I comportamenti degli uomini sono per lo più guidati da scopi precisi: in questo capitolo cercheremo di esaminare le basi biologiche e psicologiche che stanno alla base di tali scopi, analizzando i concetti di istinti, pulsioni e motivazioni.
Vedremo poi come possono essere considerate le emozioni, in quale modo possono essere espresse e che rapporto esiste tra l'emotività dell'uomo e il suo essere sociale da una parte e i processi cognitivi dall'altra.
La motivazione
Se
proviamo a pensare a tutte le azioni che accompagnano una nostra
giornata tipo, ci renderemo conto facilmente che la gran parte di esse è
guidata da scopi precisi: esse sono cioè volte a raggiungere dei precisi obiettivi, e sono guidate da precise ragioni (pratiche, etiche, filosofiche, fisiologiche, economiche, ...) che vanno a costituire i motivi delle azioni stesse.
Per
quanto familiari e scontati questi concetti possano apparire, lo
psicologo che si pone come obiettivo quello di studiare queste
motivazioni non si troverà davanti a un compito semplice. Questo perché a una medesima azione possono corrispondere coerentemente motivi diversi.
Per esempio, se osservo una persona che mangia del cioccolato potrò
ragionevolmente ipotizzare che lo fa perché ha fame, perché soffre di
improvvisi cali di zuccheri, perché sta per affrontare un impegnativo
sforzo fisico, perché è depresso e trova consolazione nel mangiare
cioccolato, e via di seguito.
Dall'esempio si dedurrà facilmente
come la motivazione umana sia un qualcosa di estremamente complesso e
multisfaccettato. Studiandola occorrerà tenere conto da una parte dei bisogni fisici/biologici che l'uomo condivide con il mondo animale, dall'altra del complesso universo delle motivazioni più “complesse” e propriamente umane.
•Gli istinti
Procedendo
in un certo senso dal basso verso l'alto, come primo elemento
riguardante ciò che può guidare i nostri scopi troviamo il concetto di
istinto. In psicologia con il termine istinto ci si riferisce a un impulso innato a un certo comportamento, innescato da determinati stimoli ambientali. Tale concetto, come è noto, è stato oggetto di studio soprattutto delle prospettive evoluzionistiche,
per le quali gli istinti (selezionati e “fissati” nella loro gamma dei
comportamenti propri di una specie sulla base dell'utilità dell'istinto
per la sopravvivenza della specie stessa) vanno a costituire le
principali motivazioni alla base del comportamento umano.
Una
critica che può essere avanzata a questa prospettiva è che nell'ampliare
così tanto il raggio di azione degli istinti si rischia di perderne di
vista il vero significato. Inoltre spiegare la motivazione che sta
dietro determinate azioni riconducendola a un istinto risulta piuttosto
fine a se stesso.
Il concetto di istinto è stato anche ripreso in maniera forte dall'etologia, che lo ha studiato come predisposizione istintiva degli animali nel loro ambiente naturale a comportarsi in un determinato modo.
Esso, a differenza di quanto postulato dagli evoluzionisti, è visto
come un processo complesso e non del tutto rigido (pur essendo
biologicamente determinato), che lascia quindi spazio ad apprendimenti
successivi sulla base delle condizioni ambientali e delle esperienze
degli individui. Tra gli etologi ricordiamo K. Lorenz,
famoso anche per aver introdotto il concetto di imprinting, inteso come
forma di apprendimento che avviene nelle prime fasi di vita mediante
un'“impressione” che fissa in modo rigido alcuni comportamenti basilari
per la sopravvivenza. Ad esempio è per forza di un imprinting che i
pulcini di varie specie di uccelli nella vita adulta si identificano
nella specie del primo essere vivente (o anche oggetto mobile) con cui
vengono in contatto subito dopo la fuoriuscita dall'uovo.
Ma gli istinti sono stati considerati oggetto di studio anche dagli psicologi. Per esempio, W. James
considera come istinti propri dell'uomo – che si caratterizza anche per
l'avere molti più istinti rispetto agli altri animali – l'imitazione,
la rivalità, la combattività, la simpatia, l'amore per i genitori. Anche
Freud
come è noto riprese il concetto di istinto in maniera forte: egli basò
infatti la sua teoria delle motivazioni sulla contrapposizione tra
istinti sessuali aggressivi. Dal punto di vista della storia della
psicologia, prima dell'avvento del comportamentismo (che, spiegando i
comportamenti umani in termini di stimolo-risposta guidati da ricompense
specifiche, escludeva di conseguenza ogni tipo di predisposizione
innata ad un certo comportamento) ogni tipo di motivazione era in
qualche modo ricondotta a un istinto. Successivamente questa posizione
fin troppo forte, e in un certo senso anche limitativa, sotto
l'influsso, come si è detto, del comportamentismo e anche sulla base
dell'evoluzione di studi antropologici comparati che evidenziavano come molte delle motivazioni ricondotte ad istinti non erano affatto universali,
e non potevano di conseguenza essere considerate specie-specifiche, fu
riconsiderata e gli istinti rimasero interesse degli psicologi
soprattutto così come intesi dagli etologi.
•Pulsioni e incentivi
Volendo
considerare come punto di partenza i bisogni fisiologici degli
individui, accanto all'istinto si può considerare il concetto di pulsione, intendendola come la dimensione psicologica di un bisogno fisiologico. Le pulsioni forniscono dunque “energia” al comportamento, attivano le persone all'azione per perseguire degli scopi. Esse sono stati temporanei,
in quanto generalmente dopo che il bisogno che ne sta alla base è stato
in qualche modo soddisfatto, la pulsione stessa sparisce: se abbiamo
fame proviamo quindi la pulsione a procurarci del cibo, ma una volta
consumato un pasto o comunque ridotto il senso di fame, la pulsione a
procurarci del cibo scompare, a meno che tale pulsione non fosse
originata da un effettivo bisogno fisiologico ma da più complesse
motivazioni psicologiche: ad esempio il bisogno di assumere cibo come
compensazione per carenze affettive. Da questo punto di vista questi
stati pulsionali si contrappongono a disposizioni motivazionali più stabili (motivi),
che vanno a costituire parte del carattere di una persona guidando
scelte più a lungo raggio (li esamineremo nel dettaglio più avanti):
essi hanno ovviamente influenze più durature.
Altri fattori
motivazionali che possono incidere (aumentandole o facendole diminuire
di intensità) sulle pulsioni a raggiungere determinati scopi sono gli incentivi. Un incentivo in psicologia è uno stimolo esterno (“ricompense” tangibili quali cibo, denaro, o premi) o interno all'individuo
(sensazioni gradite, come la gratificazione che segue il risultato
positivo di una sfida sportiva o intellettuale o la ratificazione data
dalla percezione di aver fatto un buon lavoro) che può attivare, intensificare o motivare un determinato comportamento;
naturalmente gli incentivi interni e esterni spesso sono collegati e si
potenziano a vicenda. Gli incentivi inducono l'insorgere di nuove
pulsioni e hanno la capacità di motivare un certo comportamento anche
quando non vi è un vero e proprio bisogno organico: i cibi dolci, per
esempio, sono per la maggior parte degli uomini dei forti incentivi
anche in assenza di fame. Agli incentivi positivi si contrappongono i deterrenti che conducono ad atti di rifiuto o scoraggiano l'azione.
Pulsioni e incentivi vanno considerati come strettamente collegati tra di loro
in quanto è particolarmente difficile, se non in certi casi addirittura
impossibile, arrivare a determinare dove termini il raggio di azione
delle pulsioni e dove inizi quello degli incentivi. Più semplice diventa
la distinzione ragionando sul concetto di motivazioni non su base
prevalentemente biologica, ma apprese o acquisite dai singoli individui.
In questo caso, tuttavia, si vedrà come gli incentivi diventeranno
maggiormente dipendenti dalle condizioni dei singoli. Ad esempio del
cibo può essere considerato un incentivo per qualsiasi persona affamata.
Un viaggio premio, invece, sarà un incentivante solamente per persone
che amano viaggiare. Una persona che si trovasse a temere i viaggi in
aereo vedrebbe un volo in America come un deterrente, mentre la stessa
prospettiva potrebbe essere un forte incentivo per un amante dei voli
transoceanici.
Riassumendo possiamo dunque dire che i bisogni fanno nascere pulsioni volte ad attivare comportamenti mirati a ridurre il bisogno originario. Questa visione che
riguarda le azioni come esecuzione di pulsioni per ridurre i bisogni che ne
stanno alla base è coerente con quanto postulato dai primi teorici dell'apprendimento.
Un rinforzo positivo corrisponde all'ottenere qualcosa e riduce di
conseguenza il bisogno collegato. Per esempio, un topo affamato che
riceve come rinforzo del cibo, sentirà diminuire il suo bisogno di
nutrirsi. Un rinforzo negativo al contrario spinge all'azione per
eliminare una situazione nociva o spiacevole, rispondendo quindi al
bisogno di migliorare una situazione negativa. Analogamente, nel caso
dei cani utilizzati per gli esperimenti collegati al condizionamento,
non ricevere più fastidiose scosse elettriche. Più in generale questa
visione è nota come teoria delle pulsioni. Essa, nata
appunto da esperimenti condotti prevalentemente sul comportamento
animale, postula che eventi interni (chiamati “pulsioni”) influiscano
sul valore che gli individui attribuiscono a stimoli esterni, che
possono quindi essere di volta in volta vissuti come stimoli neutri o
come rinforzi. Le pulsioni sono dunque considerate, in sintonia con
quanto sopra esposto, come comportamenti innescati da stati di forte
attivazione che vanno ad attivare comportamenti volti a loro volta a
ridurre questi stati di eccitazione. Siccome un sistema così strutturato
è principalmente volto al mantenimento di un suo equilibrio, questa
modalità di funzionamento delle pulsioni è nota anche come principio dell'omeostasi.
Un'accettazione forte di questa posizione (che a partire dagli anni
Quaranta riscosse grande successo in America, in quanto portava con sé
possibilità non solo di spiegare determinati comportamenti ma anche di
prevederli e controllarli), portò Clark Hull a ritenere
che le pulsioni fossero causa e ragione sufficiente per ogni tipo di
apprendimento. Per lo studioso americano, dunque, si apprende per
alleviare stati di tensione, e di conseguenza è possibile spiegare
comportamenti finalizzati a scopi specifici (come ad esempio
l'apprendere) anche senza ipotizzare l'esistenza di un organismo che in
una qualche misura pianifica e pensa il suo agire (posizione in sintonia
con il comportamentismo che vede la mente come una black box)
•Motivazioni psicologiche
Le motivazioni
che abbiamo esaminato finora sono collegate al soddisfacimento di
bisogni fisiologici. Ma accanto ad essi si pongono anche motivazioni che
potremmo definire come propriamente psicologiche, collegate ai valori,
alle credenze, alla personalità dei singoli individui.
Naturalmente
nella vita quotidiana noi sperimentiamo tutti questi bisogni e le
connesse motivazioni come strettamente legati tra di loro, in quanto noi
come esseri viventi dobbiamo vivere in sintonia con noi stessi (come
composti da una parte fisiologica e una psicologica tra loro
interconnesse) e con l'ambiente in cui siamo inseriti. Di conseguenza i
bisogni che danno il via alle dinamiche motivazionali non si presentano
tutti contemporaneamente e con la stessa urgenza. Come ha teorizzato lo
psicologo statunitense Maslow, esiste una gerarchia dei bisogni:
ciascuno di essi si intensifica o viene avvertito soltanto dopo che il
bisogno precedente, più fondamentale per la sopravvivenza dell'uomo, è
stato soddisfatto. In questa prospettiva i bisogni vengono distinti in primari e secondari;
quelli primari riguardano le principali funzioni biologiche, e sono
quindi i bisogni fisiologici su cui ci siamo già soffermati (fame, sete,
sesso...), e che risultano fondamentali per la sopravvivenza e la
riproduzione dell'individuo. Collegati a questi primari ci sono i
bisogni secondari, che potremmo definire come quelli più tipicamente
umani (sicurezza, appartenenza, stima, autorealizzazione). Maslow
distribuisce anche graficamente questi bisogni in una piramide, i cui
gradini di base sono occupati dai bisogni di carenza
(quelli primari che scompaiono una volta soddisfatti e si ripresentano
solo in situazione di carenza: se ho fame e mi procuro del cibo, non
avvertirò più il bisogno di mangiare fintanto che non sarò nuovamente
affamato), mentre i gradini più alti sono costituiti dai bisogni di crescita, che piuttosto che scomparire tendono ad evolversi con il crescere della persona.
Soffermandoci
ora sulle motivazioni più propriamente psicologiche possiamo farle
rientrare in tre grandi categorie: il bisogno di affiliazione, il
bisogno di successo e il bisogno di potere.
Il bisogno di affiliazione
corrisponde al bisogno di creare una condizione di vicinanza con altre
persone e di ricercare l'appartenenza a un gruppo. La vicinanza
dell'altro avrebbe lo scopo di ridurre l'ansietà e di confrontare le
proprie emozioni. L'origine di questo bisogno può essere ricercata nell'attaccamento
infantile che riguarda la necessità presente alla nascita di stabilire
un legame con una figura umana, di fatto in prevalenza la madre. Come ha
evidenziato l'etologia, l'attaccamento ha la funzione di proteggere il
piccolo dai pericoli esterni e si esprime in comportamenti come quelli
di seguire e ricercare la figura di attaccamento, l'utilizzarla come
base e punto di partenza per la propria crescita personale, piangere o
protestare per la separazione. Il legame persiste anche in caso di
separazione, purché l'ambiente fornisca una figura sostitutiva adeguata:
l'attaccamento si costituisce dunque anche nei confronti di altre
persone oltre alla madre, purché con esse si instauri una relazione
permanente. Secondo J. Bowlby comportamenti di
attaccamento si sviluppano durante tutta la vita, subendo l'influenza
del primo tipo di attaccamento. Grazie a un paradigma osservativo
ispirato all'interpretazione psicoanalitica dell'angoscia provata dal
neonato dall'ottavo mese in presenza di estranei, Ainsworth nel 1978 ha individuato tre tipi di attaccamento: sicuro
(essendo stato abituato a poter contare sull'appoggio della figura
adulta di riferimento il bambino non manifesta angoscia in caso di
separazione), evitante (si verifica quando per motivi
diversi il bambino ha avuto occasione di sperimentare frequenti
rifiuti/abbandoni da parte della madre: di conseguenza non darà segni
negativi in occasione dell'allontanamento della figura materna e tenderà
a non cercarne l'aiuto), ambivalente (non essendo
stato rassicurato adeguatamente sulla presenza della madre, il bambino
manifesta angoscia in caso di separazione, e pur cercando l'aiuto
dell'adulto una volta ottenutolo lo rifiuta spesso). Le modalità di
attaccamento sviluppate dai bambini vanno a costituire la base per la
costruzione di modelli operativi interni, stabili nel
tempo, relativamente alle aspettative nei rapporti affettivi (ad esempio
nella formazione della coppia e nei processi di separazione). Un buon
tipo di attaccamento aiuterà quindi non solamente il bambino nella sua
prima fase di crescita, ma porterà a sviluppare in lui sicurezza,
autonomia e capacità di costruire legami che resteranno stabili nel suo
diventare adulto. Infatti anche nell'instaurare relazioni d'amore la
scelta del partner avviene spesso in maniera simmetrica a quello che è
stato il proprio tipo di attaccamento: ad esempio bambini con uno stile
di attaccamento sicuro tenderanno a investire fortemente nelle
relazioni, credendo nella loro solidità, e sceglieranno tendenzialmente
partner con alle spalle il loro stesso tipo di attaccamento.
Il
bisogno di affiliazione si manifesta anche nella tendenza, riscontrabile
già in bambini di 2 anni, ad attuare nei confronti dei coetanei un comportamento prosociale,
un comportamento volto cioè all'aiuto reciproco e alla condivisione di
esperienze o sofferenze, che negli adulti si articolerà poi nella
ricerca attiva di compagnia, nell'attitudine alla collaborazione,
nell'empatia (intesa come capacità di assumere il punto di vista degli
altri).
Il bisogno di successo è basato sulla
tendenza all'affermazione personale, alla perfezione, e spinge le
persone a svolgere al meglio i compiti in cui sono impegnati, in modo da
incrementare la propria autostima. Chi vive intensamente questo bisogno
tenderà a prefiggersi scopi alla sua portata, ma che al contempo non
appaiono troppo facili, in modo da poter essere adeguatamente stimolati,
ottenere giuste gratificazioni dai propri successi, ma non incontrare
troppo spesso il fallimento. Così come il bisogno di affiliazione basato
sulle tipologie di attaccamento dei bambini risulta predittivo delle
scelte affettive degli adulti, così il bisogno di successo risulta
predittivo delle scelte lavorative degli individui, e ha le sue radici
nel tipo di rapporto genitore-bambino: se i genitori riversano sui figli
aspettative realistiche, incoraggiandoli al contempo a trovare una loro
indipendenza, e premiando affettivamente i loro piccoli successi, è
molto probabile che questo favorirà lo sviluppo di una buona motivazione
al successo. Aspettative troppo elevate o al contrario eccessivamente
basse (percepite quindi come “svalutanti” da parte del bambino) portano
ad inibire il bisogno di successo dei bambini. La motivazione al
successo porta con sé, come aspetto positivo, un forte orientamento al
futuro, e la tendenza quindi ad investire in mete a lungo termine,
escludendo strade che sembrano non portare a nessuno scopo concreto
relativamente agli obiettivi base. D'altro lato però il bisogno di
successo è spesso collegato alla paura del fallimento, che in casi
estremi può portare le persone a fuggire da ogni situazione in cui (a
ragione o a torto) credono di vedere in qualche modo valutate le loro
abilità.
Infine il bisogno di potere consiste
nella tendenza da parte delle persone a voler esercitare la propria
influenza sulle situazioni e sulle persone con cui vengono a contatto: è
quindi differente dal bisogno di potere che spinge le persone a
ricercare successo sulla base di loro standard personali, non
necessariamente in stretto rapporto con quelli del gruppo di
appartenenza. Il bisogno di potere spesso ha le sue radici in situazioni
di forte insicurezza personale che si traducono nel tentativo di
“controllare” chi sta vicino, leggendo quindi nella sua dipendenza una
rassicurazione indiretta riguardo la capacità di “dominio sociale”. Una
persona con forte bisogno di potere non temerà le sfide, sarà sempre
pronto a mettersi in discussione, anche in situazioni che comportano una
certa dose di rischio. Come nel caso del bisogno di successo questa
tendenza al potere può essere vissuta come negativa (possiamo parlare in
questo caso di motivazione al potere personalizzato,
dove si tende a voler sconfiggere a tutti i costi gli avversari per una
gratificazione personale) ma anche come positiva (in questo caso la motivazione sarà a un potere socializzato, e gli individui cercheranno il potere come mezzo per fare del
bene agli altri, non cercando quindi di sottomettere chi sta loro vicino, ma
piuttosto di influenzarli positivamente al fine di renderli poi maggiormente
autonomi).
L'emozione
I
termini “emozione”, “emotivo”, “emotività” compaiono frequentemente nei
nostri discorsi. Questo rispecchia il fatto che ciascuno di noi avverte
le emozioni come facenti parte della nostra vita, determinando spesso
il modo di vedere determinate realtà, di vivere molte delle nostre
esperienze. Ma a cosa facciamo riferimento quando nominiamo le emozioni?
Per lo più pensiamo a delle sensazioni più o meno forti, degli stati
soggettivi che possono avere una durata più o meno prolungata nel tempo,
variare per intensità e per tipo. Il senso comune è inoltre sempre
molto pronto a trovare spiegazioni per la nascita e lo sviluppo di
particolari stati emotivi, e anche per suggerire metodi per affrontare e
gestire tali stati.
Le emozioni, oltre ad avere tanto spazio nel campo della psicologia ingenua, sono un importante oggetto di studio per la psicologia scientifica: sono da essa considerate come reazioni psicofisiche piacevoli o spiacevoli dell'individuo a eventi esterni e interni rilevanti per i suoi scopi, dalla sopravvivenza fisica all'adattamento sociale. Sono costituite da un insieme di risposte alla percezione di uno stimolo con il quale l'organismo interagisce: risposte fisiologiche (alterazioni della frequenza respiratoria e cardiaca, della conduttività elettrica della pelle, della pressione sanguigna), che sfociano in sensazioni corporee quali tachicardia, rossore, sensazioni di caldo o di freddo; risposte tonico-posturali, come la tensione o il rilassamento corporeo; risposte comportamentali predisposte mentalmente, abbozzate o compiutamente attuate; risposte espressive di tipo mimico-facciale, vocale e gestuale; risposte espressive di tipo linguistico (per esempio scelte lessicali e sintattiche), il tutto, naturalmente è arricchito poi dall'esperienza soggettiva dei singoli individui.
Una distinzione alla quale aderiscono numerosi autori è quella tra emozioni fondamentali, o di base, o primarie, ed emozioni complesse, o sociali. Le prime appaiono connesse a scopi quali la sopravvivenza fisica, lo stabilirsi e il mantenersi di una relazione personale, la possibilità di portare a termine le azioni intraprese; risultano comuni all'uomo e agli animali superiori. Le seconde sono invece fortemente dipendenti da scopi e capacità cognitive resi disponibili dallo sviluppo cognitivo e sociale. Le emozioni più frequentemente classificate come fondamentali sono gioia, tristezza, paura, rabbia, alle quali secondo alcuni studiosi si aggiungono sorpresa, disprezzo, disgusto. Tra le emozioni sociali le più assiduamente citate risultano vergogna, senso di colpa, invidia, gelosia. Le emozioni fondamentali – al contrario di quelle sociali – possono essere espresse mediante modalità facciali, gestuali e vocali, che sono universali, cioè indipendenti dalla cultura di appartenenza, e compaiono già nel bambino di meno di un anno e nei primati superiori (“Esprimere le emozioni”). Per quanto riguarda il nascere e lo svilupparsi delle emozioni nei bambini le due principali posizioni sono l'ipotesi della differenziazione, secondo la quale da un iniziale stato di eccitazione si differenziano nel corso dello sviluppo le specifiche emozioni, e l'ipotesi differenziale, in base alla quale già nel neonato sono presenti alcune emozioni primarie.
•Teorie sulle emozioni
Diverse sono le posizioni teoriche assunte dagli psicologi relativamente alla natura, l'origine e la funzione delle emozioni. Fino agli anni Sessanta gli studi sull'emotività si sono organizzati attorno alla controversia tra la teoria di James e quella di Cannon.
James propose nel 1884 una teoria periferica o “viscerale”, secondo la quale “non piangiamo perché siamo tristi, ma siamo tristi perché piangiamo”: l'evento emotigeno causerebbe cioè una serie di cambiamenti a livello viscerale e neurovegetativo, cambiamenti percepiti dall'individuo e interpretati come esperienza emotiva. James parte dunque dalla semplice percezione di un evento che porta al “sentirlo emotivamente”, e pone alla base di questo sentire emotivo l'attivazione fisiologica dell'organismo (arousal) senza la quale non sarebbe possibile neanche definire un'emozione in quanto tale. La posizione di James fu molto criticata, soprattutto da Cannon, che riteneva che i visceri fossero troppo poco sensibili e le loro reazioni troppo indifferenziate per poter essere considerati effettivamente la fonte principale delle emozioni. Tuttavia, sebbene perplessità circa la posizione di James siano inevitabili, la teoria in sé presenta notevoli spunti euristici che sono stati positivamente sviluppati da altri studiosi. Ricordiamo ad esempio l'ipotesi del feedback facciale, che postula un rapporto diretto tra le espressioni facciali e il sentire emotivo (di conseguenza modificando volontariamente le espressioni facciali – ad esempio addestrando i soggetti a contrarre i muscoli implicati nell'atto del sorridere – dovrebbero in qualche modo essere influenzate anche le emozioni corrispondenti, corrispondenza che ha effettivamente trovato un riscontro empirico), e la teoria vascolare dell'efferenza emotiva, che è alla base di discipline quali la meditazione trascendentale, lo yoga, o il training autogeno. Essa postula che il ritmo e le modalità di respirazione, causando un cambiamento della temperatura dell'ipotalamo, influenzino di conseguenza gli stati emotivi: il raffreddamento ipotalamico è condizione base per stati emotivi positivi, mentre, al contrario, un innalzamento della temperatura di questa regione porta a stati emotivi negativi.
Con la sua teoria centrale o neurologica James Cannon, pur rimanendo legato all'origine neurofisiologica delle emozioni, sostenne invece nel 1927 che l'emozione ha origine nella regione talamica dell'encefalo ed è dunque di natura centrale. Successivamente, a partire dal contributo di Cannnon, altri studiosi hanno ipotizzato che il circuito posto come base dell'attivazione e della regolazione dell'emozionalità umana comprenda tutta la zona composta da talamo, ipotalamo (che cordina il sistema nervoso autonomo e se stimolato produce risposte emotive “complete”, quale ad esempio la difesa affettiva nei gatti) e amigdala (considerata come il computer dell'emozionalità:da una parte – circuito subcorticale – valuta le emozioni in maniera rapida, precognitiva, attuando se necessario risposte tempestive, mentre dall'altro – circuito corticale – ponendo in contatto queste informazioni “primitive” con le aree associative della corteccia svolge funzioni superiori di valutazione dell'evento emotigeno).
Le posizioni di J. Cannon, entrambe centrate sugli aspetti neurofisiologici dell'emotività, risultano incomplete in quanto paiono escludere ogni aspetto prettamente psicologico. Il primo a proporre un modello che tenesse conto anche di questo fattore fu Schachter, con la sua teoria cognitivo-attivazionale (o teoria dei due fattori). Egli associò alla comunque imprescindibile attivazione fisiologica una componente di natura psicologica che spiegasse l'attivazione fisiologia (altrimenti a suo parere troppo indifferenziata e aspecifica) sulla base di un evento emotigeno coerente. Schachter ritiene che entrambe le componenti siano condizioni imprescindibili per lo sperimentare da parte degli individui di un qualsiasi stato emotivo, e che essi debbano inoltre essere accompagnate da un secondo atto cognitivo (successivo alla percezione e al riconoscimento dello stato emotivo) che permetta di stabilire una connessione tra i due fattori portando ad “etichettare” in maniera appropriata l'emozione che si sperimenta. Schachter tentò di trovare conferma sperimentale alla sua teoria e alle ipotesi da essa derivate, e in molti casi ebbe risultati incoraggianti: ad esempio riuscì a dimostrare che se le persone sono spinte ad attribuire un'attivazione indipendente da uno stato emotigeno (ad esempio quella conseguente alla somministrazione di uno stimolante quale l'adrenalina) ad una situazione emotivamente pertinente, produrranno risposte emotive coerenti con l'associazione formate. Per cui soggetti a cui era stata somministrata adrenalina, ma che non erano stati informati correttamente circa la sostanza che assumevano e i suoi effetti, e che venivano successivamente posti a contatto con stimoli emotigeni, tendevano ad associare lo stato di attivazione fisica che sentivano (causato dall'adrenalina) alla situazione che stavano vivendo, intensificando le loro risposte emotive rispetto a persone che, trovandosi in situazione analoga, erano però stati correttamente informati riguardo gli effetti dell'adrenalina.
Dopo la svolta nel modo di concepire e studiare le emozioni imposta dalla teoria dei due fattori, gli anni Ottanta videro sorgere le teorie dell'appraisal. Appraisal è un termine inglese (valutazione, perizia), con cui si designa la valutazione cognitiva degli stimoli. In psicologia delle emozioni, alcuni studiosi sostengono che emozioni diverse sono caratterizzate da differenti sistemi valutativi, composti da specifiche componenti o dimensioni; l'appraisal sarebbe dunque all'origine della risposta emozionale. Questa visione si contrappone al senso comune, che vedrebbe il sentire emotivo come qualcosa di immediato, non controllabile, e ben distinto da controlli cognitivi specifici. Gli studiosi dell'appraisal sostengono al contrario che le emozioni non possono nascere senza una ragione e che la loro origine è riscontrabile sempre in una qualche forma di valutazione cognitiva della situazione collegata all'evento emotigeno con tutti i suoi possibili legami con il benessere e le aspettative, gli scopi, i desideri del soggetto coinvolto. In questo modo si mette in risalto, accanto alla valutazione cognitiva, l'importanza della soggettività nella percezione e di un'esperienza emotiva. Le principali valutazioni riguardano il carattere piacevole o spiacevole dell'evento cui segue l'emozione, la sua novità, la previsione della sua durata e controllabilità, l'incertezza circa le sue conseguenze, la sua compatibilità con le norme sociali di riferimento e con l'immagine che l'individuo coinvolto ha di sé.
Altri studiosi, rifacendosi agli studi di Darwin, hanno preferito vedere le emozioni come reazioni sviluppatesi per la sopravvivenza della specie umana (ad esempio la paura porterebbe a scappare davanti a un pericolo, il sorridere come reazione di gioia faciliterebbe il riconoscimento di persone non ostili...). Le emozioni, quanto meno quelle primarie, vengono dunque concepite all'interno di queste teorie psicoevoluzionistiche come qualcosa di unitario e innato nell'uomo. Esse quindi, così come le corrispettive espressioni facciali che le caratterizzano, sarebbero geneticamente determinate e automatiche nel loro insorgere.
•Esprimere le emozioni
Le emozioni oltre a svolgere una funzione che potremmo definire più “personale” riguardante l'interiorità e il sentire del singolo individuo, sono anche un importante mezzo di comunicazione. Le emozioni non restano solamente dentro di noi ma vengono condivise, tramite espressioni, gesti e parole con chi ci sta accanto. Tali forme espressive vengono generalmente considerate come strettamente connesse alla espressioni che le hanno generate e facilmente decifrabili da chiunque. La psicologia si è occupata di studiare l'emotività anche da questo particolare punto di vista.
Per quanto riguarda l'espressione facciale delle emozioni, come già accennato sopra, il primo problema preso in considerazione dagli studiosi delle emozioni riguardava l'innatezza e l'universalità delle espressioni emotive (ipotizzate da Darwin): alcuni psicologi, tra cui Eckman e Izard, si sono schierati decisamente a favore di una tesi innatista, secondo la quale le espressioni facciali delle emozioni primarie sono condivise e riconosciute da tutti gli esseri umani in quanto fissate su basi genetiche. Ma ricerche condotte in maniera approfondita per confermare questa ipotesi hanno fatto sorgere pesanti dubbi sulla sua fondatezza, e l'unica emozione che viene effettivamente riconosciuta in maniera stabile a prescindere da situazioni di contorno quali la cultura di appartenenza dei soggetti o gli stimoli utilizzati dagli sperimentatori è la gioia, mentre risultati più modesti si sono ottenuti con le espressioni di emozioni negative. In definitiva si è giunti a concordare sul fatto che esista un certo legame universale tra le emozioni di base e le loro espressioni facciali, ma tale legame funge esclusivamente da base all'espressione delle emozioni lasciando ampio spazio a influenze ambientali, culturali e soggettive.
Le emozioni possono anche essere trasmesse, e quindi percepite a livello vocale. Questa modalità espressiva è stata oggetto di minore attenzione da parte della psicologia scientifica, ma gli studi condotti hanno comunque evidenziato aspetti interessanti della questione. La voce si presenta come uno strumento estremamente ricco di potenzialità e molto flessibile, che con le infinite possibili variazioni nel tono dell'eloquio, nella sua durata (il ritmo con cui parliamo, la velocità, il modo in cui tendiamo ad utilizzare le pause), nell'intensità e nell'articolazione delle parole offre molti modi per arricchire di significati quanto viene detto a livello puramente verbale. Studi sono stati condotti sia sulla fase di encoding (si misurano nell'eloquio dei soggetti i correlati acustici delle diverse emozioni, cioè come una persona parlando utilizza la voce per esprimere una determinata emozione) dell'espressione vocale delle emozioni che su quella di decoding (se e come l'ascoltatore è in grado di riconoscere correttamente l'emozione che il parlante voleva trasmettere). Tali studi hanno evidenziato da una parte come ogni espressione sia effettivamente caratterizzata da precisi indicatori vocali, e dall'altra come gli ascoltatori siano in grado di riconoscere correttamente (con una percentuale di accuratezza che si avvicina al 60%, percentuale superiore a quella riscontrata negli studi sul riconoscimento delle espressioni facciali) uno stato emotivo basandosi esclusivamente su questi indicatori vocali.
In conclusione è però importante sottolineare come non sempre c'è una diretta corrispondenza tra l'emozione come viene sentita dal soggetto e l'emozione che viene espressa: spesso un'elaborazione dell'emozione stessa può avvenire sulla base della valutazione che il soggetto stesso attua sull'emozione: il fatto di sentirsi più o meno in grado di far fronte all'evento emotigeno lo porterà ad enfatizzare o inibire l'espressione stessa dell'emozione che prova, così come l'avvertire l'emozione come compatibile o meno con le sue norme sociali di riferimento (spesso, ad esempio, emozioni come la tristezza o la gelosia vengono attenuate nella loro manifestazione per cercare di trasmettere agli altri una migliore immagine di sé sulla base delle norme sociali condivise).
•Emozioni e cultura
Come abbiamo visto, le emozioni non dipendono unicamente da un'attivazione neurofisiologica, ma comprendono, a vari livelli, valutazioni attive da parte degli individui. Questa valutazione non solo porta ad associare alle emozioni dei processi cognitivi di ordine superiore (vedi paragrafo “Emozioni e processi cognitivi”), ma sottolinea anche l'importanza dell'individualità e del contesto culturale di riferimento nell'interpretare e quindi nel vivere una determinata emozione.
Così a seconda anche dei valori di riferimento, in determinate culture alcune emozioni si riscontrano con più frequenza di altre (per esempio, in una cultura come quella indiana dove la tendenza è di assegnare maggior importanza al destino e/o a forze di natura soprannaturale, non controllabili dall'uomo, sarà meno facile riscontrare collera nella popolazione rispetto alle società occidentali che tendono al contrario a sottolineare le responsabilità dei singoli), o addirittura esistono emozioni non condivise con altre culture (come l'emozione che i giapponesi chiamano oime e che corrisponde a un sentimento di debito psicologico e morale nei confronti di un'altra persona). Va anche considerata la tendenza ad esprimere o reprimere le emozioni varierà da popolo a popolo: così ad esempio è luogo comune che gli inglesi tendano a cercare di mantenersi freddi e distaccati rispetto all'emotività, finendo per parlare delle loro emozioni più che mostrarle, mentre accade esattamente il contrario in Polonia, dove il mostrarsi riservati relativamente al proprio sentire è visto in termini estremamente negativi. Inoltre le persone tenderanno a sviluppare una determinata focalità emotiva nei confronti di certe emozioni piuttosto che di altre e ad attivarsi di conseguenza in maniera più veloce fornendo risposte immediate quando si trovano davanti ad eventi che vengono riconosciuti come “focali” per la propria cultura, eventi davanti ai quali l'individuo si sente in un certo senso chiamato a prestare attenzione e dare una sua qualche risposta.
•Emozioni e processi cognitivi
Abbiamo visto come lo studio delle emozioni ha presto adottato una prospettiva strettamente psicologica rispetto ai primi studi più neurofisiologici, prospettiva in cui grande spazio è stato riservato all'indagine dei rapporti tra emozione e processi cognitivi (percezione, memoria, rappresentazione, linguaggio). Oltre alle posizioni già esaminate precedentemente scorrendo i principali teorici che si sono occupati di definire l'emotività, è interessante anche ricordare come in quest'ambito un dibattito assai vivace ha riguardato negli anni Ottanta il problema della dipendenza o dell'indipendenza dell'emozione dalla cognizione: esemplari di due punti di vista antitetici sono la posizione di Zajonc e Lazarus. Zajonc ha sostenuto che sistema cognitivo e sistema emotivo sono separati e parzialmente indipendenti: l'emozione può sorgere senza che alcun processo cognitivo la preceda, benché generalmente i due sistemi funzionino congiuntamente. Lazarus ha invece affermato che i fenomeni emozionali sono profondamente e completamente interconnessi ai processi cognitivi. Per entrambi gli autori i processi percettivi sensoriali precedono l'insorgere dell'emozione, ma per Zajonc tali processi sono di tipo riflesso, mentre per Lazarus essi sono caratterizzati dalla presenza di elaborazione cognitiva, benché preconscia, e danno luogo alla valutazione della situazione (quella stessa cui fanno riferimento i teorici dell'appraisal sopra ricordati) da cui origina l'emozione. Altre posizioni sui rapporti tra emotività e processi cognitivi sono quella dell'interconnessione radicale tra i due sistemi, elaborata da Leventhal e Scherer, e quella di Izard, secondo cui cognizione ed emozione costituiscono sistemi separati ma interagenti. Secondo Izard è necessario distinguere tra esperienza emotiva sentita e simbolizzata: l'esperienza emotiva può essere consapevole senza dare luogo necessariamente a una rappresentazione cognitiva. In tale forma, essa rappresenta l'aspetto motivazionale dell'esperienza e diviene emozione simbolizzata qualora si connetta a pensieri, simboli, immagini.
Le emozioni, oltre ad avere tanto spazio nel campo della psicologia ingenua, sono un importante oggetto di studio per la psicologia scientifica: sono da essa considerate come reazioni psicofisiche piacevoli o spiacevoli dell'individuo a eventi esterni e interni rilevanti per i suoi scopi, dalla sopravvivenza fisica all'adattamento sociale. Sono costituite da un insieme di risposte alla percezione di uno stimolo con il quale l'organismo interagisce: risposte fisiologiche (alterazioni della frequenza respiratoria e cardiaca, della conduttività elettrica della pelle, della pressione sanguigna), che sfociano in sensazioni corporee quali tachicardia, rossore, sensazioni di caldo o di freddo; risposte tonico-posturali, come la tensione o il rilassamento corporeo; risposte comportamentali predisposte mentalmente, abbozzate o compiutamente attuate; risposte espressive di tipo mimico-facciale, vocale e gestuale; risposte espressive di tipo linguistico (per esempio scelte lessicali e sintattiche), il tutto, naturalmente è arricchito poi dall'esperienza soggettiva dei singoli individui.
Una distinzione alla quale aderiscono numerosi autori è quella tra emozioni fondamentali, o di base, o primarie, ed emozioni complesse, o sociali. Le prime appaiono connesse a scopi quali la sopravvivenza fisica, lo stabilirsi e il mantenersi di una relazione personale, la possibilità di portare a termine le azioni intraprese; risultano comuni all'uomo e agli animali superiori. Le seconde sono invece fortemente dipendenti da scopi e capacità cognitive resi disponibili dallo sviluppo cognitivo e sociale. Le emozioni più frequentemente classificate come fondamentali sono gioia, tristezza, paura, rabbia, alle quali secondo alcuni studiosi si aggiungono sorpresa, disprezzo, disgusto. Tra le emozioni sociali le più assiduamente citate risultano vergogna, senso di colpa, invidia, gelosia. Le emozioni fondamentali – al contrario di quelle sociali – possono essere espresse mediante modalità facciali, gestuali e vocali, che sono universali, cioè indipendenti dalla cultura di appartenenza, e compaiono già nel bambino di meno di un anno e nei primati superiori (“Esprimere le emozioni”). Per quanto riguarda il nascere e lo svilupparsi delle emozioni nei bambini le due principali posizioni sono l'ipotesi della differenziazione, secondo la quale da un iniziale stato di eccitazione si differenziano nel corso dello sviluppo le specifiche emozioni, e l'ipotesi differenziale, in base alla quale già nel neonato sono presenti alcune emozioni primarie.
•Teorie sulle emozioni
Diverse sono le posizioni teoriche assunte dagli psicologi relativamente alla natura, l'origine e la funzione delle emozioni. Fino agli anni Sessanta gli studi sull'emotività si sono organizzati attorno alla controversia tra la teoria di James e quella di Cannon.
James propose nel 1884 una teoria periferica o “viscerale”, secondo la quale “non piangiamo perché siamo tristi, ma siamo tristi perché piangiamo”: l'evento emotigeno causerebbe cioè una serie di cambiamenti a livello viscerale e neurovegetativo, cambiamenti percepiti dall'individuo e interpretati come esperienza emotiva. James parte dunque dalla semplice percezione di un evento che porta al “sentirlo emotivamente”, e pone alla base di questo sentire emotivo l'attivazione fisiologica dell'organismo (arousal) senza la quale non sarebbe possibile neanche definire un'emozione in quanto tale. La posizione di James fu molto criticata, soprattutto da Cannon, che riteneva che i visceri fossero troppo poco sensibili e le loro reazioni troppo indifferenziate per poter essere considerati effettivamente la fonte principale delle emozioni. Tuttavia, sebbene perplessità circa la posizione di James siano inevitabili, la teoria in sé presenta notevoli spunti euristici che sono stati positivamente sviluppati da altri studiosi. Ricordiamo ad esempio l'ipotesi del feedback facciale, che postula un rapporto diretto tra le espressioni facciali e il sentire emotivo (di conseguenza modificando volontariamente le espressioni facciali – ad esempio addestrando i soggetti a contrarre i muscoli implicati nell'atto del sorridere – dovrebbero in qualche modo essere influenzate anche le emozioni corrispondenti, corrispondenza che ha effettivamente trovato un riscontro empirico), e la teoria vascolare dell'efferenza emotiva, che è alla base di discipline quali la meditazione trascendentale, lo yoga, o il training autogeno. Essa postula che il ritmo e le modalità di respirazione, causando un cambiamento della temperatura dell'ipotalamo, influenzino di conseguenza gli stati emotivi: il raffreddamento ipotalamico è condizione base per stati emotivi positivi, mentre, al contrario, un innalzamento della temperatura di questa regione porta a stati emotivi negativi.
Con la sua teoria centrale o neurologica James Cannon, pur rimanendo legato all'origine neurofisiologica delle emozioni, sostenne invece nel 1927 che l'emozione ha origine nella regione talamica dell'encefalo ed è dunque di natura centrale. Successivamente, a partire dal contributo di Cannnon, altri studiosi hanno ipotizzato che il circuito posto come base dell'attivazione e della regolazione dell'emozionalità umana comprenda tutta la zona composta da talamo, ipotalamo (che cordina il sistema nervoso autonomo e se stimolato produce risposte emotive “complete”, quale ad esempio la difesa affettiva nei gatti) e amigdala (considerata come il computer dell'emozionalità:da una parte – circuito subcorticale – valuta le emozioni in maniera rapida, precognitiva, attuando se necessario risposte tempestive, mentre dall'altro – circuito corticale – ponendo in contatto queste informazioni “primitive” con le aree associative della corteccia svolge funzioni superiori di valutazione dell'evento emotigeno).
Le posizioni di J. Cannon, entrambe centrate sugli aspetti neurofisiologici dell'emotività, risultano incomplete in quanto paiono escludere ogni aspetto prettamente psicologico. Il primo a proporre un modello che tenesse conto anche di questo fattore fu Schachter, con la sua teoria cognitivo-attivazionale (o teoria dei due fattori). Egli associò alla comunque imprescindibile attivazione fisiologica una componente di natura psicologica che spiegasse l'attivazione fisiologia (altrimenti a suo parere troppo indifferenziata e aspecifica) sulla base di un evento emotigeno coerente. Schachter ritiene che entrambe le componenti siano condizioni imprescindibili per lo sperimentare da parte degli individui di un qualsiasi stato emotivo, e che essi debbano inoltre essere accompagnate da un secondo atto cognitivo (successivo alla percezione e al riconoscimento dello stato emotivo) che permetta di stabilire una connessione tra i due fattori portando ad “etichettare” in maniera appropriata l'emozione che si sperimenta. Schachter tentò di trovare conferma sperimentale alla sua teoria e alle ipotesi da essa derivate, e in molti casi ebbe risultati incoraggianti: ad esempio riuscì a dimostrare che se le persone sono spinte ad attribuire un'attivazione indipendente da uno stato emotigeno (ad esempio quella conseguente alla somministrazione di uno stimolante quale l'adrenalina) ad una situazione emotivamente pertinente, produrranno risposte emotive coerenti con l'associazione formate. Per cui soggetti a cui era stata somministrata adrenalina, ma che non erano stati informati correttamente circa la sostanza che assumevano e i suoi effetti, e che venivano successivamente posti a contatto con stimoli emotigeni, tendevano ad associare lo stato di attivazione fisica che sentivano (causato dall'adrenalina) alla situazione che stavano vivendo, intensificando le loro risposte emotive rispetto a persone che, trovandosi in situazione analoga, erano però stati correttamente informati riguardo gli effetti dell'adrenalina.
Dopo la svolta nel modo di concepire e studiare le emozioni imposta dalla teoria dei due fattori, gli anni Ottanta videro sorgere le teorie dell'appraisal. Appraisal è un termine inglese (valutazione, perizia), con cui si designa la valutazione cognitiva degli stimoli. In psicologia delle emozioni, alcuni studiosi sostengono che emozioni diverse sono caratterizzate da differenti sistemi valutativi, composti da specifiche componenti o dimensioni; l'appraisal sarebbe dunque all'origine della risposta emozionale. Questa visione si contrappone al senso comune, che vedrebbe il sentire emotivo come qualcosa di immediato, non controllabile, e ben distinto da controlli cognitivi specifici. Gli studiosi dell'appraisal sostengono al contrario che le emozioni non possono nascere senza una ragione e che la loro origine è riscontrabile sempre in una qualche forma di valutazione cognitiva della situazione collegata all'evento emotigeno con tutti i suoi possibili legami con il benessere e le aspettative, gli scopi, i desideri del soggetto coinvolto. In questo modo si mette in risalto, accanto alla valutazione cognitiva, l'importanza della soggettività nella percezione e di un'esperienza emotiva. Le principali valutazioni riguardano il carattere piacevole o spiacevole dell'evento cui segue l'emozione, la sua novità, la previsione della sua durata e controllabilità, l'incertezza circa le sue conseguenze, la sua compatibilità con le norme sociali di riferimento e con l'immagine che l'individuo coinvolto ha di sé.
Altri studiosi, rifacendosi agli studi di Darwin, hanno preferito vedere le emozioni come reazioni sviluppatesi per la sopravvivenza della specie umana (ad esempio la paura porterebbe a scappare davanti a un pericolo, il sorridere come reazione di gioia faciliterebbe il riconoscimento di persone non ostili...). Le emozioni, quanto meno quelle primarie, vengono dunque concepite all'interno di queste teorie psicoevoluzionistiche come qualcosa di unitario e innato nell'uomo. Esse quindi, così come le corrispettive espressioni facciali che le caratterizzano, sarebbero geneticamente determinate e automatiche nel loro insorgere.
•Esprimere le emozioni
Le emozioni oltre a svolgere una funzione che potremmo definire più “personale” riguardante l'interiorità e il sentire del singolo individuo, sono anche un importante mezzo di comunicazione. Le emozioni non restano solamente dentro di noi ma vengono condivise, tramite espressioni, gesti e parole con chi ci sta accanto. Tali forme espressive vengono generalmente considerate come strettamente connesse alla espressioni che le hanno generate e facilmente decifrabili da chiunque. La psicologia si è occupata di studiare l'emotività anche da questo particolare punto di vista.
Per quanto riguarda l'espressione facciale delle emozioni, come già accennato sopra, il primo problema preso in considerazione dagli studiosi delle emozioni riguardava l'innatezza e l'universalità delle espressioni emotive (ipotizzate da Darwin): alcuni psicologi, tra cui Eckman e Izard, si sono schierati decisamente a favore di una tesi innatista, secondo la quale le espressioni facciali delle emozioni primarie sono condivise e riconosciute da tutti gli esseri umani in quanto fissate su basi genetiche. Ma ricerche condotte in maniera approfondita per confermare questa ipotesi hanno fatto sorgere pesanti dubbi sulla sua fondatezza, e l'unica emozione che viene effettivamente riconosciuta in maniera stabile a prescindere da situazioni di contorno quali la cultura di appartenenza dei soggetti o gli stimoli utilizzati dagli sperimentatori è la gioia, mentre risultati più modesti si sono ottenuti con le espressioni di emozioni negative. In definitiva si è giunti a concordare sul fatto che esista un certo legame universale tra le emozioni di base e le loro espressioni facciali, ma tale legame funge esclusivamente da base all'espressione delle emozioni lasciando ampio spazio a influenze ambientali, culturali e soggettive.
Le emozioni possono anche essere trasmesse, e quindi percepite a livello vocale. Questa modalità espressiva è stata oggetto di minore attenzione da parte della psicologia scientifica, ma gli studi condotti hanno comunque evidenziato aspetti interessanti della questione. La voce si presenta come uno strumento estremamente ricco di potenzialità e molto flessibile, che con le infinite possibili variazioni nel tono dell'eloquio, nella sua durata (il ritmo con cui parliamo, la velocità, il modo in cui tendiamo ad utilizzare le pause), nell'intensità e nell'articolazione delle parole offre molti modi per arricchire di significati quanto viene detto a livello puramente verbale. Studi sono stati condotti sia sulla fase di encoding (si misurano nell'eloquio dei soggetti i correlati acustici delle diverse emozioni, cioè come una persona parlando utilizza la voce per esprimere una determinata emozione) dell'espressione vocale delle emozioni che su quella di decoding (se e come l'ascoltatore è in grado di riconoscere correttamente l'emozione che il parlante voleva trasmettere). Tali studi hanno evidenziato da una parte come ogni espressione sia effettivamente caratterizzata da precisi indicatori vocali, e dall'altra come gli ascoltatori siano in grado di riconoscere correttamente (con una percentuale di accuratezza che si avvicina al 60%, percentuale superiore a quella riscontrata negli studi sul riconoscimento delle espressioni facciali) uno stato emotivo basandosi esclusivamente su questi indicatori vocali.
In conclusione è però importante sottolineare come non sempre c'è una diretta corrispondenza tra l'emozione come viene sentita dal soggetto e l'emozione che viene espressa: spesso un'elaborazione dell'emozione stessa può avvenire sulla base della valutazione che il soggetto stesso attua sull'emozione: il fatto di sentirsi più o meno in grado di far fronte all'evento emotigeno lo porterà ad enfatizzare o inibire l'espressione stessa dell'emozione che prova, così come l'avvertire l'emozione come compatibile o meno con le sue norme sociali di riferimento (spesso, ad esempio, emozioni come la tristezza o la gelosia vengono attenuate nella loro manifestazione per cercare di trasmettere agli altri una migliore immagine di sé sulla base delle norme sociali condivise).
•Emozioni e cultura
Come abbiamo visto, le emozioni non dipendono unicamente da un'attivazione neurofisiologica, ma comprendono, a vari livelli, valutazioni attive da parte degli individui. Questa valutazione non solo porta ad associare alle emozioni dei processi cognitivi di ordine superiore (vedi paragrafo “Emozioni e processi cognitivi”), ma sottolinea anche l'importanza dell'individualità e del contesto culturale di riferimento nell'interpretare e quindi nel vivere una determinata emozione.
Così a seconda anche dei valori di riferimento, in determinate culture alcune emozioni si riscontrano con più frequenza di altre (per esempio, in una cultura come quella indiana dove la tendenza è di assegnare maggior importanza al destino e/o a forze di natura soprannaturale, non controllabili dall'uomo, sarà meno facile riscontrare collera nella popolazione rispetto alle società occidentali che tendono al contrario a sottolineare le responsabilità dei singoli), o addirittura esistono emozioni non condivise con altre culture (come l'emozione che i giapponesi chiamano oime e che corrisponde a un sentimento di debito psicologico e morale nei confronti di un'altra persona). Va anche considerata la tendenza ad esprimere o reprimere le emozioni varierà da popolo a popolo: così ad esempio è luogo comune che gli inglesi tendano a cercare di mantenersi freddi e distaccati rispetto all'emotività, finendo per parlare delle loro emozioni più che mostrarle, mentre accade esattamente il contrario in Polonia, dove il mostrarsi riservati relativamente al proprio sentire è visto in termini estremamente negativi. Inoltre le persone tenderanno a sviluppare una determinata focalità emotiva nei confronti di certe emozioni piuttosto che di altre e ad attivarsi di conseguenza in maniera più veloce fornendo risposte immediate quando si trovano davanti ad eventi che vengono riconosciuti come “focali” per la propria cultura, eventi davanti ai quali l'individuo si sente in un certo senso chiamato a prestare attenzione e dare una sua qualche risposta.
•Emozioni e processi cognitivi
Abbiamo visto come lo studio delle emozioni ha presto adottato una prospettiva strettamente psicologica rispetto ai primi studi più neurofisiologici, prospettiva in cui grande spazio è stato riservato all'indagine dei rapporti tra emozione e processi cognitivi (percezione, memoria, rappresentazione, linguaggio). Oltre alle posizioni già esaminate precedentemente scorrendo i principali teorici che si sono occupati di definire l'emotività, è interessante anche ricordare come in quest'ambito un dibattito assai vivace ha riguardato negli anni Ottanta il problema della dipendenza o dell'indipendenza dell'emozione dalla cognizione: esemplari di due punti di vista antitetici sono la posizione di Zajonc e Lazarus. Zajonc ha sostenuto che sistema cognitivo e sistema emotivo sono separati e parzialmente indipendenti: l'emozione può sorgere senza che alcun processo cognitivo la preceda, benché generalmente i due sistemi funzionino congiuntamente. Lazarus ha invece affermato che i fenomeni emozionali sono profondamente e completamente interconnessi ai processi cognitivi. Per entrambi gli autori i processi percettivi sensoriali precedono l'insorgere dell'emozione, ma per Zajonc tali processi sono di tipo riflesso, mentre per Lazarus essi sono caratterizzati dalla presenza di elaborazione cognitiva, benché preconscia, e danno luogo alla valutazione della situazione (quella stessa cui fanno riferimento i teorici dell'appraisal sopra ricordati) da cui origina l'emozione. Altre posizioni sui rapporti tra emotività e processi cognitivi sono quella dell'interconnessione radicale tra i due sistemi, elaborata da Leventhal e Scherer, e quella di Izard, secondo cui cognizione ed emozione costituiscono sistemi separati ma interagenti. Secondo Izard è necessario distinguere tra esperienza emotiva sentita e simbolizzata: l'esperienza emotiva può essere consapevole senza dare luogo necessariamente a una rappresentazione cognitiva. In tale forma, essa rappresenta l'aspetto motivazionale dell'esperienza e diviene emozione simbolizzata qualora si connetta a pensieri, simboli, immagini.
In sintesi
La Motivazione | Gli istinti - Prospettive evoluzionistiche - Etologia - Freud Pulsioni e incentivi - Pulsione come dimensione psicologicadi un bisogno fisiologico - Incentivi esterni o interni - Collegamento tra pulsioni e incentivi - Teoria delle pulsioni - Principio dell'omeostasi Motivazioni psicologiche - Maslow: piramide dei bisogni, suddivisi in bisogni di carenza e di crescita - Il bisogno di affiliazione, l'attaccamento infantile - Il bisogno di successo - Il bisogno di potere |
L'Emozione | - Intese come reazioni psicofisiche a eventi esterni o interni - Emozioni fondamentali vs. emozioni complesse Teorie sulle emozioni - Teoria periferica - Teoria centrale - Teoria cognitivo-attivazionale - Teorie dell'appraisal Esprimere le emozioni - Espressione facciale - Espressione vocale Emozioni e cultura - Importanza dell'individualità e del contesto nella valutazione dell'emotività - Emozioni specifiche per cultura Emozioni e processi cognitivi - Zajonc: emozione e cognizione come separati e indipendenti - Lazarus: fenomeni emozionali e processi cognitivi come profondamente interconnessi - Izard: sistemi separati ma interagenti |
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