regolamentazione ingresso e soggiorno nel territorio nazionale dei cittadini dei paesi non appartenenti all’Unione Europea», dedica maggiore attenzione alle problematiche sanitarie dei cittadini stranieri presenti in Italia. Il decreto estende il diritto alle cure ordinarie e continuative e i programmi di medicina preventiva, anche agli irregolari e ai clandestini. Vengono inoltre erogate senza oneri a carico dei richiedenti,   le prestazioni preventive, come quelle per la tutela della maternità e della gravidanza. 
 Dopo l’entrata in vigore del trattato di Maastricht (1993) e dell’accordo di Schengen (1997), un traguardo importante per la tutela della salute dello straniero extracomunitario, si è raggiunto con l’emanazione della legge 40/1998 (legge quadro sull’immigrazione, detta anche  «Turco-Napolitano») confluita con decreto legislativo  286/1998 nel Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», le cui disposizioni sanitarie rappresentano una svolta rilevante rispetto al passato. 
 La motivazione di fondo della legge del 1998 partiva dalla consapevolezza che l’immigrazione rappresentava una risorsa economica, demografica e culturale importante, che tale fenomeno era ormai strutturale e necessitava di una politica di risposta ai bisogni di salute dei nuovi cittadini. In particolare gli artt. 34, 35, 36 recano le disposizioni in materia sanitaria, che affrontano i punti che avevano impedito allo straniero di godere del diritto alla salute, che secondo la Costituzione dovrebbe essere effettivamente garantito a ogni cittadino. Significativi sono stati i cambiamenti sia per coloro che possono iscriversi al Servizio sanitario nazionale, sia per i cittadini stranieri non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno, i quali con l’emanazione di questa legge hanno potuto godere di un diritto per tanti anni negato o nascosto.
Il  Testo unico riconosce, a prescindere dalla condizione giuridica, «i diritti fondamentali della persona umana» e sancisce l’inclusione a pieno titolo degli immigrati in condizione di regolarità giuridica nel sistema di diritti e doveri attinenti l’assistenza sanitaria, a parità di condizioni e opportunità con il cittadino italiano, estendendo tali diritti anche a coloro che sono presenti in Italia in situazione di irregolarità giuridica e clandestinità. La legge Bossi-Fini (legge 189/2002, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo») non ha modificato questi principi stabiliti dal Testo unico.
I  principi e le disposizioni contenute nel Testo unico hanno trovato maggiore concretezza applicativa con l’emanazione del regolamento di attuazione (il decreto del presidente della repubblica 394/1999), che disciplina le modalità più opportune per garantire che le cure essenziali e continuative e le modalità di erogazione nell’ambito delle strutture della medicina nel territorio o nei presidi sanitari, pubblici e privati accreditati. L’art. 43 contempla particolari procedure per evitare che la condizione di clandestinità influisca sull’erogazione delle cure necessarie. A questo proposito, il regolamento di attuazione prevede per la registrazione delle prestazioni erogate a tali soggetti e per le eventuali prescrizioni diagnostiche terapeutiche, l’utilizzo di un codice a sigla STP (straniero temporaneamente presente), tale codice viene rilasciato da tutte le strutture sanitarie pubbliche, è riconosciuto su tutto il territorio nazionale e identifica l’assistito per tutte le prestazioni previste. È subordinato alla dichiarazione d’indigenza, rilasciata dallo straniero attraverso la compilazione del modello 1.STP predisposto dal Ministero della Sanità, che rimane agli atti della struttura che l’ha emesso. Lo straniero in possesso ditale codice è esentato dal pagamento del ticket, per tutte le prestazioni di primo livello e per quelle che sono in esenzione per i cittadini italiani, alle medesime condizioni (patologia, età e reddito).
Ulteriori chiarimenti e dettagli operativi al riguardo sono inoltre stati forniti dal ministero della Sanità con la circolare n. 5 del 24/3/2000 che contiene le indicazioni applicative del decreto legislativo 2286/1998. La circolare fornisce la distinzione tra cure urgenti ed essenziali: sono urgenti «le cure che non possono essere differite senza pericolo per la vita o danno per la salute della persona»; essenziali «le prestazioni sanitarie, diagnostiche, terapeutiche relative a patologie non pericolose nell’immediato e nel breve termine, ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o rischi per la vita».
Nei piani sanitari nazionali degli ultimi anni, a partire da quello 1998-2000 (tale documento, per la rilevanza che ha rivestito in termini di programmazione su base nazionale, ha assunto un significato storico: per la prima volta, infatti, la salute degli stranieri immigrati è stata riconosciuta tra le priorità del Servizio sanitario nazionale e dell’intera collettività che esso tutela), è ribadita la necessità di assicurare l’accesso delle popolazioni immigrate al Servizio sanitario nazionale rendendo l’offerta di assistenza pubblica visibile e facilmente accessibile. In particolare il piano 2006-08 dedica ampio spazio «agli interventi in materia di salute degli immigrati e delle fasce sociali marginali» ed evidenzia la necessità di promuovere politiche di prevenzione in campo sanitario per giovani e minori, studi e ricerche sulla diffusione di malattie infettive nonché interventi di formazione per gli operatori sanitari, focalizzando l’attenzione sul settore materno-infantile, sugli infortuni sul lavoro, sulle condizioni sanitarie delle popolazioni rom e sulle condizioni delle popolazioni senza fissa dimora.  
     
Chi proviene da un paese straniero, e non appartiene all’Unione Europea, ha il diritto, ma anche il dovere, di iscriversi al Servizio sanitario nazionale italiano, che un tempo si chiamava «la mutua». Basta avere un regolare permesso di soggiorno, richiesto per lavoro, motivi familiari, adozione, affidamento, acquisto di cittadinanza, asilo politico o umanitario.
Per iscriversi bisogna recarsi all’ASL del quartiere dove si risiede, presentando il permesso di soggiorno, il codice fiscale e il certificato di residenza che può essere compilato anche da soli (si chiama autocertificazione del domicilio). Poi è possibile scegliere il medico di famiglia e il pediatra di fiducia da una lista di nominativi che la ASL mette a disposizione dei cittadini. L’iscrizione al Servizio sanitario nazionale vale fino allo scadere del permesso di soggiorno, ma per mantenerla valida nel periodo di rinnovo del certificato basta mostrare il cedolino rilasciato dalla questura che attesta la richiesta. È poi precisato che, in mancanza di residenza, il cittadino straniero e i suoi familiari a carico sono iscritti negli elenchi degli assistibili dell’ASL nel cui territorio hanno effettiva dimora; per luogo di effettiva dimora si intende quello riportato sul permesso di soggiorno. Tale innovazione è volta a favorire l’iscrizione di quanti, a causa di una precarietà economica o lavorati va, sono costretti a continui spostamenti sul territorio  nazionale, con corrispondenti cambiamenti di alloggio. 
 Con l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale si ottengono gli stessi diritti e doveri dei cittadini italiani: è possibile scegliere il medico di famiglia e il pediatra, fare tutte le visite e gli esami specialistici che il medico riterrà opportuno prescrivere, essere ricoverati in ospedale, fare un’operazione chirurgica e ottenere le ricette per acquistare i farmaci. Non tutto è gratis. In alcuni casi, regola che vale per tutti, lo Stato chiede di contribuire alla spesa sanitaria facendo pagare una somma di denaro chiamata ticket. 
 L’assistenza sanitaria è garantita anche ai familiari di primo grado a carico del capofamiglia — coniuge, fratelli, genitori e figli — che soggiornano regolarmente in Italia. 
Chi risiede in Italia per motivi di studio, religiosi o è  collocato alla pari, ha due possibilità: procurarsi, prima di partire, un’assicurazione sanitaria riconosciuta dall’Italia contro il rischio di malattie, infortunio o maternità, oppure fare un’iscrizione volontaria al Servizio sanitario nazionale, pagando una quota fissa che però va rinnovata ogni anno. Con quest’ultima formula sono assistiti anche i familiari a carico. Chi ha un permesso di soggiorno di breve durata — per esempio, per affari o turismo — e non ha un’assicurazione privata deve pagare per intero le cure che riceve e gli esami che fa. 
Anche in assenza di un permesso di soggiorno valido (perché è scaduto, non è stato rinnovato, oppure non è mai stato ottenuto) è possibile essere curati in ospedale  o  in ambulatorio presentando la tessera STP (straniero temporaneamente presente), che va richiesta all’ASL e prevede l’erogazione anche «ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno» delle cure ambulatoriali urgenti o comunque essenziali, anche continuative, per malattia e infortunio, e l’estensione dei «programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva». Inoltre l’articolo garantisce: la «tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane» (comma 3, lettera a), «la tutela della salute del minore in esecuzione alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 20/11/1989» (comma 3, lettera b), «le vaccinazioni secondo la normativa e nell’ambito di interventi di campagne di prevenzione collettiva autorizzati dalle regioni» (comma 3, lettera c), «gli interventi di profilassi internazionale» (comma 3, lettera d), e «la profilassi, la diagnosi, e la cura delle malattie infettive» (comma 3, lettera c).
In molte città, inoltre, è possibile rivolgersi anche alle associazioni in cui lavorano medici e dentisti volontari.
Tutti gli immigrati irregolarmente presenti in Italia che richiedono prestazioni sanitarie gratuite o soggette a ticket non devono pagare perché si trovano in condizioni di indigenza. Questa condizione deve essere attestata da un’autocertificazione che va compilata su un apposito modulo (dichiarazione d’indigenza) al momento della richiesta. Per ottenere le prestazioni gratuite o parzialmente gratuite occorre eseguire le visite e gli esami nelle strutture pubbliche o convenzionate.
Un clandestino che va da un medico o in ospedale non rischia di essere denunciato. Chi si rivolge a una struttura sanitaria riceverà le cure necessarie e non sarà denunciato per il fatto di non avere il permesso di soggiorno.
Le donne immigrate prive di permesso di soggiorno possono rivolgersi ai seguenti servizi, nel rispetto della riservatezza:
Consultorio familiare per: contraccezione (con pagamento ticket); gravidanza (prestazione gratuita); certificazione per interruzione di gravidanza (prestazione gratuita); controllo menopausa (con pagamento ticket). ~i ospedali per: controllo gravidanza (assistenza e esami) (prestazione gratuita); assistenza al parto (prestazione gratuita); interruzione di gravidanza (prestazione gratuita);
Spazi prevenzione della lega tumore per esami dell’apparato genitale femminile per la prevenzione (con pagamento ticket).
Ai minori irregolari è garantita la tutela della salute in esecuzione della convenzione sui diritti dell’infanzia, che prevede, per tutti i minori di 18 anni «il diritto al godimento del miglior stato di salute possibile e a beneficiare dei servizi medici e di riabilitazione».
Tuttavia i minori stranieri irregolari non possono essere iscritti al Servizio sanitario nazionale e non possono usufruire del pediatra di libera scelta. Hanno però diritto a usufruire delle cure mediche presso strutture sanitarie pubbliche, quali ambulatori specialistici, ospedali, consultori pediatrici di zona. I bambini di età compresa tra i O e i 6 anni, anche se irregolari, hanno diritto alle cure mediche di base e specialistiche presso le strutture ospedaliere e territoriali, in forma gratuita. Se dopo la nascita si richiede un permesso di soggiorno temporaneo, per i sei mesi successivi si ha diritto all’iscrizione al Servizio sanitario nazionale presso il distretto della zona di competenza e ad accedere a tutte le cure previste per i bambini italiani, tra cui il pediatra di base. Le vaccinazioni sono obbligatorie, il bambino può riceverle gratuitamente presso i consultori e i centri di vaccinazione. Tutti i minori irregolari con un’età superiore ai 6 anni hanno diritto fino al compimento del diciottesimo anno a tutte le prestazioni di primo livello. Le prestazioni specialistiche sono erogate in seguito al pagamento del ticket, a parità dei cittadini italiani. 
Chi è ancora all’estero e vuole venire in Italia a curarsi, con un suo eventuale accompagnatore, deve presentare una dichiarazione rilasciata dalla struttura sanitaria italiana per ottenere uno specifico visto di ingresso e relativo permesso di soggiorno per cure mediche. I requisiti che deve possedere tale dichiarazione sono: il tipo di cura, la data d’inizio, e la durata del trattamento terapeutico. Deve, inoltre, dimostrare di potersi pagare il vitto e l’alloggio (per tutto il periodo di permanenza) e versare alla struttura, in genere l’ospedale, il 30 per cento delle spese previste, come deposito. È inoltre necessario farsi rilasciare dall’ambasciata italiana un visto di ingresso e un permesso di soggiorno. 

Nessun commento:

Posta un commento

Licenza Creative Commons
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale