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martedì 22 maggio 2012

PROSPETTIVE CONTEMPORANEE IN SOCIOLOGIA DELLA SALUTE

Facoltà di Scienze della Formazione
Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione
Anno Accademico 2007-2008

Relatore: Chiar.mo Prof. Natale Ammaturo                                      
Tesi di Sociologia della Cultura 
PROSPETTIVE CONTEMPORANEE
IN SOCIOLOGIA DELLA SALUTE

 


 






Questo argomento di studio, quale nostro lavoro di chiusura del corso universitario, s’immerge nell’attualità, in “media res”. Abbiamo motivo di augurarci che questi nuovi livelli di conoscenza possano creare ulteriori spazi di reciproca comprensione tra tutti coloro che, per sensibilità personale e professionale, vogliano “riscoprire le radici etico-sociali di ogni costruzione normativa che intenda regolare, redimere e indicare i percorsi strutturali che sorreggono l’edificio dell’attuale assetto della Sanità in Italia, della società contemporanea e della stessa civiltà moderna”.
Una lettura sociologica dei processi sociali e culturali alla base della definizione della forma sociale della salute sembra quindi indispensabile nel più generale obiettivo di ricerca costituito dallo spazio sociale della salute. Tale lettura sembra assumere un particolare rilievo nel quadro dello sviluppo tecnologico della medicina e dei trattamenti terapeutici, anche con riferimento  ai costi del sistema salute[1].
La questione sembra spostarsi sempre di più non solo nel rapporto dell’attore sociale con la malattia ma anche con una malattia non ancora sviluppata a cui il soggetto è predisposto, ancora prima della sua nascita.
Il rapporto con l’attore sociale dovrà essere diversamente interpretato poiché non è possibile considerare l’individuo una vittima innocente del suo stato: la medicina predittiva valuta il rischio genetico e caratterizza le condizioni che potrebbero portare la malattia a manifestarsi.
Tale prospettiva costituisce un’ulteriore novità a livello di concettualizzazione della salute e della malattia sia per le strategie medico-sanitarie, sia per l’impatto nel sistema sociale e culturale, in quanto gli interventi non potranno più essere a livello di gruppi ma bensì su basi individuali[2].
Una visione sociale della medicina sembra quindi spostare l’attenzione nella promozione e nella informazione della salute, sui determinanti sociali, culturali, politici ed economici della salute in termini di fattori e variabili in relazione fra di loro senza dimenticare che al centro vi è l’individuo. È in questa prospettiva di tipo relazionale che la sociologia intende guardare alla salute, in una realtà post-moderna in cui i valori sembrano spostarsi continuamente verso un individualismo sistemico, una esigenza di efficienza, una moltiplicazione dei ruoli dell’attore sociale.
Il rapporto tra salute e sistema sociale è oggi complesso, distanziato e paradossalmente compenetrato.
Ci è sembrato opportuno consultare una serie di lavori concernenti la Salute, la Sanità e la Sociologia.  Dagli autorevoli interventi sono emerse tutte le scottanti problematiche della società in trasformazione, coinvolta nei processi di globalizzazione e stravolta nei suoi più intimi valori etici.
Ci proponiamo di tracciare, seguendo il filo rosso della produzione giuridica nazionale, europea e mondiale, attraverso una breve analisi dell’universalità dei valori morali e delle origini dello studio della sociologia della salute, una nuova sintesi e integrazione, laica e cristiana, di concetti e contenuti in tema di Salute e Diritti dell’Uomo del terzo millennio (capitolo primo).
La sociologia della salute si occupa dell’analisi sociologica nel campo delle professioni sanitarie e di quelle strutture organizzative che tutelano il benessere. La medicina viene definita dalla Encyclopedia Britannica sia come scienza che riguarda il mantenimento  della salute e la prevenzione, mitigazione o cura della malattia, sia come pratica professionale che concerne la protezione della salute e la cura della malattia[3].
La sociologia della salute viene introdotta in Italia da Costantino Cipolla alla fine degli anni 90, per affrontare le problematiche di un sistema sanitario nazionale che non sembra essere più capace di far fronte agli standard di qualità richiesti dall’utenza e quella clinica in corrispondenza con i lavori di collaborazione con il Comitato di ricerca dell’International Sociological Association.
La domanda relativa alla salute è una delle questioni  più vive nel recente dibattito sociologico e tale interesse sembra andare a coincidere con la frattura tra il positivismo medico ed il positivismo sociologico in una visione più “comprensiva”, considerando l’osservazione del mondo vitale degli individui, dei loro bisogni, delle soggettività e delle relazioni quotidiane[4].
Inoltre, portandoci su uno dei gangli del problema relativi al parametro di legalità costituzionale e grundnorm dell’ordinamento giuridico, abbiamo cercato di individuare i diritti inviolabili in ogni democrazia costituzionale, con particolare attenzione all’Ordinamento giuridico Comunitario e alla normativa nazionale sul Servizio sanitario.
L’aspetto più significativo riguarda l’attribuzione alle regioni di molte funzioni in ambito di tutela della salute, che ha fatto nascere diversi sistemi sanitari regionali, dotati di propri e autonomi governi. Si analizza la pianificazione sanitaria e l’approvazione dei piani sanitari regionali, i sistemi di accreditamento e finanziamento, programmazione e controllo e, infine la definizione degli indirizzi e delle politiche regionali. Si propongono i dati nazionali di spesa del servizio sanitario e si analizzano le ragioni che hanno portato ad un aumento della spesa sanitaria negli ultimi anni.
Questa visione sociologicamente “comprensiva” della polarità salute-malattia sembra costituire la più grande preoccupazione sociale sia a livello individuale, sia a livello collettivo con riferimento ad un soggetto agente che si muove fra il mondo vitale ed un sistema sociale sempre più imprevedibile e multidimensionale[5] (capitolo secondo).
Nella generale evoluzione dei sistemi che afferiscono alla salute, siano essi collocati nella dimensione biologica e tecnica, sia nella dimensione culturale, politica ed economica, sembra essenziale tentare di definire le diverse forme ed implicazioni sociali che questo processo richiede.
Una trattazione particolare abbiamo dedicato alle mutazioni del fondamento dei diritti umani, in prospettiva socio-biologica, della Costituzione Europea e delle “super politiche Comunitarie”.
A tal fine, abbiamo cercato di tracciare, sulla scorta di diversi studi, il profilo della Salute/bioetica come “territorio di confronto culturale” nelle Università del mondo, di individuare e sottolineare i valori umani e professionali, concludendo con “la svolta pedagogica attuale”, elaborata dalle Istituzioni e percepita dai cittadini, entro una visione della Paideia occidentale moderna (capitolo terzo).
Si può comprendere l’importanza di quest’ultima in una società in continua evoluzione, qual è quella in cui viviamo, contrassegnata proprio dalla comunicazione, dall’apparire, dal senso della visibilità e dello “spettacolo”, dalla tecnologizzazione di ogni campo dello scibile umano - compresa la domanda di salute, al mero servizio delle leggi del mercato mondiale.
Si pone l’introduzione, negli ultimi anni, dei livelli essenziali di assistenza e del loro continuo aggiornamento con il passaggio di molte competenze alle regioni. La funzione di termometro è garantita dalle numerose e diverse correnti di pensiero, in materia di informazione medico-scientifica, bioetica e diritti dei cittadini, nell’accesso rapido ai servizi, al diritto di ogni paziente alla sicurezza e all’informazione adeguata.
Per ciò che concerne l’insegnamento universitario mondiale, sono state esplorate, in particolare, le weltanshaung Europea e Africana (capitolo quarto).
Concludono la nostra Tesi alcune rapide ed essenziali considerazioni in materia di politica, globalizzazione, ecologia, vuoti etici, formazione e aperture alla speranza. Uno sguardo sociologico sul contemporaneo si focalizza sul lavoro e la precarietà post-moderna, sull’assistenza sanitaria per gli italiani all’estero e per gli stranieri in Italia. Particolare attenzione è fatta nei cenni sui profili fiscali relativi alla tassazione generale dei cittadini e al finanziamento della spesa sanitaria nazionale. Qui l’attenzione viene spostata sulle possibili agevolazioni fiscali di cui può godere il cittadino in base alla normativa vigente (capitolo quinto), completate da una ampia e specializzata bibliografia e sitografia.
La salute non si configura come un dato, ma una mappa ed un costrutto generato coordinando diversi punti di vista. Come la malattia, così la salute, è un modello, costruito socialmente, per interpretare la realtà. Come la malattia, così la salute, si può configurare come un evento, che l’individuo può usare per interpretare il mondo e le relazioni con la società in cui vive: un repertorio di segni che l’attore sociale può utilizzare per interpretare l’ordine sociale.   
Così il disincanto del mondo, un risultato dell’erosione dei paradigmi tradizionali, lascia l’individuo solo, solo di rappresentarsi nei diversi ruoli  a cui è chiamato da più parti della società.






Quattro secoli prima di Ippocrate, i racconti epici contenuti nell’Iliade e nell’Odissea, testimoniano le significative conoscenze dell’epoca sulle patologie dell’antichità; le descrizioni delle ferite, ad esempio, sono caratterizzate da precisione anatomica. Omero descrive le fratture del femore, parla della prognosi, riporta tecniche di intervento chirurgico, prospetta anche interessanti ipotesi di fisiologia ma, soprattutto, utilizza la metafora per descrivere lo stato di salute come quello della gioia di Ulisse che vede un approdo come la guarigione alla malattia. Ulisse è uomo maturo, un uomo che molto ha dovuto soffrire e soprattutto molto deve viaggiare; così l’uomo contemporaneo sembra assomigliare all’Ulisse di Omero. Ulisse torna per non tornare, per non essere riconosciuto, per non riconoscere. Il ritorno di Ulisse è il viaggio, non è il suo approdo; così l’individuo è alla ricerca della salute come esperienza definitiva poiché la salute non sembra essere uno stato ideale ma una costruzione, un fatto.
Probabilmente, in questa prospettiva la sociologia ha iniziato ad interessarsi alla salute, avviando quel percorso scientifico che si sviluppa come dominio scientifico particolare della sociologia della salute.
I rapporti fra salute e sociologia hanno origine nella metafora organicistica e dunque nel parallelismo delle due scienze come scienze del corpo.
Emile Durkheim ha individuato i collegamenti fra salute e società. I problemi posti dal Nostro fanno riferimento alla coesione sociale, alla regola, all’educazione; la società che funziona si basa un corpo sociale sano mentre una società disgregata sembra configurarsi come una società malata. Più in generale sembra opportuno rifarsi proprio al concetto di fatto sociale, «è ogni modo di fare, fissato o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una costrizione esterna», per identificare quel complesso sistema di relazioni che configurano la salute dell’individua della collettività come “cose sociali”.
Vilfredo Pareto ha concentrato la sua opera all’individuazione dei nessi esistenti fra salute e società. Nel Trattato di Sociologia Generale, infatti, egli ha mostrato che l’analisi sociale doveva fare i conti con una sempre presente discrepanza tra il succedersi oggettivo degli eventi ed i fini oggettivi che dovrebbero guidarli, ma che ne risultano sopraffatti, in cui la ricerca del benessere sociale raggiungibile, concetto evidentemente collegato alla salute, i comporsi attraverso una posizione di equilibrio da cui è impossibile spostare un qualsiasi individuo verso un maggior benessere.
Tale approccio sembra, in qualche modo, rispecchiare il dualismo di fondo della sociologia stessa che si traduce in due paradigmi conoscitivi praticamente alternativi: da un lato il paradigma dell’azione sociale, basato sulla soggettività e dall’altro il paradigma del sistema sociale, localizzato sulle strutture sociali oggettivate.
La sociologia deve connettere questi paradigmi per pervenire così a modalità più profonde e meno riduttive di comprensione del mondo sociale. Infatti, se partiamo dall’idea di identificare l’approccio sociologico alla salute come un esempio applicativo di costruzione di oggetto della teoria sociologica generale, nei suoi tre aspetti di epistemologia, paradigma e pragmatica, il nostro problema è di vedere come un fatto lo stato di salute/malattia, ricondotto dalle scienze mediche a variabili di tipo biologico, e quindi apparentemente lontano dall’analisi sociologica, in quanto non rileva o rimanda in modo diretto e palese a fenomeni sociali possa diventare tema ed oggetto della sociologia come disciplina scientifica autonoma

La sociologia della salute dovrebbe produrre il proprio approccio pratico nel paradigma relazionale, ovvero in una ricerca, teorica-pratica, in grado di mediare la relazione al valore della vita anche perché, sempre di più, la salute è percepita come “un insieme di valori, di norme sociali e di modelli culturali, pensati e vissuti dagli individui”.
Il fatto sociologico delle modalità di osservazione del rapporto salute/malattia sembra essere ulteriore rispetto alla sociologia della medicina o, ancora alla sociologia clinica.
Per Durkheim, la regola di studiare i fatti sociali come cose a un obiettivo: «quello di limitare i danni, esigendo dall’osservatore di non giudicare i fatti che egli osservava attraverso le sue preoccupazioni specifiche».
In particolare, la medicina, la sanità e le attività di ricerca e di produzione; connesse al sistema salute hanno oggi l’esigenza di trovare un nuovo, reale, quadro di riferimento concettuale che consenta di integrare e di connettere i saperi e le esperienze oltre la contrapposizione fra strategie epidemiologico- sanitarie, biomediche-sperimentali o di costruzione sociale.
Infatti, per la sociologia la salute non è soltanto un fatto biologico che ha anche origini e rilevanza sociale, ne solo un fatto culturale, ma è un fenomeno sociale complesso, che consiste di relazioni ed è prodotto socialmente, è un modo di essere e di vivere degli individui e dei gruppi nel sistema di azione sociale.
La salute è, in altri termini, una relazione sociale. In tale direzione, il primato della sociologia sembra essere costituito dal fatto che ha compreso che l’attore sociale «è in grado di raffigurarsi i contenuti dell’immagine del mondo prescindendo dalla sua reale esistenza o non esistenza, quindi dalla sua natura.
Da questi e da altri sforzi più recenti, la sociologia partecipa alla interpretazione del concetto di salute ed alla definizione delle sue forme in modo diverso rispetto alle altre scienze mettendo al centro dell’interesse non l’attore sociale con le sue potenzialità fisiche e psichiche, ma anche gli stati di salute ed i loro determinanti sociali, le relazioni fra il medico ed il malato, e, più in generale, l’esperienze della malattia nei diversi luoghi della vita sociale.
Una lettura sociologica della salute non sembra essere perciò semplice non solo per l’altissimo numero di variabili e per la dinamicità che caratterizza la ricerca scientifica ma anche e soprattutto per il fatto che l’individuo è al suo centro con risposte sempre diverse a domande mai uguali in uno sviluppo che spesso «disconosce i suoi limiti».
In sintesi, l’itinerario scientifico che realizza la sociologia, attraverso i suoi strumenti, è quello di sottolineare la necessità di una visione di insieme, connettiva, non colta da altre discipline perché “la conoscenza della realtà, tanto sociale che fisica, si attua attraverso tutta una serie di disillusioni”.
Salute non come stato fisico e psichico interno, o almeno non solo, ma come un processo dinamico e relazionale, di scambio, fra il proprio ambiente ed il mondo vitale.
Questo passaggio si rende ancora più necessario con il diffondersi sia delle pratiche basate sulla Evidence Based Medicine, sia delle cosiddette teorie economicistiche della salute che sembrano costituire un rischio nella definizione della salute in relazione alla società stessa: non è un caso che siano proprio i due temi oggetto di un vivace dibattito fra i sociologi, lo strumento dell’Evidence Based Medicine e le implicazioni derivanti dai crescenti costi economici dei sistemi sanitari, due temi  fra loro lontani ma che sembrano ricondurre l’osservazione alla domanda sociale, ai bisogni di salute, alle aree di solidarietà e di partecipazione.
La salute è un fatto sociale, prima di ogni altra cosa e tale dimensione implica una partecipazione per così dire “regolata” e «regulation virtually defines a profession» è un fatto sociale perché al cuore del problema salute si trovano da una parte le relazioni dell’individuo con la socialità, dall’altro perché, latu senso, vi sono i meccanismi di integrazione odi esclusione; di tolleranza o di emarginazione, in una società che tende ad operare sempre diversamente nel suo divenire.
In tale prospettiva, affinché i problemi della salute siano al centro delle attenzioni, è necessaria una partecipazione del cittadino, partecipazione possibile solo in modelli “aperti” di comprensione della salute in relazione, soprattutto, alla sempre maggiore richiesta di informazione e di partecipazione alle scelte terapeutiche.
Nella definizione della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute si realizza come uno di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia e viene considerata un diritto e come tale si pone alla base di tutti gli altri diritti fondamentali che spettano alle persone come stabilito dalla dichiarazione universale dai diritti dell’uomo.
La definizione della salute dell’OMS e della promozione della salute stessa supera il modello, per così dire, ideale della salute, quello che si costituisce come la assenza di malattia: la salute diventa una condizione di cui si ha un’esperienza quasi inconsapevole, sembra coincidere con lo scorrere stesso della vita. La malattia, come agente che interferisce con questo fluire, sembra svelarla come una condizione perduta. Questo modello della relazione fra salute e malattia sembra essere quello prevalente nei paradigmi medici e nelle strutture sanitarie. La logica che sembra caratterizzare i paradigma medici sembra svilupparsi secondo un complesso sistema di modalità diverse. Una prima modalità è quella lineare in cui un determinato danno provoca una condizione di malattia e le cure diventano un sistema atto alla riparazione del danno avuto. Una seconda modalità è quella individualista: la salute e la malattia sono determinate dalla assenza/presenza di risorse nell’individuo e le cure costituiscono interventi diretti esclusivamente all’individuo. Una ultima espressione è quella a-storica: si ignora l’interazione dell’individuo con il suo ambiente, la sua cultura, la sua storia, la sua condizione sociale. In questa direzione, i fattori I fattori macrosociali, le differenze culturali, gli eventi esterni ed estremi, le condizioni socio-economiche, la mancanza di un supporto sociale adeguato, l’ambiente relazionale avverso, sono tutti, fattori totalmente o relativamente indipendenti dalle caratteristiche biologiche o psicologiche di un individuo. I contesti micro-sociali e macrosociali hanno un ruolo cruciale nell’insorgenza e nell’evoluzione dello stato di salute degli individui.
Le reti di relazioni interpersonali  possono favorire la creazione di meccanismi informali di protezione contro la malattia e la vecchiaia oppure, attraverso lo stimolo dell’azione collettiva, possono migliorare l’efficienza e l’efficacia della fornitura di determinati servizi da parte del settore pubblico.

Focus: Salute e Disabilità: due dimensioni della natura umana – abstract del Corso Base ICF -INNCB Milano
Il Corso Base ICF-DIN è centrato principalmente sugli aspetti teorici relativi alla classificazione ICF dell’OMS (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute), che rappresenta un modello di riferimento culturale ineludibile per il settore sociosanitario. Il filo conduttore di questa giornata porterà dunque i partecipanti a conoscere i fondamenti teorici di questa classificazione, l’impatto che questa sta avendo attualmente nell’ambito della salute pubblica e della disabilità, inteso sia come campo di ricerca, sia di pratica clinica. Il concetto che guida la giornata verterà su salute e disabilità, intesi non come elementi contrapposti, ma come due aspetti fondamentali della condizione umana.
I temi verteranno pertanto su un’introduzione ai concetti dell’ICF, per quanto riguarda in particolare la forza euristica, esplicativa ed interpretativa del modello. Lo scopo sarà far conoscere ai partecipanti la capacità descrittiva delle voci e dei codici, creando in questo modo un linguaggio comune, che sia applicabile dalle diverse figure professionali e che accompagni il paziente lungo i diversi passaggi di cura e di care. Sarà presentato l’andamento del progetto ICF in Italia ed alcune esperienze internazionali sull’uso dell’ICF, in particolare la nuova classificazione ICF-CY. Si esporrà il razionale alla base dell’utilità di un percorso di cura e di care basato sul modello biopsicosociale dell’ICF, con un approccio multidisciplinare.

2.1 – Il concetto di salute promosso dall’OMS e l’importanza di disporre di strumenti di valutazione della salute e del funzionamento.
S’introdurrà l’ICF come strumento di classificazione del funzionamento, della disabilità e della salute, soffermandosi sulla sua natura multidisciplinare (biologica, psicologica e sociale), ed approfondendo la nozione di salute così come è intesa dall’OMS. Il focus sarà sul valore pratico ed euristico di questo strumento per la condivisione delle informazioni sulla persona e sul suo ambiente nelle equipe multidisciplinari, così come si approfondirà il crescente bisogno di disporre delle informazioni relative al funzionamento delle persone che entrano nei sistemi sociosanitari. Tali informazioni sono necessarie per definire i percorsi di cura e di care per la singola persona, così come per definire l’allocazione delle risorse.

2.2 – Salute e Disabilità nell’ICF: i principi di base, la situazione in Italia e in Europa, le leggi i concetti e i progetti in atto con ICF.
La classificazione ICF rappresenta anche un modello culturale di riferimento, le basi su cui è stata costruita sono state oggetto di lunghe ed approfondite discussioni. In questo modulo si presenteranno dunque le nozioni di base sottostanti il modello ICF: concetti di salute e disabilità; modelli di disabilità (medico Vs. sociale); modello biopsicosociale. Molta attenzione sarà dedicata al superamento della nozione di handicap e del modello ICIDH-80 ed all’introduzione dei principi della revisione. Infine si affronteranno le tematiche relative alle leggi attualmente vigenti in Italia ed in Europa, alle politiche sociosanitarie in tema di salute pubblica e disabilità, le proposte di revisione a livello continentale e nazionale. Alla fine del modulo, il relatore presenterà un upgrade dei progetti più importanti che sono attualmente in fase di svolgimento, mantenendo sempre uno sguardo al contesto italiano ed europeo.

2.3 – Conoscere la capacità descrittiva dello strumento ICF: cosa è un profilo di funzionamento?
In questo modulo, si illustrerà la differenza teorica fra valutazione e classificazione, e la ricaduta pratica di questa differenziazione. Quest’argomento introdurrà la spiegazione della necessità, ravvisata dall’OMS, di una Classificazione Internazionale del Funzionamento e, di conseguenza, lo sviluppo dell’ICF (principi di base e applicabilità culturale). Si presenteranno dunque, nel rispetto dell’architettura strutturale della classificazione, le dimensioni del funzionamento e della disabilità, i domini dell’ICF (Funzioni Corporee, Strutture Corporee, Attività e Partecipazione, Fattori Ambientali) ed il significato di ciascuno di essi all’interno della struttura gerarchica e culturale della classificazione. Infine si approfondirà il ruolo dell’ICF nella Family of International Classifications (WHO-FIC), e si presenterà la ICF tool-box. Il nucleo centrale riguarderà la definizione di un profilo di funzionamento con l’ICF e la loro utilità nella pratica quotidiana.

2.4 – Struttura ed elementi della classificazione: come si usa l’ICF?
In questo modulo pratico si effettuerà un’introduzione alla struttura generale e gerarchica dell’ICF in quanto classificazione. Recuperando i concetti relativi alle singole componenti ed ai singoli domini si introdurrà la nozione di qualificatore, rispetto alla quale si indicheranno una serie di regole pratiche imprescindibili per l’attività di codifica. Per ciascuna componente si spiegherà l’uso dei qualificatori, con la specificazione del loro significato e delle euristiche che è possibile seguire per giungere ad un corretto utilizzo della classificazione e degli strumenti ad essa correlati, in particolare l’ICF checklist. Questo modulo comprende anche una parte applicativa, effettuata con l’uso di semplici Case-Vignette cliniche, che serviranno per vedere la traduzione in linguaggio ICF delle singole voci.

2.5 – Uso e utilità dell’ICF nei gruppi multidisciplinari.
Il modulo conclusivo è focalizzato ad approfondire quale può essere l’uso e utilità dell’ICF nella pratica clinica, amministrativa e di ricerca. La discussione verterà dunque sull’uso dell’ICF nei gruppi multidisciplinari quale linguaggio comune; sulle conseguenze operazionali dovute all’introduzione di questa classificazione, sui dubbi e sui problemi che essa può comportare. Verranno poste delle questioni relative all’applicazione dell’ICF nei diversi ambiti: clinica, statistica, management dei sistemi sociosanitari, management della disabilità, politiche sociosanitarie, ricerca. Si presenteranno infine quelli che sono gli adattamenti speciali (ICFcore-set e le checklist dedicate) e adattamento per bambini (ICF-Children and Youth) che dovrebbe essere pubblicata nel corso del 2006. Infine si porterà il focus della discussione su come organizzare un percorso di care con ICF.

I percorsi interpretativi nella lettura delle relazioni fra malattia e salute si sono configurati nei diversi contesti culturali, «come il significato e le pratiche interpretative interagiscano coi processi sociali, psicologici e fisiologici per produrre forme distintive di malattie, e traiettorie della malattia».
Kleinman ha proposto una distinzione etimologica tra: disease, che si riferisce ad anormalità nella struttura o nel funzionamento di organi e sistemi e che è dominio del modello biomedico; illness, che si riferisce alla percezione individuale di uno stato che ha una connotazione negativa e che comprende, ma non si limita a disease; sickness, che indica gli eventi che possono diventare disease o illness.
Il termine illness dovrebbe riferirsi all’esperienza diretta del malato, il vissuto della malattia, mentre con disease si indica la concettualizzazione della malattia da parte del medico.
Esiste perciò una differenza fra l’essere malato e l’avere una malattia, una differenza che nella lingua tedesca è percepita come Erkrankung e Krankheit, da cui deriva la necessità di introdurre un ulteriore termine, sickness, per indicare la percezione della malattia da parte dell’ambiente sociale non medico. Proprio in tale prospettiva Young, approfondendo l’aspetto della costruzione sociale della malattia, ha proposto l’ulteriore specificazione attraverso il termine sickness, che non sembra essere semplicemente un termine ambiguo che definisce lo stato tra il danno biologico e la percezione soggettiva del danno.
La malattia-sickness deve essere infatti intesa come il processo attraverso il quale, a comportamenti preoccupanti e a sintomi biologici, viene attribuito un significato socialmente riconoscibile e, di conseguenza, accettabile.
Nella malattia concepita come disease è possibile perciò distinguere le condizioni fisiologiche constatate oggettivamente dal medico, il pathos, dalla loro interpretazione medica in forma di entità clinica o anatomo-fisologica, il nosos.
Ogni cultura ha, secondo Young, delle regole per “trasformare” i segni del corpo in sintomi, per collegare i sintomi a un modello eziologico e di intervento. La malattia-sickness, quindi, sembra essere un processo per socializzare la malattia disease e la malattia-illness. Lo stesso insieme di segni, ad esempio, può corrispondere e diversi tipi di diagnosi e di terapia. E’ il modello eziologico dominante in quella società che “deciderà” che tipo di malattia ha l’individuo e quale potrà essere la terapia adatta. 
La malattia-sickness, inoltre, determina la dimensione individuale della malattia. Ma è la società che stabilisce a quali sintomi prestare attenzione, quando è lecito stare male e quando non lo è. La malattia-sickness, più ancora che la malattia-illness, è la cultura più che l’individuo, che determina la scelta e la forma che assumerà la sofferenza.
Tuttavia, per tentare di chiarire ulteriormente sembra necessario aggiungere le osservazioni di Grmek a proposito del rapporto fra salute e malattia. Il Nostro ha suggerito una distinzione dei problemi: «il primo riguarda la malattia, concetto generale la cui definizione sottintende quella della salute, cioè della normalità del funzionamento dei corpo; il secondo, ben distinto dal primo, concerne le malattie, le entità nosologiche. Il primo problema è quello della definizione del patologico rispetto al fisiologico. Sarebbe ovvio definire normale ciò che è più frequente, ma questo non quadra con il fatto che ci sono della popolazioni nella quali la presenza di certi stati patologici è più frequente della loro assenza. Il concetto di normalità suppone infatti quello di norma biologica e sociale, concepita come un tipo ideale di esistenza, un miglior modo di esistere di un individuo».
Il modo di sperimentare la sofferenza è cambiato nelle sue configurazioni, restando però legato ad importanti fattori di origine sociale, quali sono le condizioni igieniche, quelle relative all’ambiente di vita o ai comportamenti a rischio, nella più generale definizione dei luoghi del confronto e della relazione: “è altresì innegabile il rapporto esistente fra le diverse concezioni della malattia espresse nelle diverse epoche storiche e le malattie dominanti allora in quelle società”.
Ma la malattia è anche un fatto sociale, come osservato, perché coinvolge tutta il gruppo dell’attore sociale malato: «la malattia è, allo stesso tempo, il più individuale ed il più sociale degli eventi». La ulteriore annotazione sembra riferirsi proprio alla conseguenza sociale, una conseguenza che fa riferimento alle diverse dimensioni dei concetti di salute e malattia. La complessità dei diversi significati assunti sembra essere il risultato di una particolare lettura della realtà, una lettura che rimanda al fatto che ogni sistema medico non può prescindere dal più complessivo sistema culturale in cui si colloca Infatti la stessa definizione di medicina sembra contenere una contraddizione culturale poiché è definita sia come l’insieme delle discipline scientifiche che, studiando la fisiologia e la patologia si occupa della salute sia la pratica professionale dell’arte medica da parte di una persona che ha conseguito un titolo accademico riconosciuto legalmente. La medicina come scienza delle scienze è però una costruzione recente perché, tradizionalmente è conosciuta come «iatriké téchne, non epistéme [...] una sintesi fra scienza, tecnica ed arte».
Sembra esserci, nello status attuale delle conoscenze mediche convenzionali una specie di tensione, culturale e sociale, forse perché, sul fronte epistemologico, la medicina si è caratterizzata in termini ipercritici, una tensione fra il bisogno dell’individuo e la difficoltà a realizzare una esperienza conclusiva.
La storia della medicina occidentale è dominata dalla cosiddetta ideologia curativa, nella prospettiva di guarire dal male o neutralizzare una lesione. In tale direzione, la medicina convenzionale si è occupata dell’elaborazione di tecniche terapeutiche sviluppate in funzione della malattia e della guarigione, prima che della prevenzione dalle possibile malattie. Per comprendere le ragioni dello sviluppo e delle dinamiche attuali nella medicina occorre risalire al Seicento; il cambiamento è rintracciabile con la scoperta dell’importanza della «misura e del modello meccanico, grazie a Galileo, Cartesio, Newton e con la biologia di Harvey e altri, cambia in modo fondamentale il vecchio modello ippocratico-aristotelico essenzialmente qualitativo, sopravvissuto alla medicina galenica».
Il diciannovesimo secolo si caratterizza per una svolta epocale nella percezione del rapporto salute e malattia: un secolo che si configura in un più ampio quadro teorico costituito dalla scientismo.
È il secolo dei lavori socio-antropologici ed evoluzionistici di Darwin: Thomas Huxley ed Herbert Spencer rivendicano che i presupposti teorici dell’Origine delle Specie siano considerati come verità positiviste. L’evoluzionismo, il laboratorio di analisi, lo stetoscopio rappresentano quella rottura epistemologica che porta i medici a ri-trovare la dimensione dell’osservazione del concetto di malattia
La salute inizia così ad avere una sua forma all‘interno della società proprio a partire dal rapporto fra biologia e epidemia e contagio. Infatti, l’epidemia, il contagio, la paura del male si affermano come dei veri fenomeni del sociale, passando dall’immaginano incontrollabile ed incontrollato ad un immaginario sociale.
Gli ospedali si trasformarono in istituzioni tecnologicamente avanzate. In Italia, ad esempio, questo periodo segna «il definitivo passaggio dall’età delle epidemie sociali all’età della mortalità controllata. La mortalità per malattie infettive, nell’arco di quindici anni, crolla di un terzo.
La fine dell’Ottocento è così contrassegnata sia dalla consapevolezza della rivoluzione scientifica in atto sia da vere e proprie novità in termini normativi ed istituzionali. L’incremento delle conoscenze mediche conduce all’identificazione di patologie che a loro volta danno luogo ad una ri-classificazione delle degenze. Nasce così il concetto di “ospedale generale” che assumerà un ruolo centrale nella pianificazione dell’assistenza sanitaria. In corrispondenza delle varie patologie identificate e delle rispettive cure, sorgono spazi separati sottoforma di padiglioni l’accresciuto controllo igienico dello spazio ospedaliero portava al definitivo trionfo dell’asepsi e dell’antisepsi.
Successivamente e fino al secondo conflitto mondiale, i progressi furono considerevoli sia in campo terapeutico e farmacologico, sia chirurgico, soprattutto a causa degli eventi bellici del primo conflitto mondiale ed alla necessità di un significativo uso della chirurgia e delle nuove possibilità offerte dall’ avvento della anestesia. Il secolo Ventesimo ha così mantenuto le promesse del secolo precedente, con una notevole progressione rispetto ai secoli precedenti in termini terapeutici e diagnostici. Il Novecento costituisce il secolo in cui le nuove tecniche scientifiche allargano il campo della ricerca.

Di fronte ai limiti della medicina occorre probabilmente rivedere e riconsiderare la complessità del rapporto individuo e salute. La società, infatti, è infinitamente complessa ed una sola teoria, un solo approccio, anche con riferimento alle possibili condizioni di salute dell’individuo, non può accogliere la varietà della domande e, soprattutto, delle risposte. La risposta della sociologia all’osservazione della salute non può essere limitata ad un funzionalità fissa anche se, spesso, il successo della scienza poggia proprio sul programma riduzionistico che essa segue.
Gli individui non sono idiocratici, non conservano le strutture e le funzioni nel corso della loro vita, anzi, si trasformano continuamente soprattutto in ragione delle loro relazioni ed interconnessioni. Descrivere lo stato della salute sembra perciò essere la descrizione di un sistema, un sistema di reti fra di loro intrecciate, dove ogni attore sociale è un sistema organizzato più o meno spontaneamente che si muove secondo direzioni complesse. Il sociologo dovrebbe cosi spostare l’attenzione dai singoli fatti, come danni biologici o psichici, alle relazioni. In tale direzione, Bateson ha, ad esempio, ha utilizzato il concetto di relazione come il fulcro di ogni definizione: la legge profonda che struttura e conferisce significato all’intero mondo sociale.
È indubbio che la medicina abbia realizzato dei progressi di grande portata.
Tuttavia, la conoscenza dello stato di salute sembra passare  in funzione di una sequenza non ordinata di atti informazione, è un trasferimento di notizie e di comportamenti.
Probabilmente è necessario situare i rapporti fra salute e malattia in un contesto aperto, in grado di comprendere l’ambivalenza dei due stati per favorire una lettura più comprensiva e meno funzionalista nell‘obiettivo di rinunciare ad una unica soluzione accettando così una richiesta di senso che i concetti di salute e malattia sembrano continuamente rimandare.
Alla ricerca dell’essenza nascosta, il medico sembra quasi ignorare le caratteristiche osservabili, fenomenologiche delle cose, e perciò tende a ignorare le differenze che il senso comune riconosce, a inglobare o a trascurare esempi diversi.
L’osservazione della salute, nella prospettiva sociologica, sembra cosi costituirsi come un superamento delle formalizzazioni di modelli di funzionamento e rivolge l’attenzione all’attore sociale, ai suoi lati forti ed ai suoi lati deboli, alle risorse relazionali, alle potenzialità come capacità di costruzione sociale.

Si è già osservato che il concetto di salute può essere osservato sotto diversi punto di vista, tuttavia, sembra possibile individuare e sottolineare l’importanza, per la sociologia, sia delle componenti oggettive, status, reddito, condizioni personali, sia di quelle soggettive, costituite dalle valutazioni che gli stessi attori sociali forniscono sul proprio stato di salute e di soddisfazione nello spazio vitale, che sembrano permettere una adeguata costruzione della realtà sociale della salute. Infatti, in tale direzione, numerosi studi hanno dimostrato che la qualità della vita non dipende semplicisticamente dalle condizioni di salute: persone con patologie croniche individuano più spesso di quanto non si pensi le conseguenze positive della malattia, quali il miglioramento delle relazioni sociali e di alcuni aspetti della personalità, cambiamenti favorevoli nella gerarchia delle priorità a medio e lungo termine, il reperimento di nuovi obiettivi e di nuovi significati.
I problemi della salute sembrano così configurarsi in un sistema a più dimensioni integrando così le variabili sociali, biologiche, psicologiche, economiche e culturali come in relazione fra di loro, sia verso i sistemi normativi ed istituzionali ed è così possibile ritrovarvi tutti gli elementi che costituiscono il sistema sociale.
In tale prospettiva il concetto stesso di salute si rileva più complesso poiché legato alla concezione stessa del valore della vita e, come osservava Ortega, «la vita di una cosa è il suo essere» o, ancora sullo stesso tema «il primo attributo di questa realtà fondamentale che chiamiamo la nostra vita è il semplice fatto che esiste per sé, è cosciente di sé, è trasparente a sé. Solo questo vuol dire che la vita, e tutto ciò che ne fa parte, è indubitabile e proprio perché è la sola realtà indubitabile, è anche fondamentale».
“Volgere lo sguardo alla salute implica una valutazione della vita, osservando, prima di tutto l’uomo insieme agli altri uomini. Il rispetto per la vita non significa semplicemente rispetto per l’essere in quanto tale, per la vita biologicamente intesa, ma rispetto per tutti i valori e per tutti i fini che compongono e completano la vita. In tale ottica occorre essere consapevoli che non è possibile partire da un approccio unificante alla salute, ma da più punti di vista dei modi per guardare la salute.
Questo modo di osservare la salute parte dalla ri-scoperta del concetto di vita: l’affievolirsi del rispetto della vita, infatti, sembra essere uno degli aspetti rilevanti che caratterizzano il mondo della salute.
Mentre si fanno sforzi ingenti e accaniti per prolungare la vita e per produrla artificialmente, non si risponde adeguatamente ai bisogni di quelle fasce di persone che non rispondono a canoni di efficienza e produttività.
Si creano così delle situazioni di fragilità sociale. Nella sanità vi sono sia i “quasi esclusi”, sia gli esclusi e, per la loro tutela, non basta la generica affermazione di diritti sembra quindi configurarsi l’idea che la salute derivi, in gran parte, dalla distribuzione e dalla disponibilità nella società di una serie di opportunità, di risorse, e di capacità. In tale direzione non sembra possibile tentare di definire il concetto di salute senza considerare due elementi essenziali della società civile: la imparzialità e la giustizia.
Nel dibattito sulla tutela della salute si dovrebbe privilegiare l’aspetto dell’equità. In sanità, l’equità ha almeno due connotazioni: l’equità dei livelli   di salute e l’equità dell’accesso ai servizi.
Se si osserva la salute in termini epidemiologici, ad esempio, si hanno profonde disuguaglianze nei livelli di salute. Questo può verificarsi ovunque ed è dovuto sia alle differenze negli stili di vita delle varie fasce della nostra popolazione, sia per l’effettiva accessibilità ai sistemi di prevenzione e di cura. L’equità dell’accesso ai servizi sanitari deve tenere conto che non tutti i servizi sanitari e socio sanitari sono necessari ed efficaci per modificare la storia naturale della malattia. Se una parte della società non ha accesso ai servizi efficaci, il livello di salute sarà evidentemente minore rispetto a coloro che potranno correttamente accedere ai servizi efficaci. Si pensi, ad esempio, all’importanza degli screening, dove è possibile rilevare una differenza d’accesso a queste prestazioni. A questo si aggiunga il problema dell’accesso ai servizi non efficaci
I problemi connessi alla salute sono diversi e non misurabili: «non è possibile misurare la salute proprio per ché essa rappresenta uno stato di intrinseca adeguatezza e di accordo con se stessi».
Occorre ri-collocare il problema della salute nell‘orizzonte sociologico: la salute sembra configurarsi come uno stato di benessere sociale complessivo, fisico e mentale completo e non l’assenza di uno stato patologico; è un prius bio-sociale e relazionale riconducibile ad una condizione di benessere plurale: è un valore il cui significato deve essere interpretato. Indizi sempre più numerosi indicano che le persone con una vita ricca di capitale sociale se la cavano meglio di fronte ai traumi e combattano la malattia con più efficacia. Il capitale sociale sembra un complemento, se non proprio un sostituto del Prozac, delle pillole contro l’insonnia, dei farmaci contro le droghe, della vitamina C e di altri medicinali che acquistiamo alla farmacia dell’angolo» e, ancora “le reti sociali danno sostegno tangibile, come denaro, cure di convalescenza e trasporti che riducono la tensione fisica e psicologica e forniscono una rete di protezione.
Le reti sociali possono anche rafforzare regole di buona salute: è più probabile che persone isolate fumino e bevano di più, mangino in eccesso ed abbiano altri comportamenti dannosi per la salute comunità coese sul piano sociale risultano inoltre più capaci di organizzarsi politicamente per assicurare servizi medici di primo ordine». Per il Marmot la salute è un bene collegato alle reti sociali, alle comunità, che offrono agli individui quel sostegno tangibile costituito dall’assistenza, dalla promozione di comportamenti salutari, dalla capacità organizzativa, anche verso il rapporto con le strutture sanitarie. Una ulteriore osservazione è costituita dagli studi dell’epidemiologo Michael Marmot che ha indicato con “status sindrome” il complesso di cause e meccanismi sociali quotidiani individuali e di contesto che minaccia la salute.
Ancora Putnam ha osservato che il capitale sociale potrebbe realmente fungere da meccanismo psicologico che stimola il sistema immunitario a lottare contro la malattia e lo stress.
Ricerche attualmente in corso indicano che l’isolamento sociale ha effetti biochimici considerevoli». Lisa Berkman indica l’isolamento sociale come una condizione «cronica di stress cui l’organismo risponde invecchiando più velocemente». Non sembra quindi possibile immaginare una società senza benessere sociale con il rischio che la percezione si perda nel senso comune del dibattito politico o di politica economica.
Lo sviluppo del welfare, infatti, si basava sul presupposto che il benessere individuale fosse strettamente dipendente da quello collettivo, oggi si diffonde un idea dello star bene, della salute, per così dire concorrenziale verso quello altrui,un bene di consumo, un elemento del successo individuale: ma la salute si configura nella vita, nella vita sociale. Le mete tradizionali del welfare state, come, ad esempio, la lotta contro le diverse povertà, la redistribuzione del reddito ed altro, e le nuove sfide, come, ad esempio, la medicalizzazione o la de-umanizzazione dei servizi sociali e sanitari, la crescita delle cosiddette patologie della post-modernità, debbono essere affrontate con nuovi stili di policy che aiutino le politiche sociali ad essere orientate alla vita, alla famiglia, alla comprensione.
Una persona sembra essere così “sana” se, coeteris paribus, nelle circostanze “normali”, è in grado di realizzare le aspettative che considera fondamentali per la vita e questo fatto implica che anche la società sia “sana”, poiché non sembra possibile realizzare le aspettative degli individui in una società “malata”.
Salute e società sembrano essere quindi sostanzialmente la stessa realtà. In tale ottica si afferma quella che è possibile definire la dimensione sociale della salute, una costruzione che si configura nel valore della vita, nella osservazione della non residualità quotidiana della vita per osservare la propria identità, fra equilibri diversi, tutti importanti.  


Salute e Sanità è un titolo che esplicita immediatamente la caratteristica fondamentale, il filo rosso che unisce i diversi aspetti trattati in questo lavoro: realizzare una integrazione di concetti e di contenuti. Infatti, mentre salute richiama il fine per cui certe attività sono svolte, sanità richiama le conoscenze (tecnico-scientifiche, manageriali, di policy making), strumentali a tale fine, le persone che garantiscono prestazioni e servizi, le strutture necessarie (ospedale, ambulatoriali, ecc.), le risorse (finanziarie e di altro tipo).
In quest’ottica da un lato si vuole far capire il complesso contesto in cui il paziente si muove, dall’altro ci si propone di chiarire al cittadino come, concretamente, ci si deve o ci si può muovere in questo sistema, quando si ha un bisogno. Quali sono i propri diritti, cosa si può chiedere, cosa si deve fare per avere risposte ai propri bisogni di salute, di recuperare, mantenere o migliorare il proprio benessere fisico e psichico.
Occorre allora partire da un’analisi delle principali caratteristiche qualitative e quantitative del sistema, il modello adottato e la sua evoluzione, i soggetti istituzionali coinvolti, la distribuzione delle funzioni e dei poteri (tema della regionalizzazione e dell’autonomia decisionale), le modalità per valutare e responsabilizzare le persone fisiche che svolgono diverse funzioni nel sistema.
Si passa poi a collegare altri due concetti fondamentali, quello dei diritti finalmente garantiti dalle norme e dalle politiche e quello dei servizi in cui tali diritti astratti devono (o purtroppo dovrebbero in molti casi) tradursi: rapporto tra affermazioni dei principi generali astratti (i diritti) in indicazioni specifiche e concretamente verificabili (i livelli assistenziali correlati alle diverse condizioni di salute).
Il quadro è completato con un corredo aggiuntivo, per nulla marginale, di quali sono le altre informazioni molto rilevanti per il cittadino sui temi sia della accessibilità ai servizi, sia della sicurezza, dell’urgenza, della salute della donna, dell’assistenza all’estero: aspetti del rapporto tra natura del bisogno e qualità della risposta che sono componente determinante del livello di soddisfazione dei cittadini.

La sanità costituisce da sempre un tema di grande rilevanza nel panorama politico, economico e sociale. Anche all’interno del dettato costituzionale si ritrovano, in merito, disposizioni di notevole rilievo: l’art. 32 afferma che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti; l’art. 38 definisce gli obiettivi di un completo sistema di sicurezza sociale.
Tuttavia, la definizione dell’assetto istituzionale della sanità si evince solo dalla lettura combinata dalla prima e dalla seconda parte della Costituzione e, in particolare, dell’art. 117, che attribuisce alle regioni potestà legislativa in ambito di «assistenza sanitaria e ospedaliera».
L’assetto istituzionale previsto dalla Costituzione è rimasto però a lungo disatteso. In assenza delle regioni, il sistema era frazionato tra apparato statale (con funzione di regolazione), enti ospedalieri ed enti previdenziali. Con l’istituzione delle regioni è stato operato un primo trasferimento di funzioni in materia sanitaria (decreti del presidente della repubblica 4/1972 e 616/1977). Occorre aspettare l’anno 1978 per assistere alla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (legge 833 del 23 dicembre 1978), con l’obiettivo di garantire a ogni cittadino la tutela della salute a prescindere dalla capacità del beneficiano di pagare il corrispettivo per i servizi ricevuti. In seguito a tale riforma, il passaggio assolutamente centrale è stato quello dell’integrazione di tutti i servizi in un’azienda dove hanno trovato convergenza diverse attività: dall’assistenza specialistica dall’assistenza specialistica e ospedaliera, a quella di base, all’igiene pubblica, alla veterinaria. Si costruiva, quindi, un’azienda potenzialmente in grado di assicurare l’erogazione di tutte quelle attività che corrispondevano a una visione integrata di tutela della salute; di disporre direttamente di tutte le leve operative necessarie per rispondere dei risultati in termini di stato di salute della popolazione e, infine, di porre tale complesso insieme di servizi e attività sotto il controllo della collettività (tramite organi di governo composti da membri eletti, seppure in via indiretta, dalle collettività stesse).  
La seconda fase storica del Servizio sanitario nazionale (decreti legislativi 502/1992 e 517/1993) è stata segnata dall’inversione del principio guida dell’integrazione che tanta parte aveva giocato nella costruzione del modello 833 del 1978: alla ricerca dei vantaggi derivanti dall’integrazione si è sostituita la ricerca di quelli conseguibili attraverso il decentramento e la specializzazione. I principali cambiamenti hanno riguardato l’aumento delle competenze regionali a fronte di una maggiore responsabilizzazione finanziaria (decreto legislativo 56/2000), l’adozione di nuove logiche legate al finanziamento delle aziende sanitarie e l’introduzione di strumenti manageriali nella gestione delle aziende sanitarie. A questa seconda riforma ne è seguita una terza (decreto legislativo 229/1999) che ha promosso solo in parte la continuazione del percorso di riforma precedente: mentre il processo di aziendalizzazione è stato ulteriormente rafforzato, attribuendo alle aziende sanitarie l’autonomia imprenditoriale (rispetto all’autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica introdotta con il decreto legislativo 502/1992), è stato ripensato il processo di regionalizzazione. Infine, la promulgazione, nell’ottobre 2001, della legge di riforma del Titolo V della Costituzione ha innovato il quadro normativo generale dei rapporti fra lo Stato e altri soggetti istituzionali, intervenendo sia sulla ripartizione delle funzioni pubbliche tra stato e regioni, sia sul disegno generale del sistema di finanziamento degli altri livelli di governo. La riforma ha introdotto nella Costituzione italiana il principio di sussidiarietà (art. 117): è stato proposto un nuovo riparto di potestà legislativa tra stato e regione definendo alcune riserve di legislazione statale esclusiva. Di fatto, per le regioni si è avuto un notevole ampliamento delle materie di podestà legislativa riservando allo stato la determinazione dei livelli essenziali di assistenza (LEA), nel riconoscimento dei vincoli di bilancio stabiliti in sede di programmazione economico-finanziaria. Ad oggi, il tema del federalismo fiscale e della responsabilizzazione delle regioni sull’uso delle risorse restano comunque al centro del dibattito.
Alla luce di quest’evoluzione normativa, si è voluto analizzare nel dettaglio due aspetti della questione sanitaria in Italia, attraverso una fotografia attuale dei diversi attori del Servizio sanitario nazionale distinti per livello istituzionale di governo (centrale, regionale e locale) e un approfondimento sul significato dell’attuale processo di regionalizzazione del servizio sanitario.

A livello centrale lo stato ha la responsabilità di assicurare a tutti i cittadini il diritto alla salute mediante un forte sistema di garanzie, attraverso i livelli essenziali di assistenza. Il ministero della Salute è l’organo centrale preposto alla funzione di indirizzo e programmazione in materia sanitaria, alla definizione degli obiettivi da raggiungere per il miglioramento dello stato di salute della popolazione e alla determinazione dei livelli essenziali di assistenza tale da assicurare a tutti i cittadini in condizioni di uniformità sull’intero territorio nazionale.

Il ministero della Salute si articola in quattro dipartimenti: qualità; innovazione; prevenzione e comunicazione; sanità pubblica veterinaria, nutrizione e sicurezza degli alimenti. In particolare:
Il dipartimento della qualità è preposto a interventi per lo sviluppo e il monitoraggio di sistemi di garanzia della qualità del Servizio sanitario nazionale e per la valorizzazione del capitale fisico, umano e sociale;
Il dipartimento dell’innovazione promuove attività e interventi di propulsione e vigilanza per lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica in materia sanitaria a sostegno di azioni di studio e creazione di reti integrate di servizi sanitari e sociali per l’assistenza a malati cronici, malati acuti, terminali, ai disabili e agli anziani;
Il dipartimento della prevenzione e della comunicazione svolge attività di coordinamento, vigilanza e di diretto intervento di spettanza statale in tema di tutela della salute, dell’ambiente e delle condizioni di vita e di benessere delle persone e degli animali, nonché dell’informazione e comunicazione agli operatori e ai cittadini e delle relazioni interne e internazionali.
Per la sanità pubblica veterinaria, la nutrizione e la sicurezza degli alimenti provvede a garantire la sicurezza alimentare e la sanità veterinaria ai fini della tutela della salute umana e animale, nonché il benessere degli animali, la ricerca e la sperimentazione, la valutazione del rischio in materia di sicurezza alimentare; si occupa della nutrizione, dei dietetici e degli integratori alimentari a base di erbe, del farmaco veterinario, dei fitofarmaci, dell’alimentazione animale e delle attività di verifica dei sistemi di prevenzione veterinaria e alimentare. 

Accanto al ministero della Salute, esistono altri attori della sanità  che ne supportano l’attività da un punto di vista consultivo o tecnico. In particolare: il Consiglio superiore di sanità (CSS) è l’organo consultivo tecnico-scientifico del ministero della Salute la cui organizzazione e funzionamento sono disciplinati da una apposita normativa, costituita dal decreto legislativo 266/1993 e dal decreto ministeriale 342/2003; a Istituto superiore di sanità (ISS) è l’organo tecnico- scientifico del Servizio sanitario nazionale che coniuga l’attività di ricerca a quella di formazione e controllo applicate alla tutela della salute pubblica;
L’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPEL) è un ente pubblico che esercita, nelle materie di competenza del ministero della Salute, funzioni e compiti tecnico-scientifici e di coordinamento tecnico ponendosi come centro di riferimento nazionale di informazione, documentazione, ricerca, sperimentazione, controllo e formazione in materia di tutela della salute e della sicurezza e benessere nei luoghi di lavoro;
L’Agenzia dei servizi sanitari regionali (ASSR) svolge funzioni di supporto delle attività regionali, di valutazione comparativa dei costi e rendimenti dei servizi resi ai cittadini e di segnalazione di disfunzioni e sprechi nella gestione delle risorse personali e materiali e nelle forniture, di trasferimento dell’innovazione e delle sperimentazioni in materia sanitaria.

Le regioni, responsabili in via esclusiva dell’organizzazione delle strutture e dei servizi sanitari, sono direttamente impegnate ad assicurare l’effettiva erogazione delle prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza, sulla base delle esigenze specifiche del territorio nazionale. Si sottolinea, inoltre, che le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano partecipano alle scelte del governo nelle materie di comune interesse e alle questioni politico-amministrative più rilevanti ti attraverso la conferenza permanente stato-regioni. Tale soggetto opera nell’ambito della comunità nazionale per favorire la cooperazione tra lo stato, le regioni e province autonome, costituendo la sede privilegiata della negoziazione politica tra le amministrazioni centrali e  il sistema delle autonomie regionali. 

La conferenza stato-regioni è la sede privilegiata di raccordo fra la politica del governo e quelle delle regioni;
E’ la sede dove il governo acquisisce l’avviso delle regioni sui più importanti atti amministrativi e normativi di interesse regionale;
Ha l’obiettivo di realizzare la collaborazione tra amministrazioni centrale e regionali; 
Si riunisce in un’apposita sessione comunitaria per la trattazione di tutti gli aspetti della politica comunitaria che sono anche di interesse regionale e provinciale. 
Oltre agli assessorati, alcune regioni (12 su 21: Piemonte, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo, Campania, Puglia e Umbria) hanno istituito un’Agenzia sanitaria  regionale (ASR). Tutte le agenzie sanitarie regionali istituite sono state attivate, tranne quelle della Liguria e dell’Umbria, che risultano in via di costituzione. Inoltre, un’ipotesi di costituzione di un’Agenzia sanitaria  regionale è stata avanzata in Molise e Sardegna.

Le agenzie sanitarie regionali nascono per finalità diverse: 
L’agenzia come consulente a servizio delle aziende, ossia una struttura fortemente operativa e attiva sul campo che propone e affianca le aziende nell’introduzione di innovazioni gestionali e nel fronteggiare le problematiche connesse al cambiamento;
L’agenzia come centro studi indipendente, ossia struttura a cui si chiede di svolgere compiti di osservatorio del sistema sanitario regionale e delle sue singole aziende, analizzandone almeno in linea generale i profili epidemiologici, economici e di attività e provvedendo alla loro comparazione con altre aziende, regioni o realtà internazionali;
L’agenzia come tecnostruttura a servizio dell’assessorato, ossia una struttura a cui si appoggia l’assessorato per lo sviluppo di attività innovative che esulano o comunque richiedono un approccio distaccato dalla sua routine operativa.
       
A livello locale gli attori del Servizio sanitario nazionale sono rappresentati dalle aziende che erogano al ricevente le prestazioni sanitarie. I principali sono le aziende del gruppo pubblico regionale: le aziende sanitarie locali (ASL) e le aziende ospedaliere (AO).

Le ASL, enti dotati di personalità giuridica pubblica,  di autonomia organizzativa, amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, provvedono a garantire i livelli essenziali di assistenza, a organizzare l’assistenza sanitaria nel proprio ambito territoriale e a erogarla attraverso strutture pubbliche o private accreditate. In particolare, l’ASL eroga direttamente delle prestazioni sanitarie e a tal fine si avvale, per l’assistenza territoriale, di una pluralità di strutture e soggetti:
- Strutture (ambulatori e laboratori) in cui si erogano prestazioni specialistiche come l’attività clinica, di laboratorio e di diagnostica strumentale;
- Strutture territoriali come i centri di dialisi ad assistenza limitata, gli stabilimenti idrotermali, i centri di salute mentale, i consultori materno infantili e i centri distrettuali;
- Strutture semiresidenziali come, per esempio, i centri diurni psichiatrici;
- Strutture residenziali quali le residenze sanitarie assistenziali (RSA) e le case protette;
- I medici di medicina generale (MMG) e i pediatri di libera scelta (PLS), che in quanto convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, rivestono un ruolo di governo e indirizzo della domanda e di erogazione dell’assistenza di base.

Per l’assistenza ospedaliera, dei presidi ospedalieri a gestione diretta delle ASL.
Le aziende ospedaliere, cioè ospedali di rilievo regionale o interregionale costituiti in aziende, in considerazione delle loro particolari caratteristiche, erogano prestazioni ospedaliere (e quindi attività di pronto soccorso, di ricovero ordinario, di day hospital, di day surgery, di riabilitazione, di lungodegenza ecc.) e, in alcuni contesti aziendali, anche prestazioni territoriali di specialistica ambulatoriale.

Accanto alle ASL e alle aziende ospedaliere, esistono altre strutture che integrano la capacità produttiva delle aziende del gruppo pubblico. Esse operano sia nell’ambito dell’assistenza territoriale, che in quello di quella ospedaliera. Per quanto riguarda l’assistenza territoriale, accanto alle strutture territoriali delle ASL si aggiungono le strutture private accreditate per ciascun  ambito di attività (per esempio, ambulatori e laboratori privati accreditati, strutture residenziali per gli anziani private accreditate ecc.).
Per quanto riguarda l’assistenza ospedaliera, accanto ai presidi ospedalieri a gestione diretta delle ASL e alle aziende ospedaliere si aggiungono:
Le strutture di ricovero equiparate alle pubbliche,  quali istituti di ricovero e cura a carattere scientifico  (IRCCS) di diritto pubblico e di diritto privato, policlinici a gestione diretta delle università, ospedali classificati e qualificati, enti di ricerca;
Le strutture di ricovero private accreditate, denominate case di cura private accreditate con il Servizio sanitario nazionale.     


Art. 32. La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Art. 38. Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L’assistenza privata è libera.
Clemente, alla luce delle interpretazioni date in materia di Sociologia della salute, ha esaminato gli atti relativi al processo di formulazione dell’art. 32 della Costituzione italiana durante le assemblee della Costituente. Il diritto alla salute, collocato nel Titolo “Rapporti etico-sociali”, è stato  recepito nella sua pienezza di diritto fondamentale da tutti gli schieramenti politici, con le loro diverse culture solidaristiche cristiano-cattolica, comunista e socialista, come elemento unificatore “nell’atto di costruire una casa nella quale tutti devono ritrovarsi ad abitare insieme”. La tutela della salute  implica, anche per sinteticità costituzionale la prevenzione della malattia.
Nella Roma antica una norma sintetica citava: salus pubblica suprema lex. La questione è umana e medica, “troppo ampia e pericolosa e delicata per essere trattazione della Costituzione”.., .. così come “il rapporto tra medico e ammalato, sia per carattere tecnico che per sua stretta colleganza all’organizzazione sanitaria, dovrebbe essere rinviata ai compiti legislativi dello Stato”. 
Il timore, di alcuni membri della Costituente, che lo Stato Italiano si avvii verso una struttura decentrata regionalistica dove, in assenza di un organo centrale coordinatore e autonomo che disciplini  la complessa e delicata materia sanitaria in via normativa, il principio unitario dell’indirizzo sanitario potrebbe subire le influenze negative di un decentramento amministrativo e di un decentramento normativo, pericoloso per la tutela di un principio-base essenziale per la tutela della salute pubblica.
Emerge l’importanza del rapporto tra medico e ammalato, per il rispetto della volontà di scelta del malato e della libertà di esercizio professionale del medico, tuttora dibattuto tema in materia di bioetica, biodiritto e biomedicina che “imponeva, al tempo della Costituente, “il dovere di avere il coraggio consapevole e mediato di mirare ad un ordinamento nuovo.. attraverso l’eliminazione di tutte le disparità e le disuguaglianze fra i cittadini”. L’orientamento  degli emendamenti e dei discorsi Parlamentari mirava ad individuare, assieme al diritto del cittadino anche il suo dovere di collaborare con la collettività promuovendo tutti i mezzi e le iniziative necessarie  per tutelare la sua stessa salute, poiché un individuo malato o minorato nelle sua capacità fisiche e intellettuali, indubbiamente non è più un uomo libero. Inoltre “nessuno”, secondo il testo dell’art. 32-secondo comma, “può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun casi violare i limiti imposti dal rispetto della personalità umana”.
A tal punto “sarebbe necessario individuare dei punti di contatto, di discontinuità e di corrispondenza con il dibattito interno alla sociologia”  della organizzazione sanitaria, per tracciare un excursus storico-legislativo del sistema sanitario che ci permetta di comprendere il tipo e il grado di influenze delle teorie micro e macro sistemiche in sociologia e delle diverse culture bio-mediche.
Il paradigma bio-medico ad impianto meccanicistico-scientista è l’approccio dominante nel sapere medico-sanitario. E’ definito “modello meccanico poiché considera il corpo umano una macchina..”; è detto “scientista perché afferma che la malattia va trattata come se fosse indipendente dal comportamento sociale, così come le deviazioni comportamentali, la cui origine sarebbe solo di natura somatica, anche se disturbata ”. Tale approccio ha avuto come implicazioni principali il trascurare gli aspetti psicologici, ambientale e sociali della malattia, ignorando l’autocoscienza, la capacità di autoriflessione e l’autonoma capacità di decidere ciò che si ritiene importante nella vita.
Il modello sociale in medicina  si sviluppa a seguito di bonifiche di malattie diffusive nelle campagne, nelle fabbriche, negli insediamenti popolari urbani derivanti da habitat insalubri e povertà. La medicina epidemiologica ha accertato numerose correlazioni statistiche tra la speranza media di vita alla nascita e alcune situazioni sociali e psico-ambientali. Lo status sociale, il livello di istruzione, il livello di fiducia e autostima, la marginalità e i traumi da rottura di relazioni umane primarie sono le principali variabili considerate dagli studi di medicina sociale.
Il modello neo-scientista è quello attualmente più criticato e utilizzato dalle scienze naturali e artificiali, le importanti scoperte scientifiche della biologia della fisica e della matematica sono strettamente correlate alle scienze dell’artificiale quali la bio-fisica e l’ingegneria molecolare. Lo scopo comune è quello di indagare e proporre soluzioni medico-scientifiche in ambiti bio-etici e medici quali ad esempio la chirurgia dei trapianti d’organo, la chirurgia protesica artificiale, la mappatura del genoma umano e le ricerche sulle terapie geniche.
Partendo dal dibattito della Costituente circa l’art. 32 della Costituzione, dalle impostazioni culturali biomediche e dalle teorie sociologiche sulla salute si rendono evidenti delle conclusioni generali in materia di salute sociale. La tutela della salute è un diritto fondamentale del singolo ma riveste importanza generale per la società, è un principio da tutelare in quanto funzione più importante dello Stato e suprema Lex della Repubblica.
Sostenitori di tali verità sono stati Emile Durkheim e Talcott Parsons nelle loro riflessioni sociologiche, macro-sistemiche sulla società e i suoi processi, considerando gli attori sociali e la società stessa come direttamente proporzionali nelle loro interazioni, individuando correlazioni positive in cui gli atti sociali sono organizzati in sistemi sociali di riferimento. Parsons, ne Il Sistema sociale, affronta il problema della salute con riferimento ai pre-requisiti funzionali del sistema sociale. Per Durkheim, ne Le Regole del Metodo sociologico, la salute di un popolo è effetto dell’integrazione sociale ad opera di una cultura vivente entro l’intero corpo sociale. 
Nella tutela della salute è implicita anche la prevenzione, di cui ogni individuo ne ha oltre che diritto soggettivo anche dovere giuridico, al fine di rispettare la stessa collettività che ha interessi di controllo sociale della malattia anche in termini economici.
Per le teorie micro-sistemiche in sociologia un importante considerazione è da fare in merito alla teoria dell’agire sociale di Max Weber. Come applicazione del suo insegnamento alla sociologia sanitaria è necessario partire dal consiglio di bilanciamento tra le due  azioni sociali (di tipo tradizionale o razionali e di tipo affettivamente orientate), al fine di riconoscere i limiti di azioni a dominanza solo valoriale-intenzionale e azioni solo a dominanza razionale-strumentale.
Per le teorie microsistemiche il problema salute pubblica viene analizzato attraverso la comprensione dei fenomeni sociali privilegiando gli aspetti soggettivi e intersoggettivi. Anche Goffmann, ne La vita quotidiana come rappresentazione, analizza la vita quotidiana di relazioni sociali all’interno di standards secondo i quali gli attori sociali e i loro prodotti verranno giudicati più o meno aderenti a ruoli predefiniti. E “l’armonizzazione tra ruoli a carattere personale non è sempre fattibile, poiché è possibile arrivare a situazioni in cui la forza costrittiva, nella fattispecie delle istituzioni sanitarie per malati mentali, arrivino a schiacciare istituzionalmente la variabile persona, per esaltare e regolare solo il ruolo dell’infermo mentale” .
Con Achille Ardigò si è arrivati all’orientamento metodologico compositivo che ha preso coscienza della non piena comprensibilità dei fenomeni sociali nelle società complesse attraverso singole teorie esclusivizzanti di micro o macro analisi sociologica.
Circa l’uguaglianza fra tutti i cittadini e il diritto all’assistenza sanitaria citato nell’art. 3 della Costituzione italiana, la riflessione attuale e che la salute viene trattata come un bene meramente economico in un contesto, quello dell’aziendalizzazione del sistema sanitario, regolato da leggi simili a quelle del libero mercato; quindi c’è il pericolo che qualcuno venga leso nel suo diritto sociale-costituzionale e fondamentale alla salute e quindi anche nella sua libertà di cittadino. L’importanza della comunicazione empatica alla base del rapporto terapeutico è un altro tema fondamentale della biomedicina, chiamata doverosamente a dare il suo contributo con modelli sociali, centrati sul piano del dialogo nel rapporto tra operatori sanitari e pazienti non dimenticando la cruciale importanza delle relazioni umane che legano i soggetti al contesto  famigliare e sociale.


















La sociologia nasce in un contesto dinamico e relazionale, quello dell’evoluzione umana: «l’histoire de la civilisation n’est autre chose que la suite et le complément indispensable de l’histoire naturelle de l’homme». Auguste Comte assume il punto di vista dell’evoluzione e sembra così vivere l’ansia della conoscenza, l’ansia della modernità compresa di una umanità oggettiva che diventa soggetto totale e, in quanto tale, «autorilevazione nella natura, nella sua natura» (Comte).
La «scienza del positivismo è una scienza di relazione fra fenomeni. C’è allora la necessità fra i fenomeni; la necessità non è che un’altra espressione per dire ordine. L’ordine definito nella natura è un ordine definito ovunque perché tutto è natura» (Toscano).
L’evoluzione biologica, e quindi anche umana, e disseminata di eventi contingenti, unici e irriproducibili e non sembra avere molto senso configurare un piano, ex ante facto, un disegno, dove, probabilmente non ce ne sono mai stati.
Sostenere l’aumento della complessità nell’evoluzione potrebbe non essere del tutto vero, anche per quanto riguarda gli agenti patogeni. Una singola cellula è già molto complessa e non è affatto evidente, né obiettivamente difendibile, che i micro-organismi siano meno complicati di specie che sono comparse successivamente.
L’evoluzione ha attraversato ed attraversa tutta la storia delle scienze sociali, da Comte, Durkheim e Spencer a Parsons, Hayek, Popper o Eisenstadt, solo per citare alcuni Autori significativi. In tale prospettiva, il complesso sistema teorico legato all’evoluzionismo ha uno spazio significativo e fondante nella storia della sociologia, anche con riferimento al parallelismo fra evoluzione e funzionalità. Tuttavia l’elemento comune all’interno dei diversi apparati teorici sembra essere il senso della storia, una storia non più intesa come una serie unica di eventi particolari bensì come un vero percorso evolutivo.
Esiste fra la società umana e quella naturale una somiglianza frappante che ha sempre sedotto il pensiero sociologico a partire dall’aneddoto (apologo delle membra) di Menenio Agrippa.
L’Homo sapiens, quello che meglio di altri sembra gestire la conoscenza deriva infatti dall’Homo abilis, colui che sapeva usare le mani (De Duve).
Gli studi demografici di Livi, di Gini, di Boccardo e di Tarde dimostrano che l’organismo, un sistema in equilibrio, ha la proprietà di mantenere un equilibrio e di ristabilirlo in caso di rottura. In tale prospettiva la nozione di equilibro biologico sembra corrispondere quello di qualità della vita. In tale direzione e soprattutto negli ultimi anni la nozione di qualità della vita sembra essere un tema Costante, di grande interesse anche nell’ottica dei principi della prevenzione; spesso i sostenitori della cosiddetta bioetica della qualità della vita hanno offerto una serie di indici e di algoritmi nell’obietto di definire proprio tale valore.
Nel definire la qualità della vita si fa riferimento agli stati mentali piacevoli o dolorosi dell’individuo in relazione alle sue condizioni sociali e psicofisiche, per cui si ritiene che promuovere una buona qualità di vita consista nel produrre condizioni di vita gratificanti, nel rimuovere condizioni dolorose e nel tentare di controllare i rischi.
A livello sociale, ad esempio, una politica sanitaria di allocazione delle risorse sarà ritenuta più o meno adeguata a promuovere la qualità di vita a seconda degli effetti prodotti e delle situazioni spiacevoli rimosse.
Questo approccio, per così dire bio-relazionale, non vuole riproporre, in una forma diversa il biologismo, ovvero un modello scientifico che tenta di ricondurre i comportamenti mani e le condizioni della salute alle variabili strettamente biologiche. Occorre proprio ripartire dal considerare l’aspetto biologico sia una parte de1l’interpretazione della vita poiché l’umano è una «combinazione particolare interattiva e interpretativa di cui quella distintiva è la cultura in quanto riferita ad una coscienza non puramente cognitiva ma anche valutativa» (Donati).
Il problema non sembra quello dell’insistenza sulla dimensione soggettiva della qualità della vita, sulla salute, che, quando estremizzata, può introdurre un tale carattere di relatività che, alla fine, ne è impedita una qualsiasi valutazione oggettiva, ma, semmai, considerare il biologico come fatto che ha varie e complessi livelli di compenetrazione dei diversi livelli della realtà.
Il complesso rapporto fra biologia, società e cultura, che ancora condiziona la costruzione del sapere anche biomedico, è tipico della civiltà occidentale: altre culture, non occidentali, non vedono alcuna antitesi fra il dato naturale e quello culturale, anzi si sottolinea la costante dialettica fra i due elementi. Soggetti diversi in condizioni diverse, infatti, possono benissimo dare valutazioni diverse di che cosa sia una vita di buona qualità e questa variabilità, se si compone solo con criteri di oggettività, sfocia nella più assoluta indeterminazione, contro la pretesa di fondare la valutazione del valore della vita su basi razionali e a partire da criteri verificabili e costanti. Paul Ricoeur nel suo studio sull’opera di Canguilhem, La différence entre le normale et le pathologique comme source de respect, osserva che, a livello biologico, il patologico può essere compreso in due modi: negativamente, come una mancanza rispetto ad una condizione cosiddetta oppure come una diversa interpretazione, una organizzazione “altra”, che ha le sue leggi, come una struttura “altra” in rapporto al vivente ed al suo stato.
 Tuttavia la salute, la qualità della vita in relazione alle condizioni presenti nella società sembra essere una nozione soprattutto culturale, «un concetto che non è né oggettivo né soggettivo, bensì socialmente condizionato» (Cipolla), spesso implicita e non tematizzata a sufficienza e soprattutto fenomeno originale.
In tale direzione, promuovere la qualità della vita significa rispondere in modo utilitaristico alle attese o realizzare condizioni di esistenza piacevoli ed è quindi necessario che la collettività sia in grado di apprezzare i risultati, avere attese, serbare memoria, percepire interessi.
Se come osservato precedentemente il sistema medicale è una «parte di un sistema di azione più ampio, quello che opera per la salute all’interno della società» (Donati), allora anche la parte scientifica della medicina, la biologia, ha il compito, nella ricerca, di valutare tutti rischi connessi, rischi compresi in un sistema autopoietico: se per malattia, come possibile danno al valore della vita, si intende il configurarsi, a diversi livelli dell’organizzazione dei sistemi fisiologici dell’individuo di modalità anomale di funzionamento disadattative rispetto all’ambiente allora i confini fra salute e malattia, in regime di assoluto rigore e nella prospettiva della medicina funzionalista, sembrano realmente meno definiti oggi di quanto lo fossero nei secoli passati.
Allora, anche il rincorrere la logica del rincorrere semper et ubique la malattia può non essere un vantaggio poiché l’evoluzione, in biologia, può necessitare di una valutazione anche soggettiva. Può essere quindi utile volgere uno sguardo sull’evoluzione del concetto di organismo ed i funzione organica in relazione alle trasformazioni dei modelli interpretativi che si sono succeduti nel corso della stria della biologia e della bio-medicina, e che riguardano le interazioni tra i costituenti dell’organismo individuale.
Nel tentativo di definire i percorsi che portano alla malattia il contributo della biologia resta fondamentale, non solo perché si costituisce come un mito, una delle possibili rappresentazioni del mondo, ma soprattutto perché si collega all’aspetto più significativo dell’esistenza: il corpo. Considerare la qualità della vita, nella sua dimensione fra salute e malattia, come il risultato di un processo evolutivo, significa utilizzare anche la prospettiva sociobiologia, in cui i concetti di adattamento all’ambiente, di vantaggio riproduttivo sono fondamentali.
 Tuttavia, come ha osservato Grmek, «l’uso dei concetti di evoluzione è certamente arbitrario, dipendente più dalla nostra interpretazione degli eventi storici che dalla loro natura intrinseca… l’etimologia ci aiuta a cogliere i problemi sottostanti. Evoluzione implica l’evolversi di una cosa preesistente e deriva dalla pratica di srotolare un rotolo,un manoscritto ravvolto, di forma cilindrica: dunque l’evoluzione vuoi dire inizialmente ritorno. Il termine evoluzione ha assunto solo alla fine dell’Ottocento il senso attuale dello sviluppo graduale di caratteristiche nuove, non esistenti prima».
Questa osservazione sembra necessaria proprio per introdurre, nell’interpretazione della salute e della malattia, il cambiamento delle conoscenze, la rivoluzionari,data dalla conoscenza scientifica, che accompagna la comprensione del cambiamento: «nel campo scientifico, esattamente come nella politica, le cosiddette rivoluzioni cambiano le parvenze e la loro importanza è solo quella di are una espressione visiva a un processo più profondo di evoluzione sottostante.
Le teorie evoluzioniste sembrano così conquistare progressivamente il concetto di integrazione funzionale come il risultato dinamiche selettive considerando anche che lo studio del cosiddetto sistema immune può aiutare a comprendere l’evoluzione delle specie e lo sviluppo del loro sistema immunitario.
L’ assunto teorico degli evoluzionisti sembra essere quello che considera la storia come un patrimonio culturale in grado di rivelare una certa direzionalità di senso in determinati percorsi in parti diverse del globo con l’obiettivo di fornire un sistema di spiegazione delle azioni e dei percorsi osservati (Wilson).
Ed è proprio la parola percorso che configura la natura dell’evoluzione; quando la vita è apparsa sulla terra, circa tre miliardi e mezzo di anni fa, era mobile, passava da un organismo ad un altro.
Anche in tale prospettiva, le scienze sociali, ed in particolare la sociologia, hanno, da tempo, sviluppato una relazione dualistica con le teorie evoluzioniste della società, alternando periodi di grande avvicinamento ad improvvisi e repentini allontanamenti; è a partire dalla seconda metà del XIX secolo si è avuto un grande interesse per la natura evoluzionista. Auguste Comte in Francia, John Stuart-Mill e Herbert Spencer in Inghilterra, Jakob Moleschott ed Ernst Haeckel in Germania, Roberto Ardigò, Augusto Murri e Cesare Lombroso, soltanto per citare qualche esempio di studiosi che hanno come paradigma l’evoluzione dell’universo, l’instabilità della omogeneità sembra essere la certezza che l’unica vera conoscenza è quella scientifica poiché tutta la realtà è natura. Spencer, ad esempio, insiste «sull’importanza delle doti naturali nel prevalere sugli altri oppure semplicemente nel sopravvivere rispetto alle difficoltà poste dall’ambiente» (Battisti). In tale direzione è opportuno inoltre ricordare il fondamentale lavoro di Emile Durkheim.
Le prime, essenziali, intuizioni del Nostro sono rintracciabili in De la division du travail social del 1893 in cui scrive che «l’individualisme, la libre pensée ne date ni de nos jours, ni de 1789, ni de là reforme, ni de la scolastique, ni de la chute du polythéisme gréco-romain ou des théocraties orientales. C’est un phénomène qui commence nulle part, mais qui se développe, sans s’arrêter tout au long de l’histoire ».
Il metodo delle scienze naturali vale anche per lo studio della società. Per questo la sociologia come scienza di quei fatti naturali che sono i rapporti umani e sociali nasce dentro il movimento del pensiero positivista nel quale la scienza viene esaltata come unico contesto di risoluzione dei problemi umani e sociali, i più antichi. La nozione di individualismo deve quindi essere separata da quella di atomismo. Non si tratta di considerare la società come composta da una somma di attori sociale ma che all’interno di una società si possa o non si possa apprezzare una determinata situazione o configurazione. Per Durkheim l‘individualismo ne commende nulle part perché una società non è proposta o imposta solamente ma considerata legittima o illegittima, buona o cattiva, in salute o malata, secondo l’opinione generale proprio a partire dal fatto che l’individualismo non e un dato di condizionamento originario a priori occorre ripercorrere l’interpretazione della storia recente proprio a partire dai percorsi dell’evoluzione. I cambiamenti profondi che si sono manifestati all’interno della società sono le conseguenze mediate ed immediate delle scoperte scientifiche soprattutto della fisica e della chimica.
Mai nella storia dell’umanità si era avuto una tale accelerazione nell’accumulazione della conoscenza accompagnato da grandi movimenti geo-politici. Le continue rivoluzioni geo-politiche che hanno contraddistinto il Ventesimo Secolo sembrano segnare la scomposta linea della frattura fra modernità e post-modernità o, in un’altra prospettiva, fra mondo moderno e mondo contemporaneo in cui il processo di costruzione sociale è di tipo partecipativo.
Il recente percorso sembra rappresentare una accelerazione nello stock di conoscenze proprio nella direzione della biologia, con particolare riferimento alla biologia molecolare, quella scienza che studia gli esseri viventi a partire dai meccanismi molecolari alla base della loro fisiologia (Frati), con attenzione alle interazioni fra le macromolecole, ovvero le proteine, e gli acidi nucleici DNA e RNA. Questa rivoluzione sembra permettere una ulteriore osservazione sul come si tenti di definire i confini, i criteri e le relazioni, nella individuazione dello status evolutivo, della condizione dell’individuo.
Nonostante la disponibilità di nuovi punti di osservazione, l’attore sociale del XXI secolo non sembra avere ancora sviluppato un linguaggio in grado di esprimere la nuova frontiera dell’evoluzione poiché ancora prigioniero delle logiche cartesiane riassunte nella celebre frase «cogito ergo sum».
Il presente è un equilibrio fra il passato e un complesso sistema di avvenire possibili, fra una situazione definita de facto, ed una in continua ri-definizione in cui le informazioni immateriali sembrano attraversare la materia ed interferire in tempi diversi fra l’osservatore e l’oggetto osservato, in cui si rischia di sostituire al continuum una summa di conoscenze non più critiche.
Ciò che interessa al sociologo sembra essere proprio la definizione dei criteri di scelta per considerare più legittima, e quindi più condivisibile, una determinata interpretazione del rapporto fra salute e malattia, un rapporto in continua ri-definizione, anche in tali prospettive I La sociologia si pone come una scienza in grado di fornire dei modelli di comportamento sociale, che possono rendere effettivo il riconoscimento dei problemi presenti a tutti i livelli con l’obiettivo di suggerire strategie interpretative possibili.
Una azione di questo tipo è sostanzialmente interdisciplinare ponendo su pIani complementari e collaborativi i saperi della ricerca delle scienze biologiche con quelli sociologici. È, in altri termini, la definizione e la interconnessione dei campi per le azioni di ogni attore sociale, per le scelte che si intende operare rispetto alle definizioni di chi e l’attore sociale oggi e di come si rapporta all’altro Si tratta di un gioco costante di relazione che può essere perdurante nel tempo, ma può anche mutare, se mutano le condizioni di relazione e di esperienza con le posizioni relative degli altri.


La sociologia ha compreso, prima fra le scienze, il fatto che l’attore sociale  è in grado di rappresentare i contenuti dell’immagine del mondo a prescindere dalla sua reale esistenza, in altri termini, dalla sua natura.
Alle nuove frontiere degli studi biologici, gli studi sociologici più recenti hanno mostrato che la valutazione degli oggetti e dei fatti, è una parte del mondo naturale. In particolar modo e grazie all’approccio della sociobiologia, un tentativo di spiegare in termini biologici aspetti del comportamento umano, tradizionalmente oggetto di studio delle scienze umane, che si tenta di ridefinire l’evoluzione della specie ed il suo essere.
L’attore sociale, nella sua dimensione sociale, culturale e biologica, presenta il problema di ristabilire ciò che in questa dissociazione è assente, la relazione individuo, società, specie come permanente e simultanea (Morin). L’approccio tipico della sociobiologia impiega la teoria evolutiva per interpretare il comportamento sociale animale ed umano tentando una sintesi piuttosto ampia comprendente un vasto insieme di fenomeni (Barash). In tale direzione non sembra esservi dubbio sul fatto che il problema fondamentale sta nel rapporto fra il sistema sociale e la natura, come evento biologico e, in questa relazione fra natura, evoluzione e società.
Se fino a pochi decenni fa esisteva, e forse esiste ancora, una relazione fra natura e società, fra evoluzione sociale ed evoluzione umana, con la società post-moderna le cose si sono distanziate e, in qualche modo, anche compenetrate. Questa relazione, così complessa, che necessita di scienze diverse per essere osservata compiutamente è chiaramente concettualizzata soltanto da tre secoli. Quello che si vuole sottolineare è la mancanza di linearità e di prevedibilità del processo evolutivo.
Che un individuo venisse al mondo secondo i metodi della riproduzione sessuata naturale, avesse un corpo e una mente soggetti a malattie e invecchiamento, soffrisse, godesse e morisse assieme ai suoi organi, appariva un dato di fatto inoppugnabile; come anche che l’evoluzione fosse un percorso fra ambiente naturale ed ambiente sociale. Invece sembra necessario ri-formulare molti parametri con i quali l’attore sociale ha cercato di identificare l’altro ed identificare se stesso.
Per questo è necessario riflettere sul tema vita, e non solo in termini biologici. Morin, già nel 1974, suggeriva di inserire la relazione fra individuo e società in un rapporto temano specie, individuo e società, un rapporto cultura, ambiente e società.
Una riflessione sociologica sul concetto di vita e della sua evoluzione non è necessariamente terreno scientifico dell’epistemologia e della biologia ma costituisce il tentativo di definire i contorni sul tema della vita a partire dalla grande quantità di informazioni disponibili e dei metodi per analizzare tali dati: «un termine che si incontra spesso nelle scienze sociali per designare la storia naturale è ermeneutica. Nell’uso originale e circoscritto questa espressione derivata dal greco Hermeneutikòs (capace di interpretare) designa l’analisi e l’inter-pretazione dei testi, specialmente del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nel campo delle scienze sociali e umanistiche è stata allargata fino a comprendere l’esplorazione sistematica dei rapporti sociali e della cultura, in cui ogni soggetto viene esaminato da studiosi che esprimono punti di vista e culture diverse» (Wilson).
La comprensione della vita, anche alla luce della sociobiologia, è possibile anche relazione al fatto che “solo l’uomo ha coscienza della propria morte. Questa coscienza è legata alla facoltà immaginativa, che ci permette di proiettarci” (Ruffiè). Una sociobiologia post-moderna dovrebbe poter comprendere e registra i cambiamenti, come modificazioni storiche, come conseguenze della post-modernità.
Non si tratta solo, come osservato da Zygmunt Bauman, della perdita della forma solida della modernità e della sua trasformazione in modernità liquida, ma è soprattutto della incapacità di ordinare e governare la situazione e di indirizzarne i processi. Per Bauman due sono i caratteri che hanno segnato più di altri lo spirito moderno: «l’impulso a trascendere e andare oltre i limiti — cioè, l’impulso a trasformare le realtà oggettive — e l’impegno costante a perfezionare le capacità/possibilità di azione — cioè le capacità/possibilità di modificare le situazioni». Ciò significa che nel cuore della modernità è iscritta la vocazione a manipolare e trasformare l’oggettività del mondo al fine di superare, in uno sforzo di liberazione permanente, gli ostacoli che esso ci pone L’unico limite alle capacita trasformative potrà essere solo quello di fatto, quello dettato dalla attuale disponibilità di mezzi per metterle in atto.
Il problema, anche nelle fratture della post-modernità, sembra essere quello della conoscenza; quando aumenta la conoscenza, l’oscurità intellettuale che circonda l’attore sociale viene illuminata, e si può meglio osservare ed apprendere dal mondo naturale. Oggi le nuove conoscenze sembrano portare sia riavvicinamenti inattesi sia nuove distinzioni, destabilizzando le categorie meglio fondate nella ricerca, fra le scienze, delle possibili e diverse linee di connessione. Sembra necessario un impegno teso a chiarire, grazie al fondamentale contributo della sociologia, la spiegazione scientifica dei fenomeni biologici, fenomeni di carattere estremamente complesso e vario ed è proprio tale caratteristica che contrasta con l’esigenza primaria di ogni osservazione scientifica, ovvero la presenza in un campo di studio costituito essenzialmente dalla diversità e dalla varietà e che quindi si configura non generalizzabile a priori. Come ha osservato Grmek: «nel nostro modo di concepire un fenomeno, soprattutto un fenomeno legato alla vita, esistono sempre delle dualità essenziale tutto o parte, oppure stato o processo o funzione, causa o scopo.
Il processo può essere considerato come una continuità o come una sere di discontinuità fondamentali: evoluzione o rivoluzione, continuità materiale o continuità informatica. Questa dialettica parte-tutto non vale solo per un organismo, ma anche per il rapporto fra individuo ed ambiente.


Fino ad una quindicina di anni fa la maggioranza delle persone, e tra queste la maggioranza degli operatori, tendeva ancora a considerare la qualità dei servizi sanitari come una loro componente implicita e non ben definibile, prevalentemente focalizzata sugli aspetti tecnici.
La soddisfazione dei cittadini o, più genericamente, le loro valutazioni sulla qualità dei servizi erano ritenute marginali. Tuttavia la situazione è andata rapidamente modificandosi, prima con la progressiva presa di coscienza delle diverse componenti della «qualità» (tecnica, organizzativa, relazionale), poi con la richiesta sempre più pressante di superare la tradizionale autoreferenzialità del personale e delle strutture per raggiungere modalità oggettive di definizione, misurazione e valutazione dei livelli qualitativi dei servizi forniti.
Lo sviluppo di questi principi, unito all’aumentata coscienza dei propri diritti da parte dei cittadini, ha portato a sempre maggiori richieste di trasparenza di tutela dei diritti. La capacità di garantire predefiniti livelli qualitativi è diventata quindi una esigenza crescente, sia in una logica strettamente contrattuale (garanzia della qualità del servizio fornito), sia in una logica più generale quale quella di un sistema sanitario pubblico a cui è richiesto di garantire ai cittadini prestazioni/servizi, noi solo in termini quantitativi ma anche qualitativi.
La normativa è intervenuta in questo settore con di versi atti, tra i quali meritano di essere ricordati i seguenti: decreto legislativo 502/1992, che riordinava la disciplina in materia sanitaria, e il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 gennaio 1994 sui principi a cui deve uniformarsi progressivamente l’erogazione dei servizi pubblici, anche se svolti in regime di concessione o mediante convenzione.
In base al decreto del presidente del consiglio de ministri del 27 gennaio 1994 tutte le aziende sanitarie accreditate, pubbliche o private, devono garantire il rispetto e la promozione di alcuni principi fondamentali:
Eguaglianza: erogazione dei servizi con regole uguali per tutti, indipendentemente da sesso, età, razza, lingua, religione, opinioni politiche;
Imparzialità: erogazione obiettiva, non condizionata da pregiudizi, o da valutazioni improprie;
Continuità: l’erogazione, nell’ambito delle modalità stabilite dalla normativa di settore, deve essere continua, regolare e senza interruzioni;
Diritto di scelta: l’utente ha diritto di scegliere il soggetto erogatore del servizio;
Partecipazione: il cittadino-utente ha diritto a partecipare alle prestazioni, anche attraverso le associazioni di utenti, di volontariato e di tutela;
Efficienza ed efficacia: i servizi erogati devono essere in grado di ottenere i risultati migliori e ai costi minori.
Infine il decreto del presidente del consiglio dei ministri del 19 maggio 1995 fornisce lo schema di riferimento della «Carta dei servizi pubblici sanitari» e costituisce un atto fondamentale per l’introduzione di una nuova modalità di rapporto del Servizio sanitario nazionale con il cittadino. Oltre alla affermazione di una serie di principi e modalità organizzative, .si precisano le responsabilità delle regioni e delle ASL. Queste ultime devono, in particolare, garantire:
Informazione: su prestazioni fornite, modalità di accesso, procedure, partecipazione; 
Accoglienza: limitare disagi, comprendere bisogni, accompagnare, corretto uso dei servizi e delle strutture; 
Tutela: regolamenti per la tutela dei diritti, gestione dei reclami, attivazione degli uffici relazione con il pubblico (URP);
Partecipazione: progetti di adeguamento alle esigenze dei cittadini, rilevazione gradimento, rapporti coi personale e comfort;
Adozione di standard di qualità e quantità.

Nell’ambito normativo è opportuno ricordare anche «Carta dei diritti del malato» presentata a Bruxelles il novembre 2002 e redatta da un insieme di associazioni di tutela dei diritti dei malati. Il documento, per quali la «Carta dei diritti non costituisca un atto normativo, è un importante riferimento culturale per la rilevanza dei principi affermati e l’ampiezza del dibattito di cui sono frutto (per maggiori informazioni, si veda www.cittadinanzattiva.it) Esso propone la proclamazione di quattordici diritti dei pazienti, che nel loro insieme cercano di rendere concreti i diritti fondamentali previsti dal trattato di Nizza del 2000, applicabili e appropriati all’attuale fase di transizione dei servizi sanitari. Tutti questi diritti mirano a garantire un «alto livello di protezione della salute umani (art. 35 della «Carta dei diritti fondamentali») e assicurare l’alta qualità dei servizi erogati dai diversi sistemi sanitari nazionali. Essi dovrebbero essere tutelati in tutto il territorio dell’ Unione Europea, e sono: 
Diritto a interventi e misure di prevenzione; 
Diritto all’accesso; 
Diritto all’informazione; 
Diritto al consenso;
Diritto alla libera scelta;
Diritto alla privacy e alla confidenzialità;
Diritto al rispetto del tempo dei pazienti;
Diritto al rispetto di standard di qualità;
Diritto alla sicurezza;
Diritto alla innovazione;
Diritto a evitare le sofferenze e il dolore non necessari;
Diritto a un trattamento personalizzato;
Diritto al reclamo;
Diritto al risarcimento.
In ogni situazione nella quale il cittadino abbia la sensazione che i suoi diritti, o quelli dei suoi familiari, siano stati lesi, ha il diritto di presentare reclamo alla struttura sanitaria, sia essa pubblica o privata, che ha il dovere di rispondere in modo confacente e in tempi contenuti.
Oggi tutte le aziende sanitarie hanno procedure per la gestione dei reclami; solitamente è necessario presentare un reclamo scritto, indirizzato al direttore generale, spiegando in modo sintetico ma chiaro l’oggetto del reclamo e segnalando l’indirizzo a cui si desidera ricevere la risposta. Il cittadino può presentare direttamente il reclamo o può farlo attraverso le associazioni di tutela dei diritti del malato o del consumatore. Un costante aggiornamento delle informazioni può essere reperito all’indirizzo Internet  www.ministerosalute.it/qualita/qualita.jsp   


1.  Al fine di garantire il costante adeguamento delle strutture e delle prestazioni sanitarie alle esigenze dei cittadini utenti del Servizio sanitario nazionale il ministro della Sanità definisce con proprio decreto, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome i contenuti e le modalità di utilizzo degli indicatori di qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie relativamente alla personalizzazione ed umanizzazione dell’assistenza, al diritto all’informazione, alle prestazioni alberghiere, nonché dell’andamento delle attività di prevenzione delle malattie. A tal fine il ministro della Sanità, d’intesa con il ministro dell’Università e della Ricerca scientifica e tecnologica e con il ministro degli Affari sociali, può avvalersi anche della collaborazione delle Università, del Consiglio nazionale delle ricerche, delle organizzazioni rappresentative degli utenti e degli operatori del Servizio sanitario nazionale nonché delle organizzazioni di volontariato e di tutela dei diritti.
2. Le Regioni utilizzano il suddetto sistema di indicatori per la verifica, anche sotto il profilo sociologico, dello stato di attuazione dei diritti dei cittadini, per la programmazione regionale, per la definizione degli investimenti di risorse umane, tecniche e finanziarie. Le Regioni promuovono inoltre consultazioni con i cittadini e le loro organizzazioni anche sindacali ed in particolare con gli organismi di volontariato e di tutela dei diritti al fine di fornire e raccogliere informazioni sull’organizzazione dei servizi, Tali soggetti dovranno comunque essere sentiti nelle fasi dell’impostazione della programmazione e verifica dei risultati conseguiti e ogniqualvolta siano in discussione provvedimenti su tali materie. Le Regioni determinano altresì le modalità della presenza nelle strutture degli organismi di volontariato e di tutela dei diritti, anche attraverso la previsione di organismi di consultazione degli stessi presso le Unità sanitarie locali e le Aziende ospedaliere.

 




































Capitolo 3. 



Il volume “I diritti della Persona nella prospettiva Bioetica e Giuridica”, scritto da mons. Sgreccia, fornisce gli strumenti per comprendere lo scenario entro cui si sviluppa la sensibilità bioetica e istruire il discorso bioetico in tutta l'estensione delle sue dimensioni: quelle biomediche ed ecologiche come quelle etico-normative e antropologiche. Obiettivo di fondo di questa discussione critica è la costruzione di un modello di bioetica adeguato a supportare la deliberazione etica in una società pluralistica, con esplicito riferimento a un livello etico fondamentale basato sul principio del rispetto della dignità umana e a un livello etico-applicativo mirato a concretizzare questo principio nelle situazioni nuove aperte dal progresso biomedico.
Questo argomento di studio, quale nostro lavoro di recensione, s’immerge nell’attualità, in “media res”. Abbiamo motivo di augurarci che questi nuovi livelli di conoscenza possano creare ulteriori spazi di reciproca comprensione tra tutti coloro che, per sensibilità personale e professionale, vogliano “riscoprire le radici etiche di ogni costruzione normativa che intenda redimere e indicare i percorsi strutturali che sorreggono l’edificio legale della società contemporanea e della stessa civiltà moderna”.
Ci è sembrato opportuno, consultare gli Atti del Convegno sulla bioetica, tenutosi a Roma nel settembre 2000. Dagli autorevoli interventi sono emerse tutte le scottanti problematiche della società in trasformazione, coinvolta nei processi di globalizzazione e stravolta nei suoi più intimi valori etici.
Ci proponiamo di tracciare, seguendo il filo rosso della produzione giuridica mondiale, attraverso un ripensamento sempre più radicale dell’universalità dei valori morali, una nuova concezione laica e cristiana della centralità dei fondamenti etici della tradizione in tema di Diritti dell’Uomo del terzo millennio.
Portandoci su uno dei gangli del problema relativi al parametro di legalità costituzionale e grundnorm dell’ordinamento giuridico, abbiamo cercato di individuare i diritti inviolabili in ogni democrazia costituzionale, con particolare attenzione all’Ordinamento giuridico Comunitario.
Naturalmente non poteva non seguire una parte dedicata alla Metafisica dei diritti della Persona umana.
Una trattazione particolare abbiamo dedicato al fondamento dei diritti umani in generale e, in special modo nella prospettiva della Costituzione Europea e delle “super politiche Comunitarie”.
A tal fine, abbiamo cercato di tracciare, sulla scorta di diversi studi, il profilo dello stato della bioetica nelle Università del mondo, di individuare e sottolineare i valori umani e professionali, concludendo con “la svolta pedagogica attuale”, elaborata dalle Istituzioni e percepita dai cittadini, entro una visione della Paideia occidentale moderna Si può comprendere l’importanza di quest’ultima in una società, qual è quella in cui viviamo, contrassegnata proprio dalla comunicazione, dall’apparire, dal senso della visibilità e dello “spettacolo”, dalla tecnologizzazione di ogni campo dello scibile umano, al mero servizio delle leggi del mercato mondiale.
La funzione di termometro è garantita dalle numerose e diverse correnti di pensiero, in materia di bioetica, nell’insegnamento universitario mondiale: sono state esplorate, in particolare, le weltanshaung Europea e Africana.
Ci siamo, poi, occupati della bioetica in relazione al pensiero religioso, con puntuale  riguardo alla religione islamica.
Concludono la nostra recensione alcune rapide ed essenziali considerazioni in materia di politica, globalizzazione, ecologia, vuoti etici, formazione e aperture alla speranza, completate da una ampia e specializzata bibliografia.
La tutela dei diritti fondamentali della Persona , secondo l’attuale orientamento comunitario e la redigenda Carta europea dei diritti, pongono il cittadino europeo al centro di un sistema di tutela basati sui Trattati internazionali.
Tali diritti inviolabili, limiti di ogni potere costituito, e valori supremi di tutti gli ordinamenti costituzionali, hanno efficacia erga omnes, con una serie di ricadute e incidenze sulla nozione di Persona quale essere, valore e senso ontologico e assiologico, nei rapporti concreti dell’esperienza giuridica e politica.
Nel sistema comunitario coesistono diversi ordini di valori fondamentali: quello comunitario e quelli nazionali. Naturalmente le norme comunitarie vanno ad incidere sugli ordinamenti statali. Un esempio ne sono le costituzioni che, nate all’indomani delle grandi tragedie subite dagli Stati ad ex regime totalitario, si sono poste come patti fondamentali sui valori orientativi e unificanti gli orientamenti giuridici.
L’ordinamento giuridico europeo è un concentrato di cultura giuridica: gli stessi orientamenti giuridici nazionali vivono all’interno e all’esterno del contesto culturale comunitario e, di questo, possiedono forza normativa e cultura durevole, rinnovatrici del diritto comunitario positivo.
Diverse posizioni si fronteggiano sulla Costituzione europea. Una giurisprudenza comunitaria afferma l’esistenza di una Carta costituzionale di base idealmente costituita dai diritti fondamentali risultanti dalle tradizioni comuni degli Stati membri, ed espressamente richiamati dal Trattato di Maastricht, integrato da una Carta dei diritti. Altra parte della dottrina sostiene che l’U.E. vive di cessioni di sovranità da parte dei singoli stati e quindi non può essere un Soggetto autonomo.
I termini della questione, secondo Calabrò, sono da inquadrare in una prospettiva di Teoria generale del diritto.
Per chiarezza di esposizione ricordiamo che, nella prima fase del costituzionalismo moderno, la Costituzione era intesa come una legge superiore, presupponente un “potere già dato e fondato sulle fonti di legittimazione” (legge divina, tradizione e diritto naturale), con funzione di “vincolo e limite rispetto ad un potere che aveva una sua autonoma fonte di legittimazione”. Nello stato di diritto materiale, la Costituzione muta la sua essenza poiché limita il potere democratico e, al tempo stesso, lo legittima.
Secondo Kelsen, la validità della norma è il segno della sua giuridicità e contrassegna la legittimità di quel potere che si esercita attraverso le norme; quindi, se la validità della norma è data dalla sua appartenenza all’ordinamento, è inevitabile porre a capo di esso una norma suprema, fonte di legittimazione suprema e di validità. Seguendo tale via, la norma fondamentale va sottoposta alla dialettica della legalità/legittimità, caratterizzante l’ordinamento giuridico costituzionale. Il locus della instaurazione di un nuovo ordinamento risolve il problema della legittimazione e presiede alla produzione delle norme giuridiche attraverso l’idea di ordine.
L’ordinamento costituzionale viene instaurato in vista di un fine e, pertanto, ha carattere strumentale; è l’ordinarsi di una società di persone attorno fini e principi generali e fondamentali. 
La prospettiva emersa dall’intervento di Calabrò, nel Convegno romano, è una soluzione di sostanza giuridica che non rinunci a cogliere la realtà sottostante il diritto, ovvero l’origine del potere legittimante la Costituzione come l’intero ordinamento giuridico.
Concludendo, il concetto di ordine quale locus artificialis presuppone il processo dell’ordinarsi in vista di un fine, quello dell’esercizio sociale e collettivo dei diritti fondamentali della Persona umana nella sua unità ontologica.
Coccopalmerio individua il problema della considerazione dei diritti umani  come l’ordine dell’essere o come ordine del gioco, in diversa soluzione a seconda dei tempi storici. Ordine dell’essere significa che nulla si può dire sui diritti umani se non si è fatta luce sulla natura dell’anima e sul posto che essa occupa nel mondo e nella storia del pensiero classico. Per il pensiero moderno conta l’ordine del gioco.
Il pensiero post-moderno si occupa di costruire la macchina sociale, alla cui base sono le regole del gioco o norme di funzionamento. Essenzialmente due super-norme garantiscono l’esistenza della società a condizione che vi siano norme di comportamento e che, poste queste norme di funzionamento, occorre  eseguirle. In caso contrario vige il caos, l’anarchia.
Tali regole del gioco sono frutto di un atto di volontà individuale e pubblico; sono lo strumento dello stare (forzatamente) in comunione, basato su un atto d’imperio. La prima regola del gioco è la maggioranza, che ha ragione ed è la ragione. La seconda regola del gioco è il rispetto della minoranza, atto di discrezione della maggioranza. La terza regola del gioco è l’alternanza, nel governo della comunità sociale,  della maggioranza alla minoranza e viceversa. Tale alternanza è meramente espressione di rapporti numerici e non di valori morali, è l’esercizio dell’arbitrio.
Alla base dei diritti umani sono i protocolli istituzionali, ovvero “atti di decisione sovrana con cui vengono istituite le regole del gioco, dell’ordine sociale, contro l’individualismo umano e l’alto rischio di conflittualismo generalizzato” .
Nello Stato ciascuno può godere del proprio limitato diritto, viene protetto dalla forza comune, ha la sicurezza dei frutti della propria attività. Lo Stato è garante del dominio della ragione, della pace, della sicurezza, della ricchezza, della decenza, della socievolezza… I diritti della Persona esistono per ordine del volere sovrano dello Stato.
Bobbio, nel parlare dei diritti della persona, individua una problematica di fondo: la politica deve occuparsi di proteggere tali diritti, proprio come la filosofia si preoccupa di giustificarli.
A seconda del contesto - la classicità o la modernità – i diritti della Persona e il suo ordine morale e politico hanno significati e contenuti diversi: la giustificazione l’una, la decisione l’altra. La religione impone una collaborazione in nome di valori comuni attraverso il ritorno ad una auto-educazione del genere umano, universale nello spazio, specificata nei contenuti, positivizzata nelle legislazioni nazionali.
 La Dichiarazione dei diritti umani nasce nel 1948 con l’obiettivo di tracciare  una linea divisoria con il periodo storico precedente, facendo in modo che il problema della protezione dei diritti fosse, finalmente,  una questione di responsabilità della comunità internazionale.. La mancanza di accordo reale sui concetti che consentono di fondarli, rende impossibile un consenso sulla loro portate e sui contenuti. Per cui la loro salvaguardia e il loro rispetto da parte degli Stati sarà diverso a seconda della interpretazione concettuale che se ne darà. La pietra miliare storica della concezione dei diritti umani  è la Dichiarazione Universale.
La carenza di un fondamento comune ai diritti umani è dovuta all’ambiguità sul concetto di persona e al dubbio rispetto alla condizione dell’uomo e alla sua proiezione teleologica. La persona è il fondamento della libertà che, a sua volta, trova il suo fondamento nell’essere ontologico. L’ottica dei diritti umani mette fine al vincolo essere-persona-libertà e vuole troncare una tradizione storica per pensare la libertà come liberazione da ogni responsabilità intesa come capacità di risposta verso gli altri. Si vorrebbe concepire la libertà come fine in sé, bandendo l’idea di una inclinazione necessaria e naturale al bene da parte dell’uomo e dimenticando che è presupposto della responsabilità non sua condizione e/o causa. Si fa sorgere la dignità della persona  da un consenso o patto tra gli individui, da un mero assenso dottrinale che, spogliato del concetto di persona al quale è necessariamente unito, è carente di significato.
L’uomo è riconosciuto soggetto cosciente della propria essenza ed esistenza: egli è padrone dei propri atti e della sua dignità, essenziale e comune al genere umano. Il fine ultimo è lo sviluppo integrale della persona e dal principio della personalità si evince la conquista della ragione che sa determinare i propri fini.
Se spogliato di finalità, l’uomo finisce per essere uno strumento, l’uguaglianza è una parità nell’avvilimento della condizione umana e la libertà non è veramente tale, poiché non risiede nel riconoscimento del bene. Dove non c’è conoscenza non c’è libertà né possibilità di formulare una scelta razionale. Quindi il vero fondamento della dignità umana è da individuare negli ingredienti metafisici della persona ossia  nella libertà e nella razionalità dalle quali si deducono i diritti, i  doveri e  le responsabilità. L’assenza di doveri ha per risultato l’assenza di un ordine morale e di un vero ambito sociale, di conseguenza, secondo Giovanni Paolo II, “non si dovrebbe trattare dei diritti dell’uomo senza tenere conto dei suoi doveri correlati che traducono con precisione la sua stessa responsabilità e il suo rispetto dei diritti degli altri e della comunità”, espressi nelle leggi naturale e umana.
La dottrina concernente i diritti umani si è basata sulla negazione della natura e di Dio come Autore della stessa. Mentre i diritti naturali soggettivi sono, paradossalmente, la negazione dei diritti dell’uomo, l’espressione di un ordine naturale oggettivo  permette il raggiungimento di diritti-doveri che sono anche comuni e oggettivi, permette il funzionamento della società e la necessaria articolazione fra i distinti membri della società. Nella concezione abituale, la coscienza è vista come punto di non incontro,che serve a giustificare misure disuguali per bandire principi distinti e anche opposti per negare l’esistenza di una verità oggettiva e del valore essenziale di essere persona. Non esistendo una verità valida per tutti la coscienza, frutto dell’arbitrarietà e del decisionismo, si trasforma nella possibilità di agire senza assumersi le responsabilità che derivano dalle proprie azioni. In ultima analisi la coscienza avrebbe la capacità di creare diritti ma non di imporre dei doveri. A causa di ciò ci troviamo dinanzi ad un nuovo concetto di libertà che si appoggia sull’esercizio dell’arbitrarietà, basato sull’errore e non sulla conoscenza della verità. Si può alla fine segnalare che i diritti umani si fondano in una stretta natura dell’uomo e implicano un’impostura nel proclamarsi universali e, allo stesso tempo, possono essere usati a favore di alcuni e contro altri. In definitiva diritti soggettivi forgiati dall’individualismo moderno sono la nozione astratta dell’uomo. Se vogliamo stabilire una dottrina dei diritti umani dovremmo superare l’individualismo, che è stato l’artefice della dottrina sull’argomento; offrire una visione completa e complessiva dell’uomo, una visione del significato unitario e essenziale della vita umana dello statuto ontologico sul quale è costituita la persona; fondare i diritti sui loro corrispettivi doveri; presentare una vere base antropologica ed etica dei diritti umani che vengono proclamati base morale senza la quale l’edificio dei diritti umani è una costruzione che manca di stabilità e no può apparire come una verità universale. Quindi, parlare di diritti universalmente intesi, ci impone di agire nella verità e di scoprire i frutti della verità e non sottomettere la verità alle proprie velleità, congiunture e interessi.
La attuale bozza della Carta U.E. dei diritti fondamentali (e quindi nella prospettiva dell’ordinamento comunitario , nell’evoluzione e nel suo graduale allontanamento dalle finalità di una comunità economica europeo dello stesso) presuppone il processo di costituzionalizzazione avviato già da tempo dalla giurisprudenza della Corte di giustizia fino al riconoscimento, col trattato di Maastricht dei diritti fondamentali della persona quali principi generali di quello ordinamento giuridico. E’ con tale trattato, ratificato dagli stati membri nel 1993, che prende avvio quel processo di costituzionalizzazione dei diritti dell’uomo a livello comunitario, il cui riconoscimento ere opera della giurisprudenza della corte di giustizia delle comunità europee,  stimolata a ciò in tempi ormai remoti da alcune prese di posizione delle corti costituzionali italiana e tedesca.
Con riferimento all’Europa e ai paesi partner dell’Unione, la presenza di valori “comuni” presenti in tali carte costituzionali europee vengono a rappresentare un parametro di riferimento necessario nel complessivo dibattito sui diritti fondamentali e nella prospettiva di una Carta europea dei diritti fondamentali in fase di redazione. Ora si è in presenza di una nuova fase  caratterizzata dalle emergenze legate a due importanti rivoluzioni della nostra epoca, quella multimediale, della globalizzazione e quella biotecnologia.
La risposta complessa e univoca  nella direzione della salvaguardia della identità della persona risulta comprensibile solo in ordine a talune questioni rientranti nell’ambito della bioetica. Si propone da tempo una nuova figura di uomo da contrapporre al “business man” senza altre finalità che quella del profitto ed in sostanza una rifondazione del sistema attraverso una vera e propria rivoluzione morale. Parlare di diritti fondamentali a livello europeo significa individuare diritti e principi generali che affondano le loro radici in quella dimensione non economica dell’uomo che fronteggia in particolare, sul piano della produzione e del mercato, il diritto dell’impresa e taluni valori più radicali che attengono alla persona in sé e per sé considerata nell’ambito di un complessivo sistema vivente. Alcune opzioni e scelte di fondo non possono essere pretermesse poiché esse sole possono impedire che alcuni diritti fondamentali, attinenti alle libertà di impresa e di ricerca scientifica, possano essere sacrificati in nome della genericità, latitudine e ambiguità della loro formulazione giuridica.
Il sistema normativo delle “super politiche” costituisce la sede di principi generali, dallo sviluppo sostenibile  a quello di precauzione e protezione dei consumatori,  che costituiscono momento essenziale di riferimento nella ridefinizione delle cosiddette politiche economiche tradizionali. L’approccio rivolto a dare un’anima più profonda  alle superpolitiche muove dalla persona concepita nella sua libertà. Infatti la legalità non è solo conformazione alle regole giuridiche ma è anche momento di esaltazione dei rapporti sociali e interpersonali che presuppongono il rispetto sostanziale della dignità dell’essere persona. Le opzioni di fondo costituiscono le nuove frontiere dell’Europa che si vuole costruire e di cui la Carta in gestazione dovrebbe costituire il punto di riferimento obbligato della ricognizione di talune libertà, strumentali alla mercificazione dei  risultati della ricerca. La tutela fondamentale dei diritti fondamentali- della vita e dell’integrità della persona, passa attraverso la tutela giurisdizionale ed è parte preliminare e  preventiva alla costruzione di un sistema giuridico che vuole porre a fondamento dell’ordinamento i diritti della persona umana. In sostanza manca il coraggio di fronteggiare il potere economico delle multinazionali e di fare chiare scelte su un progetto europeo che costituisca un modello di sviluppo rispondente alla cultura di un’Europa che ha bisogno di attingere a modelli di sviluppo d’oltreoceano. Il complessivo problema di una vita etica allo sviluppo riguarda la libertà di impresa di cui, nella bozza della Dichiarazione, mancano i confini e  i limiti che il sistema delle superpolitiche indica chiaramente nella tutela dello sviluppo sostenibile, nella tutela della dignità e degli interessi e diritti dei consumatori.
Il potere politico sembra venga colonizzato da quello economico per ciò che concerne la formulazione, a livello internazionale, di una generica libertà di impresa  e di ricerca scientifica. La concezione di Giuseppe Capograssi, secondo cui la scienza deve servire alla conservazione della vita, venendo ammantata dal bisogno insopprimibile dell’uomo di conoscere e legittimata dalle possibili applicazioni per finalità terapeutiche, oggi viene stravolta rivelando la preminenza del potere d’impresa. Non c’è da stupirsi che in Europa, anche ai massimi livelli istituzionali, il rapporto tra libertà e natura  sia impostato in modo da rinnegare  i diritti fondamentali della sicurezza alimentare, con relativa ed evidente tendenza a legittimare forme di Stato e di governo della società più che a riconoscere l’esistenza e il valore della persona. Ancora una volta è in gioco la libertà dell’uomo nel suo rapporto etico con la vita della terra e dei suoi esseri viventi.
Una Giurisprudenza economica stenta a decollare nella concezione europea, con molteplici implicazioni per la biodiversità, l’ambiente e la sicurezza alimentare dei consumatori.
La storia della bioetica si può dividere teoricamente in due fasi: il principialismo e la esperienza morale. Nella Bioetica mondiale è in atto un mutamento di paradigma; si passa dalla bioetica dei principi a quella del caring, del prendersi cura .
Per ciò che concerne il paradigma dei principi, esso è basato sulla logica deduttiva e sull’etica del dovere. Si domanda cosa si deve fare di fronte alle perplessità morali provocate degli interrogativi sollevati dalle scienze biomediche e una volta individuati i principi li applica, usando la logica deduttiva, ai casi particolari, costringendo a priori la complessità e l’imprevedibilità delle situazioni umane sotto la legislazione di principi morali astratti. Ciò comporta una sproporzione tra le azioni e situazioni umane inedite e la fissità dei principi a causa della necessità di una diversa valutazione in cui è necessaria la saggezza pratica, l’inventiva e la capacità critica per mediare la norma. Tra princìpi e casi operano il giudizio e il confronto continuo tra la teoria e le intuizioni morali contestuali e situazionali.
L’attenzione alla situazione, al vissuto, alla soggettività sta producendo un mutamento nei paradigmi della bioetica fino a determinarne uno nuovo, induttivo, basato sull’esperienza. L’interrogativo che si pone è su cosa stia succedendo e sul tipo di relazioni che vogliamo instaurare con gli altri, cercando di interpretare  i comportamenti morali, le percezioni e le esperienze. La filosofia morale della virtù teorizzata da McIntyre teorizza sul tipo di persone che dovremmo diventare e non su ciò che dovremmo fare, attraverso la formazione del carattere e la pratica delle virtù. L’etica è intesa come l’acquisizione di abitudini e comportamenti di qualità umana, trasformandosi da teoria astratta e generale della modernità a filosofia che ritorna al particolare, la cui casistica si basa sull’esperienza di paradigmi simili e sullo sviluppo di massime ricavate da tali similitudini, ricavate per analogia.
Tuttora la casistica ha pessima fama, per il cattivo uso che se ne è fatto, a causa della tendenza a mettere in dubbio la validità dei principi oltre che ad adattarli alle private inclinazioni e tornaconti anziché applicarli alle situazioni concrete. Per Kant il buon senso è la facoltà di giudicare affinata dall’esperienza, e per Cartesio è la facoltà di aggiustare per successivi tentativi l’equilibrio dei valori che vogliamo vedere rispettati in una determinata situazione.  Secondo Thomas, anche se si ammettesse che l’unica legge morale universale è quella del rispetto delle persone, “resterebbero da trovare gli intermediari e le formulazioni che consentono di colmare la distanza le posizioni di principio dai casi concreti”. L’invenzione nel cuore dell’azione è indispensabile nella bioetica poiché è, secondo Kant, “un esercizio che insegna come deve essere cercata la verità”.
Il paradigma esperienziale prende in seria considerazione la specificità delle voci morali del prendersi cura delle c.d. categorie protette, ossia donne, anziani, disabili, malati incurabili, medici e genitori dei pazienti. Sviluppa l’etica del prendersi cura, della solidarietà attraverso una visione empatica e relazionale dei comportamenti morali. Le implicazioni sono tendenti a correggere il predominio di un orientamento esclusivamente razionalista. Il punto di partenza è fornito dall’apertura empatica all’esperienza, alla persona e all’ascolto di tutte le voci che esprimono genuine sofferenze e standard morali in situazioni particolari, consentendo di scoprire la domanda alla quale le teorie morali devono rispondere.
Sgreccia teorizza la considerazione dell’esperienza morale come incompleta se non si riferisce all’oggettività della verità e del bene e alla soggettività del comportamento. Tra i principi e le virtù si instaura un rapporto di reciprocità poiché il riconoscimento e l’attuazione del dovere è possibile se si è virtuosi e se si rispettano, si riconoscono e si applicano nella prassi gli obblighi morali. Privitera sostiene che “la sopravvivenza della bioetica dipende dal suo sapersi trasformare in problema e in progetto culturale, ossia in processo di sensibilizzazione bioetica della cultura”. Quindi il compito principale della bioetica consiste nel cogliere i punti nevralgici dei processi culturali e promuovere la sensibilizzazione bioetica della cultura nelle istituzioni educative prima di formulare un giudizio morale sulle varie opzioni. Si auspica che la bioetica diventi paideia, cultura formativa.
Nell’attuale fase di sviluppo della bioetica diventa sempre più decisivo rispondere alla domanda etica più radicale, quella che si chiede come mai esistano le persone buone e come esse siano in assoluto possibili. Il superamento del paradigma principialista e l’affermazione di quello dell’esperienza morale e delle virtù del caring,  spinge la cultura tutta  ad interrogarsi circa la possibilità di individuare gli itinerari educativi più idonei.
La qualità educativa inciderà sempre più sul livello morale della nostra civiltà e sulle scelte etico-politiche nella bioetica. A seguito della sua tendenza a ridurre il problema del bene comune a quello della giustizia e la vita morale dell’individuo al conseguimento della propria autonomia, la bioetica ha la bioetica ha lasciato uno spazio vuoto sul piano morale. Inoltre ha eluso la collocazione culturale della moralità a causa della continua ricerca dei principi generali. Al fine di sviluppare una bioetica culturale e comunitaria occorre una svolta educativa e formativa che potrebbe inaugurare una nuova fase della storia della bioetica. Tale svolta è rappresentata dalla pedagogia attuale  che apre l’insegnamento della bioetica nell’ambito universitario italiano. Anche la costituzione di comitati etici, a causa di carenza di esperti in bioetica, apre un ampio versante alla formazione  della figura professionale del bioetico.
La pedabioetica si occupa di educare l’uomo virtuoso, capace di consegnare ai posteri la qualità-verità dell’essere umano; vuole educare i giovani e gli uomini ad una migliore qualità della vita, a star bene con sé, con gli altri e col mondo e promuovere una coltura della qualità della vita anche nella comunità civile e non solo nelle scuole e università. Di qui si può intuire qual è la più importante frontiera della bioetica: rendere possibile l’uomo virtuoso, educato e formato nei suoi habitus, che non fa troppa fatica a giudicare il bene, a fare il bene ed a saper dare qualità alla vita perché si è lasciato qualificare dalla vita. Il progetto educativo-formativo e culturale della Bioetica deve ispirarsi pedagogicamente ai principi fondamentali dell’educazione. La pedabioetica deve educare “la mente, il cuore e la mano” secondo le indicazioni di Pestalozzi, secondo un itinerario cognitivo, psicomotorio e psicoaffettivo. Tutto il progetto deve fondarsi su un’etica della formazione come metodologia e principi che devono ispirare la programmazione e la metodologia educativa e l’acquisizione di competenze pedagogiche dei formatori.
Affinché le relazioni umane possano essere morali devono essere simmetriche e reciproche. Il senso di tale reciprocità  non è oggettivo, né convenzionale, né sistemico ma oggettivo e ontologico. Per essere etica la relazione deve essere sempre animata dalla reciprocità, promuovendo e rispettando l’altro come pari. Oltre alla giustizia anche la solidarietà deve essere ispirata alla reciprocità che, secondo il pensatore greco Yannaras, comporta la pienezza di vita.  L’etica di ognuno è basata sulla propria cosmovisione, che contribuisce a chiarire le diverse valutazioni etiche e le diverse politiche. Spesso le posizioni antagoniste in bioetica non riguardano tanto l’etica quanto l’ontologia. Le gestalt antagoniste applicano in modo differente i precetti etici fondamentali perché li riferiscono ad entità diverse.
La pedabioetica deve aiutare l’educando a costruirsi ed a formarsi una adeguata visione della realtà e dei rapporti con il mondo. Secondo le acquisizioni più aggiornate della scienza e della epistemologia  contemporanea, la ontologia non ci rivela le cose in sé ma reti o campi di relazioni di cui le cose sono partecipanti. Tale è l’approccio sistemico o ecologico detto anche gestaltico secondo il quale tutto è relazionato, interdipendente e interconnesso. Quindi comprendere qualcosa significa coglierla nel suo complesso di relazioni contestuali attraverso una ontologia relazionale che stabilisca un nuovo rapporto tra il tutto e le parti. L’essere si manifesta come essere per, inter-essere con ogni altra cosa. Tutto ciò che è riceve esistenza e non può essere inteso adeguatamente nel suo senso se non nel sistema di relazioni che lo costituisce e lo fa essere quello che è. Proprio tale interdipendenza tra le cose e l’inter-esistenza tra gli uomini è il fondamento dell’etica.
L’educazione deve attivare processi di identificazione attraverso l’espansione del Se , poiché comprendendo il legame che ci unisce agli altri esseri e identificandoci con loro aumenta la nostra coscienza. L’incapacità di identificarci conduce all’indifferenza. I molteplici Io si sviluppano fino a diventare dei Sé sempre più grandi, proporzionali all’ampiezza dei nostri processi di identificazione.
L’educazione alla bioetica passa proprio attraverso i processi di allargamento e approfondimento della coscienza  e dei processi di identificazione. Elias ha osservato che l’immagine dell’uomo prevalente è quella dell’homo clausus, poiché nelle nostre società gli uomini pensano per lo più a sé stessi come ad esseri indipendenti e isolati a cui si contrappone il mondo esterno e gli altri uomini. L’homo clausus preferisce addossarsi la solitudine della scelta personale e legarsi con le catene dello schiavo felice attraverso il sogno di un’utopia che lo liberi dall’onere di dover giudicare da solo. Tale ethos produce solitudine e isolamento. Elias considera vano “cercare un senso nella vita di un individuo indipendentemente dal significato che tale vita ha per altri uomini.
Ogni uomo ha bisogno di sentire che è importante agli occhi altrui poiché il riconoscimento sociale è fondamentale per scoprire e valorizzare l’identità personale. Occorre una cultura più empatica e partecipativa tendente a collegare l’uomo all’ambiente e ad aiutarlo a convivere con ciò che lo circonda. Presupposto dell’etica è l’esperienza dell’approssimazione, dell’avvicinamento all’altro, del superamento di un rapporto con la differenza dell’altro chiuso nell’errore. La dilatazione e l’arricchimento della nostra sensibilità devono aiutarci a mettere in dubbio che il mondo così come appare a me coincida con l’essenza del mondo. Questo presuppone una nostra capacità di riconoscerci nell’altro, di sentirci a lui uguale pur nella differenza. L’approssimazione sviluppa anche la compassione che consiste nell’“avere un’esperienza con” e permette che qualcosa succeda a se stessi contemporaneamente all’esperienza di qualcun altro.
Occorre ripensare il libero arbitrio e alla volontà di potere occorre sostituire la “volontà di empatia”. Nell’impostazione empatica il libero arbitrio viene misurato dal grado di partecipazione e di condivisione comunitaria. La mente empatica fa proprio questo perché appartenere diventa più importante che possedere. L’umanità dell’etica è costituita dal posto che occupa l’alterità, l’essere nella nostra responsabilità. La pedabioetica deve ispirare una forte esigenza critica nei confronti di tutti i tentativi teoretici e pratici di deificare l’uomo, la vita e l’essere, intesi come res, come eventi.  L’essere non è puro oggetto da dominare ma secondo la filosofia heideggeriana è evento. Occorre prendere maggior consapevolezza della distinzione tra azioni ed eventi, tra atti nel potere dell’uomo ed eventi che sfuggono al suo potere e che avvengono al di fuori della volontà umana.
Nella cultura bioetica occorre una conoscenza della conoscenza, una metaconoscenza e per la formazione alla bioetica si apprende nei tre ambiti del saper conoscere, del saper fare e del saper essere.  Occorre comprendere la circolarità interdipendente dei problemi. Il carattere applicativo della bioetica esige che accanto a momenti teorici e generali si analizzino casi concreti. Il pensiero deve contestualizzarsi al fine di elaborare e raggiungere una conoscenza pertinente, cos’ come ha insegnato Gadamer, con la contestualizzazione dell’universale nella situazione particolare. Il corrispettivo morale del pensiero contestualizzato è l’epieikeia, che serve a correggere l’astrattezza della legge e della norma, affermando sempre il primato della persona rispetto alla norma e alla situazione.
La razionalità di cui l’uomo ha bisogno per fare le proprie scelte è la ragionevolezza, che nasce dal confluire della vita della ragione con le ragioni della vita. La ragionevolezza si colloca nella realtà vissuta  e integrale della conoscenza; si avverte, quindi, la necessità di una bioetica ragionevole. La pedabioetica deve sviluppare nell’educando il ragionamento morale, ma soprattutto educarlo alla euprassia, al corretto apprendimento di comportamenti morali che portano alla creazione delle virtù.
Un problema importante nell’educazione morale è quello delle abitudini familiari e scolastiche. Una abitudine non è semplicemente, secondo la teoria comportamentista, una risposta ad un certo tipo di stimolo né una passiva ripetizione dell’atteggiamento ma bensì è una costanza delle nostre azioni attraverso le quali si costruiscono e si esplicano le nostre opzioni fondamentali, le virtù. Diventa prioritario l’atteggiamento liofilo nella comunità educativa per la promozione educativo-formativa delle virtù.
Come ha insegnato Freud, le soluzioni che l’uomo dà ai problemi quotidiani della sua esistenza risultano essere,nelle loro intenzionali conseguenze, soluzioni di vita o di morte. Il connotato degli istinti biofili o necrofili è fortemente antropologico. Fromm fa notare che la tendenza contro la vita, la necrofilia, considerata nei suoi aspetti più gravi, è “la patologia più acuta e la radice della distruttività e dell’inumanità più guaste”. Sempre Fromm fa notare che nei fenomeni della vita ciò che importa ai fini del comportamento dell’uomo “non è la completa presenza o assenza  di uno dei due comportamenti ma quale inclinazione sia più forte” . Oggi esiste la tendenza a ridurre l’essere umano alla sua utilizzabilità, reificandolo nella vita sociale, facendo da ciò scaturire l’atteggiamento necrofilo dell’uomo nell’odierna civiltà tecnologica; conta più la memoria dell’esperienza, l’avere più che l’essere, portando un approccio alla vita sempre meno immediato e sempre più meccanico.
Al contrario la vita biofila è deve caratterizzare tulle le età della vita umana e della comunità educativa, poiché la condizione più importante è che si sviluppi l’amore contagioso per la vita. L’educatore deve essere una personalità biofila; chi è pessimista, annoiato e scettico, per la sua antivitalità è un necrofilo, portato a distruggere e a vendicarsi della vita sbocciante del Tu, anziché darle senso avvalorandola e promuovendola, anche attraverso la propria gioia di vivere. La vita viene accettata e amata dall’educando soprattutto attraverso l’intervento educativo che permette la scoperta del valore dell’esistenza e, tale consapevolezza, è comunicata dalla presenza premurosa e paziente di chi lo ama. Nel messaggio educativo è importante trasmettere il senso della fiducia e della speranza per una vita che c’è, anche se non la capiamo o non la vogliamo, poiché ci ha chiamati desiderandoci, nonostante le colpe e i condizionamenti; l’educatore sarà il maestro di positività, apertura e sviluppo verso ogni forma di esistenza. Tra l’altro, per evitare che l’uomo venga privato ed espropriato della sua salute,  attraverso la medicalizzazione della vita, la salute stessa deve essere una virtù.
Secondo Addison “la medicina è il sostituto dell’esercizio della temperanza” e, volendo richiamarci ai precetti morali, le virtù si ravvisano nell’esercizio della prudenza, della temperanza, nella forza d’animo- Piaget ha insegnato che all’autonomia si arriva attraverso l’eteronomia-, nella giustizia e fortezza, poiché nell’educazione e nella vita spirituale si ha solo ciò che si conquista. L’avere tutto e subito, senza alcuno sforzo è un gravissimo errore educativo, che non consente di apprezzare il valore della conquista e dell’attesa. Bisogna inoltre infondere nell’animo degli educandi il piacere e la prontezza nell’aiutare gli altri, vincendo l’egoismo, impedimento fondamentale della vita morale, che porta a considerare il proprio benessere senza curarsi degli altri, indifferenti del bene comune.
Comenio ci ricorda che la disciplina deve essere esercitata contro chi sbaglia, per evitare che l’errore si ripeta, esercitandola con semplicità e sincerità, evitando l’odio, l’ira e le altre emozioni, in modo che chi viene punito si renda conto che la pena disciplinare è rivolta al suo bene  e che è consigliata dall’affetto di chi è responsabile della sua educazione. La disciplina deve tendere a formare  e rinforzare “una tempra degli affetti” . Solo uomini giusti, forti e solidali potranno essere portatori di una vera cultura bioetica, capace di creare una nuova qualità della vita.
Secondo Russo la Bioetica europea  è troppo analitica, basata su fondamenti epistemologici, sistemi di pensiero e impostazioni sistematiche, poiché nata e sviluppata in un contesto fortemente filosofico e teologico. 
L’impostazione procedurale, sociologica e giuridica,  ha avuto scarso impatto in Europa. Il dibattito sui problemi è stato secondario rispetto al dibattito sui fondamenti etici della bioetica, intesa come l’apertura alle nuove frontiere della biomedicina, mentre scarsa o assente è stata la attenzione globale alla vita, all’ecologia e agli habitat naturali, ecc., per non parlare di alcuni settori più sociali della vita quali la pena di morte, la cremazione, gli sports estremi, ecc.
La bioetica europea non ha avuto percorsi diversi da quella statunitense, è medicalizzata e dominata dalla produttività scientifica e farmaceutica; inevitabilmente il confronto è stato tra possibilità biotecnologiche e limiti dell’etica. Si è trovata epistemologicamente unificata in quanto studio sistematico e visione d’insieme di una medicina inserita nel contesto del modello antropocentrico; è fondata eticamente dall’argomentare che ha avuto la meglio sull’approccio clinico dei casi.
Possiamo individuare alcune prospettive di lettura antropologica molto attente alla dignità ontologica della persona umana, contrarie alla natura etica della persona o ai cambiamenti evolutivi della storia, considerando l’etica un processo evolutivo simile a quello scientifico per cui la vita umana e sociale è chiamata ad adeguarsi alle trasformazioni biotecnologiche, dovendo confrontarsi con forti pressioni e condizionamenti da parte dell’economia. Russo sostiene che “la bioetica europea ha bisogno di essere liberata dall’egemonia e dall’efficientismo biomedico a servizio dell’industria” .
Alcuni studiosi, tra cui Kelly, McCormick e Reich, hanno individuato all’origine della bioetica un movimento di reazione al riduzionismo e al disumanizzante avanzamento tecnico della scienza moderna, con conseguente approdo al processo di Norimberga e agli interventi di Papa Pio XII. Fu proprio Pio XII a chiedere ad Agostino Gemelli di istituire una facoltà di Medicina  e Chirurgia a Roma, con una forte connotazione etica degli studi.
La prima apparizione del termine bioetica risale al 1973 in un saggio pubblicato da Torchio sulla rivista Natura, con forti connotazioni potteriane e preoccupazioni per le alterazioni degli ecosistemi e degli equilibri biologici.
Il primo centro di bioetica in Europa fu istituito in Spagna a Barcellona, presso la Facoltà di Teologia. Presto il dibattito bioetica si diffuse in Francia e a Roma. Sulla impostazione di pensiero che questo centro introduce e porta avanti in tutta Europa una bioetica concentrata sulle biotecnologie in medicina. Con Diego Garcia, in Spagna, la bioetica è stata studiata secondo tre approcci: quello storico, quello filosofico e quello della teoria della medicina.
A Londra, nel 1975, viene costituito l’Institute of medical ethics, con una corrente di pensiero chiaramente utilitarista. Nel 1977 nasce il Linacre Center, composto in massima parte da docenti dell’area biomedica, legale e filosofica-teologica. L’impostazione di pensiero è propriamente cattolica e contribuisce a livello di consulenze governative. Nel 1991 nasce il Nuffield Council on Bioethics, con un forte lavoro interdisciplinare che ha portato ad una serie di lavori nei campi della genetica, degli xenotrapianti, dei disordini mentali, ecc. l’impostazione di pensiero è laica.
Negli anni ottanta sono sorti i centri di studio di Lille, Lione e Parigi e il noto Comitè Consultatif National d’Etique, si affermano le iniziative del Centro Sevres di Parigi, concentrando la ricerca nei campi della sperimentazione e della procreazione assistita e della genetica, dell’astensione delle terapie e delle cure palliative. L’impostazione di pensiero è espressamente cristiana. In Belgio, nel 1983 nasce il Centre d’èdudies bioethiques che promuove la bioetica come disciplina accademica con l’intento di conciliare nella pratica medica scienza e coscienza. Nel 1987 con il Protocollo di Bochum nasce il Centro di etica medica dell’università di Buchum che ha prodotto una considerevole attività nel campo dell’etica medica e del settore biotecnologico. L’impostazione di pensiero si articola  su quattro punti metodologici: l’identificazione dei dati medico-scientifici attraverso una adeguata diagnostica, l’identificazione dei dati medico-etici a partire dalla salute e dal benessere del paziente e dall’autodecisione del paziente e dalla responsabilità del medico, dalle possibili opzioni per il trattamento del caso e questioni supplementari per la valutazione etica. Centro studio di simili impostazioni metodologiche ma di tendenza cattolica-protestante è quello di Tubinga, nato nel 1985, e la cui prospettiva di fondo è che nei problemi sollevati dalle nuove frontiere della medicina e della scienza non è possibile offrire il parere o la risposta di una sola area scientifica; la comunicazione e lo scambio di informazioni sono essenziali per costituire un parere comune.
In Olanda nel 1987 presso l’università di Utrecht è stato istituito il Center for Bioethics and Health Law, con il compito del coordinamento di tutta l’attività bioetica dell’università. La ricerca si è concentrata sulla sperimentazione umana e animale, sull’eutanasia, sulla fanatica e sulle tecnologie riproduttive, ecc. La corrente di pensiero è da loro stessi chiamata “modello operativo a rete”, secondo cui il giudizio morale e particolare può essere giustificato solo quando si raggiunge un equilibrium tra fatti moralmente rilevanti, intuizioni e principi morali. Nel 1992 sorge in Europa, con sede a Strasburgo, il Comitato Direttivo della Bioetica, organizzazione intergovernativa del consiglio d’Europa. Lo scopo principale è quello di permettere agli Stati di disporre di testi organicamente rispondenti alle sfide delle scienze biomendiche. Tale centro si pone sulla linea di pensiero di proporre il riconoscimento dei diritti dell’uomo, l’affermazione della libertà della scienza, la partecipazione di tutti i gruppi sociali interessati ad una politica comune e la libera circolazione delle informazioni.
In italia il primo centro di bioetica avviene nel 1985 a Roma presso l’Università Cattolica, con una Cattedra di Bioetica affidata al Prof. Sgreccia. Il Centro si prefigge un costante riferimento ai criteri di scientificità propri della visione cattolica della vita e della fedeltà al magistero della Chiesa, e vede la bioetica aperta alla metafisica in una sorta di personalismo ontologico. Tale personalismo ontologico è una concezione generale della vita e dell’etica che pone l’uomo come realtà positiva e centrale della bioetica, come facoltà di discernimento tra ciò che è tecnicamente possibile e ciò che è eticamente lecito.
Sulla scia del pensiero sgrecciano altri centri hanno dinamicamente strutturato la bioetica italiana. Sulla corrente di pensiero alternativa, nel 1983 nasce il Centro Politeia, per la ricerca e la formazione in politica e in etica. A Genova, nel 1984 nasce il Centro di bioetica, apportando una dimensione di pensiero nuovo  con approccio etologico ed ecologico che concepisce la nuova disciplina come etica applicata al  Bio-Realm. Accanto alla bioetica medica esistono una bioetica animalistica, detta della biocultura, e una bioetica ambientale. La Società italiana di bioetica, sorta nel 1987 a Firenze presso la Cattedra di antropologia, vede la bioetica in senso potteriano con accentuazione darwiniana dell’evoluzione della specie animale e di quella umana, cioè bioetica globale e non focalizzata solo sui problemi delle biotecnologie in medicina.         Mori  ha affermato che, per i laici, è assolutamente necessario focalizzare il dibattito sulla bioetica perché i c.d. periodi critici in cui dominano i dubbi e le incertezze durano poco. Inoltre va tenuto presente che se l’interesse per la giustificazione fosse frustrato, la società umana tornerebbe alle intuizioni tradizionali. Il dibattito europeo in questi ultimi 30 anni è stato improntato al semplice confronto aperto a tutti  e volontà di capire le ragioni dell’altro. La bioetica si è manifestata come un luogo d’incontro  e di confronto per il dialogo e la tolleranza. 
Secondo Simporè  l’insegnamento della bioetica nelle università del continente africano è molto debole anche se ciò non significa che questi popoli vivano senza principi etici. “L’Africa da molti decenni è teatro di guerre fratricide  che decimano la popolazione e distruggono le ricchezze naturali e culturali” . Il tribalismo, il razzismo, il fondamentalismo e l’integralismo religioso, la sete di potere e di denaro hanno rafforzato i regimi totalitari provocando questi conflitti. Le strutture d’insegnamento tradizionale Africano sull’etica della vita sono individuabili nei campi di iniziazione, nei canti del griot e cura dei malati e nei diritti della vita. Per ciò che concerne i riti d’iniziazione, essi esistono in quasi tutti i paesi dell’Africa Nera. “In Guinea, durante le iniziazioni, i capi del campo formano umanamente, intellettualmente e socialmente gli uomini e le donne responsabili del domani ”.
Secondo Mara nel centro Africa l’iniziazione è spesso legata alla circoncisione dei maschi e l’escissione delle femmine. Durante questa iniziazione questi giovani devono dimostrare la loro maturità, la loro resistenza fisica e la loro competenza attraverso diverse prove. Sono istruiti sulla storia dei loro antenati e della loro famiglia, apprendono i miti e le leggende sulla creazione del mondo e lo sviluppo della vita sulla terra imparando a comportarsi bene nella società. In questi racconti ci sono molti insegnamenti sull’etica della vita. Presso alcune popolazioni della Nigeria i gobbi, gli albini e gli atipici sociali sono considerati come delle persone protette da Dio.
In una cultura orale i canti del griot, del cantastorie, ha funzione fondamentale per l’educazione e la formazione. E’ la memoria del popolo  ed il maestro per eccellenza di tutta la società. Con il suo tam-tam egli parla e con la sua chitarra lancia enigmi; incoraggia sempre ad essere figli del clan osservando scrupolosamente i costumi ed essendo sempre pronti a dare la propria vita per difendere gli interessi della tribù.
Per  sdrammatizzare la morte e sostenere un vecchio agonizzante una donna si distacca dal gruppo e prendendo il paziente tra le braccia lo assista fino all’agonia, dandogli da mangiare e da bere, esattamente come si fa per la circoncisione e per il parto, cantando le glorie degli antenati, come fosse una nenia che lo aiuta a raggiungere in compagnia la propria fine. 
Per ciò che riguarda i diritti della vita, testimoniati nel continente africano attraverso le società ben strutturate e gerarchizzate con capi, imperatori e loro vassalli, l’antropologia stessa  della vita e della morte di questi regni ci insegna che la vita umana è sacra e che per conseguenza deve essere rispettata, protetta e curata attraverso il rispetto dei diritti e dei doveri dell’uomo nelle sue diverse società.
I diritti dell’uomo in Africa sono vissuti tra violenze politiche, assassini, cruenti colpi di stato, torture e genocidi, attraverso coalizioni tra poteri politici, giustizia e legislazioni. La Conferenza dei Capi di Stato e di Governo dell’Organizzazione dell’unità africana, riunita a Banjul nel 1981, ha stabilito una convenzione intitolata Carta Africana dei diritti dell’Uomo e dei Popoli, che afferma la libertà, al giustizia e la dignità come oggettività essenziali per la realizzazione delle aspirazioni legittime dei popoli africani.
Il punto di vista di alcuni docenti universitari africani sui problemi della bioetica  è di estrema importanza per la comprensione del pensiero sull’etica della vita che, pur variando da una persona all’altra, ha un comune filo conduttore: la sete di pace e unità, di stabilità e di maturità politica, di giustizia ed etica nella sua politica e azione sociale.
Circa l’aborto, il Rettore dell’Università di Ouagadougou, solleva problematiche di etica e diritto. L’aborto è uno dei primi problemi sollevati in bioetica. Il diritto alla vita è diversamente inteso  e protetto a livello internazionale e rivive nella questione giuridica dell’embrione. Secondo il Prof. Sawadogo “ogni interruzione volontaria di gravidanza costituisce la negazione al diritto alla vita o, almeno, una negazione della vita” . Anche per Monique Ilboudo, giurista, il principio della dignità della persona umana è definito come un principio secondo cui “ un essere umano deve essere trattato come un fine a se stesso” ; per riconoscere alla persona umana la dignità  che le compete “è necessario interdire i trattamenti degradanti e l’avvilimento dell’uomo”. Ciò porta a postulare la questione dei diritti fondamentali universali anche se essi, nella realtà, variano a seconda delle specificità culturali, quali segni della nostra comune appartenenza  alla condizione umana. Secondo lei ciò che gli uomini hanno in comune sono la vita, la libertà e il diritto di essere e agire umanamente.
Per un approccio socio-antropologico del diritto alla vita nelle società dell’Africa Nera, il Prof. Nyamba evoca il trattato storico di Kurukan Fuga del 1235. All’indomani di una grande battaglia fu convocata una grande riunione con lo scopo di gettare le basi per un nuovo ordine politico, sociale, culturale ed economico. Sotto forma di precetti giuridici orali fu elaborato un trattato  allo scopo di preservare  e difendere la vita individuale e collettiva  danneggiata dalla guerra, stigmatizzando la protezione dell’ambiente naturale, gettando un ponte tra la vita dell’esistenza globale detta soffio e quella degli esseri umani detta yonre, il naso.
Il Vescovo della diocesi di Bobo, Sanon, scrive in merito alla cultura africana  e la sessualità che gli organi sessuali sono le porte della vita e che bisogna considerare e rispettare come sacri il proprio corpo e il proprio partner. Vi è un legame fondamentale tra le credenze e i comportamenti che legano sessualità, matrimonio, famiglia, amore, vita e procreazione.
Per Daniel Ilboudo, decano della facoltà di medicina tema fondamentale della bioetica è la fase terminale della vita, in cui il paziente domanda al suo medico altre cose al di là della salute quali il benessere sociale e morale, molto di più di ciò che la ipocrita medicina ha per oggetto di dargli. Sono i doloro morali che non si alleviano facilmente e devono essere oggetto di modalità di accompagnamento ben precise quali sostegno morale e fisico, quale elevata forma di solidarietà umana. Morire con dignità significa sentirsi accettati dalla comunità dei vivi.
La riflessione bioetica rappresenta una occasione di riscatto e di recupero dei valori dell’Islam proprio nel campo dell’etica in cui la religione islamica  rivendica il primato su ogni altra religione e cultura. Le caratteristiche del dibattito sulla  bioetica concernono il contesto, la prevalenza degli studi su singoli temi della bioetica a scapito di analisi sullo statuto,  sulle metodologie e sulle distinzioni rispetto ad altre discipline, della bioetica islamica e i tentativi di lettura critica.
L’Islam, che comprende il 90% dei musulmani del mondo, non possiede una gerarchia religiosa né una autorità suprema a parte quella riconosciuta ai principi e alle norme presenti nella Svaria. Quando le Sacre Fonti non guidano esplicitamente i fedeli dinanzi a nuovi problemi, costoro possono rivolgersi ai dottori della Legge islamica e chiedere delle interpretazioni delle Fonti attraverso l’emissione di Fatata o opinioni giuridiche. Nelle controversie tra dottori le divergenze vengono risolte solo con il passare del tempo o con la opinione prevalente che esprime il consenso dell’intera comunità. Attualmente al fine di formulare posizioni rappresentative  della comunità su nuovi problemi ci si affida ai responsi di congressi  e conferenze pan-islamiche, il cui valore è prevalentemente quello di una fatwa, opinioni giuridica contestabile da altri soggetti giuridici. L’influenza dei giuristi risulta prevalentemente limitata alla sfera morale mentre quella giuridica è materia dei governi, i quali possono ignorare i pareri dei giureconsulti. La riflessione bioetica nei paesi musulmani viene orientata da principi e criteri tratti dal diritto musulmano e dall’etica medica. I criteri e principi fondamentali sono la sacralità della persona umana, il principio giuridico di necessità, il principio medico del male minore e il principio del beneficio pubblico.
Per l’Islam la vita è un dono divino da tutelare dall’inizio e sul quale l’uomo non ha piena disponibilità. Tuttavia la difesa della vita e l’integrità della persona non sono valori assoluti in quanto la pena di morte, la pena del taglione e la fustigazione sono comminate dal Corano e dalla Sharia per determinati reati. La tutela della vita della comunità islamica prevale su quella del singolo o sulla sua integrità fisica. Il Codice Islamico di Etica Medica stilato in Kuwait nel 1981 afferma che la vita umana non deve essere mai tolta volontariamente se non nei casi previsti dalla Sharia.
Il principio giuridico della necessità rende lecito ciò che altrimenti sarebbe vietato, mentre il principio medico del male minore riguarda l’obbligo di non danneggiare o ferire il paziente se non per un superiore fine terapeutico qualora l’intervento si renda inevitabile. Il principio del beneficio pubblico antepone l’interesse della comunità a quello dell’individuo, con importanti risvolti in ambito biomedico, non ancora approfonditamente rilevati.
Circa la contraccezione sono indicate delle pratiche permesse ma contemporaneamente biasimevoli perché il comportamento più adatto ad un credente è il matrimonio e la filiazione. Attualmente la maggior parte dei giuristi sembra tollerare la contraccezione se esiste il consenso della moglie e se gli strumenti contraccettivi non causano danni a chi li utilizza né sugli eventuali figli.
Viene sostanzialmente rifiutato l’intervento legislativo dello Stato qualora intenda imporre un limite massimo di figli alle famiglie. A ciò si aggiunge il timore che il controllo demografico sia stato elaborato in Occidente e imposto tramite pressioni economiche  ai governi musulmani, proprio perché la componente fondamentalista propende per un aumento della popolazione quale arma anti-occidentale facendo leva sul Corano. Essendo dono di Dio i figli hanno diritto di crescere in condizioni dignitose, in caso contrario è preferibile limitarne il numero.
Circa il pericolo Aids i giureconsulti islamici insistono sulla prevenzione fatta non attraverso l’uso di contraccettivi ma attraverso il ricorso alla castità prematrimoniale e alla fedeltà matrimoniale.
Le posizioni circa l’aborto sono più rigide e il problema consiste nello stabilire quando comincia la vita umana. L’interpretazione storicamente più diffusa fa coincidere la “creazione nuova”del brano cranico con l’infusione dell’anima al centoventesimo giorno dalla fecondazione; ne consegue che la vita di ogni creatura umana si articola in due periodi, uno privo dell’anima e l’altro animato. Storicamente i dottori della legge accettano l’aborto terapeutico affermando che la Svaria salva la madre in base a tre principi: ella è vita già sviluppata e fonte di vita, in base al principio dell’albero e del ramo e sul principio del male minore. Il significato di aborto terapeutico è flessibile in quanto può riferirsi all’interruzione della gravidanza per salvare la vita materna, può includere il solo desiderio di tutelare la salute della donna o evitare la nascita di un feto con gravi handicap. Tutte le scuole giuridiche concordano nel tenere in vita una donna gravida condannata a morte per gravi reati al fine di portare a conclusione lo svezzamento. Altra scuola di pensiero, quella del Comitato delle Fatawa,  dichiara che l’aborto è assolutamente illecito anche in caso di stupro o di adulterio, tranne quando la vita della madre è in pericolo, tuttavia, molti giuristi musulmani, tollerano l’aborto praticato nel periodo prima dell’infusione dell’anima.  
Per ciò che concerne la procreazione artificiale la situazione in Islam è complicata poiché, pur non essendo obbligatoria, la procreazione è una delle finalità fondamentali del matrimonio, inoltre il Corano vieta l’adozione, ritenuta un inganno nei riguardi del bambino circa i suoi legami genetici ed ereditari. La sessualità è lecita esclusivamente tra coniugi mentre gli stati scoraggiano, senza proibirla, la poligamia. Ogni rapporto sessuale extraconiugale viene condannato dalla Sharia e, in quest’ottica, vengono solo accettate le tecniche di fecondazione artificiale omologa sia in vivo che in vitro, purché la tecnica non sia lesiva per la donna. La crioconservazione di ovuli fecondati in eccesso sembra lecita a condizione che il gamete appartenga alla coppia e possa essere trasferito nella moglie da cui proviene solo finché è valido il matrimonio, che termina con la morta dello sposo o con il divorzio. Nel 1991 si è tenuta la prima Conferenza Internazionale sulla bioetica della procreazione umana nel mondo islamico al Cairo. Il documento conclusivo di dichiara favorevole all’utilizzo di embrioni crioconservati e fa divieto di ricerche a fini commerciali o comunque non mirate alla salute dell’embrione o della madre.
Le interpretazioni dei dottori della legge circa i trapianti d’organo si inseriscono tra due estremi: i fautori della pratica del trapianto  fanno riferimento a più principi, quello della necessità, il principio del minore tra due mali e il principio del beneficio pubblico. La donazione è considerata un dovere sociale verso la comunità senza distinzione di religione tra donatore e ricevente. Nonostante ciò parecchi giuristi conservano la preferenza per uno scambio di organi tra musulmani per rafforzare la nazione islamica. Resiste una minoranza di religiosi contraria al trapianto in genere ma soprattutto da cadavere: questo orientamento  è sostenuto dalla concezione teologica che vede il Creatore come unico proprietario del corpo umano di cui l’uomo non può disporre neppure per il bene del prossimo.
Il problema della definizione della morte e dei criteri per determinarla è tuttora aperto. Per i sanitari musulmani il criterio sempre più diffuso è quello della morte di tutte le funzioni della neocorteccia e del tronco nonostante i criteri di morte cerebrale espresso dai giurisperiti della Lega islamica riunitasi alla Mecca nel 1987. L’Arabia Saudita rifiuta il consenso presunto del defunto se non è attestato dalla donor card, in quanto la donazione di un organo è un evento tanto importante da necessitare del consenso esplicito e responsabile del donatore.
Circa la clonazione umanai giudizi sono diversificati. Alcuni giuristi la ritengono non vietata dalle Fonti Sacre dell’Islam. Per altri la clonazione può essere la prova della resurrezione dei corpi alla fine dei tempi oppure della nascita di Cristo senza contatto carnale. Per altri ancora è impossibile clonare l’uomo perché la scienza non è in grado di clonarne l’anima e tale pratica è immorale e satanica.
Uno sceicco egiziano,  Quaradawi, è interessato alle conseguenze sociali e familiari della clonazione e, su queste basi, esprime un giudizio negativo in quanto la famiglia e il matrimonio rischiano di diventare inutili, la varietà tra gli esseri umani viene compromessa e non è più segno distintivo della creazione divina e, a causa dell’effetto fotocopia, il partner potrebbe non riconoscere più il partner originale. Secondo lo sceicco il ricorso alla clonazione rimane tollerabile se tutela la salute  del feto o per sconfiggere alcune patologie ereditarie. L’introduzione di un gene sano in cellule somatiche è approvata dall’Islam se effettuata con finalità terapeutiche. La chiusura verso qualsiasi utilizzo della clonazione e della ingegneria genetica è netta. La manipolazione genetica è permessa solo nell’ambito della microbiologia, della batteriologia, della botanica e della zoologia solo nei casi di interesse collettivo approvati dalla Sharia. 
Esiste una notevole preoccupazione da parte di alcuni stati musulmani di diventare terra di sperimentazione e di diffusione delle tecniche di clonazione praticate da organizzazioni straniere.
Sgreccia chiude gli interventi del Convegno sui Diritti della Persona nella prospettiva bioetica e giuridica facendosi interprete di una attesa e di una speranza di tutta la cultura mondiale : l’individuazione e la conoscenza dei principi, dei valori e delle norme fondamentali, di validità concreta e universale, necessarie e condivise per cui la vita umana possa continuare ed essere rispettata di fronte alle varie modalità con cui la scienza, la tecnologia e l’azione dell’uomo possano intervenire su di essa.
Sgreccia si chiede il perché di tutto questo parlare di bioetica se non si va verso proposte e fatti concreti e fa una riflessione sulla politica e sulle legislazioni, poiché solo attraverso il biodiritto si può ottenere il consenso e l’apporto della legge  per rendere efficace la disciplina bioetica.
Nei Parlamenti le leggi sulla difesa della vita nascente o sul rispetto del morente hanno tutte avuto formulazioni permissive, per un vago concetto di libertà e per aumentare consensi politici, dove in un gioco tra minoranze e maggioranze, le Costituzioni risultano gracili e inefficaci nella tutela dei diritti inalienabili della persona e i problemi etici vengono ridotti a questioni private, a causa dell’impostazione delle nostre democrazie a carattere procedurale. Tale impostazione non è una  garanzia per i valori e, al momento, non presuppone sempre la inalterabilità costituzionale dei diritti della persona.
Ancora Sgreccia fa richiamo al vuoto etico delle correnti di bioetica più diffuse ossia “il contrattualismo, il liberalismo etico e l’utilitarismo che portano a giustificare il fatto compiuto, il profitto, l’interesse soggettivo rappresentando la negazione di una morale dei valori oggettivi” . La speranza è che la manipolazione dei concetti, quali ad esempio quelli di pre-embrione o di terapia applicato ad azioni che non sono terapeutiche, non continui nel tradimento dell’intelligenza e della verità. Sul piano etico “occorre ristabilire la dignità della persona attraverso il personalismo ontologico” , poiché essa vale per ciò che è nella profondità della sua essenza e della sua dignità spirituale e non per la “qualità di vita” intesa in senso funzionalistico.
Per Sgreccia, solo a patto che ci sia una ripresa filosofica realista e personalista, la bioetica potrà evitare il vuoto e la delusione. La scienza deve avere un profilo che ricerchi la pienezza dell’uomo e il rispetto della dignità del bene di tutti e solo la presenza di una bioetica fondata veritativamente può impedire il paradosso attuale: mentre si parla di bioetica  si constata l’abbandono e la vanificazione dei valori fondanti la vita dell’intera umanità; sul piano giuridico “è necessaria la tutela e la promozione dei diritti al di sopra di ogni contrattazione o compromesso” .
Nel 2000, anno giubilare, i temi dell’amnistia e dell’indulto sono tornati violentemente alla ribalta nel programma politico oltre che nella coscienza pubblica anche a seguito dell’intervento sul tema di Papa Giovanni Paolo II.
I segni di clemenza delle Autorità, dimostrabili attraverso la riduzione delle pene, e il rispetto per la dignità umana, restituito ai detenuti attraverso la revisione del sistema carcerario e del diritto penale, sono stato oggetto del messaggio del Sommo Pontefice per il Giubileo nelle carceri.
Circa la nozione di amnistia e indulto è necessaria una breve introduzione, a causa dei profondi significati giuridici e morali relativi all’applicazione dei suddetti Istituti.
Una legge costituzionale del 1992 ha sottratto gli istituto al potere esecutivo a causa dell’abuso che se ne è fatto negli anni precedenti, attribuendone la concessione alle Camere.
L’amnistia è un provvedimento generale con cui lo Stato rinuncia all’applicazione della pena per determinati reati e si distingue in amnistia propria, quando viene proclamata prima che sia esaurito l’accertamento giurisdizionale del reato, e amnistia impropria quando interviene dopo la sentenza irrevocabile di condanna: ha effetto sui reati commessi fino alla data stabilita per la sua decorrenza dalla legge che la concede.
Del pari, l’indulto è un provvedimento di carattere generale ma opera solo esclusivamente sulla pena principale che viene condonata o commutata in altra pena, di diversa specie, consentita dalla legge. La sua efficacia è relativa ai reati commessi al giorno precedente alla data del decreto .
Per ciò che riguarda il sistema giudiziario l’amnistia potrebbe essere una “valvola di sfogo” per il suo equilibrio; ciò che  fondamentalmente preme dirimere è il dibattito tra la funzione sociale della pena e la sua funzione penale. Secondo alcuni, entrambi gli istituti, poiché sottraggono senso e credibilità alle regole il cui rispetto diventa opzionale e non fondamento della convivenza civile, potrebbero costruire un circolo vizioso di illegalità diffusa; secondo altri potrebbero essere validi strumenti per il reinserimento del detenuto.  
Il nostro legislatore è vincolato, da un principio etico, nell’impostare l’esecuzione delle pene, dall’articolo 27 della Costituzione; esse non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Le Scuole moderne di diritto penale, a partire dal 1700, affrontano il problema della scelta delle pene e delle modalità della loro applicazione.
La Scuola classica nasce nell’ambito di un movimento garantista che porterà all’affermazione del principio secondo cui nessuno può essere punito se non per un fatto espressamente previsto dalla legge come reato e con pene dalla stessa stabilite. Sotto la spinta dei vari movimenti di pensiero relativi alla scuola classica nasce l’idea di penitenziario e il conseguente problema del trattamento dei detenuti.
La Scuola positivista fiorisce in Italia verso la fine dell’ottocento e i suoi più illustri rappresentanti sono Lombroso, Ferri e Garofalo. Essa afferma che vi è un assoluto determinismo nell’azione delittuosa per cui la pena, a scopo terapeutico, si prefigge la difesa della società attraverso il trattamento curativo del delinquente. Si pone il problema del trattamento penitenziario e l’esecuzione della pena non potrebbe assumere altro significato se non quello della vendetta della comunità nei confronti del trasgressore delle regole.
La Scuola sociologica considera il delitto un prodotto sociale e quindi normale poiché affonda le sue radici nella comunità; il controllo del crimine dipende essenzialmente dai mutamenti della società. Il delitto, deplorevole, è un fenomeno inevitabile in quanto parte di tutte le società sane.
La Scuola radicale manifesta la tendenza ad escludere la validità della legge penale e dei sistemi sanzionatori ad essa collegati, poiché i tentativi di repressione sono autodistruttivi e potrebbero aumentare le devianze.
Il fine ultimo del trattamento rieducativi del condannato è quello di procedere ad una osservazione che permetta l’individuazione della natura dei soggetti e dei caratteri dei possibili interventi rieducativi quali il disadattamento, l’antisocialità e la delinquenza. Ci si auspica di porre in essere trattamenti rieducativi con il fine di modificare socialmente ed eticamente la personalità del detenuto, rimuovendo le cause del comportamento criminoso e dotando il soggetto della capacità di adeguarsi all’etica giuridico-sociale per un congruo reinserimento nella società .
La attuale situazione nelle carceri italiane è preoccupante a causa del timore che possa sfuggire dal controllo degli operatori. Si lamentano enormi disagi che, legati al degrado morale, economico, logistico, sanitario e sociale, portano a disattendere l’articolo 27 della Costituzione repubblicana. L’amnistia e l’indulto determinerebbero una diminuzione numericamente significativa  della popolazione carceraria con la conseguenza di un notevole vantaggio economico oltre che un aumento della vivibilità sia per i detenuti che per gli operatori. Il rischio è che molti detenuti, messi in libertà a seguito del provvedimento, potrebbero tornare a commettere reati con grave pregiudizio economico e sociale per l’intera collettività.
Alcune valutazioni etico-giuridiche circa l’applicazione  e la concessione degli istituti giuridici dell’amnistia e dell’indulto sono necessarie anche ai fini del discorso sulla  bioetica. Nasce l’esigenza del biodiritto al fine di poter valutare con cognizioni di causa i diritti fondamentali, i valori irrinunciabili di cui l’essere umano è titolare, attraverso la valutazione degli aspetti giuridici-pratici e dell’aspetto etico del problema, sollevato dalla richiesta di concessione dei provvedimenti di amnistia e indulto. In conclusione ci si auspica che tali e tanto discussi provvedimenti non si trasformino in strumenti d’emergenza, intrisi di colori politici. Il dibattito dovrebbe essere finalizzato alla tutela dei diritti e della dignità delle persone recluse e delle loro vittime, alla tutela del potere statale e delle migliori scelte di politica giudiziaria e penitenziaria e ad interventi riabilitativi per la persona e la tutela dei diritti della comunità.
Le frontiere attuali della bioetica  possono venire identificate in almeno sette punti: esse sono la difesa dell’ecosistema, il coinvolgimento della ricerca pubblica, la questione delle moratorie da infliggere per le sperimentazioni indiscriminate, la sconfitta delle malattie infettive incurabili, l’accantonamento dei metodi di ricerca discutibili sul piano etico, la regolazione chiara e condivisa delle politiche demografiche e non ultimo il problema dell’aumento della povertà ai limiti della sopravvivenza. Si va configurando una Global Bioethics.
In merito alla brevettabilità e difesa dell’ecosistema si stanno muovendo alcuni passi verso una elaborazione legislativa in cui le biotecnologie sono le priorità di tutti i documenti di programmazione economica europei.
La causa di questa rielaborazione è dovuta anche ad una presunta inadeguatezza della base giuridica della Direttiva europea n. 44,  del maggio 1998 sulla brevettabilità delle innovazioni biotecnologiche, e della presunta violazione del principio di sussidiarietà della certezza del diritto internazionale europeo e dei brevetti da parte della stessa Direttiva. Appare opportuna una attenta valutazione che direttamente riguardi la ricerca e la sperimentazione scientifica, pubblica e privata, per la valutazione delle conseguenze pratiche e le valenze effettive sul piano bioetica.
Il rigore scientifico e l’etica della ricerca sono intimamente interconnessi e interdipendenti; l’U.E. ha indicato la necessità di creare un organismo scientifico che sia responsabile dell’applicazione di una procedura trasparente e attendibile per la valutazione degli organismi geneticamente modificati. Per ciò che concerne la brevettabilità di un gene umano persistono delle ambiguità circa le stesse definizioni di “materiale biologico” e “procedimento microbiologico” .
Lo statuto giuridico dell’embrione umano è uno degli argomenti più controversi sia per la bioetica che per il biodiritto.
Tutti i maggiori organi nazionali e sovranazionali si sono attivati per riflettere giuridicamente in tema di fecondazione artificiale umana e di manipolazione genetica.
La giurisprudenza costituzionale europea, prestando attenzione ai diritti della persona studiati sulla base delle decisioni  di otto paesi dell’Unione, trai quali Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Germania, Austria, Polonia e Ungheria, sembra essere una comune e complessiva realtà, anche se registra notevoli differenze  e reciproche influenze. Gli elementi comuni ravvisati sono tre: la tendenziale preferenza per il regime di “indicazioni” rispetto al principio di autodeterminazione della donna, la mancanza di negazione dell’umanità del concepito e la riflessione costituzionale europea.
Le giurisprudenze europee sono tolleranti nei confronti della legalizzazione dell’aborto su indicazioni  ma non della libertà di decisione della donna di interrompere liberamente la gravidanza.
In nessuna decisione europea si sostiene che il concepito non è un essere umano . Anche la Convenzione sui diritti del bambino quando si riferisce al bambino in fase prenatale lo indica come titolare di un vero e proprio diritto alla vita.
L’inquietitudine delle giurisprudenze europee nasce dal dilemma tra il salvare le decisioni parlamentari e il non voler rinunciare ai principi di dignità umana e di uguaglianza che costituiscono l’aspetto più alto e moderno della cultura giuridica. La massima difesa del diritto alla vita è consegnata nelle mani della razionalità giuridica della giurisprudenza costituzionale europea.
Vico ci fa opportunamente rilevare che  “si è aperta e continua a dilatarsi l’età dei diritti  il cui requisito fondamentale sta nel fatto che l’uomo afferma di non essere un puro dato e riconosce che un infinito cammino di senso si realizza in lui.., comportando apertura agli altri, partecipazione e modalità nuove di responsabilizzare se stesso e gli altri intorno al problema vita”.
E’ molto evidente l’intensificarsi del rapporto bioetica- scienze dell’educazione, soprattutto per ciò che concerne l’attenzione alla formazione bioetica degli operatori sanitari e delle loro coscienze, che non può prescindere dal privilegiare i diritti umani.  Molte delle tematiche affrontate dalla bioetica nascono nell’ambito della biomedicina e, quindi, i primi ad essere interpellati nei loro doveri e responsabilità sono i ricercatori, gli scienziati, i medici e gli operatori sanitari in genere. La bioetica si pone come momento chiarificatore, unificatore e integrativo della professione sanitaria, perché spinge verso al chiarezza etica circa il comportamento professionale da assumere, perché è il punto di incontro unificatore di varie specialità in medicina e perché guarda alla realtà in prospettiva ontologica e assiologica.
La sfida comune  ai diritti umani e alla bioetica è quella di tutelare l’inviolabilità della dignità di ciascun essere umano, sul territorio della vita che inizia, che soffre, che muore venendo manipolata, selezionata, usata, emarginata.
Il principio dell’alleanza terapeutica ha portato alla considerazione del paziente come soggetto attivo della propria vicenda diagnostica-terapeutica, come eloquente forma di una autentica cultura della vita in cui scienza e tecnica, sganciate dalla riflessione etico-filosofica e dalle ricadute educative e culturali, siano in grado di indicare da sole una “nuova cultura della vita” che abbia da attingere nella persona, quale portatrice di valori e diritti, la sorgente alla quale attingere orientamenti, obiettivi e traguardi.
Alle Scienze dell’Educazione va il compito di informare, educare e formare gli educandi nelle loro coscienze, comportamenti e scelte rispettose della persona mentre non sono da trascurare le interdisciplinarietà relative ai documenti giuridici internazionali che hanno ricaduta sulle professioni sanitarie.
Clemente, alla luce delle interpretazioni date in materia di Sociologia della salute , ha esaminato gli atti relativi al processo di formulazione dell’art. 32 della Costituzione italiana durante le assemblee della Costituente . Il diritto alla salute, collocato nel Titolo “Rapporti etico-sociali”, è stato  recepito nella sua pienezza di diritto fondamentale da tutti gli schieramenti politici, con le loro diverse culture solidaristiche cristiano-cattolica, comunista e socialista, come elemento unificatore “nell’atto di costruire una casa nella quale tutti devono ritrovarsi ad abitare insieme”. La tutela della salute  implica, anche per sinteticità costituzionale la prevenzione della malattia.
Nella Roma antica una norma sintetica citava: salus pubblica suprema lex. La questione è umana e medica, “troppo ampia e pericolosa e delicata per essere trattazione della Costituzione”.., .. così come “il rapporto tra medico e ammalato, sia per carattere tecnico che per sua stretta colleganza all’organizzazione sanitaria, dovrebbe essere rinviata ai compiti legislativi dello Stato” . 
Il timore, di alcuni membri della Costituente, che lo Stato Italiano si avvii verso una struttura decentrata regionalistica dove, in assenza di un organo centrale coordinatore e autonomo che disciplini  la complessa e delicata materia sanitaria in via normativa, il principio unitario dell’indirizzo sanitario potrebbe subire le influenze negative di un decentramento amministrativo e di un decentramento normativo, pericoloso per la tutela di un principio-base essenziale per la tutela della salute pubblica.
Emerge l’importanza del rapporto tra medico e ammalato, per il rispetto della volontà di scelta del malato e della libertà di esercizio professionale del medico, tuttora dibattuto tema in materia di bioetica, biodiritto e biomedicina che “imponeva, al tempo della Costituente, “il dovere di avere il coraggio consapevole e mediato di mirare ad un ordinamento nuovo.. attraverso l’eliminazione di tutte le disparità e le disuguaglianze fra i cittadini” . L’orientamento  degli emendamenti e dei discorsi Parlamentari mirava ad individuare, assieme al diritto del cittadino anche il suo dovere di collaborare con la collettività promuovendo tutti i mezzi e le iniziative necessarie  per tutelare la sua stessa salute, poiché un individuo malato o minorato nelle sua capacità fisiche e intellettuali, indubbiamente non è più un uomo libero. Inoltre “nessuno”, secondo il testo dell’art. 32-secondo comma, “può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun casi violare i limiti imposti dal rispetto della personalità umana”.
A tal punto “sarebbe necessario individuare dei punti di contatto, di discontinuità e di corrispondenza con il dibattito interno alla sociologia”  della organizzazione sanitaria, per tracciare un excursus storico-legislativo del sistema sanitario che ci permetta di comprendere il tipo e il grado di influenze delle teorie micro e macro sistemiche in sociologia e delle diverse culture bio-mediche.
Il paradigma bio-medico ad impianto meccanicistico-scientista è l’approccio dominante nel sapere medico-sanitario. E’ definito “modello meccanico poiché considera il corpo umano una macchina..”; è detto “scientista perché afferma che la malattia va trattata come se fosse indipendente dal comportamento sociale, così come le deviazioni comportamentali, la cui origine sarebbe solo di natura somatica, anche se disturbata ”. Tale approccio ha avuto come implicazioni principali il trascurare gli aspetti psicologici, ambientale e sociali della malattia, ignorando l’autocoscienza, la capacità di autoriflessione e l’autonoma capacità di decidere ciò che si ritiene importante nella vita.
Il modello sociale in medicina  si sviluppa a seguito di bonifiche di malattie diffusive nelle campagne, nelle fabbriche, negli insediamenti popolari urbani derivanti da habitat insalubri e povertà. La medicina epidemiologica ha accertato numerose correlazioni statistiche tra la speranza media di vita alla nascita e alcune situazioni sociali e psico-ambientali. Lo status sociale, il livello di istruzione, il livello di fiducia e autostima, la marginalità e i traumi da rottura di relazioni umane primarie sono le principali variabili considerate dagli studi di medicina sociale.
Il modello neo-scientista è quello attualmente più criticato e utilizzato dalle scienze naturali e artificiali, le importanti scoperte scientifiche della biologia della fisica e della matematica sono strettamente correlate alle scienze dell’artificiale quali la bio-fisica e l’ingegneria molecolare. Lo scopo comune è quello di indagare e proporre soluzioni medico-scientifiche in ambiti bio-etici e medici quali ad esempio la chirurgia dei trapianti d’organo, la chirurgia protesica artificiale, la mappatura del genoma umano e le ricerche sulle terapie geniche.
Partendo dal dibattito della Costituente circa l’art. 32 della Costituzione, dalle impostazioni culturali biomediche e dalle teorie sociologiche sulla salute si rendono evidenti delle conclusioni generali in materia di salute sociale. La tutela della salute è un diritto fondamentale del singolo ma riveste importanza generale per la società, è un principio da tutelare in quanto funzione più importante dello Stato e suprema Lex della Repubblica. Sostenitori di tali verità sono stato Emile Durkheim e Talcott Parsons nelle loro riflessioni sociologiche, macro-sistemiche sulla società e i suoi processi, considerando gli attori sociali e la società stessa come direttamente proporzionali nelle loro interazioni, individuando correlazioni positive in cui gli atti sociali sono organizzati in sistemi sociali di riferimento. Parsons, ne Il Sistema sociale, affronta il problema della salute con riferimento ai pre-requisiti funzionali del sistema sociale. Per Durkheim, ne Le Regole del Metodo sociologico, la salute di un popolo è effetto dell’integrazione sociale ad opera di una cultura vivente entro l’intero corpo sociale. 
Nella tutela della salute è implicita anche la prevenzione, di cui ogni individuo ne ha oltre che diritto soggettivo anche dovere giuridico, al fine di rispettare la stessa collettività che ha interessi di controllo sociale della malattia anche in termini economici.
Per le teorie micro-sistemiche in sociologia un importante considerazione è da fare in merito alla teoria dell’agire sociale di Max Weber. Come applicazione del suo insegnamento alla sociologia sanitaria è necessario partire dal consiglio di bilanciamento tra le due  azioni sociali (di tipo tradizionale o razionali e di tipo affettivamente orientate), al fine di riconoscere i limiti di azioni a dominanza solo valoriale-intenzionale e azioni solo a dominanza razionale-strumentale. Per le teorie microsistemiche il problema salute pubblica viene analizzato attraverso la comprensione dei fenomeni sociali privilegiando gli aspetti soggettivi e intersoggettivi. Anche Goffmann, ne La vita quotidiana come rappresentazione, analizza la vita quotidiana di relazioni sociali all’interno di standards secondo i quali gli attori sociali e i loro prodotti verranno giudicati più o meno aderenti a ruoli predefiniti. E “l’armonizzazione tra ruoli a carattere personale non è sempre fattibile, poiché è possibile arrivare a situazioni in cui la forza costrittiva, nella fattispecie delle istituzioni sanitarie per malati mentali,arrivino a schiacciare istituzionalmente la variabile persona, per esaltare e regolare solo il ruolo dell’infermo mentale” .
Con Achille Ardigò si è arrivati all’orientamento metodologico compositivo che ha preso coscienza della non piena comprensibilità dei fenomeni sociali nelle società complesse attraverso singole teorie esclusivizzanti di micro o macro analisi sociologica.
Circa l’uguaglianza fra tutti i cittadini e il diritto all’assistenza sanitaria citato nell’art. 3 della Costituzione italiana, la riflessione attuale e che la salute viene trattata come un bene meramente economico in un contesto, quello dell’aziendalizzazione del sistema sanitario, regolato da leggi simili a quelle del libero mercato; quindi c’è il pericolo che qualcuno venga leso nel suo diritto sociale-costituzionale e fondamentale alla salute e quindi anche nella sua libertà di cittadino. L’importanza della comunicazione empatica alla base del rapporto terapeutico è un altro tema fondamentale della biomedicina, chiamata doverosamente a dare il suo contributo con modelli sociali, centrati sul piano del dialogo nel rapporto tra operatori sanitari e pazienti non dimenticando la cruciale importanza delle relazioni umane che legano i soggetti al contesto  famigliare e sociale.
Hans Jonas, partendo da un punto di vista analogo a quello di Potter, prende in considerazione il potere della tecnologia in quanto minaccia per il futuro e la sopravvivenza dell’umanità. Privitera ci parla della vita e dei comportamenti umani che, “direttamente o indirettamente si ripercuotono, oggo o nel futuro, sulla vita, intesa come fatto biologico o come valore dell’antropos” . La bioetica si propone di scoprire nel meccanismo della vita quel minimo comune denominatore che si realizza in tutti i viventi e che li separa da tutti i viventi; essa non è caratterizzata solo dalla “riflessione sulla vita dell’uomo e sulla salvaguardia dell’umanità ma anche da uno sguardo ampliato alla biosfera, cioè ad ogni intervento scientifico dell’uomo sulla vita in genere” . Jonas prende in considerazione l’accresciuto potere della tecnologia esaminandone le eventuali minacce per la sopravvivenza dell’umanità, muovendo da una analisi simile e quella di Potter.
L’umanità ha il diritto-dovere di sopravvivere e, a tal fine, occorre che venga fondata una nuova etica del futuro basata sull’esame delle conseguenze, sulle generazioni future, degli interventi umani sulla biosfera.
In Organismo e libertà Jonas  esamina la riformulazione dell’ontologia a partire dal ricambio metabolico e/o organico dell’evoluzione anomale, in gradi fisici e psichici sempre più elevati fino a giungere all’uomo. A tal merito Ricoeur ha parlato di una vera e propria filosofia della biologia, elaborata in chiave antidarwiniana e antiriduzionista, attraverso la quale si elabora un percorso dell’organismo verso la libertà e la vita afferma categoricamente se stessa. Si recupera la nozione di fine che rivela una gerarchia tra tutti gli esseri viventi, in cui ci sono ovunque tracce di intenzionalità e interiorità. Jonas invita a comprendere il meno evoluto -l’ameba- alla luce del più evoluto -l’uomo- permettendo alla filosofia della vita  di spaziare dall’organismo alla mente. “Se dovessimo usare il linguaggio dell’ontologia, potremmo dire che, partendo da quanto afferma Jonas gli organismi sono entità il cui essere è il loro fare. Il che significa che essi esistono solo in virtù di quello che fanno e questo nel senso più radicale” .
La vita animale introduce ulteriori differenziazioni di questa iniziale forma di libertà, attraverso le modalità della percezione, dell’emotività  e della motilità. Tra animale e uomini ci sono differenze non solo sul piano della libertà, della razionalità e della metafisica, ma anche la teleologia del mondo animale è diversa da quella dell’uomo, poiché l’animale persegue il suo scopo in modo lineare, orizzontale mentre l’uomo ha la possibilità di prefiggersi degli scopi e di sceglierne, liberamente e coscientemente, uno tra tanti in quanto responsabile della scelta che compie di fronte a sé e agli altri esseri.
Jonas afferma che “ogni scopo è un bene in sé ed è bene che ogni essere vivente raggiunga il proprio a condizione che ci sia la vita, scopo superiore di tutti gli scopi”. Con ciò vuole dimostrare che la natura custodisce i valori in quanto custode degli scopi e che il finalismo della natura risulta essere l’unico fondamento di una nuova etica del futuro. Per Jonas non si può fare etica se l’essere è concepito in senso svalutativo e ateleologico. Il dover essere che l’uomo è chiamato liberamente a realizzare è già insito nell’essere e, in forza dell’appartenenza dell’uomo all’essere, ciò che è bene per questo lo è anche per il primo”. Secondo l’interpretazione di Jonas da parte di Furiosi “è più che mai urgente una formulazione di un’etica del futuro che sappia giustificare razionalmente e oggettivamente regole, indicazioni condivisibili da tutti ma che sappia anche distaccarsi dall’etica tradizionale, ormai insufficiente a rispondere alle problematiche dell’uomo contemporaneo” . Partendo da un ontologia dell’essere Jonas gli riconosce valore e senso. Da ciò nascono degli imperativi fondamentali dell’etica della responsabilità per l’uomo contemporaneo: l’umanità deve esistere e deve essere così, assicurando la qualità della vita attraverso il rispetto dell’integrale realizzazione di ogni vivente nella sua condizione di vulnerabilità e precarietà.
La responsabilità umana spazia dall’ambiente alla salute, dall’economia alla politica ed è fondamentale analizzare varie problematiche etiche emergenti dall’impiego delle biotecnologie alla luce delle scelte politico-governative e dei rapporti tra potere economico e progresso scientifico. L’etica di Jonas è ontocentrica poiché mette al centro di tutta la speculazione l’essere nelle sue diversità e indica nell’euristica della paura una terza via per l’agire dell’uomo. Alla paura viene attribuita una valenza pedagogica poiché ha la capacità di mobilitare l’attenzione al carattere irreversibile e cumulativo della tecnica, impedendo “il tutto per tutto nelle faccende dell’umanità” , poiché solo chi vede nell’essere un valore primario da rispettare accetta la rinuncia al potere incontrollato per fini utilitaristici.
Il traguardo della responsabilità è l’aprirsi a favore di una dimensione che la trascende rendendola possibile.
La Società Internazionale di Bioetica (SIBI)  ha esaminato la bioetica come conseguenza della necessità di assicurare il rispetto della dignità dell’uomo, minacciato o aiutato dai risultati della ricerca scientifica. A seguito della mappatura del genoma umano, delle manipolazioni genetiche e della terapia genica si sono raggiunte delle conoscenza che avranno la possibilità concreta di intervenire in malattie gravi e sulla stessa durata della vita.
Una dichiarazione del Comitato scientifico del CIBI afferma che le bioscienze e le nuove tecnologie devono seguire al benessere del genere umano, sviluppandosi in tutti i paesi, per consentire una pace mondiale ed evitare le guerre nel rispetto e nella conservazione della natura. La bioetica è una attività scientifica pluridisciplinare che ha il compito di armonizzare scienza, tecnologia nell’applicazione dei principi e dei valori etici delle convenzioni e dichiarazioni internazionali, producendo conoscenze obiettive senza esplicarne le finalità.
Il termine bioetica fu coniato nel 1971 da Potter unendo la radice bio che simboleggia i fatti biologici e il suffisso etica che simboleggia i valori etici creando una nuova scienza della sopravvivenza che avrebbe dovuto combattere i pericoli creati dal progresso scientifico nei confronti dell’umanità. Reich, definendo la bioetica come “lo studio sistematico della condotta umana nel campo delle scienze della vita  e della salute esaminata alla luce dei valori e dei principi morali”, ha ulteriormente ampliato la definizione.
In molti paesi manca l’insegnamento della Bioetica a livello universitario ad eccezione per le facoltà di medicina sotto forma di deontologia del medico, e nelle facoltà di biologia e filosofia. Non vengono divulgate sufficientemente le informazioni generali concernenti le scoperte scientifiche, i problemi delle biotecnologie e della verità in ordine alla sicurezza dell’uso delle medesime. Gerin si riferisce alla Convenzione di Montreal sulle biotecnologie e al Protocollo di Cartagena, in cui sono state stabilite delle norme relative all’emanazione di documenti speciali di trasporto e di uso che contengono le indicazioni necessarie che evitino danni a causa del prodotto modificato geneticamente ivi inserito.
Vi sono correnti diverse che riguardano l’innocuità del prodotto o il pericolo dell’uso dei prodotti biotecnologici. In merito alla brevettabilità del genoma umano si spiega che non è brevettabile poiché il genoma è una parte del corpo umano, patrimonio dell’umanità.
Si è anche parlato di autonomia e di rispetto della singola persona, della sua identità e specificità, mentre vengono riconfermati i principi del consenso informato  e del migliore trattamento medico possibile, che riguarda  l’accordo tra medico e paziente  in ordine al trattamento da usare nel singolo caso.
Per ciò che concerne la riproduzione umana assistita molti stati europei hanno già delle leggi che ammettono la riproduzione in vitro. L’orientamento comune della Commissione delle Comunità Europee è quella di limitare le tecniche di riproduzione assistita ai casi di sterilità della coppia quando manchi qualsiasi altra terapia che garantire la discendenza nelle famiglie che non sono in grado di procreare. Vi è negazione della clonazione umana e necessità di pervenire il prima possibile alla definizione dello status dell’embrione , poiché si tratta della tutela della persona in fieri, ancora non nata, che non ha modo di difendersi se non esiste una convenzione che la tuteli. Non è consentito il commercio di organi umani e vi è la necessità di analisi cliniche prima di pervenire ad una possibile attuazione degli xenotrapianti.
Attualmente è di primaria importanza la necessità di pervenire ad una comune indicazione del significato di dignità umana, analizzando e approfondendo le differenti concezioni etiche e culturali nell’ambito della ricerca sull’uomo evitando confusioni tra scoperte e invenzioni.
La letteratura viene intesa da Giardina e da Mele come esperienza di vita , la strada più completa per la conoscenza di noi stessi. Può essere una “misura della coscienza e della memoria del nostro spirito e, assieme,  ricerca metafisica e trascendente, poiché il valore dell’opera resiste allo scorrere del tempo, veicolando ideali morali al di fuori delle contingenze umane” . A tal fine “la letteratura è sicuramente un valido strumento d’indagine conoscitiva che, attraverso il confronto con altre discipline può incamminarsi verso un terreno comune a tutte: la valorizzazione della vita umana”. Calvino rafforza questa tesi nelle sue Lezioni Americane definendo alcuni valori, qualità e specificità della letteratura per recuperare i valori in declino della civiltà contemporanea.
La letteratura, in quanto esperienza morale, propone diverse soluzioni ai problemi dell’agire umano, etico e religioso. E’ in questo contesto che avviene l’incontro fra la letteratura e la bioetica, che adotta il senso del limite, da apprendere cognitivamente e da vivere nella vita attraverso la conflittualità del mondo psichico e la interiorità della persona. L’educazione alla bioetica avviene attraverso lo studio e la definizione dell’agire morale e della vita etica.
L’esperienza di vita viene trasmessa al lettore attraverso l’empatia che il testo suggerisce creando una sorta di comunione affettiva in seguito al processo di identificazione. In tal senso la “letteratura è una forza attrattiva, rivelatrice, comunicativa, persuasiva del cuore e della ragione ed è in grado di condurre l’uomo verso il ragionamento etico”  e può facilitare la riflessione teorico-morale, afferrando il lettore e immergendolo nel flusso di un’altra vita creando l’illusione di averla vissuta. Tale coinvolgimento è di fondamentale importanza in materia di Bioetica.
Reich evidenzia il modo in cui i testi letterari accedano all’etica medica evidenziandola e chiarificandola attraverso l’empatia suscitata nel medico o la focalizzazione di un caso clinico. La letteratura porta ad “umanizzare la medicina ed i pazienti accorciando le distanze tra gli uomini”, attraverso l’uso di “termini più familiari e umani che ci offrono sollievo di fronte alla soffocante neutralità del linguaggio scientifico”, ricordandoci che “la scienza è parte di una cultura più ampia” .
La bioetica personalista, ontologicamente fondata, si rivolge alla persona nella sua totalità di corpo e spirito e nel suo racchiudere tutto il valore dell’umanità e tutto il senso dell’universo. Esempio letterario ne è l’Antigone di Sofocle da cui emergono i valori etici a seguito di un conflitto interiore tra legge divina e umana. L’arte si sofferma alla comunicazione di valori e sensazioni estetiche e la scienza bioetica va oltre gli elementi descrittivi e quantitativi per recuperare la Verità che tutto trascende contribuendo al saper essere dell’agente morale: ecco il punto di incontro tra la letteratura e la bioetica. L’uso della letteratura nell’insegnamento della bioetica è utile per recuperare l’aspetto umano della medicina e i tradizionali valori umanistici dell’ars medica, troppe volte trascurati a favore di un determinismo stretto. Il sensibilizzare l’attenzione agli aspetti umani della morte e del morire produce empatia, “partecipazione affettiva, sincera e immediata alla sofferenza, ai problemi e alle preoccupazioni dell’altro, visto non come un paziente o un caso clinico ma come una persona”. Il medico deve saper comunicare e non semplicemente informare: il paziente deve poter sentire la sua compartecipazione emotiva e deve sentirsi aiutato nella sua disperata ricerca di senso. Anche lo studente che affronta le tematiche della bioetica può esserne aiutato nella comprensione dall’uso del testo letterario per cogliere le analogie con la vita reale, per le immagini e le sensazioni che sa creare nello sviluppare una consapevolezza della condizione umana. Concludendo si può affermare che, se la medicina è l’arte del saper fare, la bioetica, che si avvale della capacità letteraria dell’empatia, è l’arte del saper essere.
Ne il Principio Responsabilità Hans Jonas  afferma che le nostre azioni di oggi sono responsabili di coloro che ancora non esistono, fondando un’etica per le generazioni future che “sia disposta a sacrificare qualcosa del presente per salvare il futuro dell’uomo sulla terra”.  La scienza è diventata lo strumento per stabilire il dominio sulla natura non umana, per sfruttarla e assoggettarla all’uomo; si rende necessaria una riflessione sulla compatibilità etico-sociale  degli interventi tecnologici, in mancanza di condivisa moralità  e argomentazioni al riguardo, che non siano soltanto descrittivi ma che tengano conto delle partecipatività insite nella natura e nell’umanità.
All’orizzonte antropocentrico deve essere contrapposta “un’etica che non è più limitata dalla reciprocità e dalla contemporaneità dell’obbligazione” e che quindi sia “capace di fare del futuro dell’umanità l’oggetto di preoccupazione prevalente”, richiedendo anche un “nuovo genere di umiltà” dell’uomo dovuta “all’enorme grandezza del suo potere” . E’ opportuno ricercare non solo il bene dell’uomo ma anche il bene delle cose extraumane limitando il politeismo etico delle società contemporanee. La Bioetica si pone come quella disciplina che attua un “momento di scelta etica all’interno di realtà sociali divise per valori” .
“Il mutamento quantitativo dell’azione umana porta in realtà ad un mutamento qualitativo dell’azione che ha per oggetto il mondo intero nella sua globalità e la permanenza della vita umana sulla terra”. “La tecnica ha finito con il rendere oggetto il suo stesso autore”; ha prodotto uno squilibrio esistenziale della natura e, se ha dato all’uomo il senso dell’onnipotenza, ha anche sottolineato la limitatezza della conoscenza e l’incapacità di dominare cognitivamente e responsabilmente il potere acquistato.
Parafrasando Agazzi, “non è moralmente legittimo tutto ciò che è tecnicamente fattibile”. La nuova etica di cui parla Jonas è caratterizzata da una responsabilità per l’esistenza o responsabilità del prendersi cura, simile a quella che hanno i genitori verso i figli. Secondo Wolf solo “l’utilitarismo riconosce esplicitamente il problema delle generazioni future”.
Il notissimo dettato kantiano “agisci in modo da considerare l’umanità sempre come fine e mai come mezzo” può essere riletto attraverso l’ottica ontologica di Jonas come “agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di una autentica vita umana sulla terra”. Il nostro dovere verso le presenti e le future generazioni  nasce dal rapporto costitutivo che lega la coscienza all’essere, al rispetto della natura umana quale bene indisponibile da tutelare; è una sorta di testamento spirituale dell’uomo di oggi per l’uomo del domani.


“I mutamenti culturali sempre più veloci, la mondializzazione, le nuove biotecnologie, le scoperte di una scienza sempre  più insofferente a qualsiasi limite, caratterizzano la nostra epoca e si susseguono a ritmi incalzanti e senza ormeggi etici” . Attualmente l’uomo può intervenire sia sulla vita nascente che su quella morente non accettando più la natura come destino immodificabile ma interpretandola come insieme di possibilità. L’arma essenziale per frenare la deriva del nostro futuro è l’etica del limite che Spinsanti individua nell’”incontro tra bioetica e personalismo”. Assistiamo al primato della ragione strumentale sulla saggezza pratica e la attuale importanza della bioetica trova sua ragion d’essere nella coniugazione tra poter fare e dover fare. Dalla tecnica fine a se stessa sta emergendo la nuova realtà del post-umano, popolato da inquietanti forme di vita. L’alternativa di scelta che l’uomo ha oggigiorno è bipolare: tecnica fine a se stessa, soddisfattrice dei bisogni consumistici o progetto di vita che vede l’uomo al centro del Creato con un senso e un valore dell’esistenza. “La bioetica è quella parte della filosofia morale che considera la liceità.. degli interventi sulla vita dell’uomo e, particolarmente di quegli interventi connessi con la pratica e lo sviluppo  delle scienze mediche e biologiche. L’antropologia personalistica non può essere ideologica: la persona umana rimane una grandezza che trascende, nel mistero della sua libertà e responsabilità, anche lo sforzo di autocomprensione e rimane il fine, e non il mezzo, dell’agire etico”. Secondo Sgreccia le dimensioni scientifica, antropologica e giuridico-antropologica compongono il triangolo che configura il giudizio etico. La fondamentazione della bioetica in quanto scienza, attraverso la definizione di concetti comuni a persone provenienti da diverse esperienze culturali, è un tema di enorme importanza, almeno attraverso l’enunciazione dei tre principi laici di autonomia, beneficenza e giustizia dell’agire morale.


Le statistiche mondiali sull’aumento della vita media della popolazione registrano un aumento del fenomeno dell’invecchiamento  che non ha precedenti per la sua estensione e velocità, con altrettante conseguenze socio-politiche e di responsabilità per i Governi. Le trasformazioni sociali della famiglia hanno provocato l’impoverimento e l’emarginazione dell’anziano, in quanto depositario di un sapere non più spendibile in senso pedagogico all’interno del nucleo familiare, ormai frantumato dai cambiamenti tecnologici in atto.
La medicina ha creato la geriatria per far fronte alle esigenze assistenziali di una larga fetta della popolazione mondiale. Essa si occupa della ricerca e del raggiungimento di una buona qualità della vita intesa come la conservazione dei principali parametri biologici ma anche delle motivazioni, interessi, creatività e spiritualità, necessarie alla pienezza dell’esistenza umana. Sarebbe auspicabile che a tutto ciò si accompagnasse una corretta educazione all’invecchiamento capace di contrastare il processo di distacco dall’ambiente e la perdita degli interessi vitali.
Per misurare la qualità della vita degli anziani sono state predisposte delle scale di misura che riguardano lo stato fisico e la capacità funzionale, lo stato psicologico e il senso del benessere, le interazioni sociali e i fattori economici ed i fattori etici-valoriali globali. L’elemento utilitaristico, di tale visione della qualità della vita, si inserisce quale valutazione del recupero della produttività e dei costi economici che l’anziano comporta alla società, e viene rafforzato dal principio di autonomia per cui, solo il paziente, può decidere sul proseguimento o la cessazione delle cure, sull’eutanasia o sul suicidio. In tale visione utilitaristica l’anziano non avrebbe più l’obbligo di difendere e conservare la vita in quanto privo del quoziente minimo prefissato di “qualità della vita”, unico fondamento della norma etica. Per fortuna la nostra civiltà considera ogni essere umano persona sempre ed in ogni condizione e si propone di difendere tale personalismo ontologico da ogni attentato dell’utilitarismo scientifico-tecnologico.
Anche il diritto è tenuto ad aggiornarsi, per essere sempre attuale, a seguito degli interventi dell’uomo sulla vita umana resi possibili dalle nuove acquisizioni delle scienze e della tecnologia biomedica, oltre che per essere garanzia di liceità e legittimità delle stesse procedure. Da qui l’accentuarsi delle attenzione del diritto per la bioetica fino alla necessità di teorizzare una nuova disciplina giuridica: il biodiritto. Esso esprime il tentativo di dare pubblica rilevanza a molte gravi problematiche di bionormazione e di biolegislazione oltre che l’esigenza di una riflessione sistematica e coerente  circa i criteri necessari alla costruzione del pensiero biogiuridico, sviluppandone i confini e i contenuti, raccogliendo al sfida delle novità e scavando a fondo per portare  alla luce il senso ultimo del Diritto nell’ambito dei diritti umani.
Il Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo cita: “il riconoscimento della dignità inerente ad ogni membro della famiglia umana e dei suoi uguali ed inalienabili diritti, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Quindi il diritto che si occupa di bioetica è chiamato ad essere se stesso nella fedeltà ai suoi compiti e alla sua natura di tutela dell’essere umano nelle situazioni estreme.  Due principi etico-giuridici fondamentali, quelli di autodeterminazione  e di responsabilità nel prendersi cura, emergono nella letteratura biogiuridica e nelle proposte di leggi in tema di bioetica. “Il principio di responsabilità  nei confronti della cura fa emergere la interdipendenza reciproca e la solidarietà umana del tessuto sociale mentre il principio di autodeterminazione mira ad assolutizzare l’elemento di soggettività dell’individuo” .
La donna è pari dell’uomo in quanto a dignità e diritti fondamentali ma alcune tematiche del biodiritto la riguardano in senso stretto: la riproduzione assistita, l’aborto, la sterilizzazione.  Etica e diritto non possono e non devono prescindere dalle differenze sessuali, esigono di essere declinati secondo il sesso e, nella forma più estrema, sono legati alla specificità etniche, ambientali e culturali dei soggetti sessuati” . Le peculiari modalità d’esistenza, diverse per tipologie di educazione e di formazione che vengono offerte alla donna o all’esperienza che ella fa dell’accudimento del bambino, la rendono comunque e sempre capace di empatizzare con un altro essere umano, di entrare in sintonia profonda con lui e quindi di prendersene cura. E’ l’alterità  connaturata alla donna, diversa per ethos, predisposizione spirituale e inclinazione stabile dell’animo nei confronti dell’essere, a rendere la stessa soggetto di un biodiritto declinato al femminile, che segue un’etica relazionale più che soggettiva. La globalizzazione è un processo ambivalente: è positiva perché senza dubbio promuove lo sviluppo dell’unione tra i popoli, è negativa perché potrebbe comportare l’egemonia di alcuni popoli su altri oppure l’eventuale livellamento delle differenze etniche e culturali. La globalizzazione per essere etica dovrebbe giungere ad un’unità mondiale nel rispetto delle reciproche diversità.
Il legame  tra la bioetica e la globalizzazione si pone a diversi livelli. A livello di oggetto materiale comune delle tematiche ecologiche o ambientali oppure a livello di effetti causali capaci di contribuire alla strutturazione di alcune realtà politiche in ambito biomedico (es. le politiche sanitarie). A livello di oggetto formale il legame tra globalizzazione e bioetica si esprime nell’identità ontologica e culturale della persona umana.
Il background antropologico influisce sulle modificazioni della riflessione bioetica, così come tutti i popoli della terra sono uniti dalla globalizzazione fondata spiritualmente nella dignità della razza umana. L’obiettivo comune da raggiungere è la dignità della persona, mentre attualmente la globalizzazione riguarda soltanto aspetti dell’economia, delle telecomunicazioni, della politica, del lavoro, dell’alimentazione, della cultura anche se si sta espandendo a tutti gli aspetti umani del vivere, “influenzando notevolmente la vita dei singoli individui, le loro scelte e i loro modi di vivere” .
Gallino sostiene che la globalizzazione dovrebbe teoricamente favorire la crescita economica, la riduzione della disoccupazione e l’aumento della produttività, in un contesto di interdipendenza delle società di tutto il mondo. Mentre, in realtà, i dati statistici mondiali dimostrano inequivocabilmente che “l’economia planetaria sta dividendosi in due blocchi ben delineati, geograficamente trasversali, contrapposti e sempre più distanti caratterizzati rispettivamente da una minoranza sempre più ricca economicamente, che detta le regole della vita sociale, culturale e finanziaria, e una massa di individui che subisce i dettami dell’altro blocco, non avendo il potere  di negoziare o di influenzare le scelte ed i valori in gioco” .
Rifkin ha illustrato un ulteriore esempio di “effetti perversi” della globalizzazione in materia di biotecnologie, a proposito del nostro modo di comprendere e interagire con l’ambiente in cui viviamo a seguito della genetica: i geni stanno prendendo il posto delle materie prime dell’era industriale. La genetica viene utilizzata per la creazione di nuovi prodotti agricoli, farmaceutici, materiali da costruzione e nuove forme di energia. Rifkin sostiene la negatività degli effetti globalizzanti delle biotecnologie in quanto esse rappresentano delle possibilità di monopolio a causa delle strumento giuridico della brevettazione. Vi è una sostanziale rottura con il passato poiché  prima del 1987 non veniva ritenuto oggetto di brevetto alcun elemento che fosse comunque presente in natura e non inventato  ma soltanto scoperto. A seguire da suindicata data il Patent and Trademark Office statunitense ha decretato che le componenti di creature viventi sono brevettabili e possono venire considerate proprietà intellettuali di chiunque ne descriva per primo le funzioni, ne isoli per primo le proprietà indicandone le applicazioni commerciali.
Una categoria della globalizzazione ambientale, quella biotecnologica, è particolarmente preoccupante per i rischi intrinseci e immediati, ossia per la salute dei consumatori, originati dall’economia e da specifiche circostanze socio-politiche. 
Anche i brevetti farmaceutici hanno grande peso sulle vite di milioni di esseri umani a causa del fatto che è vietato produrre un farmaco o acquistarlo dall’estero senza autorizzazione del titolare del brevetto, che ne conserva il diritto per venti anni. E’ altresì vietato l’uso di farmaci copia  non autorizzati. In tal modo i paesi poveri del mondo  non hanno “accesso a cure essenziali ed efficaci a causa dei prezzi proibitivi dei nuovi farmaci sotto brevetto”, della “mancanza di progetti di ricerca che abbiano come obiettivo le malattie dei poveri”, ormai debellate in tutti i paesi industrializzati, e “a causa dell’abbandono della produzione dei farmaci efficaci per la mancanza di compratori che garantiscano un adeguato profitto all’industria produttrice” .
Una globalizzazione democratica richiede il passaggio ad una cultura della solidarietà, intesa come struttura etica che dovrebbe sottendere ad un concetto di progresso lento ma migliore in termini di fruibilità e partecipazione di tutti a scapito della attuale situazione governata dalla morale dei costi-benefici.
La bioetica globale dovrebbe occuparsi della considerazione dei temi dell’ecologia, dell’ambiente e del territorio, in parole semplici delle biodiversità dell’ambiente antropizzato.
I temi ambientali sono di vastissima portata e di immediato interesse e riguardano l’eredità economica primaria che si lascia alle generazioni future in termini di fruizione e consumo delle risorse naturali del pianeta, sotto forma di energie e materie prime, e la gestione appropriata,  attraverso la produzione e lo smaltimento eco-compatibili, dei rifiuti pericolosi.
L’ambiente antropizzato si configura come la mentalizzazione del territorio, secondo esigenze antropologiche-culturali, in riferimento alle esigenze di preservazione e rispetto dei valori di vita e salute. L’ecologia è un tema di profondità antropologica ed etica così ampia da non poter venire trascurato dalla speculazione bioetica globale.
Mele e Maglietta distinguono diversi modelli di ecologia relativi ad elaborazioni antropologiche di riferimento. L’approccio di fondo è di tipo scientifico, ed i modelli individuati sono “l’ecologia ambientale, l’ecologia sociale, l’ecologia profonda, l’ecologia umanitaria o integrale o dell’ambiente globale.  L’ecologia ambientale sottolinea il dato biologico-chimico-fisico degli equilibri che prendono forma nell’ambiente attraverso strumenti e metodi di analisi, mappe e modelli matematici, simulazioni, coefficienti, indici, indicatori per la valutazione del rischio o impatto ambientale, diventa una eco-filosofia. L’ecologia sociale individua il problema ecologico nel tipo di società presente sul pianeta, estendendo l’analisi alla politica e all’economia, influenzatici dei processi di modificazione degli equilibri ambientali. L’ecologia profonda si caratterizza per il rifiuto dell’immagine dell’uomo nell’ambiente a favore dell’immagine relazionale a tutto campo, dove gli organismi sono nodi della rete biosferica. Si caratterizza per l’egualitarismo biosferico ossia per l’uguale diritto a vivere e realizzarsi pienamente da parte dell’ambiente; per i principi di diversità e simbiosi, per la lotta contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse e per la complessità degli ecosistemi che esaltano l’ignoranza umana circa le relazioni biosferiche e le relative interferenze.
All’ecologia umanistica dell’ambiente globale fanno capo considerazioni etico-antropologiche che richiamano l’antropologia filosofica, il personalismo e la religione.
La bioetica deve porsi al servizio della prospettiva ecologica per offrire in chiave multidisciplinare  i suoi fondamenti, sviluppi e metodi” . La chirurgia dei trapianti  viene definita come “sicura ed insostituibile opportunità terapeutica capace di risolvere positivamente oggettive situazioni di pericolo e di danno per la vita o per la validità individuale, non altrimenti e non altrettanto efficacemente trattabili” .
“Oltre a migliorare le qualità della vita in termini di funzionalità organica, i trapianti d’organo hanno risvolti psicologici e sociali non indifferenti: tolgono la dipendenza da apparecchiature strumentali riducendo la spesa pubblica e permettendo ai soggetti di ricoprire le loro attività lavorative, il loro ruolo sociale, acquisendo sicurezza interiore e vita autonoma”. I sentimenti nei confronti della donazione sono molteplici e offrono una lettura socio-psicologica della indifferenza, della speranza o della paura rimossa. La carenza di sensibilità verso la donazione e la conseguente reticenza sono state forzate del nostro legislatore attraverso la nuova legge  sui trapianti n. 91 del 1999. I punti salienti dell’attuale normativa in merito sono l’informazione della cittadinanza, il consenso alla donazione e il riassestamento organizzativo dei centri di coordinamento e prelievo degli organi. Lo scopo dei trapianti è assolutamente terapeutico ed esclude ogni tipo di sperimentazione fine a se stessa. L’informazione è il presupposto principale per dare la facoltà di libera decisione attraverso la sua intenzionalità e autodeterminazione. Il Ministero della Sanità promuove vere e proprie campagne di informazione volte a sensibilizzare il cittadino sull’importanza della donazione di organi e tessuti a scopo di trapianto. Le competenze impegnate in tale fase informativa sono quelle sanitarie, giuridiche e filosofiche. La legge introduce in merito il concetto di silenzio-assenso informato e ha previsto la distribuzione di una card che rappresenta un mini-testamento biologico, circa la singola disponibilità alla donazione degli organi post mortem. Il solo lascito di una dichiarazione scritta  in cui si nega esplicitamente il proprio assenso pone la legge nell’impossibilità di permettere l’espianto.
I principi etici in materia di trapianto sono la tutela della vita umana e lo scopo di migliorarla in caso si trovi in situazioni di malattia inguaribile. Naturalmente la vita del donatore e del ricevente sono valori fondanti e rappresentano un bene indisponibile. La legge vieta il guadagno economico e sociale del donatore, se vivente, o della sua famiglia e rifiuta l’agire degli operatori sanitari per puro bisogno di successo o di avanzamento di carriera.
Il trapianto è accettabile a condizione che risulti terapeutico e che venga eseguito attraverso una buona pratica clinica rispettando il corpo e l’identità del donatore e del ricevente, deve mirare a massimizzare i benefici e minimizzare i danni e gli errori, e il suo fine è il dono e la solidarietà, configurandosi come atto gratuito, volontario, responsabile e disinteressato nel pieno rispetto della decisionalità del donatore.  La donazione si configura come una scelta pienamente consapevole ed ha connotato di oblazione, di dono giuridico e morale.


La ricerca sperimentale  viene giustificata in prima analisi dall’interesse del soggetto partecipante, in secondo luogo per una esigenza interna della medicina, di tipo conoscitivo.
Il consenso informato alla ricerca si pone come istanza etica fondamentale poiché testimonia il rispetto dell’altro, considerato persona e non ridotto a semplice mezzo sul quale agisce la sperimentazione e testimonia la condivisione degli obiettivi dello studio da parte del paziente. Il Codice di Norimberga del 1946 considera essenziale il consenso volontario del soggetto umano, mentre la Dichiarazione di Helsinki prevede la possibilità del consenso sostitutivo solo per la ricerca terapeutica. Secondo la Raccomandazione del Consiglio deI Ministri d’Europa, “una persona legalmente incapace non può essere sottoposta a ricerca medica senza che ci si aspetti di produrre un diretto e significativo beneficio alla sua salute”. La Direttiva CIOMS n. 6 del 1993, relativa alle ricerche condotte su persone affette da disturbi mentali o comportamentali prevede che, prima di iniziare il ricercatore debba assicurare che tali persone non saranno impiegate in ricerche che possano essere condotte ugualmente bene su persone nel pieno possesso delle loro facoltà mentali; lo scopo è  quello di ottenere conoscenze attinenti  alle particolari necessità sanitarie delle persone affette da disturbi mentali o comportamentali ed il consenso dei soggetti è ottenuto in base alle sue capacità. Nelle norme europee di Buona Pratica Clinica recepite in Italia nel 1997 e nel 1998, si prevede la possibilità di condurre studi su soggetti non in grado di esprimere consenso attraverso il consenso del proprio rappresentante legale. Secondo Portei sarebbe necessaria una bozza di linee guida per l’utilizzo in ricerche di persone con demenza, distinte anzitutto per grado di disabilità in fase iniziale e fase medio-grave; altra distinzione riguarda la ricerca terapeutica e quella a scopi non terapeutici dove, in entrambi i casi vi è un rapporto rischio-beneficio che sia a favore del beneficio; tali valutazioni sarebbero di spettanza dei comitati etici nazionali.


Il cambiamento culturale coinvolge tutti gli ambienti; anche in quello sanitario muta la concezione del rapporto medico-paziente. Per Scalise la “virtù essenziale del medico è la filantropia, la dedizione quasi religiosa all’uomo, che si traduce in sentimenti di simpatia, benevolenza e umanità” . Il nuovo Codice di Deontologia Medica del 1998 sancisce il rispetto della dignità del cittadino malato attraverso il principio dell’autonomia per cui il paziente, escluse le situazione di emergenza e di incapacità, non può e non deve delegare nessuna decisione ai medici, così da mantenere sempre sotto controllo la sua salute. La nostra tradizione mediterranea è basata su quello che Entralgo chiama modello di amicizia medica, che impronta la relazione medico-paziente come una amicizia, una alleanza terapeutica nella quale il medico è capace di compassione ed empatia.
L’idea della neutralità delle scelte è stata smentita dai fatti storici, come il fallimento in senso antilibertario di modelli di vita legati a diverse tipologie ideologiche e alla drammatica proliferazione delle sette religiose, dimostrazione pratica che nessuna chiusura possa essere di per sé fruttuosa. La recente riflessione bioetica in tali contesti ha dimostrato che il procedimento procedurale rimane fondamentale per delimitare il rispetto del singolo e le necessità dei più..”. L’universalizzazione dei valori morali e il relativismo normativo confermano che ogni decisione umana è impoverita dall’assenza di un fondamento etico, così come cita Lévi-Strauss: “dietro la società vi è lo spirito umano, ma dietro di esso vi è il cervello”. “Per Durkeim i fatti sociali  consistono in modi di agire, pensare e di sentire, esterni all’individuo e dotati di un potere di coercizione per il quale gli s’impongono. E’ l’applicazione in campo giuridico delle posizioni espresse da Hengelhardt nel versante etico. L’idea che le questioni morali sia da considerare irrisolvibile e conduca ad un’accettazione minimale delle parti o ad una sorta di statalizzazione etica, non elimina la questione essenziale: è la stessa capacità umana un valore in sé”.
“La questione che l’uomo possa costruire la sua scienza, la sua morale e la sua stessa società su una fredda applicazione di postulati è l’ultima chimera offerta da un pensiero che non osa più definirsi debole o forte, un’etica che non è capace di guardare al di là della prima facie duty”. I postulati della vita umana si sono storicizzati in evidenze e le credenze hanno trovato una analisi razionale nella contingenza spazio-temporale come sintesi tra intuizionismo e formalismo valoriale.
L’unica strada percorribile per una nuova assiologia dei valori è il discernere una strategia che faccia di ogni sistema un valore da considerare per ampliare le ragioni del proprio. Bellino  indica nella diversità dei valori  la concezione di culture, tradizioni, sistemi politici e socio-economici così eterogenei da essere incommensurabili, mentre sono modi di applicare e attuare comuni valori di fondo. La conclusione di Sinno è che il pluralismo etico è uno stato di libera necessità, il riconoscimento che l’ascolto di più note conduce ad un’armonia.
La legge sul silenzio-assenso introduce l’ambiguità e il compromesso di una norma al servizio della legittima coercizione sociale. Il trapianto terapeutico per l’opinione di Sinopoli resta una terapia d’emergenza e sperimentale, troppo costosa e non applicabile, per peculiarità e specificità, a tutta la popolazione, ma capace di salvare la vita o di prolungarla sempre e solo in una minoranza di casi, compatibili e selezionati, persino quando gli organi dovessero abbondare o essere prelevati per disposizione di legge, come potrebbe avvenire in molte situazioni nei prossimi anni. 
Il supporto della Bioetica al diritto nella presente situazione di rapida affermazione del progresso tecnologico nella medicina e nella genetica umana, trova essenza di riflessione e di attenta prassi nelle decisioni non ignare dei pericoli dell’esasperazione tecnologica, di falsa indipendenza della scienza e libertà assoluta rispetto all’identità dell’uomo.
Soldini lamenta le numerose prospettive della bioetica, strettamente correlate alle teorie sottostanti e auspica un “personalismo ontologico , proprio della cultura occidentale in qualità di fondamento per una bioetica europea forte, che si poggi sopra una tradizione filosofica di tipo sostanzialista e realista, fondata sulla persona piuttosto che sull’individuo, nel tentativo di non lasciare intentata la globale dignità di ciascuno e di tutti nello stesso tempo” .
Dalle problematiche culturali recenti emergono i diritti di terza generazione (habitat sano, qualità della vita, ecc.) e quelli di seconda generazione, non ancora risolti (economico-sociali).  Soldini è convinto che l’identità della bioetica debba essere unicamente singolare e non plurale, dal momento che non può essere che una la verità alla quale dobbiamo tendere, consapevoli che dal punto di vista teorico possono coesistere versioni diversificate di bioetica in relazione alla visione etica di fondo alla quale si fa riferimento. Possono cambiare le vie, i metodi, la percorribilità ma la verità non può mutare.
Il mondo contemporaneo ha bisogno di un pensiero forte e di certezze e che solo il superamento dell’individuo con la concezione dell’essere umano come persona, come uni-totalità somato-psichica-spirituale, un valore di per sé anche a livello psichico e spirituale. C’è bisogno di una nuova formazione delle coscienze dei medici del XXI secolo, un ritorno alla formazione umanistica e filosofica oltre che una forte preparazione scientifica.


Le relazioni esistenti fra i modelli di medicina convenzionale, alternativa, naturale e non convenzionale sembrano essere caratterizzati da una elevata complessità, una complessità che sembra configurarsi nel confronto fra scienza non ortodossa e la cosiddetta mainstream science, un confronto che, spesso, si è contraddistinto in una vera controversia, in una crisi di connessione1, sull’efficacia della medicina convenzionale e delle altre medicine, in una vera “parata di tiranni” in cui ogni sistema tende ad escludere l’altro. In tale ottica, sembra esservi una certa confusione nella definizione delle medicine non convenzionali, spesso definite alternative, naturali o eretiche.
La medicina convenzionale può definirsi come l’insieme di teorie fisiopatologiche e di metodologie clinico-terapeutiche che derivano dal patrimonio di conoscenze sviluppate dalle scienze naturali occidentali dal loro sorgere ai giorni nostri. caratteristica fondamentale della medicina convenzionale è quindi quella di costituirsi sul metodo sperimentale. In tale ottica, la medicina convenzionale si può quindi anche definire scientifica, perché questa ne è una caratteristica imprescindibile.
Nei sistemi sanitari occidentali si riscontra il ruolo prevalente dei metodi di cura fondati sui principi della medicina scientifica e tale prevalenza porta a ricomporli nella medicina ufficiale o convenzionale. In tale prospettiva l’uso dei termini convenzionale, ufficiale, scientifica o ortodossa sembra rimandare, nel sistema medicale, ad una credibilità per così dire automatica. I sinonimi per il termine ortodosso, infatti, includono: “accettato”, “approvato”, “stabilito” ed ogni termine osservato sembra contenere un elevato grado di credibilità all’interno del sistema di riferimento.
Il termine medicine alternative, non convenzionali o tradizionali dovrebbe invece essere criticamente osservato poiché costituito da un insieme eterogeneo di teorie e di pratiche terapeutiche che non rientrano nei canoni accettati dalla medicina convenzionale. Alla definizione “non convenzionale” sono spesso associati ulteriori termini come olistica, naturale o terapie tradizionali ed ognuna di queste definizioni sembra contenere un diverso corpus teorico sia in conflitto con le medicine convenzionali, sia come possibilità ulteriore.

Nello scorso 2006 abbiamo partecipato ad Corso di formazione ECM[7] (educazione continua in medicina) dal titolo Etica, Salute e Spiritualità, tenutosi in tutta Italia secondo un calendario itinerante (COMO, MILANO, ROMA, RECANATI, TRECENTA)[8]. Hanno partecipato il Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, l’Istituto Neurologico Besta  (centro di ricerca) di Milano, l’Opera Nazionale Don Guanella con la sua rete di residenze protette, centri di riabilitazione, case di riposo per anziani, presenti su tutto il territorio nazionale ed estero, e l’Istituto Camillianum di Roma. Un mega-evento di formazione “itinerante”, pensato per operatori sociosanitari, con gli obiettivi di affrontare le problematiche che emergono nelle relazioni di una cura protratta nel tempo, attraverso la creazione di un linguaggio comune che, grazie al contributo di ambiti disciplinari diversi, etico, medico, psicopedagogico, teologico, possa fornire gli strumenti per dare una risposta adeguata alle esigenze, non solo clinico-assistenziali, delle persone, nel rispetto e nella tutela della loro dignità. Scienza Salute Santità sono sempre state per Don Luigi Guanella la meta delle tre “S”….prende tutto l’uomo e  bisogna averla dinnanzi e prima  di tutto desiderare di raggiungerla.
Durante le prime giornate del corso sono stati introdotti gli aspetti salienti di una formazione professionale che tenga conto di una pluralità di elementi: etici, sanitari e spirituali. Nelle seconde giornate sono stati affrontati i temi etici della relazione di aiuto con persone bisognose di una cura protratta nel tempo. A tal fine sono stati messi in luce i fattori culturali attuali, che concorrono a formare la personalità e la professionalità dell’operatore stesso, individuando le esigenze a cui si deve dare una risposta etica della cura, modulata secondo le diverse professioni. Nelle terze giornate le relazioni sono focalizzate sulla salute e sulla disabilità: è stato effettuato un corso base ICF, concernente gli aspetti culturali e concettuali che sottendono la classificazione ICF, i principi cui si ispira, al sua struttura ed il suo impatto sulla pratica quotidiana.
Pensiamo che comprendere lo scenario entro cui si sviluppa la sensibilità bioetica e istruire il discorso bioetica, in tutta l'estensione delle sue dimensioni, quelle biomediche ed ecologiche come quelle etico-normative e antropologiche, sia l’obiettivo dell’evento formativo a cui abbiamo partecipato in molteplici vesti. 
Obiettivo di fondo di questa discussione critica è la costruzione di un modello di bioetica adeguato a supportare la deliberazione etica in una società pluralistica, con esplicito riferimento a un livello etico fondamentale basato sul principio del rispetto della dignità umana e a un livello etico-applicativo mirato a concretizzare questo principio nelle situazioni nuove aperte dal progresso biomedico. E’ importante, per la riflessione bioetica, la costruzione di un quadro concettuale in grado di integrare nell'elaborazione del giudizio principi, valori, esperienza .
Obiettivo del corso, costruito attorno ad un'essenziale presentazione dei modelli di argomentazione etica e bioetica, è di offrire strumenti teorici e pratici utili ad una tale integrazione. Il problema dell’assistenza non può essere pensato a prescindere dal contesto storico sociale in cui si pone. Una riflessione sull’etica della condizione umana deve in tal senso tener conto di una ormai diffusa disomogeneità nelle valutazioni morali che, problematicamente, porta a ritenere il pluralismo etico non solo un fatto, ma anche un valore. La bioetica diviene così un riferimento importante quando cerca  di salvaguardare la pluralità dei valori riconoscendo, nello stesso tempo, l’unicità della morale. Essa aiuta anche a comprendere i cambiamenti inerenti alle relazioni di cura. Da un lato il rapporto tra medico e paziente tende ad assumere una forma contrattuale e, quindi, potenzialmente conflittuale, dall’altro il passaggio dalle cure intensive a quelle estensive modifica profondamente i tempi e le relazioni di assistenza. La bioetica si evidenzia, in questo senso, come una disciplina capace di cogliere e valutare i cambiamenti inerenti alla realtà culturale che fanno da sfondo alle nuove prassi assistenziali.
In merito ai cambiamenti culturali e la bioetica abbiamo ascoltato con piacere il pensiero di Adriano Pessina del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Egli sostiene che ci troviamo in una particolare situazione storica in cui siamo chiamati ad esprimere giudizi, valutazioni morali, anche senza averne le conoscenze adeguate, usando le parole. Esse non sono innocenti e ci danno il polso delle trasformazioni dell’esperienza. Siamo chiamati a vivere  in un’epoca che combina e trasforma l’esperienza  per motivi di sovraesposizione morale, abbiamo una serie di conoscenze estese  ma la nostra formazione morale si arresta ai primi anni di vita. Il fine da proporre viene deciso singolarmente da ognuno di noi, in quanto pensiamo che l’unica cosa importante è il nostro proprio pensiero.
Il punto fondamentale è la costruzione dello spirito critico, della capacità del discernere, che nasce da una grande fiducia nella ragione umana, che s’impara pensando alle cose, usando lo strumento dello spirito critico, esercitando la capacità del discernere senza negare il valore ma guardando alla consistenza di ciò che diciamo, pensiamo e facciamo. Abbiamo la necessità di avere il tempo per pensare.
Secondo Pessina l’etica, prima di essere una questione di azioni da compiere, è una capacità di guardare alla realtà stando da soli, poiché in questo spazio abbiamo la possibilità di riflettere sulle nostre azioni e pensieri che esprimono la nostra capacità di vedere quali sono i beni in gioco che, in modo non ordinario, dobbiamo decidere di utilizzare nelle nostre personalità e libertà. L’assenza di pensiero è il tema su cui dobbiamo soffermarci poiché ci presenta la banalizzazione del male che ha le due facce della sofferenza (disagio umano esistenziale) e del dolore, poiché corpo e mente, fisico e spirito sono una unità. Capire il dolore e la sofferenza significa capire che non sono valori. Quando si comprendono le cose importanti si decide in seconda istanza di fare bene: tutto dipende dalla nostra volontà. Ci sono dei mezzi che, in vista di fini, ci costano sudore e sangue. Bisogna avere chiarezza dei fini e volontà di decidere di volerli raggiungere. Oggi non riusciamo a fare i conti con noi stessi  e con la finitezza della nostra condizione. Molte volte il dolore e la sofferenza non sono degli altri  ma sono nostri: quindi l’immagine dell’uomo è come l’immagine di sé.   C’è un modo di leggere i comportamenti degli altri cercando le cause e ce n’è un altro che comprende i motivi dell’altro anche se non li condivide. Non giudichiamo la persona ma i suoi atti cattivi  poiché la persona può sempre cambiare. Quando ci prendiamo cura degli altri dovremmo aver imparato a prenderci cura di noi stessi. La capacità di avere una relazione significativa dipende dal riconoscimento del valore della persona di cui ci prendiamo cura e della conoscenza della sua opacità. Per questo diciamo che il valore dell’assistenza è dato dal valore incommensurabile della persona umana. La bioetica è proposta da Pessina come coscienza critica della civiltà tecnologica, discernendo sul da farsi. Nella storia dell’umanità i bisogni si modulano all’interno dei contesti culturali che modificano il nostro modo di guardare, non solo ai bisogni degli altri, alla loro umanità. Esiste una sproporzione tra conoscenza scientifica e formazione etica. La verità non ha un copyright poiché una volta compresa  la verità è mia: possiamo usarla tutti e rimane intatta. Le zone della nostra esistenza, i nostri mondi, sono tanti e dove noi troviamo il centro, l’equilibrio? Nell’uomo c’è uno squilibrio totale tra il nostro desiderio di pienezza, di infinito e la nostra finitezza; l’uomo è sempre squilibrato perché non si accontenta, ha bisogno di capire quali sono i beni in gioco nella propria vita, discernendo ciò che è essenziale da ciò che non lo è. Non è vero che ognuno di noi è in grado di fare tutto e noi non siamo insostituibili nelle nostre funzioni e ruoli; lo siamo nella nostra unicità umana poiché il mondo incomincia di nuovo quando nasce un uomo perché cambia attraverso la novità del suo sguardo. L’assenza di pensiero, secondo Anna Harendt, non si identifica con la stupidità: si può incontrarla in persone di intelligenza elevata e un cuore malvagio non ne costituisce la causa. È vero probabilmente il contrario, che la malvagità può essere causata dall’assenza di pensiero. La prima forma di malvagità è l’indifferenza nella quotidianità. È una questione alimentata dalla televisione e dalla grande recita della solidarietà personale; questo modello in cui siamo generosi per interposta persona ci riguarda direttamente poiché l’indifferenza la esercitiamo generalmente attraverso la  scissione tra mente e cuore che, col tempo, ci fa sentire inariditi, si diventa automi coscienti che operano ma non sanno dare altre indicazioni concrete se non quelle che dipendono dalle situazioni pesanti. È importante rileggere le cose con la nostra novità. Crediamo nei diritti umani che, calati nella situazione concreta, se non sono astratti, riguardano una questione di giustizia che è solo il compito di alcuni ma è una questione che riguarda tutti, un dovere sociale.
E’ possibile coniugare la prospettiva della giustizia sociale con quella dell’amore per il prossimo: la cura è tanto una risposta ad un diritto (giustizia nei confronti dell’uomo), quanto un atteggiamento di gratuità e solidarietà propriamente umano.
Nella cura e nel prendersi cura è possibile scoprire quanto oggi sembra offuscato: la coincidenza della dignità della persona con la dignità del suo essere corporeo. 
Il nostro lavoro cambia se noi ci rendiamo conto che quello che noi facciamo ha valore. Il nostro valore è incommensurabile e non è dettato dalla realtà di ciò che gli altri ci riconoscono ma dalla dignità di ognuno di noi. Tutto ciò è solo una questione culturale. Le parole che noi usiamo sono dei macigni non si giudicano le persone ma bisogna capire la verità delle cose. Per Anna Harendt è importante essere veritieri con noi stessi. Sarebbe bene non vivere tutta la vita insieme con un mentitore. La malafede ci fa trasformare in buone le cose solo perché le facciamo. La questione non è quello che io farei  ma quello che dovrei fare; non sono io il criterio della mia moralità ma la verità che dovrebbe guidare le nostre scelte.  Non bisogna giocare sulla mia emotività che mi condiziona ma trovare il modo di cambiare le cose. S’impara a riflettere sulle situazioni prima di entrarci dentro, per avere riscontri in più per agire concretamente. Marx dice che noi siamo la nostra corporeità (siamo ciò che mangiamo): noi siamo prima di tutto ciò che pensiamo. Ci sono azioni che cambiano il mondo e ci sono azioni che cambiano noi stessi, la nostra personalità. Il discorso del pensare è l’avere una alimentazione per la nostra quotidiana salute mentale. La vita della mente non è fare un corso di filosofia ma è alla portata di ognuno di noi. È quella capacità di riflettere, di comunicare, quel gusto di pensare, che ci introduce nella profondità del senso del nostro esistere. La qualità dell’assistenza dipende dalla qualità umana del nostro farci carico degli altri ma non si può cogliere l’umanità altrui se è inaridita la nostra. Nel prendersi cura degli altri emerge il vero problema della relazionalità: i gesti che qualificano la quotidianità (es. palpazione del dolore, criteri di accertamento della morte cerebrale, ecc.). Nell’assistenza ci si prende cura dell’uomo malgrado la sua malattia, la sua fragilità, la sua opacità personale: questo malgrado serve per non farci ridurre l’uomo alla sua patologia. La patologia va combattuta perché si ha cura dell’uomo, che è sempre più della sua condizione di malato e sofferente perché lui è una persona unica e irripetibile. Dobbiamo coltivare la nostra umanità perché non si è buoni spontaneamente e automaticamente. Amare un individuo significa amarlo nelle sue stagioni della vita, passando dalle sue qualità ai suoi malgrado che ci permettono di pensare seriamente alla condizione umana.
La dottoressa Matilde Leonardi, Direttore Scientifico dell’Istituto Neurologico Nazionale Carlo Besta di Milano  ha relazionato sulla classificazione internazionale ICF (Classificazione Internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute), pubblicata nel maggio 2001 dall’OMS, che rappresenta una autentica rivoluzione nella definizione e quindi nella percezione della salute e della disabilità.
Ogni persona in qualunque momento della sua vita può trovarsi in condizioni di salute che, in un ambiente negativo, divengono disabilità.  Milioni di persone soffrono a causa di una condizione di salute che, in un ambiente sfavorevole, diventa disabilità. Usare un linguaggio comune e cercare di affrontare i problemi della salute e della disabilità in maniera multidisciplinare può essere un primo passo per cercare di diminuire gli anni di vita persi a causa della disabilità. Nel maggio 2001 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato la "Classificazione internazionale del funzionamento, della salute e disabilità", l'ICF, che 191 Paesi riconoscono come la nuova norma per classificare salute e disabilità. Spostando l'attenzione dalle cause all'impatto sul funzionamento della persona, e ponendo tutte le condizioni di salute allo stesso punto di partenza l'ICF è lo strumento universale per misurare e descrivere salute e disabilità. La Classificazione ICF è, infatti, lo strumento dell'Organizzazione Mondiale della Sanità per descrivere e misurare la salute e la disabilità delle popolazioni ed è il risultato di 7 anni di un lavoro svoltosi in 65 Paesi, e che è partito dalla revisione della vecchia classificazione ICIDH, pubblicata nel 1980 per prove sul campo.
Il messaggio "chiave" dell'ICF è il seguente: L'ICF riconosce che ogni essere umano può avere un problema di salute e chiarisce il ruolo fondamentale dell'ambiente nel determinare la disabilità. Questo non è qualche cosa che capita solo a una minoranza, ma può capitare a chiunque.
L'ICF quindi è uno strumento di riferimento per il mainstreaming dell'esperienza di disabilità e la riconosce come una esperienza umana universale. La Classificazione ICF rappresenta una autentica rivoluzione nella definizione e quindi nella percezione della salute e della disabilità, ed è estremamente importante il fatto che, evidenziando l'importanza di un approccio integrato, per la prima volta, si tiene conto dei fattori ambientali, classificandoli in maniera sistematica. La nuova classificazione prende infatti in considerazione gli aspetti contestuali della persona, e permette la correlazione fra stato di salute e ambiente arrivando cosi alla definizione di disabilità come: una condizione di salute in un ambiente sfavorevole.
Il "Progetto ICF in Italia" del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali Italiano ha inteso l’ICF da classificazione di funzionamento, disabilità e salute a strumento per sviluppo di politiche di welfare e propone di avviare un'azione sperimentale di stimolo, affinché nell'arco di alcuni anni, il più ampio numero di persone che operano nel settore della disabilità sia formato ad una diversa cultura e filosofia della disabilità, e quindi all'uso ed ai vantaggi della nuova classificazione dell'OMS e degli strumenti ad essa collegati. Accettare la filosofia dell'ICF vuol dire considerare la disabilità un problema che non riguarda i singoli cittadini che ne sono colpiti e le loro famiglie ma, piuttosto, un impegno di tutta la comunità, e delle istituzioni innanzitutto, che richiede uno sforzo ed una collaborazione multi-settoriale integrata.
Il modello di salute e di disabilità proposto dall'ICF è, infatti, un modello biopsicosociale che coinvolge, quindi, tutti gli ambiti di intervento delle politiche pubbliche e, in particolar modo, le politiche di welfare, la salute, l'educazione e il lavoro. Solo dalla collaborazione intersettoriale e da un approccio integrato è possibile, pertanto, individuare soluzioni che diminuiscano la disabilità di una popolazione.
La II Conferenza Nazionale sulla Disabilità svoltasi a Bari nel Febbraio 2003 ha chiaramente identificato nell'ICF lo strumento di riferimento per lo sviluppo di azioni nell'ambito della disabilità in Italia.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, attraverso il progetto sperimentale "ICF in Italia: ICF e Politiche del lavoro", affidato per la parte esecutiva ad Italia Lavoro, intende promuovere l'utilizzo della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell'OMS, l'ICF, nell'ambito delle proprie competenze e dei propri ambiti. Nell'ambito del "Progetto ICF in Italia" il progetto "ICF e Politiche del lavoro" rappresenti la prima serie di azioni, di tipo sperimentale, e riguarda il complesso settore delle Politiche del Lavoro, con particolare riferimento al ruolo svolto dai Servizi per l'Impiego per l'inserimento lavorativo delle persone con disabilità. In seguito, le esperienze maturate potranno essere capitalizzate e diffuse verso altri settori interessati all'utilizzo della nuova classificazione come il Ministero della Salute, il Ministero dell'Istruzione e Ricerca scientifica, Regioni ecc.
Sarà possibile utilizzare l'ICF per avviare le attività di raccolta di dati sulla salute e disabilità della popolazione usando criteri comuni e comparabili in maniera interdisciplinare. Inoltre, si favorirà lo scambio di informazioni e, quindi, una migliore comunicazione tra operatori con background differente su temi diversi di salute e disabilità.
Sviluppando una formazione sull'ICF usufruibile da tutti, e rispondendo così ad una crescente richiesta che proviene dai settori più diversi della realtà italiana, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali inoltre garantirà lo sviluppo di una corretta applicazione della Classificazione in Italia. Il "Progetto ICF in Italia" è coordinato dal Ministero del Welfare.
La rete dei Centri Collaboratori dell'OMS nei diversi Paesi sarà informata sullo svolgimento dei lavori in Italia e l'OMS stesso riceverà dal Disability Italian Network, DIN, un rapporto regolare sullo sviluppo del lavoro in Italia.
Nell'ambito dei programmi di creazione di nuove e migliori opportunità di occupazione, Italia Lavoro nel corso del 2003 ha avviato una serie di azioni progettuali e di interventi informativi e formativi finalizzati a favorire l'inserimento lavorativo delle persone con disabilità con l'obiettivo di creare le condizioni affinché anche nel mercato del lavoro si sviluppi una cultura che consideri "normale" che una persona con disabilità possa vivere pienamente gli aspetti sociali della sua vita e possa quindi ottenere un posto di lavoro rispondente alle proprie aspettative, alle proprie competenze professionali e capacità funzionali e allo stesso tempo in grado di soddisfare le esigenze di inserimento produttivo di chi domanda lavoro.
La strategia di Italia Lavoro risponde agli obiettivi del legislatore che ha strutturato un impianto normativo che con la legge n. 68/1999 mira, attraverso la diffusione del concetto innovativo di "collocamento mirato", a promuovere una serie di comportamenti ed azioni che si pongono la finalità di collocare "la persona giusta al posto giusto".
La prima azione di rilievo è rappresentata dal progetto "ICF e Politiche del Lavoro" che intende promuovere la diffusione della nuova Classificazione Internazionale del Funzionamento, Disabilità e Salute (ICF) dell'Organizzazione Mondiale della Sanità nel settore delle politiche del lavoro, mediante interventi di sensibilizzazione, formazione, sperimentazione sul campo e comunicazione. L'obiettivo è duplice: da un lato, migliorare le condizioni di inserimento lavorativo mediante la diffusione di un metodo di valutazione della disabilità più attento e mirato all'individuazione delle capacità personali, anche in relazione alle diverse condizioni sociali ed ambientali; dall'altro, sperimentare l'utilizzo della classificazione in un campo specifico ed offrire, a livello nazionale ed internazionale, spunti e suggerimenti per eventuali azioni successive, anche in settori diversi. In gioco c'è l'aspettativa di 500.000 persone con disabilità iscritte allo specifico elenco ed in cerca di una occupazione produttiva e finalmente in grado di coniugare competenze professionali e capacità funzionali.  
Il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali italiano con il progetto "ICF in Italia" intende promuovere, nell'ambito delle proprie competenze istituzionali, l'utilizzo della ICF.
Nel 2003, in occasione dell'apertura dell'Anno Europeo delle persone con disabilità, è stata più volte confermata l'esigenza di introdurre in Italia tale classificazione, quale moderno strumento di accertamento e valutazione della salute e della disabilità.
L'ICF è, infatti, in grado di valutare le performance e le abilità e di valorizzare le capacità personali delle persone con disabilità ed è in grado di misurare l'impatto dell'ambiente nel quale la persona con disabilità vive . Cosa è la disabilità? Risultato della interazione tra condizione di salute + fattori ambientali = DISABILITA’. Descritta a 3 livelli nell’ICF:
1.Corpo
2.Persona
3.Ambiente
L’ICF riconosce che ogni essere umano può avere un problema di salute e chiarisce il ruolo fondamentale dell’ambiente nel determinare la disabilità. Questo non è qualche cosa che capita solo a una minoranza, ma può capitare a chiunque.
L’ICF quindi è uno strumento di riferimento per il mainstreaming dell’esperienza di disabilità e la riconosce come una esperienza umana universale. Applicando la prospettiva descrittiva biopsicosociale (ICF):
1.      ogni persona si caratterizza per vari patterns di funzionamento,  determinati  dall’interazione dinamica tra fattori personali e fattori contestuali (modello bio-psico-sociale dell’ICF)
2.      descrivere le componenti del funzionamento
3.      descrivere le interazioni ambientali
4.      il problema si realizza  (o si risolve) nell’intersezione dei fattori
5.      gli interventi devono essere indirizzati a tutti i fattori in gioco
Le applicazioni dell’ICF riguardano:
      Statistica: demografia, studi su popolazioni, sistemi informativi.
      Ricerca: per misurare i risultati, la qualità della vita o i fattori ambientali.
      Clinica: assessment dei bisogni, valutazione dei risultati.
      Politica sociale: previdenza sociale, indennità, pianificazione di servizi.
      Formazione: incremento della consapevolezza e delle azioni sociali
La Classificazione ICF trova in Italia un contesto favorevole per una sua applicazione (background culturale, sensibilizzazione delle associazioni e di alcuni Ministeri, lavoro scientifico e di ricerca su ICF del DIN, legislazione nei settori scuola, lavoro, sociale e riabilitazione  ..) ma anche una serie di ostacoli legati a diversi fattori; mancano:
      Linguaggio comune
      Comparabilità dati
      Dati di salute e disabilità certi
      Modello di disabilità condiviso
      Percorso  unificato vita-scuola -lavoro
      Definizioni NON a priori
      Applicazione leggi  esistenti (328- cura/care e percorso individ.)
      Risposta uniforme del sistema alla stessa richietsa
      Il rispetto della condizione umana
      I servizi o  La ricomposizione dei servizi
      Le risorse economiche
      Le risorse umane
      La competenza professionale
      Saper esprimere i bisogni ( cosa chiedere, come chiedere)
      Rappresentanza completa
      Saper leggere i segnali di crisi
      Usare il Funzionamento ( functioning) per definire.
In particolare, nel settore delle politiche del lavoro, l'approccio globale di valutazione dell'ambiente e delle abilità e potenzialità della persona, garantisce l'identità di ciascuno rispetto al lavoro.
Per altro, in sede comunitaria, sia nei documenti approvati dedicati alle tematiche della disabilità che nella Strategia europea per l'occupazione, l'esclusione dal mercato del lavoro delle persone con disabilità è indicata tra le condizioni più gravi da contrastare, anche attraverso la comprensione dei diritti, dei bisogni e delle potenzialità delle persone disabili, e migliorando le conoscenze sulle tematiche della disabilità.
Maroni ha voluto sottolineare l'impegno del nostro Paese, ed in particolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nell'anno 2003, anche con l'avvio di questo progetto sperimentale volto ad introdurre la nuova classificazione ICF con il fine di elaborare nuove e più efficaci modalità e procedure per l'accertamento della disabilità e per valutarne l'impatto sui processi di inclusione sociale, a partire dalle procedure previste dalla normativa italiana per l'accertamento della disabilità ai fini del collocamento delle persone disabili. Il Ministro auspica che tale iniziativa possa contribuire a diffondere una nuova cultura della disabilità in Italia ed in Europa, per il pieno godimento dei diritti e delle opportunità e l'eliminazione degli ostacoli che ancora oggi si frappongono alla reale integrazione delle persone con disabilità nella vita dell'Unione. 
Si tratta di una vera e propria svolta epocale, in quanto l'ICF sostituisce la vecchia classificazione ICIDH del 1980 - della quale costituisce la radicale revisione - ed è il frutto del lavoro di oltre sette anni, accettato da 191 Paesi come nuovo standard internazionale per misurare e classificare salute e disabilità. L'Italia è stata tra i 65 Paesi che hanno contribuito alla sua creazione.
"Il governo italiano - conferma Matilde Leonardi, Editor dell'edizione italiana dell'ICF - è stato tra quelli che hanno espresso parere favorevole all'approvazione del nuovo strumento da parte dell'Assemblea Mondiale della Sanità nel maggio del 2001. La prima Consensus Conference italiana, uno dei momenti di revisione e validazione della classificazione richiesti dall'OMS a tutti i centri partecipanti al lavoro, si è tenuta a Udine nel dicembre del 1998 e da allora l'Agenzia Regionale della Sanità del Friuli Venezia Giulia, previo accordo con l'OMS, si è presa l'onere - e l'onore - di coordinare i lavori per l'Italia, ciò che motiva anche la scelta di Trieste quale sede della presentazione ufficiale per il nostro Paese. In seguito a quel momento, si è costituito, in maniera volontaria e spontanea, quello che poi è stato chiamato il DIN - Disability Italian Network - che nel corso dei mesi ha coinvolto sempre più persone provenienti da ogni parte d'Italia. Ho trovato personalmente straordinario che i partecipanti del DIN provengano dai settori e dalle situazioni più diverse. Università, IRCCS, Ospedali, organizzazioni di disabili, centri pubblici e privati di riabilitazione, singoli ricercatori di aree diverse, dalla fisioterapia alla statistica, amministrativi e politici, funzionari del Ministero della Sanità e soprattutto persone con diverse condizioni di salute e le loro famiglie, tutti hanno contribuito al processo di revisione e validazione dell'ICF e l'Agenzia della Sanità ha elaborato e portato i risultati della sperimentazione italiana all'OMS" .
Ma perché è il caso di parlare di una vera e propria svolta epocale e prima ancora, quali sono state le esigenze principali da cui è nato questo lungo lavoro di revisione?
"L'ICF - ha dichiarato con chiarezza e semplicità Gro Harlem Bruntland, Direttore Generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità in una intervista pubblicata sul sito web del DIN- intende descrivere ciò che una persona malata o in qualunque condizione di salute può fare e non ciò che non può fare. La chiave, infatti, non è più la disabilità, ma la salute e le capacità residue. In altre parole si può dire che mentre prima quando incominciava la disabilità, la salute finiva o anche che quando una persona era disabile, si trovava automaticamente in una “categoria separata” (letteralmente etichettata come disabled), oggi, con l'ICF, abbiamo voluto elaborare uno strumento che rovesci quasi radicalmente questo modo di pensare, misurando le “capacità sociali”. Uno strumento molto più versatile, con un ventaglio assai più ampio di applicazioni possibili che non una classificazione tradizionale. Insomma, si tratta quasi di una “rivoluzione culturale”, che passa dall'enfatizzazione della disabilità a quella della salute delle persone". 
"Altro particolare molto importante - segnala Matilde Leonardi - va rilevato nel fatto che l'ICF, riguardando la salute e le condizioni di essa, non “classifica le persone”, ma riguarda veramente tutti, poiché ciascuno di noi, in un contesto ambientale sfavorevole o a fronte di qualche difficoltà, può venire a trovarsi in una condizione di salute che lo renda “disabile”. Ci sono milioni di persone che soffrono a causa di una condizione di salute che, in un ambiente sfavorevole, diventa disabilità. Usare un linguaggio comune e cercare di affrontare i problemi della salute e della disabilità in maniera multidisciplinare può essere certamente un primo passo per cercare di diminuire gli anni di vita persi a causa della disabilità. Non più dunque punteggi e graduatorie per la misurazione della minorazione fisica o psichica, ai fini dell'erogazione di sussidi assistenziali, bensì classificazione della salute e di tutte le condizioni ad essa correlate, tenendo in considerazione anche il contesto ambientale (familiare, sociale, economico, lavorativo) dei soggetti interessati".
Un classificatore della salute, quindi, ma in parallelo anche della qualità della vita. "Mentre gli indicatori tradizionali si basavano sul tasso di mortalità, l'ICF pone come centrale proprio la qualità della vita nelle persone affette da patologie o menomazioni, prendendo in considerazione esattamente gli aspetti sociali della disabilità, con la correlazione fra stato di salute e ambiente: “come le persone convivono con la propria condizione e come è possibile migliorare questa condizione per poter vivere un'esistenza il più possibile produttiva e serena”.
A giudicare da quanto ci viene detto, sembra perciò di trovarsi di fronte ad un formidabile strumento di lavoro, base ideale per le future politiche sanitarie della stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. Secondo Gro Harlem Bruntland – “è necessaria una premessa generale. Per troppi anni gli investimenti nella salute sono stati visti, da parte di molti economisti, quasi come un lusso che solo i Paesi sviluppati, dopo aver raggiunto un alto livello di redditi, avrebbero potuto permettersi di attuare. Personalmente, invece, sono sempre stata convinta del contrario, ovvero che proprio una popolazione in salute può essere il prerequisito per una crescita dei redditi! Abbiamo quindi messo intorno a un tavolo, per alcuni anni, numerosi tra i principali economisti da una parte ed esperti della sanità dall'altra, per far sì che trovassero assieme una linea comune di lavoro. Ebbene, alla fine sono arrivati a una semplice conclusione, ovvero che le malattie sono un freno allo sviluppo, mentre gli investimenti nella salute possono essere un input concreto per la crescita economica. L'ICF nasce proprio da queste linee teoriche e credo che i suoi standard potranno costituire la base fondamentale per i futuri investimenti nella sanità, in tutto il mondo. Potrà innanzitutto far tratteggiare il quadro preciso della salute, misurando poi l'efficacia delle varie politiche e i miglioramenti eventualmente originati da queste ultime".
"L'ICF - aggiunge come particolare non secondario Leonardi - pone tutte le patologie sullo stesso piano, indipendentemente dalla loro causa. Se infatti una persona, per un motivo di salute, non riesce a lavorare, ha poca importanza che la causa sia di origine fisica, psichica o sensoriale. Occorre invece intervenire sul contesto sociale, costituendo una rete di servizi di qualità che consentano di fatto di ridurre la disabilità".
Ecco quindi ben precisato un altro tassello che supera radicalmente i vecchi concetti di classificazione dell'handicap. Ma quali elementi possono garantire che il nuovo ICF sarà inteso allo stesso modo in tutto il mondo, al di là delle diverse culture? "L'ICF - afferma Bruntland - è stato il prodotto di un processo di consenso internazionale durato quasi un decennio, che ha coinvolto numerosissime componenti, tra le quali, in ogni sua fase, anche le persone disabili e varie Organizzazioni Non Governative. Esso è stato ampiamente testato sul campo per assicurarne l'applicabilità anche a livello transculturale, coinvolgendo addetti ai lavori della sanità, fornitori di servizi, uomini politici. La base di partenza perché quelle difficoltà si possano superare c'è quindi tutta!".
Per concludere, il cosiddetto messaggio chiave dell'ICF mette in una nuova luce lo stesso concetto di salute e di disabilità, riconoscendo che quest'ultima non è più la prerogativa di un gruppo a sè, ma che può coinvolgere ogni essere umano, colpito da una perdita più o meno grave (o più o meno temporanea) della propria salute. L'ICF codifica l'esperienza della disabilità, riconoscendola come universale, e nel suo spostare il fuoco dalla causa all'impatto, colloca tutte - ma proprio tutte - le condizioni di salute su un piede di parità, consentendone una comparazione, basata su un metro comune. Con ICF si è chiuso un percorso di redazione e ricerca di consenso a livello internazionale ma si è aperta al tempo stesso una nuova “stagione” culturale e scientifica.
I processi applicativi sono quindi appena cominciati. Gli operatori del Don Guanella che hanno frequentato questa serie di corsi di formazione, ricongiungibili tutti ad un unico evento itinerante “Etica, salute, spiritualità”, possono contribuire a questo processo inarrestabile di cambiamento. Nel presente contesto culturale vige l’immagine, pressoché universalmente condivisa, secondo cui la persona umana è centro di valori e di diritti. Come esiste però un pluralismo etico di cui occorre tenere conto, esiste anche una pluralità di concezioni antropologiche. La risposta alla domanda su “chi è persona?” è rilevante perché condiziona le logiche di inclusione ed esclusione nelle dinamiche di cura e di assistenza. Alla base del complesso rapporto fra dignità della vita e qualità della vita si riscontra spesso una separazione fra il concetto di vita personale e vita corporea, come se potesse esserci la prima senza la seconda. Così si assiste ad un cambiamento da un modello in cui l’esistenza dell’essere umano è considerata sacra, ad uno che fa dipendere il valore della vita dalle capacità possedute dal soggetto in un determinato momento. All’idea della vita come qualcosa di “dato” (da Dio o dalla natura) si contrappone quella della vita come “progetto” dell’uomo stesso, in cui si definisce quando e come nascere, quando e come morire, e si stabilisce se essa sia, o meno, degna di essere vissuta. La valutazione di questi modelli antropologici è incentrata sulla tesi secondo cui la dignità della persona è il fondamento adeguato per promuoverne la qualità della vita.
Padre Donato Cauzzo, Camilliano, segretario dell’Istituto Nazionale di Teologia Pastorale Sanitaria Camillianum di Roma ha tenuto, nella prime giornate di corso, l’intervento “Quale spiritualità nella quotidianità dell’assistenza” e nelle seconde giornate la relazione su “La condizione umana: salute, sofferenza e morte nel pensiero cristiano ”.
Nelle lezioni delle prime giornate di formazione Padre Cauzzo ci ha relazionato su cosa si intende per spiritualità: innanzitutto fa la distinzione tra spiritualità e religiosità.
      Spiritualità:
        * l’aspirazione a trovare un senso all’esistenza
        * l’insieme delle convinzioni e dei valori di una persona
        * la tensione alla trascendenza
      La dimensione spirituale è anteriore all’adesione a un credo religioso
      “Si può vivere senza aderire ad alcuna religione. La spiritualità appartiene a ciascuno di noi per il solo fatto di esistere” (Marie de Hennezel)
Non si soffre solo nel corpo o nella psiche, ma anche nello spirito  bisogni spirituali
      I bisogni spirituali si collocano nelle diverse aree della persona:
        * rapporto con se stessi
        * rapporto con gli altri
        * rapporto con il cosmo, la storia
        * dimensione trascendente, rapporto col divino
        * senso dell’esistenza
Ogni riflessione etica e la prassi assistenziale dipendono da come consideriamo la persona: Per il personalismo l’uomo è unità di corpo e spirito
Ä      “spirito incarnato” – “corpo spirituale”
La persona non è la semplice somma delle diverse parti che la compongono ma: unità di corpo + psiche + spirito
Ä      le parti collegate / interdipendenti
Ä      ogni parte influisce sulle altre
Nel discorso del Camilliano è fondamentale mettere la persona “al centro”: considerarla soggetto, partner della relazione terapeutica, capace di collaborare. Il relatore ha parlato di un modello terapeutico esemplare: Gesù di Nazareth
        * instaura relazioni personali, un dialogo tra uguali
        * non ha atteggiamenti di superiorità o paternalismo
        * non impone la sua presenza né la guarigione
        * suscita l’iniziativa del malato
        * lo toglie dall’isolamento, lo mette al centro della scena
        * rispetta la dignità e la privacy
        * coinvolge la famiglia
        * prende sul serio tutti – ogni situazione
Solidarietà e donazione sono due valori che rispettano la dimensione spirituale degli operatori e degli assistiti. Solidarietà è il rapporto di fratellanza che unisce i membri di una collettività e si manifesta con atti di reciproco aiuto:
      “È la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune” (Giovanni Paolo II)
      “Carità sociale” (Pio XII)
      Sul piano umano, deriva dalla pari dignità di tutti e dal rapporto di interdipendenza
      Sul piano cristiano, deriva dalla comune origine dall’unico Creatore, e dal principio di fraternità universale
      Destinatari privilegiati della solidarietà sono coloro che soffrono       
      La scelta di solidarietà di Gesù è preferenziale e concreta
      Alla radice della solidarietà c’è la compassione:
        * Uso improprio del termine
        * significato etimologico (da cum-patior )
        * sensibilità per saper interpretare le situazioni di bisogno
        * disponibilità a farsene carico, a “mettersi in gioco”
        * i pesi portati insieme sono più leggeri, le gioie condivise si moltiplicano
Nella domanda di salute, cresce la domanda di attenzione ai bisogni relazionali e “di senso”   
       Accanto a chi soffre: cosa posso fare ?  chi posso essere per lui ?
       La categoria del dono di sé unisce le qualità dell’essere e del fare
       L’attività assistenziale non si riduce a “prestazioni” ma coinvolge l’intera persona dell’operatore
       Ne derivano: migliore risposta ai bisogni degli assistiti + più soddisfazione e realizzazione di sé per gli operatori
      Il bisogno di relazioni significative, anche per chi assiste
      La dimensione relazionale criterio di qualità dell’assistenza (cf. Piano sanitario nazionale 1998-2000)
      Le virtù relazionali:
        * disponibilità a lasciarsi interpellare
        * l’ascolto
        * trasmettere interesse e calore
        * il rispetto per ogni malato
        * l’empatia
        * ottimismo e serenità
      L’attenzione ai bisogni religiosi (con discrezione e rispetto)
Concludendo il discorso sulla spiritualità cristiana, Padre Donato la definisce come l’esperienza di vita di chi mette in pratica l’insegnamento di Cristo. Ha illustrato i diversi modi di vivere l’unica spiritualità cristiana nelle diverse epoche storiche, nelle diverse forme di vita, sottolineando un aspetto particolare del Vangelo.
La spiritualità è caratteristica che nasce da un fondatore e dalla famiglia religiosa da lui fondata; Qual è il primo comandamento? La “scoperta” di Dio-Amore e la relazione di figliolanza; tutti suoi figli, quindi fratelli tra noi – “consanguinei”. L’amore a Dio + l’amore al prossimo: la linea verticale e la linea orizzontale - Coessenzialità di entrambe le dimensioni. L’amore al prossimo: concreto ed esigente
L’amore al prossimo è la via più breve per arrivare a Dio, è banco di prova e di credibilità della fede. E’ uno “sguardo” da educare, da seguire come le indicazioni della parabola del samaritano: amare tutti – amare per primi – amare in concreto –amare fino in fondo – amare comunitariamente.
L’assistenza è sempre un rapporto tra persone con  un grado maggiore o minore di autonomia. L’autonomia, però, si afferma e si rafforza sempre in legami di dipendenza: pertanto, l’idea che una relazione di dipendenza sia lesiva della dignità della persona nasce da una concezione irreale dell’autonomia stessa. Non è la dipendenza, dunque, ad essere un problema, ma il modo in cui essa viene realizzata tenendo conto, o meno, della dignità della persona umana in ogni condizione o stadio della sua esistenza. Le tematiche trattate da padre Donato  vogliono essere una risposta agli interrogativi che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è posto, poiché:
       Domandare sulla salute significa domandare sull’uomo
       « Malattia e sofferenza sono fenomeni che non riguardano soltanto il corpo, ma tutto l’uomo e pongono interrogativi sull’essenza della condizione umana » (Giovanni Paolo II)
       Restituire alla salute e all’azione terapeutica il valore simbolico di “rimandi” al valore integrale della vita e della persona e alla salus
-       esemplarità dell’impegno professionale
-       la salute non è il fine ultimo della vita, ma un mezzo
-       la persona conserva la sua dignità anche in mancanza di salute
-       alleanza terapeutica tra chi chiede e chi dona salute
-       la salvezza offerta da Cristo orizzonte ultimo della salute e della vita
L’esperienza umana della sofferenza è un dato fondamentale e universale della condizione umana, inseparabile dalla vita; « Una sorte penosa è disposta per ogni uomo… » (Siracide). La sofferenza è un’esperienza personale e ognuno la vive “solo”. « Ognuno sta solo sul cuor della terra … Ed è subito sera » (S. Quasimodo)
Le reazioni dipendono da una varietà di fattori: oggettivi, personali, ambientali. Decisivo è il significato che vi si attribuisce: « Chi ha un perché per vivere può affrontare quasi ogni come »  (F. Nietzsche)
Il Padre Camilliano ha relazionato su Sofferenza e morte alla luce dell’esperienza di Gesù Cristo: Il Dio di Gesù Cristo: “Uno di noi” - « L’amore è la fonte più ricca del senso della sofferenza. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa scoprire il perché » (Giovanni Paolo II, SD 13)
- Nei vangeli nessun discorso di “spiegazione” del dolore e del male, né inviti alla rassegnazione – la risposta nell’esperienza vissuta da Gesù fino al “culmine”
- Nel Figlio, Dio è partecipe della nostra condizione umana
- Due tappe: nella prima parte del vangelo Gesù appare come portatore di gioia e di liberazione dal male – nella seconda è il servo umiliato che va incontro liberamente alla sua “ora” e soffre e muore in croce.
Anche il modo in cui ha sofferto Gesù è esemplare e ci dimostra come Egli non ha sofferto tutti i dolori, ma le reazioni e i sentimenti che essi provocano; non ha cercato la sofferenza, ma ha lottato contro di essa. Quando è apparsa inevitabile, l’ha affrontata come uno di noi, in maniera pienamente umana, ma: nell’amore; le parole del Getsemani e del Calvario: parole di umanità – di accoglienza e perdono – di fiducia in Dio. Altri nodi fondamentali del discorso sono stati:
       Gesù non ha “spiegato” la sofferenza: l’ha vissuta dal di dentro, svuotandola della sua assurdità, vivendola “per amore”
       Gesù è stato trasformato dalla sofferenza, e ha trasformato la sofferenza in “via” alla gloria
       Due insegnamenti:
       combattere il dolore e soccorrere chi ne è colpito
       accettare la sofferenza ineliminabile e il limite della morte
       Alla ricerca di senso: « Smettere di chiedersi: “perché?”. Interro-garsi piuttosto su: “a quale scopo, verso dove?” (M. de Hennezel)
       Opportunità di crescita – provocazione – purificazione – ruolo educativo – revisione dell’immagine di Dio – scuola per i sani
       Sofferenza e morte non sono le ultime parole dell’esistenza
Volendo concludere con le parole che il prof. Pessina ha pronunciato nella sua prima relazione “L’assenza di pensiero non si identifica con la stupidità: si può incontrarla in persone di intelligenza elevata e un cuore malvagio non ne costituisce la causa: è vero probabilmente il contrario, che la malvagità può essere causata dall’assenza di pensiero.  Nel prendersi cura degli altri emerge il vero problema della relazionalità: nessuno può aiutare gli altri se non si è riconciliato in se stesso con la sua condizione di mortale, di possibile sofferente, di uomo. La paura “per noi” rischia di condizionare sotto le spoglie dell’altruismo una schietta dedizione per l’altro. La prima forma di malvagità è l’indifferenza nella quotidianità. La qualità dell’assistenza dipende dalla qualità umana del nostro farci carico degli altri ma non si può cogliere l’umanità altrui se si è inaridita la nostra. Quando si è amici, non c’è alcun bisogno di giustizia, mentre, quando si è giusti, c’è ancora bisogno di amicizia ed il più alto livello della giustizia si ritiene che consista in un atteggiamento di amicizia (Aristotele, Etica Nicomachea).

Crediti assegnati negli eventi formativi dell’educazione continua in medicina: obblighi ed esenzioni   per professioni socio-sanitarie
L’ECM è l’acronimo di Educazione Continua in Medicina; è un obbligo recente per i professionisti operanti nel settore socio sanitario; gli articoli 16-bis e 16-ter del decreto legislativo 502 prevedono, in generale, l’obbligo formativo per tutti gli “operatori sanitari”.
Sono necessarie, però, alcune precisazioni in merito alle diverse  situazioni professionali. Sul sito web del Ministero della Salute sono pubblicate una serie di faq (domande frequenti). A partire dal 2002, anno in cui inizia la fase a regime del Programma nazionale di E.C.M., è obbligatoria la formazione continua. E' esonerato dall'obbligo dell'E.C.M. il personale sanitario che frequenta, in Italia o all'estero, corsi di formazione post-base propri della categoria di appartenenza (corso di specializzazione, dottorato di ricerca, master, corso di perfezionamento scientifico e laurea specialistica), previsti e disciplinati dal Decreto del MURST del 3 novembre 1999, n. 509, pubblicato nella G.U. n. 2 del 4 gennaio 2000; corso di formazione specifica in medicina generale, di cui al Decreto Legislativo 17 agosto 1999, n. 368, emanato in attuazione della Direttiva 93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli; formazione complementare es. corsi effettuati ai sensi dell’art. 66 “Idoneità all’esercizio dell’attività di emergenza” di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 28 luglio 2000 n. 270, Regolamento di esecuzione dell’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale; corsi di formazione e di aggiornamento professionale svolti ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera d) “Piano di interventi contro l’AIDS” di cui alla Legge 5 giugno 1990, n. 135, pubblicata nella G.U. n. 132 dell’8 giugno 1990) per tutto il periodo di formazione (anno di frequenza). Sono esonerati, altresì, dall’obbligo E.C.M. i soggetti che usufruiscono delle disposizioni in materia di tutela della gravidanza di cui alla legge 30 dicembre 1971, n. 1204, e successive modificazioni, nonché in materia di adempimento del servizio militare di cui alla legge 24 dicembre 1986, n. 958, e successive modificazioni, per tutto il periodo (anno di riferimento) in cui usufruiscono o sono assoggettati alle predette disposizioni. 
Alcune Associazioni professionali di operatori sanitari hanno chiesto alla Segreteria della Commissione nazionale ECM conferma dell’obbligatorietà del Programma ECM per i liberi professionisti, facendo riferimento alle considerazioni svolte dal TAR Lazio nella sentenza n. 14062/2004 del 18 novembre 2004 che ha rigettato il ricorso proposto dalla FIMMG avverso il decreto del Ministro della salute 31 maggio 2004.
Le perplessità sulla obbligatorietà dell’ECM per i liberi professionisti sono derivate dal fatto che il TAR Lazio ha sentenziato che “per una migliore comprensione dei fatti in causa L’ECM si rende  obbligatoria solo per i sanitari dipendenti dagli enti del SSN, o per quelli che con esso collaborano in regime di convenzione o d’accreditamento”; infatti i costi di aggiornamento e formazione sono a carico del servizio sanitario nazionale.
Viceversa, per i professionisti, che erogano prestazioni sanitarie non coperte dal SSN, il controllo della prestazione connesso alla formazione e all’aggiornamento è rimesso, oltre che al mercato (ossia all’apprezzamento, o meno, del cliente-paziente), agli Ordini ed ai Collegi professionali, quindi per questa categoria l’ECM rappresenta un onere, non un obbligo”.
Il TAR Lazio non ha affrontato il problema dell’obbligatorietà o meno dell’ECM per i liberi professionisti  ma si è limitato a svolgere alcune considerazioni sugli articoli 16-bis e 16-ter del decreto legislativo 502/92, e successive modificazioni, al fine di “chiarire per sommi capi il quadro fattuale e normativo di riferimento del DM impugnato”.
Da una parte, non è sostenibile l’interpretazione della obbligatorietà o meno dell’ECM basata sulla diversa attribuzione dei costi dell’ECM fra dipendenti/convenzionati e liberi professionisti, in quanto, per il personale dipendente e convenzionato, il S.S.N. si accolla, solo in alcuni casi e solo in parte, i costi dell’ECM. Infatti gli accordi, sanciti dalla Conferenza Stato-Regioni, hanno previsto che i costi delle attività formative possono gravare sulle risorse per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale … solo entro il limite costituito dall’importo complessivo medio di spesa annualmente registrata nel triennio 2001/2003 per interventi formativi nel campo sanitario nelle singole Regioni. 
La Formazione continua è, infatti, un requisito essenziale per il corretto esercizio professionale, ossia per il mantenimento nel tempo dell’abilitazione all’esercizio professionale di ciascun operatore sanitario; in quanto tale, deve essere necessariamente obbligatoria per tutti i professionisti e richiedere regole e garanzie uniformi su tutto il territorio nazionale. Regole e garanzie che sempre di più saranno comuni a tutti i Paesi dell’Unione europea.
La verifica periodica dell’abilitazione professionale, ossia la verifica del mantenimento di adeguati livelli di conoscenze professionali e del miglioramento delle competenze proprie del profilo di appartenenza, è possibile attraverso vari strumenti. L’ECM è, allo stato, l’unico strumento preordinato all’aggiornamento professionale ed alla formazione permanente per tutti i professionisti della salute che consente la verifica periodica del mantenimento dell’abilitazione professionale. Ovviamente saranno necessarie ulteriori specifiche disposizioni legislative in materia. Si rileva comunque che il d.d.l. governativo sulle professioni sanitarie non mediche (A.C. 3236) già prevede al riguardo che “l’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria non medica è sottoposta a verifica periodica con modalità identiche a quelle previste per la professione medica”. In tale prospettiva il Piano Sanitario 2003/2005, approvato con D.P.R. 23 maggio 2003, ha confermato chiaramente l’obbligatorietà della formazione continua per tutti i professionisti della salute. Il Piano sanitario, facendo riferimento al Programma ECM, fra i dieci progetti proposti per il cambiamento, prevede, infatti, quello di “realizzare una formazione permanente di alto livello in medicina e sanità” e, al riguardo, afferma che “elemento caratterizzante del programma è la sua estensione a tutte le professioni sanitarie”. E' possibile acquisire crediti ECM partecipando in qualità di docente o relatore ad un evento o ad un progetto formativo aziendale accreditato. Infatti i docenti/relatori hanno diritto, previa richiesta all'organizzatore, a 2 crediti formativi per ogni ora effettiva di docenza in eventi o progetti formativi aziendali accreditati ECM, entro il limite del 50% di crediti formativi da acquisire nel corso dell’anno solare (per il 2002 massimo 5 crediti riferiti ad attività di docenza). I crediti possono essere acquisiti in considerazione esclusivamente delle ore effettive di lezione; i crediti non possono, cioè, essere frazionati o aumentati in ragione dell’impegno inferiore o superiore ai sessanta minuti di lezione (es. un’ora o un’ora e trenta minuti di lezione danno diritto a due crediti formativi; le lezioni di durata inferiore a sessanta minuti non possono essere prese in considerazione, né possono cumularsi frazioni di ora per docenze effettuate in eventi diversi).
I docenti/relatori possono conseguire solo i predetti crediti ECM: non possono conseguire i crediti formativi in qualità di partecipanti ad eventi nei quali effettuano attività di docenza. Per ciò che concerne le assenze, ai fini dell’acquisizione dei crediti formativi ECM, è necessaria la presenza degli operatori sanitari interessati effettiva del 100% rispetto alla durata complessiva dell’evento formativo residenziale, mentre, ai sensi dell’art.1, comma 4, del D.M. 27/12 /2001 la presenza effettiva degli operatori sanitari interessati al progetto formativo aziendale è del 90%. Nei particolari casi di assenza brevissima sarà cura dell’Organizzatore valutarne la giustificazione e l’incidenza dell’assenza sull’apprendimento finale essendo unico responsabile dell’evento residenziale o del progetto formativo aziendale.
Quando l’organizzatore richiede l’accreditamento di un evento formativo destinato a più professioni, di fatto richiede più accreditamenti per ciascuna delle professioni coinvolte. Le valutazioni di questi eventi formativi sono attribuite automaticamente da esperti che sono competenti per la professione e per la disciplina indicata dall’organizzatore.
Gli esperti, relativamente alla professione di riferimento, valutano quanto e se è coerente: l’obiettivo formativo, il percorso didattico, i docenti che insegnano in relazione all’argomento trattato e la sua ricaduta sulla specifica professione.
E’ possibile che quello che vale per una professione possa non avere lo stesso valore culturale scientifico per un’altra professione. Ciò provoca valutazioni diverse di uno stesso evento.
In generale lo stesso evento formativo destinato a più di una professione può avere per le varie professioni coinvolte crediti uguali o diversi, anche se di pochi crediti. Ricordando che è esonerato dall'obbligo dell'E.C.M. il personale sanitario che frequenta, in Italia o all'estero, corsi di formazione post-base propri della categoria di appartenenza, sono esenti anche i soggetti che usufruiscono delle disposizioni in materia di tutela della gravidanza di cui alla legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (astensione obbligatoria), e successive modificazioni; i soggetti che usufruiscono delle disposizioni in materia di adempimento del servizio militare di cui alla legge 24 dicembre 1986, n. 958, e successive modificazioni. Naturalmente occorre conservare la documentazione comprovante la facoltà della fruizione dell'esonero, data l'impossibilità di frequentare i corsi.
L'esonero dall'obbligo di acquisire i crediti è valido per tutto il periodo (anno di riferimento) in cui i soggetti interessati usufruiscono o sono assoggettati alle predette disposizioni. Occorre specificare che nel caso in cui il periodo di assenza dal lavoro ricadesse a cavallo di due anni, l'anno di validità per l'esenzione dai crediti sarà quello in cui il periodo di assenza risulta maggiore. Ad esempio: se l'astensione obbligatoria cade nel periodo da settembre 2003 a gennaio 2004, l'esenzione dall'obbligo di acquisire i crediti sarà valida esclusivamente per l'anno 2003, ossia per l'anno 2003 non si devono acquisire i crediti.
Eventuali crediti percepiti nell'anno di esenzione non possono essere portati in detrazione per l'anno successivo, in quanto vengono assorbiti dal diritto di esonero vantato dall'operatore per le tipologie indicate precedentemente.
In conclusione, il Programma ECM deve ritenersi obbligatorio per tutti gli operatori sanitari dipendenti, convenzionati o liberi professionisti; tutte le figure del ruolo sanitario, indicate genericamente come "operatori della Sanità", comprendono: Medico chirurgo, Veterinario, Odontoiatra, Farmacista, Biologo, Chimico, Fisico, Psicologo, Assistente sanitario, Dietista, Educatore professionale, Fisioterapista, Igienista dentale, Infermiere, Infermiere pediatrico, Logopedista, Ortottista/Assistente di oftalmologia, Ostetrica/o Podologo, Tecnico della riabilitazione psichiatrica, Tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare, Tecnico audiometrista, Tecnico audioprotesista, Tecnico della prevenzione nell'ambiente e nei luoghi di lavoro, Tecnico di neurofisiopatologia, Tecnico ortopedico, Tecnico sanitario di laboratorio biomedico, Tecnico sanitario di radiologia medica, Terapista della neuro e psicomotricità dell'età evolutiva, Terapista occupazionale, Ottico, Odontotecnico.
L'attestato di partecipazione all'evento formativo o al PFA, dopo il preliminare controllo dei dati ivi riportati quali l'organizzatore, l'evento e la professione, deve essere scrupolosamente conservato dall'interessato ai fini della successiva verifica dell'aggiornamento effettuato, da parte delle Istituzioni (Regioni, Aziende Ospedaliere, Ordini e Collegi) che saranno successivamente rese note sul sito a cura della Segreteria della Commissione
Chi si reca per un lungo periodo all’estero, per giustificati motivi (per esempio legge N. 26 dell’11 febbraio 1980) o per attività lavorative svolte, ed è un operatore sanitario, avente obbligo ECM ne viene esonerato. Tale esonero dall'obbligo di acquisire i crediti è valido per tutto il periodo (anno di riferimento) in cui i soggetti interessati usufruiscono o sono assoggettati alle predette disposizioni.
Occorre specificare che nel caso in cui il periodo di assenza dal lavoro ricadesse a cavallo di due anni, l'anno di validità per l'esenzione dai crediti sarà quello in cui il periodo di assenza risulta maggiore.
Il debito formativo decorre dall'anno successivo a quello di conseguimento del titolo e dell'iscrizione all'Albo o al Collegio di riferimento. Se la data di iscrizione all'Albo professionale non è immediatamente successiva alla data del conseguimento del titolo abilitante, è comunque legittimo ritenere l'obbligo formativo vigente dall'anno successivo a quello di iscrizione.
Eventuali crediti percepiti nell'anno di esenzione non possono essere portati in detrazione per l'anno successivo, in quanto vengono assorbiti dal diritto di esonero vantato dall'operatore. I crediti per il primo quinquennio sono stati fissati in complessivi 150 crediti, con un obbligo progressivo di crediti da 10 per il primo anno fino a 50 per il quinto anno (10-20-30-30-50) con un minimo annuale di almeno il 50% del debito formativo previsto per l'anno e con un massimo annuale del doppio del credito formativo previsto per l'anno. Il numero dei crediti da conseguire ogni anno e nel quinquennio è uguale per tutte le categorie.
Alla luce di tale premessa, la Commissione ha ritenuto opportuno prevedere una progressione nel numero di crediti acquisibili annualmente secondo il programma quinquennale così definito :  2002 : 10 crediti (con un minimo di 5 ed un massimo di 20); 2003 : 20 crediti (con un minimo di 10 ed un massimo di 40); 2004 : 30 crediti (con un minimo di 15 ed un massimo di 60); 2005 : 30 crediti (con un minimo di 15 ed un massimo di 60); 2006 : 50 crediti (con un minimo di 25 ed un massimo di 100).
Pertanto, per l'anno 2004, chi ha conseguito 15 crediti (il minimo previsto), potrà recuperare gli ulteriori 15 nel corso dell'anno 2005; mentre chi ne ha ottenuti fino a 60 (il massimo previsto), potrà utilizzare i crediti in esubero per l'anno 2005.
Per ciò che concerne la progettazione di un evento formativo ECM possiamo affermare che funziona come la progettazione tradizionale anche se più facilitata dal fatto che la stesura finale del progetto avviene telematicamente attraverso un accesso controllato sul sito del ministero della Salute oppure sui siti regionali allo scopo deputati. Infatti dopo l’accesso sul sito si chiede al gestore un numero identificativo e una password che permetteranno gli accessi successivi con la possibilità di validare i contenuti attraverso una procedura particolare che si serve di schermate susseguenti.
Molti siti non sono perfetti, come ad esempio quello del ministero della salute, e non danno la possibilità di trattenere i dati in memoria senza valicarli; ciò significa che il progettista, se non riesce ad inserire il proprio lavoro in una unica soluzione, è costretto a ricominciare daccapo come se non avesse fatto nulla. Il sito della regione Veneto, invece, è fatto molto bene, si serve di schermate molto semplici e da la possibilità di salvare il lavoro fino al punto in cui interessa, dando la possibilità di riprendere o modificare all’accesso successivo. Il progettista, inoltre, ha a disposizione la possibilità di consultare guide in linea o scaricarne l’equivalente in formato cartaceo assieme a moduli preordinati relativi ad autocertificazioni, schede docenti, valutazione degli operatori, dichiarazioni di assenza d’incompatibilità con gli obiettivi nazionali, e quant’altro possa agevolare il lavoro organizzativo.
Obiettivo del corso è stato quello di aiutare gli operatori socio-sanitari ad affrontare le diverse problematiche che emergono nella relazione con persone bisognose di una cura protratta nel tempo e individuare le esigenze, non solo clinico-assistenziali, a cui un’etica della condizione umana deve dare risposta. Per far ciò risulta imprescindibile mettere in luce i fattori culturali che concorrono a formare la personalità dell’operatore stesso. Per questo motivo si sono affrontati anche i cambiamenti verificatisi all’interno della medicina e della società che condizionano forme di assistenza alla persona. L’idea di una riflessione etica sulla condizione umana nasce dall’esigenza di valorizzare la dignità della persona, sia dell’operatore sia dell’assistito.

1 – La bioetica come sfondo culturale delle nuove prassi assistenziali
Il problema dell’assistenza non può essere pensato a prescindere dal contesto storico sociale in cui si pone. Una riflessione sull’etica della condizione umana deve in tal senso tener conto di una ormai diffusa disomogeneità nelle valutazioni morali che, problematicamente, porta a ritenere il pluralismo etico non solo un fatto, ma anche un valore. La bioetica diviene così un riferimento importante quando cerca  di salvaguardare la pluralità dei valori riconoscendo, nello stesso tempo, l’unicità della morale. Essa aiuta anche a comprendere i cambiamenti inerenti alle relazioni di cura. Da un lato il rapporto tra medico e paziente tende ad assumere una forma contrattuale e, quindi, potenzialmente conflittuale, dall’altro il passaggio dalle cure intensive a quelle estensive modifica profondamente i tempi e le relazioni di assistenza. La bioetica si evidenzia, in questo senso, come una disciplina capace di cogliere e valutare i cambiamenti inerenti alla realtà culturale che fanno da sfondo alle nuove prassi assistenziali.

2 – Dignità della persona e qualità della vita
Nel presente contesto culturale vige l’immagine, pressoché universalmente condivisa, secondo cui la persona umana è centro di valori e di diritti. Come esiste però un pluralismo etico di cui occorre tenere conto, esiste anche una pluralità di concezioni antropologiche. La risposta alla domanda su “chi è persona?” è rilevante perché condiziona le logiche di inclusione ed esclusione nelle dinamiche di cura e di assistenza. Alla base del complesso rapporto fra dignità della vita e qualità della vita si riscontra spesso una separazione fra il concetto di vita personale e vita corporea, come se potesse esserci la prima senza la seconda. Così si assiste ad un cambiamento da un modello in cui l’esistenza dell’essere umano è considerata sacra, ad uno che fa dipendere il valore della vita dalle capacità possedute dal soggetto in un determinato momento. All’idea della vita come qualcosa di “dato” (da Dio o dalla natura) si contrappone quella della vita come “progetto” dell’uomo stesso, in cui si definisce quando e come nascere, quando e come morire, e si stabilisce se essa sia, o meno, degna di essere vissuta. La valutazione di questi modelli antropologici è incentrata sulla tesi secondo cui la dignità della persona è il fondamento adeguato per promuoverne la qualità della vita.

3 – Autonomia e dipendenza nella condizione umana
L’assistenza è sempre un rapporto tra persone con  un grado maggiore o minore di autonomia. L’autonomia, però, si afferma e si rafforza sempre in legami di dipendenza: pertanto, l’idea che una relazione di dipendenza sia lesiva della dignità della persona nasce da una concezione irreale dell’autonomia stessa. Non è la dipendenza, dunque, ad essere un problema, ma il modo in cui essa viene realizzata tenendo conto, o meno, della dignità della persona umana in ogni condizione o stadio della sua esistenza.


Il processo di aziendalizzazione della sanità italiana richiede a regioni e aziende di sviluppare capacità strategiche e organizzative per:
Analizzare le caratteristiche del bisogno di salute della propria popolazione di riferimento, della domanda sanitaria e del comportamento degli utenti, individuando eventuali cambiamenti in atto o probabili in futuro;
Verificare il proprio livello di efficacia attuale;
Innovare e gestire in modo sempre efficiente ed efficace i propri servizi. L’analisi delle caratteristiche dei bisogni e della domanda richiede la considerazione di una pluralità di variabili (demografiche, epidemiologiche, sociali ed economiche), la cui incidenza varia tra le regioni e all’interno delle stesse.
Al 31 dicembre 2006 la popolazione complessiva italiana risultava pari a 58.751.711 residenti, mentre alla stessa data del 2005 ammontava a 58.462.375. Si rileva, quindi, un incremento della popolazione di quasi 290 mila abitanti, pari allo 0,5 per cento della popolazione. Tale incremento è in larga parte ancora dovuto alle iscrizioni anagrafiche successive alla regolarizzazione degli stranieri presenti in Italia.
Analizzando alcuni indicatori di struttura demografica riferiti alla popolazione italiana al 31 dicembre 2004, si rileva che la quota di persone con più di 65 anni costituisce il 19 per cento della popolazione (dato in costante crescita) e che l’indice di vecchiaia è pari a 134,1: vale a dire che ci sono circa 134 anziani ogni 100 bambini (Tabella 6).
Le regioni caratterizzate da un minor peso della popolazione anziana (65 anni e più) sono quelle del Sud (in particolare la Campania) e la Provincia autonoma di Bolzano; mentre le regioni del Centro-Nord (in particolare la Liguria) presentano un peso più elevato ri spetto al corrispondente valore nazionale. L’indice di dipendenza economica (indicatore di rilevanza economica e sociale) mostra invece che ci sono 50,1 persone «non attive» ogni 100 persone «attive». Pur non tenendo conto dell’effettivo grado di partecipazione alla vita attiva da parte di coloro che sono nell’età per farlo (né del fatto che ci sono persone in età non attiva che svolgono un’attività lavorativa), tale indice ci fornisce in maniera approssimativa il carico che grava sulla popolazione attiva per il mantenimento di quella non attiva.
Oltre ai fattori demografici, altri fattori rilevanti nell’analisi dei bisogni sono quelli economici, sociali ed epidemiologici. Proprio le differenze territoriali rispetto a queste variabili possono spiegare il differente ricorso ai servizi sociosanitari. Regioni e aziende devono quindi sviluppare tecniche e modalità operative per l’analisi dei bisogni che sappiano integrare dati demografici, epidemiologici, sociali ed economici e permettano l’individuazione dei migliori servizi da offrire alla popolazione.
A tal fine, un primo passaggio rilevante è quello di valutare l’attuale capacità di risposta ai bisogni, individuando adeguati indicatori dei livelli di efficacia raggiunti.
Tra gli indicatori di efficacia gestionale assumono particolare rilevanza (e per questo sono presentati di seguito) quelli relativi a:
Flussi di mobilità;
Tempi di attesa;
Ricorso ai servizi sanitari.
La migrazione sanitaria, ossia il ricovero in una struttura ospedaliera localizzata in un’altra regione rispetto a quella di residenza, può essere motivata da ragioni sanitarie oggettive (centri di alta specialità, malattie rare), da esigenze geografiche, viarie o familiari, da un’inadeguata distribuzione dei servizi diagnostico-terapeutici, da disinformazione, oppure da differenze reali o percepite tali rispetto alla qualità delle cure offerte dalle strutture regionali ed extraregionali. 
 L’analisi dei flussi di mobilità può essere quindi utilizzata per valutare la qualità dei servizi sanitari offerti dalle diverse strutture o regioni, considerando le scelte di mobilità dei pazienti come un parametro della reputazione delle stesse. In particolare si segnala che: 
La Lombardia è la regione che attrae oltre il 20 per cento della mobilità complessiva fuori regione, seguita da Emilia (12,6 per cento), Lazio (11,3 per cento), Veneto (7,9 per cento) e Toscana (7,5 per cento). Come già evidenziato, questi valori sono in parte determinati dalla disponibilità di specifiche specialità, oltre che da una molteplicità di fattori (come, per esempio, i flussi turistici, i flussi di emigrazione e immigrazione, i fattori culturali, l’accessibilità e comodità delle regioni confinanti), ma sono anche in parte legati alla reputazione delle strutture di alcune regioni; 
 Se si considera la provenienza dei pazienti ricoverati fuori regione rispetto alla mobilità complessiva, è la Campania a presentare la percentuale più elevata (11,2 per cento), seguita da Lazio (8,8 per cento), Lombardia  (8,4 per cento), Sicilia e Puglia (8,1 per cento) e Calabria (8 per cento). Si consideri che la popolazione residente in Campania rappresenta il 10 per cento della popolazione italiana. Le percentuali per le altre regioni citate sono: 9 per cento (Lazio), 15,9 per cento (Lombardia), 8,7 per cento (Sicilia), 7 per cento (Puglia) e 3,5 per cento (Calabria). 

I tempi di attesa
Rispetto ai tempi di attesa, negli ultimi anni, è stata dedicata forte attenzione al problema delle liste di attesa, come dimostrano i numerosi richiami e provvedimenti normativi per la riduzione e gestione delle stesse. In particolare, il piano sanitario nazionale 2006-2008 chiarisce che:
«l’erogazione delle prestazioni entro tempi appropriati alle necessità di cura degli assistiti rappresenta una componente strutturale dei livelli essenziali di assistenza. Per questo motivo, l’eccessiva lunghezza delle liste rappresenta, nei fatti, la negazione del diritto dei cittadini ad accedere ai livelli essenziali. La soluzione di questo problema è particolarmente complessa e richiede interventi volti sia alla razionalizzazione dell’offerta di prestazioni sia alla qualificazione della domanda. Per questi aspetti ci si atterrà a quanto previsto dal Piano nazionale per il contenimento dei tempi di attesa previsto dalla legge n. 266 del 23 dicembre 2005».
Nello specifico, all’art. 1 comma 280 della legge finanziaria 2006 subordina l’accesso al concorso delle somme stanziate a livello nazionale per la copertura dei disavanzi sanitari regionali (in deroga a quanto stabilito dalla legge 405/2001) alla stipula di una intesa tra stato e regioni che preveda la realizzazione da parte delle regioni degli interventi previsti dal piano nazionale di contenimento dei tempi di attesa. Per questo motivo, il 28 marzo del 2006 è stato approvato lo schema di intesa tra il governo, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano sul piano nazionale di contenimento dei tempi di attesa per il triennio 2006-08, di cui all’art. 1 comma 280 della legge finanziaria 2006, il quale definisce:
L’elenco delle prestazioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative di assistenza specialistica ambulatoriale e di assistenza ospedaliera, per le quali vanno fissati i tempi massimi di attesa da parte delle singole regioni entro novanta giorni;
La previsione che, in caso di mancata fissazione da parte delle regioni dei tempi di attesa di cui sopra, nel le regioni interessate si applicano direttamente i parametri temporali determinati, entro novanta giorni dalla stipula della stessa intesa;
La quota delle risorse da vincolare alla realizzazione di specifici progetti regionali per il perseguimento dell’obiettivo del piano nazionale di contenimento dei tempi di attesa (determinata in euro 150 milioni e destinata anche alla realizzazione del centro unico di prenotazione, che opera in collegamento con gli ambulatori dei medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta e le altre strutture del territorio, utilizzando in via prioritaria i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta);
Le modalità di attivazione nel nuovo sistema informativo sanitario (NSIS) di uno specifico flusso informativo per il monitoraggio delle liste di attesa;
Le modalità di certificazione della realizzazione degli interventi in attuazione del piano da parte del comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei livelli essenziali di assistenza.
In linea di massima, se si osservano i risultati del monitoraggio nazionale sui tempi e le liste di attesa tenuto a gennaio 2004, in attuazione di quanto indicato dall’accordo stato-regioni dell’11 luglio 2002, sembra emergere comunque un miglioramento delle performance delle aziende rispetto a questo tema, benché in molte regioni si continuino a non rispettare gli standard previsti dall’accordo stesso, soprattutto con riferimento alle visite specialistiche.
In conclusione, indipendentemente dalle strategie generali su base regionale, i provvedimenti assunti in tema di riduzione dei tempi di attesa si caratterizzano per un carattere sempre più spiccatamente aziendale. Le differenze tra tempi di attesa per le singole prestazioni erogate da aziende differenti nell’ambito della stessa regione, talvolta anche in territori assai vicini tra loro, ne è una testimonianza evidente. Ciò è comprensibilissimo, anche in considerazione della rilevanza degli aspetti organizzativi e gestionali, oltre che della necessità di raccordarsi strettamente ai bisogni del territorio. 
 Presentiamo, infine, i dati relativi a un’indagine, condotta da Ermeneia-Studi & Strategie di Sistema (una società specializzata che si occupa di analisi e di consulenza per le associazioni di categoria e per i soggetti pubblici e privati) per l’AIOP (Associazione italiana ospedalità privata) nel settembre del 2005, volta a ricostruire il rapporto tra famiglie italiane e ospedali. L’indagine è stata svolta attraverso la somministrazione di questionari a un campione rappresentativo di popolazione italiana da 18 anni in su (4.011 persone adulte) e i risultati presentano, con un intervallo di confidenza del 95 per cento, un margine di errore valutabile a ± 1,55 per cento. 
 Secondo l’indagine condotta da Ermeneia, gli italiani fanno ricorso ai servizi ospedalieri tendenzialmente per malattie lievi, con un andamento di fatto costante nel corso dell’ultimo triennio. Se si va ad analizzare il fenomeno in relazione alle caratteristiche del campione è possibile evidenziare: 
 Uomini e donne ricorrono con le stesse modalità ai 
 servizi ospedalieri; 
Il ricorso all’ospedale è maggiore dopo i 55 anni, ma è elevata anche la percentuale tra i 25 e i 34 anni; ci sono i cittadini delle regioni del Nord a usufruire con maggior frequenza delle cure ospedaliere, con una percentuale di popolazione che per diversi motivi ha fatto ricorso all’ospedale superiore al 30 per cento, a fronte del 26,5 per cento delle regioni centrali e del 17,7 per cento delle regioni meridionali;
Casalinghe e pensionati evidenziano una percentuale di fruizione dei servizi ospedalieri decisamente superiore alla media nazionale, mentre non si evidenziano differenze significative in relazione al livello d’istruzione dei pazienti.
Il livello di soddisfazione di chi ha fatto ricorso nell’ultimo anno ai servizi ospedalieri sembra piuttosto buono: quasi il 25 per cento di chi ha fatto ricorso alle cure ospedaliere nell’ultimo anno si dichiara molto soddisfatto, mentre quelli abbastanza soddisfatti sono il 61,7 per cento e solo l’11,5 per cento si dimostra poco o per niente soddisfatto.
Se si va ad analizzare nel dettaglio il motivo per cui si ricorre all’ospedale, emerge che le prestazioni più richieste siano le analisi e le visite specialistiche: di fatto, la situazione era simile anche nel 2004 e nel 2003, ma si rileva nel 2005 un aumento consistente del ricorso al pronto soccorso (il che sembra andare in direzione opposta rispetto al tentativo, condotto in tutte le regioni, di razionalizzare l’accesso alle strutture di emergenza). Se si va ad analizzare il fenomeno in relazione alle caratteristiche del campione è possibile evidenziare:
Uomini e donne ricorrono tendenzialmente per gli stessi motivi ai servizi ospedalieri;
Per analisi e visite specialistiche ricorrono di più i cittadini con più di 55 anni, per interventi e cure quelli tra 18 e 24 anni mentre l’accesso al pronto soccorso è più elevato tra i 25 e i 34 anni;
Sono i cittadini delle regioni del Nord a usufruire con maggior frequenza di analisi e visite specialistiche, mentre sono quelli del Sud a richiedere più cure, interventi e prestazioni d’urgenza;
Casalinghe e pensionati evidenziano ricorso superiore alla media ad analisi e visite specialistiche ospedaliere, mentre a ricorrere alle cure sono soprattutto i lavoratori dipendenti, mentre non si evidenziano differenze significative in relazione al livello d’istruzione dei pazienti.
Il  ricorso alle prestazioni ospedaliere, inoltre, come ampiamente dimostrato nell’ambito del presente paragrafo, avviene non solo all’interno del proprio comune o dell’ASL di appartenenza ma anche fuori regione e addirittura al di fuori dei confini nazionali.
Tuttavia, più di un terzo del campione intervistato ha dichiarato di non essere a conoscenza della possibilità di curarsi in una regione diversa da quella di appartenenza e, in generale, solo il 21,8 per cento si è definito perfettamente a conoscenza di questa facoltà. Nonostante ciò, la disponibilità degli intervistati a recarsi fuori regione o anche in uno stato diverso per curarsi è alta ed è aumentata nel corso dell’ultimo anno.

Nel delineare l’articolazione generale dei vari settori d Servizio sanitario nazionale (SSN), e quindi le risposte ai bisogni di salute dei cittadini, è bene premettere a cune considerazioni che riguardano le trasformazioni che la salute degli italiani ha subito negli ultimi anni sia l’evoluzione demografica, sia le mutate condizioni economiche e sociali della popolazione hanno portai il sistema sanitario ad adeguarsi non solo dal punto vista dell’organizzazione dei servizi, ma anche di quello normativo.
Il  progresso compiuto dalla medicina nella diagnostica e nella terapia, le nuove tecnologie, hanno permesso di allungare sensibilmente la vita media del popolazione e di migliorarne la qualità. I tassi di mortalità si sono ridotti, l’attesa di vita è aumentata ed sensibilmente cresciuta la popolazione anziana; allo stesso tempo sono aumentate le cosiddette “malattie del benessere”, come l’obesità o il disagio mentale. In modo parallelo, è cresciuta la consapevolezza dei cittadini rispetto ai propri bisogni e alle possibilità di miglioramento del proprio stato di salute e ciò ha consenti di dare un’importanza sempre maggiore al fattore della prevenzione.
Secondo gli ultimi dati Istat cresce l’invecchiamento: gli italiani con più di 65 anni rappresentano il 20 per cento della popolazione e in particolare i grandi anziani, con più di 90 anni di età, sono circa 500.000. I dati relativi all’anzianità della popolazione italiana residente sono sensibilmente superiori a quelli di altri paesi dell’Unione Europea, dove in nessun caso si arriva a sfiorare il numero di 130 anziani per ogni 100 ragazzi con età fino a 14 anni, quota superata dall’Italia già all’inizio degli anni Duemila. La spesa sanitaria cresce naturalmente anche in relazione all’aumento dell’età. Invecchiando, le persone si ammalano di più, si complicano le malattie croniche, aumentano i consumi sanitari e le spese mediche.
Questo dato di fatto crea motivi di preoccupazione per l’aumento della spesa sanitaria se si guarda alle previsioni demografiche che segneranno l’Italia nei prossimi cinquant’anni. Il cambiamento  Secondo l’Istat, nel 2050 la popolazione italiana avrà subito una diminuzione di 4,7 milioni di abitanti, rispetto al 2005, e le persone anziane costituiranno il 34 per cento del totale. Su 52 milioni di abitanti, gli anziani saranno ben 18 milioni. Di conseguenza, la spesa per assistere gli anziani nel 2050 potrebbe assorbire i due terzi del budget del Servizio sanitario nazionale.
L’uso dei servizi sanitari cresce progressivamente con l’aumentare dell’età. Attualmente, la popolazione con oltre 60 anni di età assorbe, infatti, la grande maggioranza delle prestazioni sanitarie: l’87 per cento dei ricoveri in ospedale, il 69 per cento dei farmaci e il 51 per cento delle prestazioni specialistiche. La salute in cifre Secondo i dati del ministero della Salute le malattie cardiovascolari sono al primo posto tra le cause di mortalità e di malattia della popolazione. In Italia ogni 14 minuti circa una persona muore di infarto acuto del miocardio, mentre ne muoiono sette ogni ora per ictus cerebrale. Inoltre, è da segnalare che lo scompenso cardiaco colpisce notevolmente la popolazione anziana: vi sono circa 3 milioni di persone affette da tale patologia, proprio lo scompenso cardiaco è al primo posto in assoluto tra le cause di ricoveri ospedalieri.
Per le neoplasie si calcola che annualmente siano diagnosticati oltre 250.000 nuovi casi di natura maligna e ogni anno si registrano 940.000 ricoveri per tali affezioni. Il diabete rappresenta un problema sanitario per le persone di tutte le età con un maggiore coinvolgimento per le classi economicamente più svantaggiate. Questa malattia è in costante aumento, tanto che gli esperti parlano di una vera e propria “epidemia mondiale di diabete”.
Le malattie respiratorie prevalenti sono l’asma e la bronchite cronica, che colpiscono più del 20 per cento della popolazione con età superiore ai 65 anni. Le malattie respiratorie rappresentano la terza causa di patologia cronica, mentre la broncopneumopatia cronica ostruttiva è la quarta causa di morte nel mondo industrializzato.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) indica poi nelle malattie reumatiche la prima causa di dolore e disabilità in Europa e precisa che esse rappresentano la metà delle affezioni croniche che colpiscono persone al di sopra dei 65 anni.
Infine, la tutela della salute mentale continua a essere oggetto di attenzione prioritaria nella programmazione degli interventi sociali e sanitari nei paesi industrializzati e anche in Italia vi è un aumento della prevalenza di disturbi mentali con diversi gradi di disabilità e di sofferenze individuali e dei relativi costi economici.

La definizione dei livelli essenziali di assistenza costituisce nel nostro paese un punto di svolta determinante per il sistema sanitario, in quanto rappresenta la risposta del Servizio sanitario nazionale alla domanda di salute degli italiani. 
Definiti con decreto del presidente del consiglio dei Ministri del 29/11/2001, i livelli essenziali di assistenza sono l’insieme di prestazioni, servizi e attività che i cittadini hanno diritto a ottenere dal Servizio sanitario nazionale in condizione di uniformità, cioè erogati a  tutti e su tutto il territorio nazionale, indipendentemente dal reddito e dal luogo di residenza, in tempi adeguati alle condizioni cliniche.
La necessità di definire con precisione tutti i livelli essenziali di assistenza da garantire ai cittadini era già contenuta nel decreto legislativo 502/1992, in cui si stabiliva che nel piano sanitario nazionale dovessero essere definiti «livelli essenziali e uniformi di assistenza». Tale esigenza è stata poi riconfermata con il decreto legislativo 229/1999, che ne offriva una definizione  più dettagliata, sia pure in controluce, dal momento che definiva i possibili contenuti dei fondi integrativi, cioè delle risorse destinate a coprire prestazioni aggiuntive non comprese nei livelli essenziali di assistenza. 
 Infine, in virtù dell’accordo stato-regioni dell’agosto 2001 e con il supporto dell’Agenzia per i servizi sani tari regionali, si è arrivati all’approvazione (decreto del presidente del consiglio dei ministri del 29 novembre 2001) della definizione dei livelli essenziali di assistenza che costituiscono, nel loro insieme, un quadro di riferimento nazionale omogeneo per l’offerta dei servizi sanitari in termini quantitativi e qualitativi in relazione a predeterminate risorse economiche.
Con la definizione dei livelli essenziali di assistenza si supera il precedente orientamento del sistema sanitario, che prevedeva di utilizzare i livelli di assistenza per determinare una quota di spesa pro-capite, quale risultanza della divisione del monte di risorse disponibile per il numero degli assistiti.
Il punto di svolta costituito dai livelli essenziali di assistenza consiste nel fatto che si passa da una logica secondo cui tutti gli italiani hanno diritto alla stessa «quota di spesa sanitaria» a quella per cui tutti gli italiani hanno diritto a ricevere le stesse «prestazioni». Nel panorama internazionale quest’impostazione rappresenta un elemento di novità che contraddistingue certamente il Sistema sanitario italiano.
L’obiettivo del legislatore nell’individuare i livelli fondamentali di assistenza è stato, infatti, quello di connotare il Servizio sanitario nazionale come un sistema universale e solidale, in grado di rispettare la dignità  della persona umana, di rispondere al bisogno di salute dei cittadini, di garantire uguaglianza ed equità di accesso all’assistenza, qualità delle cure, appropriatezza delle prestazioni erogate rispetto alle specifiche esigenze di economicità delle risorse. 
Vale la pena di soffermarsi su alcune di queste caratteristiche per meglio comprendere la natura del provvedimento. 
Sono livelli «essenziali», e non livelli «minimi», in quanto racchiudono tutte le prestazioni, tutte le attività che lo Stato, in relazione al grado di sviluppo sociale e culturale in cui si trova la società italiana, considera così importanti da non poter essere negati a nessuno dei  suoi cittadini. 
 Con essenziale s’intende quindi non il razionamento delle prestazioni (livelli minimi), ma piuttosto l’impegno a garantire le cure appropriate, basate su prove di efficacia, in grado di evitare gli sprechi e con la massi ma attenzione rivolta al paziente. 
 A questo proposito è bene sottolineare che la definizione dei livelli nasce da un accordo stipulato in sede  di conferenza stato-regioni e quindi le regioni, nell’erogare l’assistenza sanitaria, non possono escludere autonomamente prestazioni contenute nei livelli essenziali di assistenza, mentre possono definire livelli «ulteriori» di assistenza non compresi nei livelli.
Ogni amministrazione regionale, infatti, può decidere come applicare i livelli essenziali di assistenza nel rispetto dei principi formulati a livello nazionale, ma gode anche 
 di notevole autonomia sia per quanto riguarda la programmazione, sia per quanto riguarda l’allocazione delle risorse.

Principio di sussidiarietà
In ambito politico-amministrativo rappresenta quel principio che stabilisce che i servizi amministrativi, sociali e sanitari dovrebbero essere svolti dall’entità territoriale amministrativa più vicina ai cittadini, e che può essere delegata ai livelli amministrativi superiori solo come «sussidio» per fornire il servizio in maniera più efficace ed efficiente.
Si parla di sussidiarietà verticale quando s’interviene su servizi ai cittadini erogati dall’azione degli enti amministrativi pubblici, e di sussidiarietà orizzontale quando i servizi sono forniti dai cittadini stessi, magari in forma associata o volontaristica.
Sono livelli “uniformi”, in quanto devono essere forniti tutti i cittadini senza distinzione di reddito, di territorio di residenza (dalle città metropolitane alle isole), di religione, di etnia, di grado di istruzione, di  atteggiamento individuale nei confronti della salute o altro. Viene così garantito il principio di equità del Servizio sanitario nazionale, di uguaglianza nell’accesso ai e alle cure contenuto nella legge 833/1978 che lo istituiva.
Visti in quest’ottica, i livelli essenziali di assistenza costituiscono una vera e propria sfida: da una parte, pongono le regioni, che li devono erogare in modo di fronte a una rinnovata responsabilità nella gestione del proprio territorio e al rispetto del principio di sussidiarietà e di solidarietà e, dall’altra, richiedono un alto livello di vigilanza da parte della popolazione, per verificare l’effettiva responsabilità politica per quanto attiene alla tutela della salute e alla organizzazione dei servizi sanitari.

Contenuti dei livelli essenziali di assistenza
 L’elenco delle prestazioni garantite dal Servizio sanitario nazionale contenuto nel decreto di definizione dei livelli essenziali di assistenza prevede praticamente tutte le voci che hanno rilevanza per la tutela della salute ed è, per comodità, suddiviso in tre grandi aree (prevenzione, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera) ripartite come segue: 
 Prevenzione. Assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro, che comprende tutte le attività di prevenzione rivolte alla collettività e ai singoli: tutela dagli effetti dell’inquinamento, dai rischi infortunistici negli ambienti di lavoro, sanità veterinaria, tutela degli alimenti, profilassi delle malattie infettive, vaccinazioni e programmi di diagnosi precoce, medicina legale. 
Assistenza distrettuale. Comprende tutte le attività e i servizi sanitari e sociosanitari diffusi capillarmente sul territorio, dalla medicina di base all’assistenza farmaceutica, dalla specialistica e diagnostica ambulatoriale alla fornitura di protesi ai disabili, dai servizi domiciliari agli anziani e ai malati gravi ai servizi territoriali consultoriali (consultori familiari, servizio tossicodipendenze, servizi per la salute mentale, servizi di riabilitazione per i disabili ecc.) alle strutture semiresidenziali e residenziali (residenze per gli anziani e i disabili, centri diurni, case famiglia e comunità terapeutiche). 
Assistenza ospedaliera. Assistenza presso le strutture ospedaliere in pronto soccorso, ricovero ordinario, day hospital (ricovero diurno) e day surgery (interventi chirurgici con dimissioni in giornata), regime di ricovero per la lungodegenza e la riabilitazione.  

Appropriatezza
Oltre alla lista delle prestazioni garantite dal Servizio sanitario nazionale sono presenti nel provvedimento sui livelli essenziali di assistenza altri tre elenchi. Il primo elenco riguarda le prestazioni totalmente escluse dai livelli essenziali di assistenza, per le quali cioè non si è ritenuto che esistano sufficienti prove di efficacia; nel secondo sono comprese le prestazioni parzialmente escluse, in quanto erogabili solo secondo precise indicazioni cliniche, mentre il terzo elenco comprende le prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza ma che presentano un profilo organizzativo potenzialmente inappropriato, o per le quali occorre comunque individuare modalità più appropriate di erogazione.
Per fare qualche esempio del primo elenco, il Servizio sanitario nazionale non rimborsa gli interventi di chirurgia estetica a meno che si rendano necessari in conseguenza di incidenti o di malformazioni; così come non si fa carico delle prestazioni delle terapie non convenzionali (con l’unica eccezione dell’agopuntura per anestesie). Le cure odontoiatriche vengono garantite solo per i bambini e per alcune categorie di adulti.
Nell’elenco delle prestazioni da fornire, ma in modo appropriato, compaiono una serie di DRG[9] «a rischio di inappropriatezza»: si tratta di 43 tipologie di ricoveri considerati potenzialmente inappropriati se forniti in regime di ricovero ordinario, in quanto le medesime prestazioni potrebbero essere erogate diversamente: per esempio, in ricovero diurno o in regime ambulatoriale. In sostanza, per razionalizzare le risorse, la stessa prestazione può essere fornita invece che in regime di ricovero ospedaliero (occupando quindi un letto di ospedale per più giornate di degenza con il relativo costo) in modo più appropriato in ambulatorio, in day hospital, o, per interventi chirurgici poco complessi, in day surgery. Per fare qualche esempio, tra gli interventi e le prestazioni più frequentemente erogati in regime di ricovero ospedaliero, troviamo quelle sul cristallino (cataratta) e la decompressione del tunnel carpale che, con un’adeguata riorganizzazione dei servizi, potrebbero essere erogate in regime ambulatoriale.
È evidente che un aumento delle prestazioni ambulatoriali comporta una maggiore appropriatezza, nonché un risparmio consistente di risorse, come dimostra l’analisi effettuata dall’Agenzia per i servizi sanitari regionali nel maggio 2007 relativa a tutti i ricoveri effettuati (ordinari e in day hospital nel periodo 2001-2004. Dai dati analizzati risulta che, nel periodo considerato, relativo agli anni 2001-2004, ovvero i dati più aggiornati disponibili, per 43 DRG “a rischio di inappropriatezza” se effettuati in regime di ricovero ordinario sono stati effettuati più di 300.000 ricoveri impropri in meno. Un calo di ricoveri ordinari «inappropriati» e un aumento di ricoveri in day hospital che si registra in tutte le regioni, anche se con una notevole variabilità.
Tra i fattori determinanti di questa variabilità vi è, senza dubbio, anche la diversa capacità delle regioni di trasferire dal regime di ricovero a quello ambulatoriale alcune procedure. Diversa capacità riconducibile sia alla struttura per età della popolazione, sia a quella delle strutture ospedaliere. In particolare, in Toscana e in Emilia Romagna per alcuni DRG, come la decompressione del tunnel carpale e gli interventi sul cristallino con o senza vitrectomia, diminuiscono sia i ricoveri ordinari, sia quelli che in day hospital chirurgico perché queste prestazioni sono erogate in regime ambulatoriale.

Aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza
È evidente che, una volta fissato il quadro generale delle prestazioni fornite dal Servizio sanitario nazionale, siano necessarie continue operazioni di aggiornamento, dal momento che lo stato delle conoscenze scientifiche e la pratica clinica e organizzativa evolvono continuamente, e di conseguenza la complessa macchina della sanità pubblica deve essere messa in grado di continuare a funzionare diversificando e migliorando sempre l’offerta.
Per questo motivo, fermo restando il contenuto dei livelli essenziali di assistenza che deve restare uniforme su tutto il territorio nazionale, le regioni hanno in alcuni ampliato la propria offerta di prestazioni, o, in altri hanno riempito eventuali lacune normative, adottando iniziative che tuttavia si riferiscono sempre ai criteri di efficacia, appropriatezza ed economicità che sono alla  base del decreto sui livelli essenziali di assistenza. 
 Per esempio, per quanto attiene alle prestazioni escluse dai livelli essenziali di assistenza, molte regioni hanno garantito un ulteriore livello regionale, come le certificazioni di idoneità alla pratica sportiva che pressoché tutte le regioni forniscono gratuitamente o l’erogazione dell’agopuntura in presenza di determinate condizioni cliniche che alcune regioni hanno deciso di erogare ai propri residenti. 
 Per quanto attiene alla manutenzione dei livelli essenziali di assistenza dobbiamo tener presente che i nuovi servizi informativi consentono di esaminare la documentazione clinica sotto diversi aspetti, e quindi di poter valutare, per ogni prestazione, non solo il costo, ma anche la necessità medica dell’assistenza fornita, così come le modalità con cui è stata erogata e la sua durata. 
 Un monitoraggio costante delle prestazioni erogate, inoltre, è reso necessario dal fatto che la pratica medica e il management sanitario si vanno sempre più sviluppando, così come è aumentata la disponibilità di tecnologie sanitarie più raffinate, come la chirurgia laparoscopica e mininvasiva, la radiologia interventistica e i laser. Tutti questi elementi, opportunamente valutati, consentono di ridurre le lunghe degenze negli ospedali e di fornire nello stesso tempo un’assistenza più efficace e meno costosa. 
 In particolare, per quanto riguarda i costi, si è visto che, applicando in misura sempre crescente le modalità di appropriatezza organizzativa dei ricoveri, sono diminuiti i ricoveri ordinari per i 43 DRG «inappropriati» e le stesse prestazioni vengono sempre più fornite in regime di day hospital o day surgery, con una significativa riduzione dei costi sostenuti.
La valutazione dei risultati ottenuti, in termini economici ma anche di efficacia, ha indotto a formulare recentemente una proposta di estendere a ulteriori 55 DRG, medici e chirurgici, la qualifica di «a rischio di inappropriatezza», invitando le regioni a far sì che anch’essi vengano erogati in regime di day  hospitalo day surgery.

Costi della salute
Come conseguenza dei cambiamenti della struttura demografica e delle modifiche intervenute negli anni sia nei volumi, sia nell’intensità della pratica clinica si è andata via via allargando la forbice tra bisogni e risorse della sanità. I costi della sanità, in Italia come in tutti i paesi industrializzati, crescono anno dopo anno.
I fattori che influiscono maggiormente sull’incremento della spesa sanitaria pubblica, a parità di popolazione raggiunta dai diversi sistemi sanitari, sono generalmente l’evoluzione delle tecnologie e l’invecchiamento della popolazione. Gli effetti dei due fattori sono per altro in parte interdipendenti, in quanto, se l’evoluzione tecnologica ha consentito l’allungamento della vita media, l’aumento della popolazione delle fasce di età più avanzata ha comportato un incremento di consumi sanitari soprattutto per le patologie croniche.
La spesa sanitaria pubblica è andata aumentando in Italia come negli altri paesi europei. Mettendo a confronto l’andamento della spesa sanitaria pubblica dell’Italia con quello di Francia, Germania, Olanda, Regno Unito e Spagna, appare evidente come il nostro paese abbia un andamento della spesa più simile a quello della Francia e del Regno Unito e che per tutti i paesi presi in considerazione un incremento più sensibile della spesa manifestata da 2000 in poi. Il confronto con i valori della spesa pubblica  complessiva (espressi in milioni di dollari anche per i paesi europei per tenere conto della parità del potere di acquisto, un metodo convenzionale per confrontare dati di diversi paesi e di diversi periodi temporali). La variazione della spesa dal 2000 al 2004, per tutti i paesi, è quasi il doppio di quella registrata dal 1995 al 2000.

La spesa per la salute in Italia
Attualmente, il finanziamento del Servizio Sanitario nazionale proviene per il 95% circa dall’imposizione fiscale diretta (sui redditi delle imprese e delle persone fisiche) e da quella indiretta sui consumi e, per la rimanente parte, da ricavi ed entrate proprie delle aziende sanitarie, oltre che dalla compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria pubblica.
In particolare, dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 56/2000 sul federalismo fiscale, le fonti di finanziamento del Servizio sanitario nazionale sono rappresentate da: risorse regionali, quali IRAP e addizionale IRPEF, compartecipazione all’IVA, accise sulla benzina, ulteriori trasferimenti dal settore pubblico (regioni, province, comuni ecc.) e da quello privato, risorse proprie delle aziende sanitarie (tra cui i ticket versati dai cittadini), risorse (statali) del Fondo sanitario nazionale (per gli interventi derivanti da accordi internazionali, dal funzionamento di alcuni enti particolari del Servizio sanitario nazionale e dalla realizzazione di specifici obiettivi previsti da leggi speciali). In base alla normativa in vigore, le regioni Valle d’Aosta e Friuli-Venezia Giulia e le Province autonome di Trento e di Bolzano provvedono al finanziamento dell’assistenza sanitaria pubblica esclusivamente con risorse a carico dei propri bilanci senza alcun onere a carico dello Stato; per quanto a statuto speciale, le regioni Sicilia e Sardegna oltre a proprie risorse devono ricorrere al finanziamento del Fondo sanitario nazionale per una quota parte dei costi per i livelli essenziali di assistenza. Risorse pubbliche aggiuntive vengono destinate al finanziamento degli investimenti e della ricerca in campo sanitario. In Italia i dati sull’evoluzione della spesa sanitaria, forniti dal ministero della Salute, mostrano, nel periodo compreso tra il 2002 e il 2005, un incremento molto diversificato tra regione e regione.
Nella spesa complessiva del Servizio sanitario nazionale (in milioni di euro) vengono considerate quelle sostenute dalle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale (ASL e aziende ospedaliere), dalle strutture private accreditate, dagli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), dai policlinici universitari, sia pubblici che privati e da altri enti (tra cui la Croce rossa italiana, gli istituti zooprofilattici sperimentali) per l’erogazione dei livelli essenziali di assistenza e per il raggiungimento di altri specifici obiettivi di sanità pubblica previsti dalla vigente legislazione (Non sono compresi i costi sostenuti dai cittadini per acquisti di prestazioni sanitarie presso strutture private non accreditate).
La spesa media pro-capite nazionale è di 1.621 euro. A livello territoriale si riscontra un’ampia variabilità, con il valore minimo di 1.404 euro della Calabria e il valore massimo pari a 2.076 euro della Provincia autonoma di Bolzano; i valori più bassi sono concentrati prevalentemente nel Centro-Sud del paese, con le eccezioni rappresentate dalla Lombardia, dal Veneto, dalla Toscana e dalle Marche, con valori al disotto della media, e dal Lazio, dall’Abruzzo e dal Mouse, con valori al di sopra della media.
Nel corso degli anni molte regioni hanno prodotto disavanzo, cioè hanno speso per la sanità importi maggiori dei finanziamenti previsti. Questo fenomeno ha reso sempre più necessaria la verifica dell’effettiva erogazione dei livelli essenziali di assistenza, in particolare nel confronto tra i costi sostenuti a parità di livelli essenziali di assistenza erogati. 
 Bisogna, infatti, considerare che il finanziamento dei livelli essenziali di assistenza assorbe la gran parte della spesa sanitaria corrente per i residenti praticamente in tutte le regioni italiane. Secondo i dati 2005 di una recente ricerca Farmafactoring-Cergas Bocconi si rileva che l’incidenza del finanziamento per i livelli essenziali di assistenza sulla spesa effettiva si attesta, per esempio, al 98,5 per cento per la Puglia, al 97,8 per cento per la Calabria, al 97,0 per cento per la Lombardia.
In tale contesto, si è reso necessario prevedere misure adeguate, sul fronte della spesa sanitaria, per la copertura di eventuali disavanzi. Tali misure si propongono sia di individuare forme di incremento delle entrate, sia di adottare iniziative di razionalizzazione della spesa.
Una delle più importanti iniziative per contenere il fenomeno è stata la promulgazione della legge 405/2001 con la quale si attribuisce alle regioni l’onere di copertura dei disavanzi sanitari. In particolare, il comma 3 dell’art. 4 della legge stabilisce: «3. Gli eventuali disavanzi di gestione accertati o stimati, nel rispetto dell’accordo Stato-regioni di cui all’art. 1, comma 1, sono coperti dalle regioni con le modalità stabilite da norme regionali che prevedano alternativamente o cumulativamente l’introduzione di:
a)  misure di compartecipazione alla spesa sanitaria, ivi inclusa l’introduzione di forme di corresponsabilizzazione dei principali soggetti che concorrono alla determinazione della spesa;
b)  variazioni dell’aliquota dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche o altre misure fiscali previste nella normativa vigente;
c)  altre misure idonee a contenere la spesa, ivi inclusa l’adozione di interventi sui meccanismi di distribuzione dei farmaci».
Nel nuovo contesto normativo che attribuisce alle regioni piena competenza in materia sanitaria e al governo la definizione dei livelli essenziali di assistenza da garantire in condizione di uniformità su tutto il territorio nazionale, un passo decisivo è stato compiuto il 22 settembre 2006 con l’intesa tra il governo e le regioni  relativa a un nuovo patto per la salute di durata triennale. 
 Il patto si compone di un aspetto finanziario e di un aspetto normativo e programmatico. L’accordo, siglato dal ministro della Salute, dal ministro dell’Economia e dal presidente della conferenza delle regioni, punta alla riduzione degli sprechi, alla stabilizzazione della spesa e al miglioramento della qualità dei servizi e delle prestazioni, anche attraverso il superamento del divario tra Nord e Sud con particolare riferimento all’assistenza oncologica e alle malattie rare. 
Gli elementi essenziali dell’accordo finanziario possono essere così sintetizzati: 
Le risorse messe a disposizione dallo Stato centrale saliranno da 91,2 miliardi nel 2006 a 97 miliardi 2007, comprensivi di un fondo di accompagnamento di 1 miliardo per sostenere il risanamento delle regioni attualmente non in linea con i livelli di spesa concordati;
La spesa sanitaria complessiva si attesterà nel 2007 al 101,3 miliardi, facendo registrare una diminuzione di 2.4 miliardi rispetto al tendenziale del 2007 (pari a 111 miliardi) nonché una leggera flessione rispetto al livello previsto nel 2006 (pari a 102 miliardi);
Per le regioni che non raggiungeranno gli obiettivi di spesa concordati verranno confermati i meccanismi di piena responsabilizzazione finanziaria, come esempio le misure di affiancamento e gli automatismi fiscali (aumento delle aliquote regionali dell’addizionale IRPEF e dell’IRAP);
Il governo svolgerà azioni di contenimento della spesa, tra cui quella farmaceutica, di riorganizzazione dispositivi medici e di omogeneizzazione di forme di partecipazione alla spesa.
Il  governo, dopo il 2007, continuerà a dare certezza riguardo alle risorse finanziarie messe a disposizione delle regioni per il Servizio sanitario nazionale, garantendo per conto dello Stato centrale un livello di finanziamento adeguato.
L’accordo, normativo e programmatico, è stato definito nelle sue linee di indirizzo e nei suoi contenuti essenziali, ed è finalizzato a migliorare la qualità dei servizi, a promuovere l’appropriatezza delle prestazioni, a garantire l’unitarietà del sistema. Queste le sue maggiori caratteristiche:
Adeguamento dello stanziamento pluriennale ex art. 20 della legge 67/1988 per il cofinanziamento degli investimenti nel Servizio sanitario nazionale in modo da consentire la definizione di nuovi accordi di programma per la qualificazione delle strutture sanitarie, l’innovazione tecnologica e il superamento del divario Nord-Sud;
Inserimento della tematica “sanità-sviluppo economico” tra le finalità per l’utilizzo dei fondi strutturali dell’Unione Europea 2007-2013;
Aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza ai  nazionale per regione nuovi bisogni di assistenza, revisione e ampliamento dei 43 DRG ad alto rischio di inappropriatezza, analisi dei costi delle prestazioni ricomprese nei livelli essenziali di assistenza, assumendo come riferimento i costi delle pratiche più efficienti;
Attivazione di un sistema di monitoraggio basato su un pacchetto adeguato di indicatori, concordato tra il ministero della Salute, il ministero dell’Economia e delle Finanze e le regioni;
Promozione e valorizzazione delle risorse umane del Servizio sanitario nazionale e partecipazione del per- sonale medico e delle altre professioni sanitarie al governo del sistema;
Riorganizzazione e potenziamento della rete delle cure primarie, mediante la promozione di forme evolute di associazionismo tra i medici di medicina generale e di integrazione con l’attività dei distretti sanitari;
Sviluppo dell’integrazione sociosanitaria a partire dall’assistenza alle persone non autosufficienti; u messa in rete e monitoraggio dell’attività di prescrizione di esami e farmaci da parte dei medici di medicina generale;
Riorganizzazione e umanizzazione della rete ospedaliera, finalizzata anche al recupero di maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse nelle regioni;
Razionalizzazione dei sistemi di acquisto di beni e servizi attraverso, modalità di esercizio sovraziendale e di centralizzazione degli acquisti.

Spesa sanitaria e società
La sanità batte il marxismo nella capacità di trasformare dalle fondamenta la società moderna? È la tesi paradossale di uno dei più noti economisti statunitensi, Kenneth Rogoff che è professore a Harvard ed è stato chief economist del Fondo Monetario Internazionale. Secondo Rogoff (La sanità sfida il capitalismo, «Il Sole 24ore», 19 agosto 2007) la combinazione del livello alto e crescente della spesa sanitaria e dell’approdo ugualitaristico alle cure sanitarie che caratterizza le società più evolute può trasformarsi in «una delle più grandi sfide per il capitalismo contemporaneo».
Per quanto riguarda la crescita, Rogoff allinea alcune scioccanti previsioni; «La spesa sanitaria che rappresenta già una fetta dell’economia pari al 16 per cento salirà fino al 30 per cento del PIL di qui al 2030, fino forse ad avvicinarsi al 50 per cento più avanti». Il sistema sanitario USA è notoriamente carissimo, nonostante sia ad accesso limitato e lasci insoddisfatta la maggioranza degli utenti. in Europa e, in particolare, in Italia, la spesa sanitaria è «solo» 18,3 per cento del PIL, ma anche da noi la crescita sembra fuori controllo: 7,8 per cento all’anno tra il 2000 e il 2006.
Qual è il motore dì questa crescita travolgente? Si è soliti pensare che le cause dell’aumento dei costi sanitari siano legati all’invecchiamento della popolazione. Ma a un esame più attento l’invecchiamento si rivela solo una parte del problema e neanche quella più significativa.
Il vero problema è se le società sono disposte a fornire agli anziani un accesso uguale per tutti a tecniche sanitarie sempre nuove e migliori. Un altro cambiamento è il peso crescente delle cure personalizzate. Gli interventi al cuore in molti paesi ricchi rappresentano già uno dei principali fattori di prolungamento della vita media. Analogamente, le TAG permettono di individuare tumori quando sono ancora a uno stadio curabile. Ed è difficile sul piano morale e politico difendere le disuguaglianze in un contesto così attento ai diritti umani proprio quando si tratta del diritto alla vita.
Le previsioni da capogiro sopra citate incorporano dunque il costo di un’applicazione di massa di un progresso tecnologico sempre più rapido. Di qui l’allarme di Rogoff: «Il socialismo sanitario comincia a diventare marxismo: a ciascuno secondo i suoi bisogni».
Si è spesso auspicata l’apertura del settore Sanitario alla concorrenza. Ma con una spesa sanitaria che cresce a un tale ritmo i risultati in termini dì miglioramento dell’efficienza che si possono ragionevolmente attendere da un ricorso al meccanismo di mercato diventano sempre meno rilevanti. Sembra quindi inevitabile il «regredire [di] una fetta considerevole dell’attività economica a un sistema con caratteristiche più socialiste». A qualcuno, conclude Rogoff, potrebbe venire in mente di pensare «Meglio rossi che morti».
Risposte meno ideologiche al problema della crescita della spesa sanitaria, però, erano già venute, qualche anno fa, da Michael Porter, il guru dell’impresa, del mercato e della competizione globale (M. Porter e E. Olmsted Teisberg, Redefining Health Care: Creating Value based Competition and Results, Harvard Business School Press, 2004). Secondo Porter, non c’è un solo tipo di competizione e negli Stati Uniti si è affermato il tipo sbagliato, una competizione nella quale i vari soggetti impiegano molto tempo ed energie a cercare di scaricare i costi su altri soggetti del sistema, ad appropriarsi di una parte maggiore del valore economico delle prestazioni erogate, a limitare l’accessibilità a chi non può pagare assicurazioni o prezzi dei servizi: «La competizione che serve nel sistema di tutela della salute è quella in cui ogni soggetto è focalizzato a generare valore per il paziente». Azioni e interventi capaci di evitare accertamenti diagnostici inutili e non corretti, diagnosi errate, uso eccessivo di farmaci, interventi chirurgici non necessari contribuiscono ad aumentare la qualità dell’assistenza e contemporaneamente a ridurre i costi. E in questa prospettiva, il sistema è riformabile senza alcun big bang tramite un processo «dal basso all’alto».
Ciò vuol dire privilegiare azioni che facciano leva sulla ricostruzione di nuovi rapporti di fiducia tra pazienti e medici, tra medici e manager, nonché sulla valorizzazione dell’autonomia delle aziende che vanno responsabilizzate sulla loro capacità di creare condizioni favorevoli per nuovi rapporti medici-pazienti e valore finale per i pazienti.
La lezione di Porter può essere utile, in particolare, suggerendo che la competizione di per sé non è la soluzione dei problemi del settore sanitario e che occorre applicare forme di competizione che non riproducono gli effetti negativi riscontrati negli Stati Uniti.














Capitolo 4. 

L’informazione (medico - scientifica) nella prospettiva sociologica


La problematica degli effetti e dell’efficienza della comunicazione e della promozione medico scientifica e della salute è relativamente recente e si è sviluppata soprattutto a partire dagli Settanta ed Ottanta del Ventesimo secolo, soprattutto in considerazione della maggiore ampiezza ed importanza raggiunta dal mercato dei prodotti farmaceutici e parafarmaceutici ed all’impatto di tali processi nell’ambiente sociale. In particolare la dimensione della comunicazione assume dimensioni e ritmi più elevati in relazione all’innovazione, una innovazione che oggi tende ad essere condivisa, socializzata, e “vissuta “. Inoltre, negli ultimi anni sono emersi due macro fenomeni che stanno condizionando la svolta sociale, culturale ed organizzativa della sanità; il primo macro fenomeno è relativo alla elevata crescita della complessità dell’informazione bio-medica, il secondo fenomeno è invece relativo ai costi crescenti all’interno del sistema delle cure che obbligano a compiere scelte difficili, comprese fra qualità ed efficienza. In questo modo anche il processo comunicativo, da questione scientifica e tecnica che interessa pochi soggetti specializzati, diventa oggetto di azione sociale diffusa, che coinvolge i singoli individui, i nuclei familiari, le istituzioni specialistiche e non specialistiche, le imprese e le reti informali, portandoli ad adottare, a volte anche inconsapevolmente, orientamenti e comportamenti evidenziano quelle zone di penombra della scienza» in cui può esservi «confusione fra verità ed utilità sociale». Il concetto di salute rappresenta uno degli aspetti più significativi e rilevanti della sfera simbolica nella società contemporanea, al centro di parte considerevole della comunicazione sia scientifica, sia di senso comune. Il ruolo dei mezzi di comunicazione si configura come di indubbia importanza nella costituzione delle rappresentazioni sociali; tuttavia esso è stato parzialmente riconsiderato alla luce del ruolo attivo che i soggetti rivestono nel processo di interpretazione della realtà.
In particolare, l’informazione medico-scientifica ha lo scopo di promuovere le conoscenze via via acquisite nella ricerca medica e farmacologia per migliorare la descrizione del corpo umano, della malattia e dello stato di salute, secondo tratti culturalmente peculiari. In tale ottica Guizzardi ha osservato che la comunicazione scientifica nello spazio pubblico non costituisce un’appendice della ricerca scientifica, «ma ne rappresenta una parte integrante», non si può più parlare di divulgazione della scienza, in particolare di quella medico-scientifica, ma di una «negoziazione mediatica della scienza», «in altre parole se si sposta l’ottica della scienza alla scienza comunicata e contemporaneamente ci si allarga dall’interno del campo scientifico allo spazio pubblico si possono notare non soltanto le interconnessioni esistenti, e parlare di continuum scienza-comunicazione, con i concetti relativi di natura interattiva della comunicazione e di contesti multipli nei quali la comunicazione della scienza si colloca, ma soprattutto porre in luce il fatto che il campo scientifico si espande fino a comprendere non scienziati, con la conseguenza, fra le altre, di articolare in modo complesso la figura dello scienziato stesso».
In tale direzione, il processo comunicativo medico-scientifico può essere studiato e descritto attraverso l’ottica di un passaggio di informazioni tra emittente e ricevente che assolve specifiche funzioni, o anche attraverso lo studio dei processi di codificazione dei segni comunicativi, ma anche attraverso le diverse controversie sulla essenzialità della persuasione nella scienza ed ancora nella sua qualità di modulazione della relazione interpersonale, nello specifico contesto in cui è immersa.
L’etimo della parola comunicazione deriva dal greco koinonéo che intende il partecipare e rinvia all’idea della comunità, ad un luogo di interscambio di relazioni tra individui. Nel concetto di interscambio si configura la bidirezionalità, nel senso che ciascun comunicatore è allo stesso tempo emittente e ricevente.
Nel definire la comunicazione per la salute dovrebbe essere tenuto in considerazione il fatto che gli individui non costituiscono più un obiettivo, ma sono i protagonisti fondamentali nell’ acquisizione e nell’accettazione dei messaggi che fanno riferimento alle loro condizioni: la comunicazione e l’informazione scientifica si realizza non solo fra mediatori della scienza ma, soprattutto, fra attori sociali. In tale ottica la comunicazione per la salute può definirsi come un sistema di informazione complesso sui temi della salute e della prevenzione della salute in cui quanto comunicato e scambiato fra gli attori sociali cessa di essere fine a se stesso, viene e verrà prodotto per essere scambiato.
Il  campo della comunicazione della salute si è sviluppato in ambito sociologico soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta negli Stati Uniti e, successivamente, in altri paesi europei. È indicativa di questo sviluppo l’apparizione, nel 1989, della prima rivista scientifica dedicata specificatamente a questo settore, il Journal of Health Communication.
Jackson e Duffy hanno analizzato i mutamenti intervenuti nel corso degli anni Novanta nella comunicazione medico-paziente, nell’organizzazione dei servizi sanitari, nelle campagne di prevenzione del rischio e promozione della salute, nella presentazione della salute nei media, compresi i siti in Internet dedicati a questo tema: nel complesso la “questione comunicativa” sembra essere fondamentale nel campo sanitario e in quello del benessere poiché è in grado di modificare le dinamiche e le concezioni della salute: «in realtà esiste ormai una ampia evidenza del fatto che il processo di costruzione dei fatti scientifici si spinge frequentemente oltre i confini della comunità scientifica entrando nella sfera pubblica mediale».
L’ambito della comunicazione della salute comprende la prevenzione delle malattie, la promozione della salute, la politica sanitaria e il miglioramento della salute degli individui all’interno della comunità e, in questi anni, il contesto di riferimento è progressivamente cambiato: i cambiamenti sembrano includere sia il crescente numero dei canali disponibili, sia il numero della specificità disciplinari. Comunicare la scienza in ambito medico- sanitario equivale ad un impegno rigoroso nella diffusione di notizie o di informazioni sulle conoscenze scientifiche e sulle acquisizioni tecnologiche in grado di destare interesse. L’informazione medico scientifica è investita da una vera e propria questione morale, nell’ambito della quale ad essere chiamati in causarono i rapporti che intercorrono fra media, industria farmaceutica, medici, farmacisti ed informatori scientifici sul farmaco.
La questione sembra porsi sia in termini “morali”, ed a questo proposito il problema si sposta nelle connessioni fra industria e medici, sia in termini di credibilità e spendibilità di quanto offerto in termini comunicativi. A questo proposito sembra opportuno ricordare che il ritardo alla revisione della legge 541/92 ha spinto molte regioni, in via autonoma, a legiferare sull’informazione scientifica del farmaco per garantire un maggior controllo sull’attività di informazione e, in via indiretta, per controllare la spesa farmaceutica regionale. Tale fatto sembra confermare sia la confusione per la mancanza di uno strumento normativo unico, con il rischio che si arrivi, prima o poi, a venti leggi diverse in materia, sia all’aperto conflitto di interessi in corso ed alla relativa mancanza di comportamenti socialmente responsabili da parte dei produttori di informazione.
L’efficacia terapeutica e diagnostica raggiunta oggi dalla medicina e dalla ricerca farmacologia non rivestono solo un significato organizzativo, politico, culturale ed economico, ma soprattutto un profondo significato sociale. A questa maggiore efficacia si sovrappone il passaggio, avvenuto negli anni ottanta, da una nosologia dominata dalle malattie infettive ad una nosologia dominata dalle patologie cosiddette cronico-degenerative, ha contribuito ad una profonda evoluzione della prevenzione e dell’educazione sanitaria impegnate sempre meno su interventi specifici per curare singole patologie e sempre più con l’obiettivo di migliorare gli stili di vita e l’ambiente in cui vive l’individuo.
Il termine educazione sanitaria, che fa riferimento agli interventi mirati nell’ambito di un rapporto asimmetrico con l’attore sociale, ha lasciato il posto a quello di promozione della salute: ciò ha segnato il passaggio da una semplice strategia della prevenzione ad una strategia integrata che privilegia la rimozione di cause di patologie o di fattori di rischio ed azioni mirate a mantenere l’equilibrio della salute, raggiungibile solo con la responsabilizzazione del soggetto e con il miglioramento dell’ambiente in cui vive, oltre che un continuo aggiornamento delle conoscenze diretta alle professioni impegnate nella costruzione della salute (medici, farmacisti, personale sanitario). Tuttavia per tutti gli anni Ottanta con il termine educazione sanitaria si intendevano tutte le strategie preventive ed educative in materia sanitaria. Il dibattito terminologico fra “educazione. sanitaria”/”educazione alla salute” e “promozione della salute” fu molto acceso, soprattutto nel mondo anglosassone circa la distinzione tra “Health Promotion” e “Health Education”.
Attualmente, soprattutto nella pubblica amministrazione, si preferisce utilizzare il concetto di Promozione della salute perché ritenuto più completo e intuitivo, meno prescrittivo rispetto alla sola educazione sanitaria e in linea con il linguaggio adottato da numerosi documenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L’idea di promozione della salute si afferma anche nella informazione medico-scientifica che riveste un ruolo specifico e riservato agli operatori sanitari. Nell’ambito della promozione della salute i modelli di riferimento hanno privilegiato un approccio sistemico centrato sulla persona, almeno nelle dichiarazioni di intento. L’obiettivo, infatti, dovrebbe essere quello di considerare l’individuo nella sua interezza, tenendo conto delle sue relazioni sociali e familiari, dell’importanza della salute e del benessere psico-fisico, senza dimenticare che la salute un costrutto sociale ed è soggetta a variazioni in base al contesto in qui viene considerata. Questo modello implica l’avvio di numerosi processi di promozione della salute in differenti ambiti (scolastico, familiare, lavorativo, ospedaliero, sanitario).
Tuttavia, l’osservazione su alcune caratteristiche della ricerca clinica contemporanea segnalano un progressivo distacco delle specialità del corpo della medicina generale e la tendenza delle stesse specializzazioni verso una settorializzazione. Inoltre, l’efficacia diagnostica ha spostato il suo centro da fatto assistenziale e curativa, verso un approccio diagnostico-curativo, mentre per alcune patologie, ad esempio quelle degenerative, la ricerca sembra essersi concentrati sulla cronicizzazione.
Una interpretazione della forma assunta da questi fenomeni, anche nella prospettiva comunicativa, sembra richiedere un passaggio ulteriore poiché l’individuo non può essere considerato il semplice destinatario del progresso scientifico Accanto all’evoluzione del sapere medico si assiste cosi ad una forte evoluzione delle informazioni e delle rappresentazioni, documentata, ad esempio, dal proliferare di riviste sulla salute, dalle trasmissioni televisive sull’argomento e dai tanti ed incontrollati siti Internet dedicati. Emergono con forza nuovi concetti di salute e di benessere, di malattia e di malessere. La scienza, ma soprattutto la tecnica sembrano oggi impegnate non più a ricercare la verificabilità o falsificabilità di teorie ed ipotesi in termini di verità disinteressata, quanto piuttosto a legittimare il sapere soprattutto in termini di successi pratici e di utilità conseguita.
È così che la razionalità individuale si è fatta limitata ed il pensiero da forte si è fatto debole. In particolare la biologia, la farmacologia, la medicina pratica, con il loro sapere tecnico avanzato, suscitano una miriade di prassi relazionali fra gli uomini e le macchine. Per vie tecnologiche si ripropongono nuove questioni per la sorte dell’umanità, sfide che inducono ad uscire dalle artificialità autoreferenziali e dalla limitatezza di un pensiero che guarda solo alla tekné.
Alla trasformazione dell’ interpretazione del concetto di salute e di conservazione si associa l’effetto comunicativo. La comunicazione avviene in un numero elevatissimo di contesti, dalla scuola al lavoro, attraverso una varietà di canali, dalle relazioni interpersonali fino alla posta elettronica, per messaggi di grande diversità e per motivazioni diverse. La comunicazione medico- scientifica della salute assume un suo valore specifico non solo perché si svolge in luoghi della prassi medica, ma anche perché presuppone un passaggio di conoscenze scientifiche dalla ricerca alla società e viceversa. Questo passaggio di conoscenze implica tutte le problematiche poste dallo scambio tra esperti e non esperti; tuttavia, il contesto di cura e di prevenzione ha delle particolarità che rendono la comunicazione “medico-paziente” un caso particolarmente interessante.
 Il recente sviluppo della comunicazione medico-scientifica configura un più generale cambiamento relativo all’immagine della salute su come viene rappresentata e come è invece attesa. In tale ottica, l’informazione medico-scientifica è un sapere delle relazioni, vale a dire quel sapere che ha per oggetto i processi interattivi nel quale gli attori sociali sono immersi. In una società in cui si vive più a lungo sembra necessario dotarsi non solo di nuovi parametri per definire la salute ma anche per rendere effettivamente possibile una partecipazione alle scelte terapeutiche ed al processo di prevenzione.
L’informazione e la comunicazione medico-scientifica appare così in tutta la sua complessità: un processo che richiede una profonda integrazione fra competenze ed ambiti operativi diversi. Si pensi, ad esempio, alla comunicazione della salute in ambito oncologico, il Censis ha osservato che il tumore e la malattia più temuta dagli italiani (67,5%) «la televisione e i giornali sono le fonti di informazione sanitaria non professionali a cui i cittadini con più frequenza fanno riferimento. Entrambi i media evidenziano una capacità di impatto sui comportamenti non indifferente: gli italiani, dal 15 al 18% hanno concretamente modificato atteggiamento a seguito dell’acquisizione di informazioni sulla salute apprese, dalla carta stampata e dalla televisione».
L’informazione medico-scientifica e della salute si dimostra così a più dimensioni ed è richiesta una capacità comunicativa connettiva tesa all’adozione di linguaggi comuni e comprensibili da tutti, che faciliti il collegamento tra i diversi sistemi relazionali, con il sostegno e la partecipazione da parte degli attori sociali.
Il Censis ha osservato, nel 2001, che oltre quattro milioni di Italiani cercano su Internet informazioni in tema sanitario, quasi altrettanti sono i telespettatori delle sei principali trasmissioni televisive di medicina e più di un milione sono i lettori di periodici dedicati alla salute Cresce l’attenzione per la propria salute e cresce la voglia di saperne di più, è quanto emerge da una indagine realizzata dal Forum per la Ricerca Biomedica e dal Censis su un campione rappresentativo di (1.200) italiani. La ricerca ha evidenziato come la cosa più importante per l’83,6% degli italiani, quando si trova di fronte ad un problema di salute, sia capire bene cosa gli stia succedendo, e il medico rimane, il soggetto nel quale gli italiani ripongono maggiore fiducia e dal quale attinge informazioni per ogni evenienza (oltre il 90% gli si rivolge per malattie gravi o molto gravi il 75 7% per malattie poco gravi ed il 66 3% anche per i piccoli disagi). Tuttavia nei casi di malattie poco gravi e di piccoli disagi gli italiani credono ci si possa rivolgere per ottenere informazioni anche ai media (16,5% in caso di malattie poco gravi e 16,4% in caso di piccoli disagi) e ai conoscenti (6% per malattie poco gravi e 14,5% per piccoli disagi). Cresce anche la fiducia in Internet, il cui uso da parte dei pazienti è giudicato positivamente dal 60,2% degli intervistati (quasi il 75% tra i più giovani), perché accresce la cultura scientifica, mentre il 72,9% (l’84% tra i più giovani) ne valuta positivamente l’uso da parte dei medici, perché consente l’aggiornamento in tempo reale. Il 60,6% degli italiani considera il suo rapporto con il medico come una “collaborazione reciproca in vista della salute”, e il 69,6% lo consulta per primo in caso di disturbo grave.

Negli ultimi cento anni, soprattutto a partire dalla diffusione dei cosiddetti media elettrici, è sopraggiunta una nuova tendenza: scienza e sapere si sviluppano secondo trame tessute da più fili, ai centri si sono sostituiti nodi e collegamenti fra livelli, anche molto diversi. Sembra possibile osservare un significativo cambio di paradigma, una perturbazione epistemologica nel segno della complessità e delle reti di conoscenza. Al pensiero analitico si sostituisce l’idea del mondo come un insieme relazionale e connesso in cui al primato dell’affermazione della scoperta scientifica è collegato il principio della divulgazione scientifica. Il nuovo paradigma della conoscenza ha modificato, da tempo, i termini di riferimento di comunicazione. La ricerca scientifica si interroga sui principi di organizzazione fondamentali è sul contesto dei fenomeni; i sistemi comunicativi, comunque organizzati, si strutturano proprio intorno a questo interrogativo.
Prima di tentare di definire i contorni ditale esperienza sembra necessario tracciare i termini di riferimento di comunicazione e di promozione della salute come un sistema complesso di azioni di tipo educativo, politico, legislativo ed organizzativo che possa favorire una migliore qualità e stili di vita sia a i vello individuale sia a livello di gruppo o collettività. In altri termini, questi sistemi complessi sono dei veri e propri sistemi cognitivi che tendono ad orientare e guidare l’analisi e l’interpretazione delle conoscenze Infatti, i sistemi relazionali producono ed implicano conoscenza e configurano le relazioni sociali cosi prodotte come configurazioni dinamiche.
Il  mondo della comunicazione scientifica è un mondo estremamente eterogeneo e non ci si riferisce più al solo ambito chimico-biologico ma anche al campo della prevenzione e della promozione della cultura dello star bene, degli stili di vita, della sostenibilità, dell’innovazione scientifico-tecnologica al servizio delle persone, alla cura del corpo, al benessere ed alla qualità della vita.
La frequenza con cui il tema della salute compare nei mezzi di comunicazione di massa e la comunicazione trasversale e pubblicitaria di tutti i prodotti inerenti al benessere (in Google, ad esempio, nel mese di ottobre 2004, la parola salute compare oltre sei milioni di volte e la parola health duecentotrentacinquemilioni di volte), lo stesso abuso del concetto di benessere come valore di riferimento per la vita, hanno importanti effetti sulla cultura e sui comportamenti e le relazioni delle persone. In tale direzione, il contesto epidemiologico che corrisponde alla scoperta dei nuovi fatti sembra essere la pietra angolare della salute pubblica e, proprio partendo da questo punto, in genere è proprio l’epidemiologia la base di partenza di ogni attività rivolta all’informazione sul benessere. Tuttavia, da una parte una medicina troppo spesso orientata solo ed esclusivamente verso la evidence based medicine, proprio perché il contesto principale sembra essere quello epidemiologico, dall’altra una banalizzazione ed una volgarizzazione non mediata della informazione scientifica, rischiano di costituire una minaccia seria ai principi d efficacia e di valutazione del sistema. L’epidemiologia è tradizionalmente strutturata intorno ad un paradigma biomedico: il metodo in cui la teoria è relativamente poco importante e l’approccio multidisciplinare attraverso le teorie proprie delle scienze sociali. Sia il paradigma biomedico sia l’approcci multidisciplinare dividono un interesse comune: la prevenzione della saluti della popolazione, poiché si ricercano dati inconfutabili.
Tuttavia, se gli uomini di scienza hanno il dovere di comunicare il loro sa pere critico per mettere le società nelle condizioni di operare al meglio le diverse scelte, alle funzioni chiave della ricerca, da tempo, si è inserita, qual variabile ulteriore di un sistema strutturalmente instabile, l’analisi delle necessità e sostenibilità industriali e finanziarie.
Le osservazioni intorno ad alcuni dei problemi della comunicazione medico-scientifica rendono estremamente complesso il campo di analisi. In particolare, è proprio dalla costruzione del fenomeno di informazione che sembra possibile osservare l’origine delle difficoltà; la comunicazione si realizza in uno speciale rapporto fra due termini principali: il promotore ed il recettore, Il promotore trasmette al recettore, tramite appropriati strumenti e codici, la notizia. Appropriati strumenti e codici sembrano essere la prima delle difficoltà poiché non è più vero che, più alta sarà la specializzazione più ristretto sarà il numero dei recettori. Tradizionalmente, infatti, si tendeva a considerare l’informazione sulla salute come un processo Top-Down in cui le informazioni più complesse venivano riservate ad un ristretto numèro di specialisti, per poi essere trasferite, attraverso mezzi di comunicazione più appropriate, verso un pubblico meno specializzato, fino alla definitiva volgarizzazione. Soprattutto nella modernità solida tali processi hanno costituito la struttura di base delle diverse forme di comunicazione, non solo quelle riservate alla salute ed al benessere. Ma nella cosiddetta modernità liquida non sembra possibile configurare tale processo come quello peculiare. Il diffondersi delle informazioni in quantità, forme e velocità, di fatto, incontrollabili, ha completamente modificato il sistema della comunicazione scientifica.
L’esplosione del fenomeno della comunicazione attraverso le reti informatiche ha aggiunto non solo una diversa velocità nella propagazione di una nuova informazione e la maggiore quantità di dati a disposizione, ha introdotto il concetto di quantità aggiuntiva di informazione prodotta dal sistema mediale stesso. In altri termini, Internet non è solo un nuovo media, è soprattutto un sistema autopoietico che più o meno inconsapevolmente produce una qualità ed una quantità aggiuntiva di informazione, spesso ridondante, in forma autonoma rispetto al promotore della comunicazione. Sul Web ogni giorno vengono pubblicate nuove riviste scientifiche e, se apparentemente il processo di pubblicazione di queste riviste è identico a quello tradizionale sulla carta stampata, i costi sono così bassi da rendere accessibile l’informazione a tutti in tempi brevissimi. inoltre, e questo sembra essere l’elemento che introduce la quantità aggiuntiva di informazione, poiché molte delle pubblicazioni e dei gruppi di discussione, comunque strutturati, non sono mediati e non vi è corresponsabilità, si tende a produrre ex postfacto una quantità marginale di informazione. I mezzi di comunicazione hanno una enorme responsabilità e tale responsabilità, può riassumersi nelle raccomandazioni di Gould: «non vi nulla nella scienza che non possa essere trasmesso in forma chiara, rigorosa ed onesta» ed ancora «la scienza, dal n mento che viene praticata dall’uomo, è un’attività socialmente inserita. E progredisce per impressioni, immaginazione ed intuizione. La maggioranza dei suoi cambiamenti nel tempo non registra un avvicinamento alla verità soluta, ma il mutamento dei contesti culturali che la influenzano così fortemente. I fatti non sono frammenti puri e incontaminati d’informazione; anche la cultura influenza che cosa vediamo e come la vediamo. Se preoccuparsi della efficacia della comunicazione scientifica e della promozione della salute è preoccuparsi del processo della distribuzione delle conoscenze sulla salute, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita del comunità interessate, occorre tenere in considerazione le distorsioni presenti nel sistema. Medicina e sociologia necessitano di un dialogo continuo, integrato nelle mappe cognitive a livello sociale, attraverso un flusso comunicativo complesso, non auto-diretto o auto-referenziale. La percezione del rapporto complesso rapporto salute/malattia, dei comportamenti utili al miglioramento del benessere sembrano passare attraverso lo sviluppo e la connessione dei flussi comunicativi e, in tale direzione, la comunicazione apre sia alla costruzione ulteriore della ricerca, sia al senso ed al significato di essa.
La scienza dovrebbe considerarsi come un vera e propria rete di modelli e di nodi semantici e, in tale prospettiva, il concetto di sapere, nella fattispecie di sapere scientifico, sembra ridurre i concetti di centralità e prevedibilità. Sembra esservi una possibile divergenza fra gli standard di integrità, la scienza ed i problemi posti sia dal conflitto di interesse nella ricerca sia dalla difficoltà di comunicare tout court. Gli effetti delle distorsioni nei processi comunicativi e nella produzione di nuova conoscenza scientifica sembrano essere così tanti quanti i modi di stabilire connessioni fra sistema e pubblico. Al processo comunicativo della salute occorre, probabilmente associare un processo sistematico di osservazione e di verifica dei dati raccolti, oltre la farmaco- vigilanza; un modello concettuale basato sull’interazione fra cliente e sistema sanitario attraverso la farmacia ed il sistema sanitario.
Il bisogno di relazione del sistema sanitario sembra sottolineare la necessità da parte del sistema medico scientifico di aprirsi al contributo delle scienze sociali, in generale, ed alla sociologia della comunicazione in particolare.
Il  sistema comunicativo dedicato alla salute ed al benessere dovrebbe rendere possibile l’integrazione, la sussidiarietà, fra saperi diversi, fra attori sociali ed Istituzioni, ed una più equa distribuzione dei saperi stessi.
Il malessere, nei processi comunicativi, sembra derivare da una relazione tra individui sempre più improbabile: si assottigliano le probabilità che la comunicazione intersoggettiva sia vissuta come significativa per i soggetti in interazione; diminuisce la probabilità che il contesto oggettivo possa favorire una comprensione intima tra chi comunica; diminuisce la probabilità che si realizzino le condizioni specifiche della comunicabilità. Queste caratteristiche della comunicazione sembrano configurarsi anche nell’ implosione delle relazioni di sostegno, di aiuto tra persone: sia la solidarietà spontanea, di mondo vitale, tra singoli o gruppi informali, sia le relazioni istituzionali come quella tra medico e paziente che soffrono dell’incapacità di padroneggiare relazioni profonde e personalizzate.
Cominciare la prevenzione, la cura e la ricerca sulla salute significa riconoscere il valore dell’esistere proprio ed altrui in tutta la sua complessità: corrisponde all’accoglienza dell’esistenza dell’altro come prossimo e simile.

Una buona salute e una efficiente condizione fisica sono garantite dall’eredità genetica, ma anche e soprattutto da un sano stile di vita. Pochi ma importanti sono i fattori che contribuiscono a un buon invecchiamento, tra questi il movimento fisico, la lotta all’obesità e al fumo.
Dai dati forniti dal ministero della Salute per quanto riguarda l’attività fisica dei cittadini italiani emerge un preoccupante andamento: aumenta il numero dei sedentari e tale fenomeno assume particolare rilievo nelle fasce di età giovanile.
Circa il 60 per cento degli adulti tra i 25 e i 64 anni non svolge alcuna attività fisica. La medicina sportiva, invece, ha potuto constatare come negli sportivi “di vecchia data” l’uso costante e sorvegliato di un’attività sportiva adeguata incrementa le resistenze totali dell’organismo, limita l’involuzione muscoloscheletrica e cardiovascolare, stimola le capacità psicocerebrali del soggetto. Un tessuto muscolare quotidianamente attivo è, infatti, il motore attraverso cui sono impiegati la maggioranza degli zuccheri, grassi e proteine introdotti con l’alimentazione. Un muscolo inattivo, invece, limita la potenzialità espressiva della persona e conduce a un invecchiamento precoce e accompagnato da tutte quelle patologie legate alla sedentarietà. 
Una regolare attività fisica previene patologie croniche come   diabete di secondo tipo, disturbi cardiocircolatori, obesità. Inoltre protegge da condizioni disabilitanti tipo osteoporosi, artrite. Infine riduce o elimina fattori di rischio come pressione alta, colesterolo alto. 
 Alcuni studi dimostrano che le persone fisicamente  attive hanno una speranza di vita superiore ai sedentari in media di circa sei anni. Inoltre, l’esecuzione di un’attività sportiva regolare è molto efficace nel ridurre la sintomatologia depressiva, rallenta il declino fisico e cognitivo che talvolta caratterizza l’invecchiamento  e garantisce un buon riposo notturno. 
 In un esperimento statunitense si è raggiunto l’obiettivo di migliorare la salute e la qualità della vita dei partecipanti semplicemente aggiungendo alla normale attività quotidiana 2000 passi in più. Sono sufficienti 30 minuti di cammino svelto, se non tutti i giorni almeno nei fine settimana, per ottenere risultati salutari a tutte le età.

Camminare ogni volta che è possibile, ricordando che i benefici maggiori si ottengono con la continuità. Sfruttare al meglio il tempo a nostra disposizione anche, per esempio, prendendo i mezzi pubblici per andare in ufficio, scendendo una fermata prima della destinazione,  passeggiando durante le pause lavorative, utilizzando le scale al posto dell’ascensore, andando a parlare di persona con il collega anziché utilizzare il telefono o la posta  elettronica.  L’importanza della diagnosi precoce di una malattia e la maggiore efficacia di una terapia tempestiva sono ormai patrimonio culturale non solo della medicina, ma sostanzialmente di tutti i cittadini. Laddove esistono prove scientifiche dell’efficacia di pratiche in grado di garantire ai cittadini significativi vantaggi in termine di salute, è dovere dei servizi sanitari non lasciare la presa in carico di situazioni cliniche all’occasionale, individuale incontro tra medici e assistiti o solo quando si è già in presenza di sintomatologia significativa, ma intervenire con programmi attivi e organizzati di sanità pubblica.
Lo screening è un programma organizzato e sistematico di diagnosi precoce condotto su una popolazione asintomatica, cioè che non accusa nessun disturbo o sintomi di quella specifica malattia: lo screening si rivolge a persone «che si sentono sane». Questa popolazione viene attivamente invitata dalla struttura sanitaria a effettuare gratuitamente un esame clinico, strumentale o di laboratorio, attraverso il quale si può identificare una malattia in fase iniziale, perché, tanto più è precoce la diagnosi, tanto più è probabile riuscire a modificare la storia naturale della malattia utilizzando un trattamento dimostratosi efficace.
Uno screening ben gestito è considerato più efficace  dei controlli clinici individuali su richiesta, in quanto organizzato sempre con un rigoroso approccio scientifico e fondato sulle migliori prassi disponibili.

Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari
Nel 2007 l’Istat ha pubblicato i risultati dell’indagine «Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari», in cui ha rilevato i dati del 2005 sullo stato di salute degli italiani, il ricorso ai principali servizi sanitari, alcuni fattori di rischio per la salute e i comportamenti di prevenzione. Nella rilevazione il campione complessi vo dell’indagine, che comprende circa 60.000 famiglie è analizzato riguardo a: 
Le condizioni di salute della popolazione; 
Il consumo di farmaci; 
La prevenzione; 
L’obesità e l’abitudine al fumo; 
La fruizione dei servizi sanitari; 
L’opinione dei cittadini. 
L’indagine, tra l’altro, evidenzia che nelle quattro settimane precedenti l’intervista sono state effettuati 31.213.000 visite mediche, con una media di 1,9 visite a persona. Negli ultimi cinque anni il numero di visite effettuate è aumentato del 16,7 per cento (pari 4.478.000 prestazioni) e ha riguardato soprattutto gli ultra settantacinquenni (+36,7 per cento). Il numero di visite generiche è cresciuto del 20,5 per cento, quello delle specialistiche del 10,5 per cento. L’incremento complessivo delle visite si verifica in più del 
 la metà dei casi per ripetizione di ricette, in 917.00 casi per malattia e 895.000 per controllo dello stato di salute. Tra le visite specialistiche sono più numerose le visite odontoiatriche (26,9 per cento), seguite da quelle ortopediche (11,4 per cento), oculistiche (10,8 per cento) e cardiologiche (9,5 per cento). L’incremento  maggiore rispetto al 1999-2000 si registra per le visite urologiche (+35,4 per cento), cardiologiche (+34,3 per cento), geriatriche (+33,0 per cento) e dietologiche (+ 32,8 per cento). 
 Il 57 per cento delle visite specialistiche è pagato interamente dalle famiglie. Se non si considerano le visite odontoiatriche si arriva a circa il 48 per cento. Marche e Umbria si distinguono per le quote più alte di visite a pagamento; le più basse percentuali si registrano invece in Sardegna e in Sicilia. È elevata la quota di persone di status sociale basso (46,8 per cento) che si fanno interamente carico della spesa.  Nelle quattro settimane precedenti la rilevazione gli esami effettuati sono stati 15.298.000, escludendo i controlli effettuati durante eventuali ricoveri ospedalieri o in day hospital. Sono 10.664.000 gli accertamenti di laboratorio (18,4 per 100 .persone) e 4.634.000 gli esami specialistici (8 per 100 persone), stabili rispetto al 2000 e eseguiti più dalle donne che dagli uomini. Il 21 per cento degli esami specialistici è a pagamento. Lazio, Puglia, Marche e Sicilia sono le regioni nelle quali più frequentemente i controlli specialistici sono interamente a carico degli utenti.
Le persone di status sociale più elevato fanno più visite e accertamenti specialistici. Le persone con livello di istruzione più basso fanno più visite generiche (41,2 per cento contro il 18,1 per cento), accertamenti di laboratorio (23,3 per cento contro il 16,9 per cento) e ricoveri (4,4 per cento contro 2,3 per cento).
Si ricorre a visite e ad accertamenti specialistici a pagamento soprattutto per la fiducia nel medico o nella struttura di riferimento (71,5 per cento e 55,0 per cento rispettivamente). Anche per il ricorso nelle strutture pubbliche la fiducia è il motivo prevalente (53 per cento per visite e accertamenti specialistici).

I diritti dell’ammalato
I diritti dell’ammalato: un tempo così poco riconosciuti da rendere necessaria la creazione di un apposito «Tribunale del malato», così come si era resa necessaria la creazione di un tribunale dei minori. Minori e ammalati due categorie che, per diversi motivi, non possono difendersi, si trovano in condizione di debolezza nei confronti della società, necessitano di regole «diverse» rispetto al cittadino adulto e sano.
Il Tribunale del malato nasce nel 1980 con il preciso scopo di tutelare i diritti dei cittadini quando devono ricorrere alle strutture sanitarie e assistenziali a causa di una qualsiasi infermità; si sviluppa negli anni successivi inserendosi in un contesto reso ancora più complesso da una profonda rivoluzione, anche culturale, del sistema sanitario: rivoluzione che è in atto da più di venti anni e che, per alcuni aspetti, non è stata ancora a fondo metabolizzata, né da operatori né da utenti.
La legge 833/1978 che istituisce il Sistema sanitario nazionale recita all’art. 1:
«La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero la salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei fronti del servizio.»
Come si vede la tutela dei diritti, la dignità, la libertà della persona umana sono il principio ispiratore della legge, principio ispiratore che viene ribadito nella successiva legge 502/1992, che istituisce le aziende sanitarie locali.
È ben chiaro dunque come il diritto l’ammalato sia una delle idee centrali della riforma e che essa si debba esprimere traverso il «rispetto della dignità e della libertà della persona umana». È interessante allora cercare di capire come questo principio ispiratore si sia tradotto nella pratica comune dell’organizzazione sanitaria e come abbia inciso anche sui comportamenti del personale sanitario.

La tutela della salute
La tutela della salute è ovviamente l’obiettivo cruciale degli interventi sanitari sul cittadino. Tralasciamo l’aspetto della prevenzione etimologicamente più vicino al concetto tutela della salute, ma che trova uno spazio ridotto dallo strapotere della «medicina cura» e che quindi ripristina una salute persa. In fondo è questo che interessa di più al cittadino: quando ci si ammala, avere una sposta in grado di risolvere il problema bene e il più rapidamente possibile. Il che fortunatamente coincide con gli obiettivi che si pone un’azienda sanitaria, anche se, criticamente, dobbiamo dire che il primo obiettivo affrontato e raggiunto è stato quello del “presto” piuttosto che del “bene”.
Ora si parla diffusamente anche di efficacia e non più solo di efficienza come all’inizio della suddetta rivoluzione, e questo si traduce in una maggior garanzia per il paziente, che si vede inserito in un percorso diagnostico-terapeutico ottimale, sia per quanto riguarda la possibile soluzione del suo problema nei tempi più rapidi possibili, sia per quanto riguarda il contenimento degli errori. Già: contenimento e non eliminazione.
L’utopia dell’eliminazione dell’errore, in medicina come in tutti gli altri campi dell’agire umano, è stata abbandonata da tempo per una più realizzabile e concreta ipotesi di contenimento dell’errore, mediante linee-guida, procedure controllate, attraverso un’organizzazione del lavoro e del personale che, se gestita in modo efficace, dovrebbe essere in grado dì raggiungere tale obiettivo. Obiettivo che per la professione medica continua ad avere un valore etico più ancora che legale o assicurativo.
Quello che emerge dalle politiche sanitarie moderne dunque, e che sostanzialmente nasce da una forte spinta al contenimento dì costi sempre più rilevanti e insostenibili, si traduce ed evolve ora in una miglior gestione complessiva orientata a rispondere al diritto fondamentale di ogni cittadino di avere la miglior assistenza possibile in caso di bisogno sanitario.
Dire che sia stato facile metabolizzare tutto questo da parte della dirigenza medica sarebbe una menzogna: dopo un rifiuto iniziale e immediato verso il meccanismo di controllo che tale concezione prevede, la classe medica si sta lentamente e faticosamente riadattando a un sistema che sostituisce il clinico puro con il clinico-manager, pagando l’inesperienza e le difficoltà che emergono ogni volta che si affronta radicalmente un sistema organizzativo. A volte, facendolo pagare anche agli assistiti.

L’uguaglianza
Questo diritto fondamentale deve essere assicurato a tutti, secondo un principio di uguaglianza che oggi non è certo negato. L’esempio più evidente è l’assistenza che viene erogata sul territorio anche a cittadini stranieri non in regola, i quali, in caso di bisogni sanitari urgenti o che possono creare elementi di rischio alla popolazione autoctona, possono accedere ai servizi sanitari in modo gratuito mediante il cosiddetto codice STP (straniero temporaneamente presente). Il libero accesso alle strutture e l’assistenza assicurata anche agli indigenti sono solo alcuni degli aspetti che pongono il Servizio sanitario nazionale italiano ai primi posti delle graduatorie internazionali.





La famiglia è rappresentata da un gruppo di persone direttamente legate da rapporti di parentela, all’interno del quale gli adulti hanno la responsabilità di occuparsi dell’allevamento dei più piccoli1. I legami di parentela sono il risultato di rapporti provenienti da ‘matrimoni o da linee di discendenza tra consanguinei e non. In tal senso, la famiglia rappresenta un’ istituzione della società, un gruppo primario la cui funzione fondamentale è consentire la socializzazione, l’apprendimento, la comunicazione e lo scambio dei sentimenti. Per un bambino l’ambiente familiare occupa dunque uno spazio primario per lo sviluppo della propria personalità, non a caso in essa si ritrovano i più importanti agenti di socializzazione primaria.
Talcott Parsons, familista convinto, le ha attribuito il primato assoluto in tale processo, sottolineando come i primi rapporti sociali della vita di un individuo si instaurino proprio al suo interno e come questi momenti siano decisivi per la formazione dell’identità. Distaccandosi da Emile Durkheim, che alla famiglia contrapponeva le corporazioni come nuova istituzione di base, Parsons ne esalta la funzione nel processo di integrazione dell’individuo nella società, che comincia con l’assunzione di ruolo quale “perno connettore” tra i due sistemi, quello personale e quello sociale. Obiettivo principale del pro cesso di socializzazione è proprio di far apprendere tutto ciò che serve per l’assunzione del ruolo sociale.
A tal proposito Pierpaolo Donati precisa che la famiglia non è un gruppo primario come gli altri, ma piuttosto un luogo in cui la relazione è particolare, originale, e segue criteri di differenziazione propria. Il tipo di relazione che ne sta a fondamento corrisponde a esigenze «funzionali e sovra-funzionali non surrogabili da altre relazioni sociali.
Diversamente da altri gruppi primari la famiglia si caratterizza per un modo specifico di vivere la differenza di gender (che implica la sessualità) e le obbligazioni fra generazioni (che implicano la parentela)». In base a queste due dimensioni, essa segue criteri propri di differenziazione che la rendono diversa dagli altri gruppi primari. I fattori che originano la famiglia sono di carattere relazionale e la sua struttura e dimensione non è la risultante di motivazioni individuali o collettive, siano esse psicologiche, economiche, politiche o religiose, ma le sue radici sono da ricercare nei suoi stessi impulsi interni, che non sono per forza riconducibili a motivazioni esterne quali il sentimento, l’utilità o il potere.
Si tratta dunque di un sistema relazionale primordiale che «esiste all’inizio e dall’inizio», poiché essa è all’origine dell’evoluzione della specie umana e al contempo mediatrice dell’ingresso dell’individuo nella società. La sua composita struttura si sostanzia di mediazioni di cui gli individui non sono sempre esplicitamente consapevoli, ma che ritrovano una significatività nelle relazioni interne e nella formazione della personalità di ciascun individuo che ne entra a far parte.
In questo quadro risulta difficile descrivere e schematizzare tutti i processi relazionali che vivono al suo interno e che vi si auto-producono, tuttavia si può affermare che le relazioni familiari possono essere formalizzate e trasformare la famiglia da gruppo sociale primario a istituzione sociale «la cui importanza sta nel rendere esplicite e regolate le mediazioni funzionali e sovra-funzionali che la famiglia realizza fra il singolo individuo e le sfere extrafamiliari, fra gli elementi naturali e quelli culturali, fra le dimensioni private e quelle pubbliche della vita sociale».
Il  ruolo fondamentale che essa ha, rientra nel processo di socializzazione, fondamentale nella vita dell’individuo per la presa di coscienza del proprio ruolo nella società, ma non solo: nella prospettiva relazionale la famiglia acquisisce tra gli altri anche un ruolo determinante nella salute, nella cura delle malattie, nell’igiene, nelle abitudini alimentari, negli stili di vita e nell’educazione alla prevenzione. Questo importante ruolo multifattoriale del rapporto tra salute e famiglia, per lungo tempo è stato sottovalutato sia dalla scienza sia dalle istituzioni sanitarie, isolando il paziente dal proprio contesto storico psicologico, relazionale e sociale.
Escludere la famiglia e il ruolo da essa compiuto nel momento della comprensione del disturbo e della comunicazione con il paziente, può significa anche non comprendere la malattia, lo stato di disagio vissuto, i processi che ne stanno all’origine, se non addirittura sottovalutare le possibilità cura, riabilitazione e prevenzione provenienti dal sistema di reti relazioni interne alla famiglia.
In un momento storico in cui emerge una concezione olistica della salute (di cui peraltro si è già parlato in altri capitoli), la famiglia emerge con tutta sua importanza, quale ambito da valutare nei processi di cura e di trattamento delle malattie e patologie di varia natura. Alla base di questa concezione pone l’idea che la salute sia un fatto globale, di natura processuale e relazionale che chiama in causa tutti gli ambiti dell’esistenza umana nel loro infinito processo di intreccio sociale.
Indubbiamente i legami tra famiglia e salute sono evidenti anche nei fenomeni contemporanei, quali l’incremento dell’obesità nei bambini provenienti da famiglie disagiate sui quali torneremo oltre, o nelle forme di bulimia nervosa, che possono originarsi come reazione a un disagio inscritto negli schemi relazionali della famiglia. Tra gli elementi che predispongono i disturbi alimentari, si fa accenno anche all‘importanza dei fatti familiari, come ad esempio l’esistenza di un rapporto disturbato tra genitore figlio/a o una particolare configurazione della dinamica familiare. Ciò che emerge dalle osservazioni allargate di famiglie con un componente affetto anoressia nervosa, è che esiste una molteplicità di fattori relazionali conflittuali interni alla famiglia, che possono generare tale disturbo.
In ogni caso risulta difficile trovare dei denominatori comuni sempre uguali in situazioni diverse, ciò anche nel rifiuto dell’idea che vi sia una famiglia tipica che favorisca l’insorgenza di malattie, disturbi o patologie di vario genere, anche perché ognuna ha dinamiche proprie di trasmissione di un disturbo «Non soltanto tipi, gradi e proprietà della diffusione variano secondo i tipi e le  proprietà delle strutture familiari, anche come “reti allargate”, ma sono rilevanti anche aspetti qualitativi differenti, a parità di profili strutturali (intesi come le classiche variabili dell’età, sesso, numerosità dei componenti)». In tal senso, dunque, le relazioni familiari possono rappresentare una causa possibili disturbi del comportamento alimentare.

La famiglia quale istituzione sociale può giocare un duplice ruolo nel processo di relazione con la salute da una parte essere un “canale” per la trasmissione delle malattie, dall’altra rappresentare “un aiuto” possibile nella cura e terapia delle stesse.
L’idea di una correlazione diretta e univoca tra famiglia e salute, tra contatti familiari e malattia apre un dibattito assai vasto cha va dalla vicinanza fisica quale elemento di trasmissione di infezioni, virus o stati patologici diversi, fino alla diffusione di concezioni, abitudini e conflitti di vario genere, quali fattori determinanti l’origine di un disturbo. Indubbiamente il problema va trattato su due fronti, il primo di carattere epidemiologico, il secondo prettamente relazionale; vi è comunque la convinzione ormai accertata che esista una suscettibilità differenziale delle famiglie nel diventare motivo diretto o indiretto di malattia. La variabile famiglia di per sé non può comunque essere la sola causa di uno stato di malattia, piuttosto la correlazione con altre variabili che in qualche modo toccano la vita dell’individuo all’interno e all’esterno della struttura familiare.
I censimenti, le indagine e le ricerche in questo senso testimoniano un nesso tra i tassi di morbosità e le situazioni familiari vissute dai pazienti. Nelle famiglie conflittuali, frammentate o in cui è assente una possibilità d’aiuto, sono maggiori le probabilità di insorgenza di un disturbo. Se si combinano situazioni difficoltose o problematiche in famiglia con un’insufficienza di sostegno sanitario, si verifica anche un accrescimento della suscettibilità nei confronti di malattie fisiche, psicologiche e mentali In questo senso la famiglia contribuisce sul piano causale all’insorgenza della malattia, in modo scatenante o collaterale, «ma in taluni casi può essere essa stessa la malattia soggiacente al corso esistenziale delle persone, o comunque il fattore strutturale di amplificazione delle patologie».
Quale canale di trasmissione, il ruolo della famiglia deve comunque essere inteso come un rinforzo che si struttura sulla base del sistema delle risposte che la famiglia fornisce nell’insorgenza della malattia: può contribuire ad aggravarne lo stato di gravità, come influenzare negativamente il processo di cura. Esistono dinamiche familiari, peraltro ancora difficili da spiegare nella loro globalità, che arrivano a situazioni contraddittorie nel trattamento della malattia, manifestandosi attraverso la negazione della stessa, la vergogna dell’essere malati o la considerazione superficiale di uno stato di salute gravemente compromesso. La letteratura psicologica evidenzia come alcuni casi di malattia come ad esempio il diabete, siano negati nella famiglia e il trattamento del malato sia espresso in condizioni nascoste, private; così come nel caso di stati patologici di anoressia o bulimia nervosa ove le madri rifiutano l’ammissione di stati gravi di disturbi del comportamento alimentare, anche di fronte a evidenze tangibili di dimagrimento improvviso e immotivato.
Oltre a rappresentare un canale di trasmissione delle malattie, la fan può comunque rappresentare anche un luogo di cura e terapia, soggetto nella prevenzione e nella riabilitazione di diverse patologie. Determinante nell’educazione alimentare, nell’apprendimento degli stili di vita e di comportamento, nonché nelle abitudini e nelle pratiche d’igiene, la famiglia ha un ruolo da valorizzare nei programmi di cura e di trattamento delle patologie Ancora, preso atto che per il malato la famiglia rappresenta un aspetto da valutare come parte del contesto storico, sociale, culturale e psicologico in cui vive, appare inevitabile un suo coinvolgimento al momento nel trattamento terapeutico. Nei casi di malattie cardiovascolari, di ipertensione arteriosa, di problemi respiratori, le abitudini quotidiane della famiglia sono coinvolte nella prevenzione; nel caso di trattamenti specifici farmacologici o di rientri dall’ospedale dopo interventi chirurgici di rilievo, la famiglia diventa determinante per il rispetto dei programmi di cura; nei casi di incidenti, invalidità problemi di mobilità, le reti familiari acquisiscono un ruolo decisivo programmi di riabilitazione (se si pensa ai soli costi di terapie riabilitative alla gestione quotidiana di chi con costanza deve effettuare ginnastiche o massaggi terapeutici); infine nei casi di riuscita dalla tossicodipendenza o da disturbi del comportamento alimentare, la rete relazionale dell’istituzione familiare, diventa essenziale ai fini del reinserimento sociale.
Nella concezione olistica di salute, e sulla base di una teoria relazionale come espressa da Donati, diventa indispensabile rivalutare il ruolo della famiglia e di "tutta la rete che si muove dentro e attorno”, quale risorsa basilare per la comprensione e il trattamento delle malattie, senza limitarsi a ricercare il problema nei singoli aspetti che possono averlo originato.
Tale prospettiva ha aperto spazi di considerazione nella gestione della malattia a domicilio: una politica che spinge a creare le possibilità domestiche per le terapie nella cura dell’HIV o a dimettere quanto prima i pazienti anziani che nelle strutture sanitarie vivono un’esperienza troppo forte di sradicamento. Sia nei casi di malattie gravi, sia nella cura degli anziani o di bambini ammalati di una delle “malattie dell’infanzia”, la tendenza odierna è di agevolare la terapia nella famiglia, che può diventare attore principale nel trattamento e nella cura. La rete di relazioni presente in essa, agevola così le condizioni per una guarigione più rapida e meno faticosa della malattia, nonché un decorso meno sgradevole. Nel caso dei bambini, la famiglia e soprattutto la madre, rappresentano un universo senza dubbio più umano rispetto all’ospedale. In casi di malattie che si protraggono nel tempo poi, la “domesticità” della cura permette anche la possibilità di mantenere il contatto con la scuola e con la dimensione dell’apprendimento, fattore determinante per la crescita psicosociale.
Seguendo tale prospettiva diventa inevitabile pensare alla famiglia come a un soggetto basilare di prevenzione, di cura e di riabilitazione, proprio per la  sua duplice caratteristica di possibile fonte e possibile cura della malattia.

Lavoro e salute: la precarietà nell’età post-moderna

Nell’affrontare la tematica dedicata alla relazione tra salute e lavoro nella società post-moderna, ci si trova di fronte a una lunga lista di aspetti di rilevanza sociologica. L’argomento è senza dubbio ampio e il dibattito contemporaneo vivace: si va dall’importanza della tutela della salute, alla sicurezza e all’igiene sul posto di lavoro, dalla discussione sulla normativa esistente alle forme assicurative del lavoratore, dal mobbing alle nuove “malattie da ufficio”. Ciascuno di questi apre un’ampia discussione sociologica.
Qui ci si occuperà di alcuni di questi aspetti che, partendo dall’analisi del contesto economico - produttivo della società contemporanea e passando attraverso la descrizione delle nuove modalità lavorative atipiche, si sono ritenuti importanti per capire quali siano i rischi di salute dei nuovi lavoratori.
La società contemporanea vive un momento di transitorietà caratterizzato da una spiccata evoluzione tecnologica, da mutamenti economici, sociali e culturali di entità globale. Non a caso la letteratura sociologica contemporanea pullula di definizioni di una società post-moderna in crisi, una società dell’incertezza e del rischio. In effetti le nuove tecnologie, la globalizzazione dei mercati e la nascita di società multiculturali, stanno cambiando radicalmente il volto della società contemporanea trasformandola da moderna e razionalizzata in liquida e instabile.
Se guardiamo soltanto ai processi in atto all’interno del mercati del lavoro europei, appare evidente come si stia manifestando, seppur in maniera differente a seconda del contesto nazionale, una sorta di erosione del contratto lavoro classico, stabile, di tipo fordista che ha caratterizzato per tutta la modernità l’occupazione nelle grandi imprese pubbliche e private, in favore una moltiplicazione di contratti di lavoro “marginali”.
Contemporaneamente si sta assistendo a un indebolimento dell’opposizione tra mercati del lavoro interni e mercati del lavoro esterni, nonché ad una complessificazione dei percorsi professionali che trattengono diversamente i giovani nei loro percorsi di studio: Si sta verificando una redistribuzione dei rischi economici e sociali tra imprese e lavoratori, che sta comportando la nascita di nuove forme di precarizzazione sociale. Questa sembra essere causa oltre che dall’emergere di nuovi mercati transizionali, anche e soprattutto c la moltiplicazione delle forme giuridiche dei contratti di lavoro. Le trasformazioni avvenute negli ultimi anni all’interno dell’organizzazione delle modalità lavorative hanno profondamente modificato il quadro dei rischi relativi salute e alla sicurezza dei lavoratori. Si sono attenuate alcune patologie ma sono giunte di nuove, tra cui tutta una serie di gravi malattie di cui è difficile individuare con certezza l’origine e di cui è impossibile trovare immediatamente una relazione causale diretta con l’attività professionale.
Al fine di comprendere quali siano i nuovi rischi per la salute e la sicurezza di chi oggi è attivo nel mercato del lavoro occorre valutare una molteplicità fattori piuttosto differenziati. È necessario analizzare le trasformazioni organizzative avviatesi con le tecnologie e valutare le conseguenze che hanno le modalità, sulla percezione e sulla qualità del lavoro; solo in un secondo momento si comprenderà il legame esistente «tra i cambiamenti avvenuti rapporti contrattuali e le ripercussioni causate nell’ambito della salute e sicurezza». Infine si focalizzerà l’attenzione sulle nuove figure professionali soggette ai rischi sociali e di salute
Come già era stato indicato dal CENSIS nel 2000, nel sistema economico contemporaneo dell’Italia, innovazione, competitività e tecnologia divengono parole d’ordine sia per le imprese sia per i lavoratori. Per le prime esse si traducono in investimenti economici, in formazione professionale e in capacità di rischio, mentre per il lavoratore diventano richieste di competenza, capacità organizzative e autonomia, in una parola sola flessibilità. Ciò che il CENSIS aveva intravisto nel 2000 era solo un anticipo di ciò che a distanza di sei anni è diventato ancor più reale.
Il mercato del lavoro italiano si va caratterizzando sempre più per un’occupazione flessibile, che reclama al lavoratore una marcata autonomia, una viva intraprendenza e una spiccata capacità organizzativa e di adattamento. Si sta compiendo infatti l’ultimo passaggio da un modello industriale di economia a un modello post-industriale, in cui a un accento sul volume della produzione, si sostituisce il valore della produzione e quindi una concezione della crescita non più quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Si sta passando definitivamente da un’economia di scala a un’economia flessibile.
Il  modello fordista che per buona parte del XX secolo è stato a fondamento del processo produttivo, lascia il posto a forme alternative, diverse di organizzazione del lavoro, che segnano il passaggio storico verso un sistema nuovo, post-fordista che, pur mantenendo inalterate alcune caratteristiche della produzione, di fatto rivoluziona l’organizzazione del lavoro.
In questo momento di transizione, le imprese di ogni dimensione si trovano infatti impegnate nell’applicazione delle nuove tecnologie e implicate nelle possibilità e nelle problematiche connesse alla globalizzazione dei mercati. Sono alle prese con nuove esigenze del mercato, che impongono la rivisitazione dei sistemi produttivi, coinvolgendo le strategie, le attività e le modalità di produzione, i tempi e i metodi di organizzazione del lavoro. Ecco perché il sistema taylorista - fordista standardizzato e stabile, tipico delle società moderne e non più adeguato al mercato contemporaneo, viene soppiantato da nuove modalità organizzative caratterizzate dalla ricerca della flessibilità. Essa rappresenta da un lato il perno del nuovo sistema e la soluzione migliore per rispondere alle richieste del nuovo mercato, dall’altro la causa di sconvolgimenti nella compagine lavorativa.
Se per lungo tempo e per tutta la modernità, il lavoro ha rappresentato delle più importanti certezze della vita privata e sociale del singolo, l’elemento regolatore del proprio progetto di vita, fortemente collegato con il valore del riconoscimento di sé e del proprio ruolo sociale, oggi esso acquisisce forme nuove e sempre più difficili da definire sociologicamente. D’altronde non si vede come esso possa mantenere le caratteristiche del passato, quando l’applicazione delle nuove normative sul lavoro impone una rivisitazione delle forme contrattuali e delle condizioni lavorative che puntano alla massima flessibilità.
In questo scenario di mutamento resta costante e stabile la funzione di riconoscimento della condizione di cittadino, nonché la costruzione dell’identità sociale che passano pur sempre attraverso la conduzione di un’attività lavorativa. In un sistema discontinuo e flessibile come quello odierno diventa quasi contraddittorio riuscire a costruire la propria identità sociale grazie al lavoro, con una serie di problemi che ne conseguono sul piano fisico, psicologico e sociale, correlati con la salute.  
Le opportunità offerte dal lavoro flessibile acquisiscono un’accezione negativa nel momento in cui hanno ricadute sulla personalità del lavoratore vita quotidiana. Il lavoro atipico in cui l’autonomia e la libertà dei lavo rappresentano la prima regola, i lavoratori devono essere più competenti, con un’elevata qualificazione, e al contempo più esposti al rischio di precarietà professionale e di vulnerabilità sociale, con forti ripercussioni sullo stato di salute.
Il processo di de-standardizzazione del lavoro insieme al progressivo sviluppo dei sistemi informativi, dà vita all’individualizzazione dei rapporti di lavoro col conseguente venir meno dei legami sociali e del senso di appartenenza, fondamentali per lo sviluppo dell’identità collettiva e dell’integrazione professionale prima e sociale poi.
Il rischio più grande che ne consegue diventa un disorientamento personale e sociale che porta a un continuo stato  di incertezza col conseguente accumulo di stress e di malessere vissuto.
Le profonde trasformazioni del mercato del lavoro, l’innalzamento dei livelli di studio e la diversificazione dei percorsi formativi, fanno sì che il processo di transizione al lavoro sia sempre meno un percorso lineare e prevedibile, contrassegnato da una sequenza ordinata e coerente di esperienze formative ed episodi lavorativi. Quello di oggi è un mercato del lavoro più aperto e dinamico, ma anche, meno trasparente e più precario, che richiede all’individuo, spirito di iniziativa, una buona dose di spregiudicatezza, di calcolo, progettualità e capacità di cogliere e interpretare le tendenze del mercato. Caratterizzato da una forte richiesta di flessibilità nei confronti del lavoratore, le possibilità correlate al lavoro, lo mettono in condizioni di situazioni sempre nuove in cui deve prendere abilmente decisioni operative con un carico di responsabilità notevole che caratterizza l’operatività del lavoro flessibile. Tra i lavoratori emerge la sofferenza di chi ha paura di non soddisfare, di non riuscire nel compito, di non essere all’altezza, di non rispettare tempi, ritmi, modalità e livelli di conoscenza e d’informazione; c’è inoltre il timore di non avere esperienza sufficiente e rapidità nell’acquisizione di nuove pratiche, né di possedere capacità di adattamento alla cultura dell’impresa. Sono queste le paure che si sommano a uno stile di vita stressante e stressato sono stati di sofferenza che impediscono al lavoratore post-moderno di godere di una salute equilibrata, portandolo a un rischio più elevato di malattie.
Nella società contemporanea il lavoro precario, massima espressione dell’incertezza e del rischio che la caratterizza, è affiancato anche da stati di salute precaria, vissuto da coloro che operano in condizioni lavorative più stressanti e a costante rischio malattia
Si e avuta in passato la tendenza a pensare che la sofferenza nel lavoro fosse se stata attenuata dalla meccanizzazione e dalla tecnologia, che avrebbero evitato il contatto diretto con la materia tipica delle mansioni industriali, e avrebbero convertito la manovalanza in operatori dalle mani pulite, trasformando gli operai in impiegati”.
Come appare evidente, la realtà dei fatti è altra storia. Anzitutto occorre rilevare che, oltre alle nuove categorie di lavoratori precari oggi, nonostante le tecnologie ci siano venute in aiuto e sebbene in molte aziende gran parte del processo produttivo sia meccanizzato, permane ancora un esercito di lavoratori che compie lavori in situazioni di estremo pericolo per il loro stato di salute, in condizioni ancora rischiose e non troppo diverse da quelle del passato. È il caso di operai manutentori del nucleare, delle imprese di pulizia, degli allevamenti di polli e dei macelli industriali, delle aziende di trasloco e di confezioni tessili. Con fattori di nocività piuttosto eterogenei, queste nuove categorie di lavoratori esposti a diversi rischi di salute vivono in situazioni di pericolo esattamente come prima dell’avvento della tecnologia, e vanno tenuti in considerazione nelle riflessioni sul sistema di salute pubblica e di cura e tutela della salute del lavoratore.
In secondo luogo se da un lato dobbiamo ringraziare le tecnologie per esserci di sostegno nella catena di montaggio e nell’esclusione dell’uomo da alcuni comparti lavorativi estremamente rischiosi, dall’altra non dobbiamo dimenticare coloro che ancora vivono situazioni lavorative così pericolose, né sottovalutare i problemi di salute e sicurezza connessi alle nuove tipologie di lavoro. Queste categorie di lavoratori fanno parte della compagine lavorativa e rischia la propria salute sul posto di lavoro. In questo scenario occorre chiedersi se sia utile ripensare e riformulare il concetto di sicurezza e tutela della salute sul posto di lavoro.
A conferma della preoccupante situazione stanno i dati che emergono dalle prime ricerche sul tema dei rischi di salute nel lavoro precario. Nella realtà lavorativa italiana va detto anzitutto che i precari sono soprattutto “adulti/giovani” che si attestano sulla trentina d’anni, di cui una quota significativa vive con i genitori e la stragrande maggioranza non ha figli. Una buona parte sono donne che se arrivate alla soglia dei quaranta anni, soltanto per un hanno un figlio. Ben il 76% lavora per un unico datore di lavoro con trattamenti economici alquanto contenuti e con un rapporto di “dipendenza” piuttosto particolare.
Più della metà dei precari «svolge un orario superiore a q standard, ossia più di trentotto ore a settimana, soprattutto nel privato. Nonostante gli orari lavorativi lunghi, ben il 46% [...] ha una retribuzione inferiore a mille euro al mese. Tra questi, poco meno di un quarto guadagna meno di ottocento euro. Si tratta soprattutto di lavoratori del privato e del privato sociale. I “Tecnici” e gli “Intellettuali”, che svolgono orari lavorativi ben sopra dell’orario standard, hanno redditi mediamente più elevati, ma comunque di gran lunga inferiori a quelli dei loro colleghi dipendenti e mai superiori a millecinquecento euro mensili». In generale poi la durata dei contratti è piuttosto breve: il 28,3% ha un contratto della durata massima di sei mesi e il 56,5% di un anno, mentre soltanto una minoranza esigua può contare su contratti di durata superiore.
Questo testimonia una condizione piuttosto complessa che provoca nei lavoratori un senso di insofferenza, di malcontento malessere generale. Questi stati psico-fisici, gli psicologici del lavoro li prendono nella frustrazione, rilevando come essa possa avere ricadute ne ve sulla qualità del risultato e del compito svolto, nonché sulla salute generale del lavoratore che accusa stati costanti di affaticamento se non addirittura malattie obiettivamente diagnosticate.
Tra i fattori che influiscono maggiormente sullo stato d’animo di chi la in queste condizioni, emergono soprattutto gli aspetti legati ai trattamenti contrattuali e alla mancanza di diritti previdenziali e di tutela. «In generale, sono abbastanza soddisfatti dei rapporti personali che hanno con i loro e colleghi e con i loro superiori; [...] I motivi di maggiore malcontento sono in legati alla retribuzione, alla possibilità di crescita professionale, al coinvolgimento nelle decisioni aziendali e alla garanzia delle tutele sociali» nonché  ai ritmi di vita e alle condizioni di elevato stress in cui svolgono la propri attività.
Altre evidenze dello stato di malessere sono rintracciabili sia nel allungamento dei tempi necessari per raggiungere una prima posizione occupazionale, sia nella crescente distanza tra il tipo di carriera scolastica e lo sbocco occupazionale. Nel percorso di avvicinamento a una condizione professionale più stabile, si susseguono e si alternano sempre più spesso periodi di studio, esperienze lavorative a carattere formativo e prestazioni professionali remunerate, temporanee e occasionali.
I lavoratori flessibili devono destreggiarsi in uno scenario di doppia incertezza che riguarda sia le propensioni e capacità personali, sia la forte preoccupazione di perdere il lavoro, che spesso li spinge ad accettare lavori non strettamente collegati con i loro percorsi di studio.
I recentissimi dati pubblicati dall‘Ires presentano i lavoratori atipici come i più preoccupati in assoluto. Sono circa il 61,9% coloro che dichiarano un elevato stato di preoccupazione rispetto alla possibilità di restare senza lavoro, contro il 15,2% dei lavoratori con contratto standard. Per questo trascorrono spesso periodi di iperlavoro che non sono seguiti da periodi di riposo e la loro libertà nella gestione del tempo è sovente limitata. Anche se contrattualmente non devono recarsi sul posto di lavoro tutti i giorni alla stessa ora, nella realtà dei fatti i lavoratori flessibili sono caldamente invitati a farlo comunque. Sono liberi di decidere se prendersi una giornata ma poi, nei periodi di maggior attività, restano al lavoro per giorni e settimane senza dedicare tempo ad altro. Se da un lato, quindi esiste la libertà formale di decidere e stabilire autonomamente modalità e ritmi di lavoro, dall’altro i committenti impongono loro un’organizzazione operativa i cui margini di discrezionalità si rivelano piuttosto ridotti.
A conferma di questo si aggiungono altri dati interessanti. Nell’ultimo rapporto CENSIS, accanto alla crescita dell’economia italiana emerge che il 33,8% degli italiani lavora abitualmente in orari faticosi: di sera, di notte, nei week-end, e a casa oltre l’orario abituale. A questa percentuale si aggiunge un 19,8% cui capita, invece, saltuariamente di dover lavorare in orari pesanti (durante i pasti o nelle pause di lavoro), per un totale di circa otto milioni centotrentottomila lavoratori, (vale a dire cinquantatre su cento). L’orario atipico più diffuso è il lavoro di sabato, che interessa ben il 29,5% dei lavoratori italiani, seguito dall’ attività serale (11% degli occupati), domenicale (6,5 %) da quella notturna, che coinvolge complessivamente ben il 5,6% del campione. Questo ritmo di vita, come si è visto, viene tenuto per periodi di tempo estremamente allungati e in condizioni ai limiti della resistenza fisica, psichica e sociale. Lo svincolo da un preciso orario di lavoro spesso si trasforma frequentemente in uno squilibrio che influenza negativamente la sfera privata cancellando di fatto i confini tra tempo di lavoro e tempo di riposo e di svago. Se questo è vero, se il lavoro pervade il tempo privato dei lavoratori, invadendo il loro spazio di vita personale e determinando prestazioni lavorative intense con giornate di lavoro prolungate ben oltre l’orario consueto, pare evidente che ci si trova di fronte a soggetti post-moderni particolarmente a rischio.
Gli spazi occupati dalle attività retribuite si impadroniscono anche dello spazio di vita privata, impedendo una relazionalità e una socialità di cui l’essere umano ha necessità. Nella scala dei bisogni umani, come insegnano le teorie di Abraham Maslow e quelle di Ronald Inglehart, esiste “un bisogno di relazionalità sociale rinvenibile in quell’area” [ ] di “bisogni sociali di autorealizzazione, appartenenza e stima”. Senso di comunità, rapporti di fratellanza, relazioni face-to-face, produzione intersoggettiva di senso all’interno del mondo della vita quotidiana», insieme a interazioni sociali soddisfacenti e all’autorealizzazione, sono fondamentali per l’equilibrio fisico e sociale dell’essere umano.
Oggi, lo stress da iperlavoro, con la conseguente inadeguatezza nelle capacità del singolo di regolare ritmi di vita lavorativa con spazi di vita rappresenta uno dei principali fattori a rischio malattia, rimanendo un componenti principali dello stato di malessere, e indubbiamente non la sola: moltéplici sono le conseguenze sullo stato di salute provenienti da uno stile di vita incerto e precario.
Anche se i dati che emergono dalle ricerche condotte in questo ambito nei diversi paesi europei, non rappresentano una realtà omogenea e non permettono generalizzazioni teoriche, di fatto sembra esistere una relazione forte tra le trasformazioni delle relazioni salariali e i rischi correlati alla salute e alla sicurezza sul lavoro.
Nello specifico, in una ricerca del 2002 condotta dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro, emerge come la velocità dei cambiamenti e la complessità delle modalità e delle condizioni lavorative infonda, in chi è attivo, un senso di perdita di controllo sulla propria vita e sul proprio lavoro. A ciò si aggiunge la pressione causata dall’accelerazione dei tempi di lavoro che comporta inevitabilmente un aumento dello stress e della fatica nervosa.
I dati europei sulle forze di lavoro rilevano che le malattie emergenti caratteristiche della post-modernità quali stress, depressione, ansia, (ma anche violenza sui luoghi di lavoro, molestie e intimidazione) rappresentano ben il 18% dei problemi di salute sul lavoro e che un quarto di questa percentuale è costretta a un’interruzione delle attività pari o superiore alle due settimane. Queste patologie appaiono non tanto legate all’esposizione a un rischio specifico sul luogo di lavoro, quanto a un insieme di fattori differenziati che vanno a insidiare ciò che solitamente viene definito “benessere sul luogo di lavoro”.
Le numerose e continue responsabilità legate al ruolo, i conflitti coi colleghi, le ansie sul futuro del proprio contratto, il carico indefinito di compiti, l’ambiente non sempre adeguato e i ritmi pressanti, sono altre possibili fonti di stress che possono avere conseguenze sullo stato di salute e causare anche comportamenti di carattere “difensivo”: dall’ assenteismo, all’ incapacità di fronteggiare le situazioni nuove nei compiti assegnati, dalla difficoltà di socializzazione alla somatizzazione corporea dell’incertezza.
Tutto questo carico da lavoro ha notevoli costi anche per la società: le forme di assenteismo e di richiesta d’indennizzo per malattia professionale, ove previste da contratto, sono in considerevole aumento. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato un allarme, stimando che sia addirittura il 30% della popolazione mondiale attiva a essere affetta da disturbi mentali di tipo non psicotico (magari non riconosciute nel DSM-IV), presentando una situazione alquanto preoccupante.
Le prestazioni saltuarie, fissate soprattutto dalle specifiche tipologie contrattuali, hanno incrementato la gravità delle situazioni di stress, (derivanti soprattutto dall’insicurezza per il futuro), che arrivano fino all’ansia e a forme di depressione di diversa gravità. Tutto questo ha ripercussioni anche sullo si di salute e sulle speranze di vita: è stato già calcolato come i disoccupati di lunga durata rappresentino la categoria sociale che ha speranze di vita minori e che le loro storie personali sono caratterizzate da forti depressioni, ansie e tentativi di suicidio.
I disoccupati non sono comunque gli unici soggetti da valutare sotto questo profilo. Gli studi condotti sul rischio di salute nei luoghi di lavoro, hanno subito evidenziato come l’esecuzione di compiti che hanno una quotidianità monotona, che sono ripetitivi o faticosi, che avvengono in condizioni insalubri o di isolamento, aumentano le probabilità di incidenti dovuti soprattutto a disattenzione, mancato controllo, indolenza o leggerezza nello svolgimento delle attività.
Per quanto concerne invece i rischi che accompagnano i cambiamenti venuti nelle relazioni contrattuali, si può affermare che esistano forti differenze tra lavoratori permanenti che hanno un contratto a tempo indeterminato lavoratori flessibili che hanno contratti a termine, rispetto ai temi di sicure; e tutela della salute sui luoghi di lavoro. A uno sguardo veloce sembra che i rischi siano gli stessi per entrambe le categorie, ma in realtà come si è accennato esiste una specificità caratteristica del lavoratore flessibile. Emerge dunque come questa categoria di lavoratori sia molto meno informata rispetto agli eventuali rischi del proprio lavoro, e che i corsi di formazione, eventualmente previsti e svolti all’interno dell’organizzazione aziendale, non siano all’altezza dell’informazione necessaria.
Se si osservano poi le condizioni di lavoro a cui questi ultimi sono sottoposti la situazione appare ancora più grave. Inoltre per quanto i lavoratori a tempo indeterminato si confrontino con richieste ed esigenze di lavoro sempre più impegnative, i lavoratori precari vivono condizioni in cui esiste un minor controllo sui processi lavorativi e organizzativi perché inquadrati in attività i cui processi non sono standardizzati, vivendo stati compositi di malessere che si sommano alla prospettiva di dover cambiare frequentemente lavoro e all’eventualità di over restare inattivi per lunghi periodi. Nello svolgimento di mansioni temporanee dì breve durata, e di progetti che hanno un termine temporale inoltre, il lavoratore la “percezione gruppale del rischio”, ovvero l’occasione di percepire gli accordi e le soluzioni implicitamente o esplicitamente adottate dal gruppo, nel caso si trovassero a fronteggiare situazioni di pericolo e/o di emergenza.
Se a tutto ciò si aggiunge l’indice di infortuni riscontrato nei lavoratori precari, emerge un dato estremamente interessante rispetto agli interinali. «Pur essendo difficilmente verificabile sulla base dei dati quantitativi a disposizione, la casistica dimostra uno spostamento dei rischi a sfavore dei lavoratori temporanei e dei subappaltatori, i quali risultano nel complesso meno protetti e/o meno consapevoli dei rischi medesimi».
È stato rilevato infine che nonostante possa esistere una differenza di età, di occupazione e di settore, tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori atipici, un nesso tra le condizioni ergonomiche critiche e i contratti atipici sembra sempre più considerevole.
Di fronte a uno scenario di questo tipo i medici chiedono aiuto nella definizione di nuove tipologie di malessere provenienti dal lavoro e correlate all’impiego e alle condizioni in cui si svolge. I medici e gli istituti di medicina del lavoro cominciano a lanciare l’allarme, evidenziando come a parte una diffusa e ormai nota svogliatezza nel riprendere i ritmi di lavoro dopo un periodo di riposo e di vacanza, si debba fronteggiare il rischio di una serie di disturbi legati allo svolgimento della propria attività, ancora non sempre riconosciuti come tali. Si va dalle ormai accertate conseguenze provenienti stile di vita lavorativa sedentario, (come obesità, aumento di colesterolo alle vere e proprie “malattie da ufficio”, fino a l’emergenza di nuove forme di disagio legate al terziario. Senza dedicare spazio alle problematiche provenienti da una vita sedentaria che qui richiederebbero una riflessione ben ampia sugli stili di vita, vale la pena dedicare qualche riga alle “malattie ufficio”. Tra queste la più conosciuta è la sick building syndrome (“sindrome da edificio malato”) che ha cause multifattoriali e non è considerata una vera e propria malattia: si tratta piuttosto di una serie di disturbi che affliggo passa molte ore all’interno di un edificio chiuso. Questi sintomi colpi soprattutto l’apparato respiratorio, ma non solo: fastidi agli occhi, spesso arrossati e irritati, sensazioni di occlusione e secchezza di naso e gola, disturbi causati da tosse e senso di oppressione toracica; pelle disidratata nonché sintomi legati al sistema nervoso con senso di apatia e svogliatezza. Sulla base delle osservazioni mediche, sembra che questi sintomi scompaiano una che le persone si siano allontanate dall’edificio in cui lavorano.
Se si osserva poi la struttura del luogo di lavoro e il suo mantenimento, vengono riscontrati altri problemi di salute legati agli impianti di ventilazione artificiale o di condizionamento dell’aria, come pure correlati alla man di luce solare e alla respirazione costante e quotidiana di aria “viziata”.
Effettivamente i medici dichiarano che alcuni agenti patogeni (come batteri e parassiti) possono essere trasmessi grazie all’aria condizionata dell’ufficio causando asma bronchiale, alveoliti allergiche estrinseche e polmoniti del legionario.

In Italia, in base alla rilevazione Istat anni 2002-2 005, le persone con oltre 65 anni di età sono 11.379.341 su un totale di 56.993.742 abitanti (circa il 20 per cento della popolazione). Nella programmazione dei servizi occorre dunque considerare specificamente i bisogni assistenziali che può esprimere quest’ampia fascia di popolazione.
I servizi sanitari e sociosanitari in favore delle persone anziane sono finalizzati a rafforzare l’autonomia individuale, a prevenire la non autosufficienza, a mantenere quanto più possibile la persona nel proprio contesto familiare, nella propria casa, assicurando — al momento del bisogno — assistenza qualificata in ospedale, in strutture residenziali, a domicilio. I servizi sono organizzati in rete per poter garantire continuità delle cure e della relazione.
I servizi di assistenza agli anziani sono presenti in ogni ASL (in genere situati nei distretti sanitari) e hanno una funzione di coordinamento per l’assistenza sanitaria e sociale agli anziani e alle loro famiglie.
Di grande importanza è l’apporto delle associazioni di volontariato e dei familiari che affiancano il lavoro dei servizi pubblici.
Le principali azioni previste dalla programmazione sanitaria nazionale riguardano essenzialmente:
La promozione dell’invecchiamento attivo, con interventi miranti all’adozione di stili di vita favorevoli alla salute;
L’assistenza territoriale integrata, finalizzata a prevenire, contrastare e accompagnare le condizioni di disabilità e fragilità della popolazione anziana, valorizzando in particolare il medico di famiglia;
L’assistenza domiciliare;
La residenzialità e semiresidenzialità, volta a creare un sistema di offerta sempre più differenziata e di qualità, attraverso la rete delle residenze sanitarie, delle residenze sociali e dei servizi di accoglienza;
L’assistenza ospedaliera, nei termini di accoglienza e di dimissioni protette;
La sicurezza, per azioni di prevenzione sociale degli anziani soli o a rischio.
Negli ultimi decenni è sempre più pressante la richiesta di assistenza da parte delle persone anziane non autosufficienti che, nella quasi totalità dei casi, sono  assistite dalla famiglia, con costi economici, psicologici e sociali elevatissimi. 
Una situazione tale da poter affermare che la condizione delle persone in stato di totale non autosufficienza rappresenta una vera e propria emergenza sociale.  
 Affrontare e saper dare una risposta a tale condizione può essere considerata una delle sfide sociali di maggiore significato del nostro tempo. In tale contesto, i servizi per anziani non autosufficienti devono assicurare, dunque, risposte sanitarie, assistenziali, tutelari e di socializzazione rispetto al grado e intensità del bisogno. La condizione di non autosufficienza, tuttavia, non riguarda  unicamente la popolazione anziana, ma una fascia ben più ampia della popolazione, comprendente i disabili fisici, psichici e sensoriali, ovviamente in relazione alla specifica condizione e gravità della patologia.
Si riporta, di seguito, una definizione di «non auto- sufficienza», che costituisce la premessa per specifiche prestazioni sanitarie e sociali. È importante ricordare che un nodo cruciale dell’assistenza alle persone non autosufficienti è rappresentato dalla separazione degli assetti istituzionali tra i diversi servizi:
Aspetti sociosanitari: il Servizio sanitario nazionale  si occupa delle problematiche assistenziali con forte valenza sanitaria, con finanziamento statale e regionale, responsabilità organizzativa attribuita alle regioni e gestione affidata alle ASL;
Dei servizi e degli interventi sociali: la responsabilità è attribuita agli enti locali, finanziati da stato, regioni e  comuni.
Inoltre, come previsto dal decreto del presidente d consiglio dei ministri 308/2001, le strutture destina agli anziani erogano prestazioni socio-assistenziali o sociosanitarie, finalizzate al mantenimento e al recupero delle residue capacità di autonomia della persona e sostegno della famiglia. In particolare:
Le prestazioni socio-assistenziali sono attività relative alla sfera sociale con lo scopo di aiutare la persona i stato di bisogno, con problematiche di disabilità o di emarginazione; sono di competenza dei comuni, richiedono la partecipazione alla spesa da parte dei cittadini che ne beneficiano e si esplicano attraverso interventi di ospitalità alberghiera presso strutture residenziali rivolte a pazienti anziani con limitazioni anche parziali dell’autonomia, non assistibili al proprio domicilio (decreto del presidente del consiglio dei ministri 14 febbraio 2001);
Le prestazioni sociosanitarie sono invece tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono sia prestazioni sanitarie sia sociali per garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra gli interventi di cura e quelli di riabilitazione (decreto legislativo 229/1999 e successive modificazioni); tali prestazioni comprendono:
— prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e acquisite;
— prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute. In questa sede si affrontano i temi legati all’assistenza sociosanitaria e, in particolare, i servizi  e le prestazioni offerte agli anziani non autosufficienti.




Focus: Non autosufficienza
Numerose sono le definizioni di «paziente non autosufficiente». In generale, il sovrapporsi di una patologia con la condizione socioambientale, cognitiva e psicoaffettiva della persona determina la comparsa e il livello della non autosufficienza. L’OCSE ha precisato nel 2005 che i soggetti non autosufficienti sono “gli individui con disabilità mentali o fisiche di lungo periodo, che sono diventati dipendenti dall’assistenza nelle attività fondamentali della vita quotidiana, la gran parte delle quali appartengono ai gruppi più anziani della popolazione” e che «hanno bisogno di servizi e interventi di long-term care». Anche il dibattito su cosa debba essere inteso per long-term care (LTC) o “assistenza continuativa” è tuttora aperto. Recentemente, l’COSE ha precisato che «seppure la maggior parte dei non autosufficienti siano anziani, il concetto di assistenza continuativa include anche servizi rivolti a una popolazione più giovane con disabilità fisiche e mentali e necessità terapeutiche specifiche di giovani e giovani adulti».
Per «assistenza alle persone non autosufficienti” o Jong-term care si possono intendere anche «tutte le forme di cura alla persona odi assistenza sanitaria, e gli interventi di cura domestica associati, che abbiano natura continuativa. Tali interventi sono forniti a domicilio, in centri diurni o in strutture residenziali a individui non autosufficienti».

Focus: L’indennità di accompagnamento
L’indennità di accompagnamento, prevista dalla legge 11 febbraio 1~80 n. 18, è la provvidenza eoonomica riconosciuta dallo Stato, in attuazione dei principi sanciti dall’art. 38 della Costituzione, a favore dei cittadìni la cui situazione di invalidità, per minorazioni o menomazioni fisiche o psichiche, sia tale da rendere necessaria un’assistenza continua; in particolare, perché non sono in grado di deambulare senza l’assistenza continua di una persona, oppure perché non sono in grado di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita.
L’indennità di accompagnamento ha la natura giuridica di contributo forfetario per il rimborso delle spese conseguenti al tatto oggettivo della situazione di invalidità e non è pertanto assimilabile ad alcuna forma di reddito; conseguentemente è esente da imposte. Essa è a totale carico dello Stato ed è dovuta per il solo titolo della minorazione, indipendentemente dal reddito del beneficiario o del suo nucleo familiare.
L’importo corrisposto (pari nel 2007 a 457,66 euro per 12 mensilità) è annualmente aggiornato con apposito decreto del ministero dell’interno. Il diritto alla corresponsione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello in cui è stata presentata la domanda. Secondo quanto previsto dal decreto del presidente della repubblica 698/1994 sui procedimenti in materia di riconoscimento delle minorazioni civili e relativa concessione dei benefici economici, la domanda per l’accertamento dell’invalidità e per la concessione dei relativi benefici tra cui l’indennità di accompagnamento) va presentata alla competente commissione medica per gli invalidi civili dell’ASL di residenza allegando la certificazione medica comprovante la minorazione o menomazione con diagnosi precisa e con l’espressa attestazione, ai fini dell’ottenimento dell’indennità di accompagnamento, il richiedente è «persona impossibilitata a deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore», oppure che è «persona che necessita di assistenza continua essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita”. Non può ricevere l’indennità di accompagnamento chi è ricoverato in un istituto con pagamento della retta a carico dei servizi pubblici da più di un mese. Il modello della domanda è disponibile presso gli uffici relazioni con il pubblico dell’ASL, i patronati, i sindacati e le associazioni di categoria.
La domanda va sottoscritta dal richiedente, cioè l’invalido, oppure dal suo legale rappresentante (uno dei genitori, se si tratta di minore; il tutore o il curatore, se si tratta di persona interdetta o inabilitata) pure ancora da altra persona che rappresenti il richiedente in forza di specifica cura, generale o speciale, ad agire in suo nome e per suo conto. Se il richiedente non è in grado di firmare, non è né interdetto o inabilitato né ha nominato un proprio rappresentante la domanda può venire sottoscritta, in presenza del richiedente, da due testimoni, possibilmente non familiari, davanti a un pubblico ufficiale (per esempio, un notaio o il segretario comunale) che autentica le sottoscrizioni. Entro tre mesi dalla presentazione della domanda la commissione medica deve fissare la data della visita medica; se tale temine tra- scorre inutilmente il richiedente può presentare una diffida a provvedere all’assessorato alla sanità della regione di residenza. Questi è tenuto a fissare la visita entro nove mesi dalla data di presentazione delta domanda, ed entro questo termine deve comunque concludersi l’intero procedimento di accertamento sanitario.
In sede di accertamento sanitario l’interessato può farsi assistere, a sue spese, dal proprio medico di fiducia. L’esito dell’accertamento deve essere comunicato all’interessato mediante il verbale di visita. Se viene riconosciuta un’invalidità che dà diritto all’indennità di accompagnamento, la commissione medica trasmette direttamente il verbale di visita alta regione (o ad altro ente da questa delegato) per istruire la procedura dì pagamento dell’indennità. L’eventuale ricorso contro il verbale di visita dall’esito negativo va presentato entro due mesi dalla notifica alla commissione medica superiore presso il ministero del Tesoro, che decide entro sei mesi, intendendosi in caso di silenzio respinto il ricorso. Vi è ulteriore possibilità di tutela giurisdizionale davanti al giudice ordinario.
Una volta accertato dalla commissione medica il grado d’invalidità, la procedura di verifica degli ulteriori presupposti che danno diritto al pagamento dell’indennità di accompagnamento deve concludersi da parte della regione o dell’ente da questa delegato entro sei mesi dal ricevimento del verbale di visita da parte della commissione medica. Il decreto relativo alla concessione della provvidenza economica può venire anch’esso impugnato con ricorso, sempre entro due mesi dalla notifica, al comitato provinciale dell’INPS, che deve decidere entro quattro mesi, intendendosi altrimenti rigettato il ricorso e salva sempre la possibilità di ulteriore tutela avanti il giudice ordinario.
Il  pagamento materiale della provvidenza avviene a cura dell’INPS mediante accredito su conto corrente postale o bancario intestato al beneficiano, oppure mediante riscossione presso l’ufficio postale indicato dallo stesso richiedente, il quale ha la possibilità di indicare anche una persona delegata alla riscossione. La prima quota mensile comprenderà anche tutte quelle già maturate in precedenza a partire dal mese successivo a quello di presentazione della domanda; successivamente saranno corrisposti anche gli interessi legali maturati sulle somme dovute sempre con Fa medesima decorrenza.
Il beneficiano della provvidenza è poi tenuto a comunicare all’INPS, entro trenta giorni, ogni mutamento delle condizioni e dei requisiti previsti dalla legge per la concessione della prowidenza goduta. Nel caso di godimento dell’indennità di accompagnamento va comunicato il venire meno del requisito della necessità di assistenza continua, oppure il venire meno della situazione di assistenza a domìcilio o in un istituto a pagamento, per effetto di un eventuale ricovero a titolo gratuito in un istituto dì cura.
Il ricovero rilevante ai fini della dichìarazione è quello nei reparti di lungodegenza o per fini niabilitativi, non il ricovero per terapie contingenti, di durata connessa al decorso di una malattia. Per ticovero a titolo gratuito s’intende quello in cui la retta-base sia a to
tale carico di un ente o struttura pubblica anche se eventualmente la persona ricoverata corrisponde una quota supplementare per ottenere un migliore trattamento rispetto a quello «base». Il ricovero è, invece, a pagamento quando l’interessato (o la sua famiglia) corrisponde tutta o anche solo una quota della retta-base (e l’altra quota sia a carico dell’ente pubblico).
Entro il 31 marzo di ogni anno deve altresì essere trasmessa all’lNPS, al comune o all’ASL di competenza una dichiarazione di responsabilità, ai sensi della legge del 4 gennaio 1968 n. 15, in merito alla sussistenza o meno di ricovero a titolo gratuito. Per gli invalidi civili il cui handicap non consente loro di autocertificare responsabilmente è sufficiente produrre un certificato medico in cui sia indicata espressamente la diagnosi della minorazione o patologia che non consentono al soggetto di autocertificare responsabilmente.

Numeri & confronti: La cura a lungo termine della popolazione anziana
L’incremento della popolazione anziana ha suscitato nell’ultimo ventennio diffusa sensibilità e interesse: l’attenzione si è concentrata sia sulle necessità di riordino del sistema pensionistico, sia sulla domanda dei servizi medici e assistenziali di cui l’anziano può necessitare in caso di perdita della propria autonomia.
Benché esteso anche a diverse aree dell’Asia orientale e sud orientale e nell’Europa centrale e orientale, il fenomeno risulta particolarmente evidente nelle economie industriali avanzate. In base alle proiezioni diffuse dal Bureau of Census (l’ufficio federale di statistica statunitense), il numero delle persone appartenenti alla fascia di età dei 65 anni e oltre crescerà negli Stati Uniti di oltre 2 volte e mezza tra I 2000 e il 2050, portandosi poco al di sotto degli 87 milioni di unità. La quota dei cittadini al di sopra degli 85 anni si più che triplicherà nello stesso periodo, passando dall’i ,5 per cento al 5 per cento circa della popolazione complessiva residente. Viceversa, l’incremento dei residenti nella cosiddetta working age — cioè la fascia di popolazione in età lavorativa, compresa tra i 20 e i 64 anni — non supererà nel cinquantennio il 35 per cento: l’incidenza del gruppo sulla popolazione totale fletterà dal 59 per cento nel 2000 al 53 per cento circa neI 2050.
L’Italia si colloca ai primi posti nel processo di invecchiamento demografico. La speranza di vita alla nascita ha raggiunto nel 2004 i 77,8 anni per gli uomini e gli 83,7 anni per le donne; un ulteriore incremento è atteso nella prospettiva del 2030, a 81,4 anni per gli uomini e 88 per le donne. Entro il 2050 la popolazione di età pari o superiore ai 65 anni si porterà dagli attuali 11,4 milioni a oltre 18 milioni, e gli ultraottantenni passeranno da poco più di 2,9 milioni a 7,5 milioni. L’incidenza degli ultra sessantacinquenni sulla popolazione totale salirà dal 9,5 per cento del 2005 al 34,4 per cento del 2050; quella degli ultra ottantenni passerà dal 5 per cento al 14,3 per cento.
Le indagini Istat sul sistema sanitario e lo stato di salute d popolazione italiana collocano poco sopra il 19 per cento l’incidenza dei disabili sul totale dei sessantacinquenni e oltre; ipotizzando che questa percentuale si mantenga stabile nel tempo è possibile anticipare un incremento nel numero degli anziani i autosufficienti dai 2,2 milioni di unità del 2005 a 3,1 milioni 2030.
Anche se non è facile quantificarle con precisione, le conseguenze economiche dell’incremento della popolazione anziana non autosufficiente appaiono sicuramente rilevanti.
In una relazione pubblicata nell’aprile 2005 il Congressional Budget Office degli Stati Uniti stima che le spese per le cure a lungo termine (long term care, in sigla LTC) degli anziani siano destinate a salire da 123 miliardi di dollari nel 2000 (1,3 per cento del PIL americano) a 346 miliardi nel 2040 (1,5 per cento). La previsione è formulata nell’ipotesi, considerata coerente con gli andamenti registrati negli Stati Uniti nell’arco del Novecento, che l’incidenza dei disabili sul totale della popolazione anziana si riduca dell’1,1 per cento l’anno tra il 2000 e il 2040, passando dal 25 per cento al 16 per cento; nel caso in cui questa discesa non si verificasse, le spese per cure a lungo termine supererebbero nel 2040 i 480 miliardi, corrispondenti al 2 per cento circa del PIL statunitense.
Nel caso dell’italia è un rapporto della Ragioneria Generale dello Stato a offrire alcune indicazioni in merito alla situazione attuale e alle prospettive della spesa per cure a lungo termine di competenza del settore pubblico. La Ragioneria stima che la spesa ammontava nel 2004 all’1,56 percento del PIL; poco più di un punto di PIL poteva essere attribuito alla fascia di età dei 65enni e oltre. La metà circa degli esborsi era da ricondurre alla componente sanitaria; seguivano le erogazioni per indennità di accompagnamento, con una quota del 40 per cento; il resi duo 10 per cento era rappresentato da altre prestazioni assistenziali. Un esercizio di previsione effettuato nell’ambito de medesimo studio anticipa un incremento degli oneri per la cura a lungo termine a carico del bilancio pubblico pari a circa ur punto percentuale di PlLtra il 2010 e il 2050, dall’1,54 per cen to al 2,47 per cento; appare inoltre evidente una ricomposizio ne dell’aggregato a vantaggio delle fasce più anziane della p0 polazione (Figura 2).
A conclusioni più pessimistiche giunge un’indagine del di partimento economico dell’OCSE, che anticipa per il 2050 ui incremento della spesa pubblica per la cura a lungo termine ~ 3,5 per cento del PIL nell’ipotesi che gli esborsi crescano più velocemente del reddito, in linea con gli andamenti osservati negli ultimi due decenni; al 2,8 per cento nell’ipotesi in cui una no specificata politica correttiva intervenga a correggere la dinE mica della spesa.
Se le stime di OCSE e Ragioneria contribuiscono a dare un’idea della maggior pressione che — per effetto dell’invecchiamento demografico — è destinata a scaricarsi sulle strutture dello stato sociale, resta invece in ombra il contributo alle spese di cura offerto direttamente dall’anziano o dalla famiglia.
Un tentativo di allargare l’orizzonte dell’analisi è contenuto n rapporto European Study of Long Term Care Expenditure, predisposto per la Commissione Europea nel febbraio 2003. Utilizzando statistiche nazionali ed elaborazioni proprie, gli autori calcolano che nel 2000 solo il 23 per cento dei disabili italiani sessantacinquenni e oltre era ricoverato in residenze o istituti di cura specializzati; il 37 per cento beneficiava soltanto dell’assistenza offerta gratuitamente da familiari, amici e volontari; il 40 per cento era assistito a domicilio con la collaborazione di fornitori privati. Il  contributo economico dell’anziano o della famiglia alla copertura degli oneri di cura appare determinante anche in caso di ricovero. Rielaborando statistiche di fonte Istat, l’Osservatorio Terza Età segnala che soltanto nel 5 per cento dei casi l’accesso dell’anziano ai presidi residenziali avviene a titolo gratuito: per il 62 per cento circa dei ricoverati il soggiorno risulta interamente a carico dell’interessato o della famiglia, mentre il restante 33 per cento gode di una copertura parziale delle spese di carattere sanitario offerta dal Servizio sanitario nazionale.
«Tenuto conto del reddito medio di una persona anziana e della retta media di un presidio assistenziale — rileva ancora ‘Osservatorio — è verosimile ritenere che per almeno il 35/40 per cento degli ospiti le famiglie provvedano a farsi carico di una quota della retta mensile oscillante attorno ai 250 euro.»
Alla luce di queste osservazioni, si comprende come il tema de!la protezione sociale dell’anziano non autosufficiente sia da valutare congiuntamente a un insieme di fenomeni, sociali e demografici, che contribuiscono a mettere in crisi la funzione di sostegno tradizionalmente esercitata dalla famiglia.
La comunicazione della Commissione Europea Una nuova solidarietà tra le generazioni di fronte ai cambiamenti demografici, uscita nel marzo 2005, offre una sintesi efficace delle problematiche cui i paesi europei si troveranno a far fronte nei prossimi cenni nell’assistenza alle persone molto anziane: «...occorrerà assistenza mirata, che in numerosi paesi è assicurata dalle I glie, in particolare dalle donne, le quali dal canto loro parte no in misura crescente all’attività lavorativa. Inoltre sempre F gli, raggiunta l’età adulta, vivono lontano dai genitori. Le famiglie andranno quindi maggiormente sostenute rispetto a oggi. Sarà compito dei servizi sociali e delle reti di solidarietà e di assistenza a livello di comunità locali».
Resta scarso il ricorso a coperture assicurative per cure a lungo termine. Pur a fronte dei gravosi impegni finanziari potenzialmente nessi all’assistenza di un anziano disabile, la diffusione di coperture assicurative long term care risulta ancora assai scarsa in Italia; appare sporadica anche l’offerta di strumenti di natura più propriamente creditizia, progettati in partnership con enti locali e istituzioni non-profit.
Dal punto di vista tecnico le compagnie offrono attualmente due tipi di copertura per la cura a lungo termine, assimilabili rispettivamente ai modelli “vita” e “malattia”. Nel primo caso il risparmio affluisce a un fondo che, al verificarsi della situazione non autosufficienza, eroga all’assicurato un capitale o una rendita predeterminata (sistema cosiddetto ad accumulazione). Nel secondo caso, il premio pagato è utilizzato esclusivamente per far fronte ai rischi relativi all’anno in corso (sistema cosiddetto partizione): al verificarsi dell’evento assicurato, la compagnia risponde al contraente le spese socio-assistenzali sostenute, a un massimo mensile pattuito e per tutto il periodo nel c permane la condizione di non autosufficienza. Per le particolari caratteristiche, le polizze cura a lungo termine di tipo «vita» risultatano più convenienti se stipulate in età non avanzata, in modo da accumulare un capitale idoneo a far fronte ai rischi di non sufficienza propri della terza e della quarta età; le polizze cura a lungo termine «malattia» risultano invece più economiche se stipulate in prossimità dell’utilizzo.
Il  rapporto annuale dell’Associazione Nazionale fra le Imprese  Assicuratrici segnala che le 26 compagnie attive in Italia nel Ramo IV-Permanent Health Insurance, una tipologia entro la quale sono fatte rientrare anche i prodotti cura a lungo termine, hanno raccolto nel 2005 premi per 24 milioni di euro, pari allo 0,03 per cento della produzione complessiva dei rami vita. La quasi totalità della raccolta realizzata nell’anno è da ricondurre al settore delle assicurazioni collettive, in cui i broker risultano praticamente il solo canale attivo di vendita; gli sportelli bancari e postali intervengono soltanto nel collocamento di polizze individuali, offrendo un contributo decisamente marginale.
La scarsa diffusione delle coperture assicurative cura a lungo termine non è un fenomeno soltanto italiano: nel caso degli Stati Uniti, il Congressional Budget Office stima in soli 5,7 miliardi di dollari il contributo alla copertura delle spese di assistenza offerto nel 2004 dall’assicurazione privata, pari al 2,7 per cento delle spese complessive per cure a lungo termine.
Un’eccezione interessante è rappresentata dalla Germania, dove dal gennaio 1995 è stato istituito uno specifico ramo di assicurazioni sociali contro il rischio di non autosufficienza, strettamente collegato al modello dell’assicurazione malattia. La riforma ha reso obbligatoria la copertura assicurativa cura a lungo termine per una quota largamente prevalente della popolazione tedesca: al 31 dicembre 2005 essa interessava circa 79 milioni di cittadini su una popolazione complessiva di 82,5 milioni. A fine 2004 i beneficiari delle prestazioni risultavano poco più di 2 milioni: di loro, 1,38 milioni godevano di assistenza domiciliare, mentre 0,67 milioni erano ricoverati in istituti. In base alle informazioni fornite dal ministero della Salute e della Previdenza Sociale, le spese per l’assicurazione sociale cura a lungo termine si attestavano nel 2004 a 16,8 miliardi di euro, ripartiti in misura quasi paritetica tra la cura domiciliare (8,2 miliardi) e quella ospedaliera (8,6 miliardi). Per la cura a lungo termine un futuro tra pubblico e privato
Benché le proposte al riguardo non manchino, l’assenza di un programma finalizzato al sostegno degli anziani non autosufficienti costituisce una lacuna vistosa del sistema di welfare italiano. La rilevanza attuale e in prospettiva dei fenomeni economici connessi all’invecchiamento demografico rende difficile immaginare soluzioni che non poggino prevalentemente sull’utilizzo di risorse pubbliche.
La possibilità che — parallelamente a un miglioramento del modello di welfare — si sviluppi anche un sistema di assistenza finanziato dal risparmio personale appare strettamente legata a due elementi: la disponibilità di un’articolata gamma di prodotti assicurativi o finanziari; la predisposizione di idonee forme di sostegno e incentivazione da parte dello stato o di altri soggetti operanti nella sfera pubblica o del non-profit.
L’incentivazione fiscale potrebbe contribuire in particolare a ridurre le resistenze esistenti dal lato della domanda, favorendo l’accesso alle coperture cura a lungo termine anche delle fasce più giovani della popolazione. La percezione del rischio di non autosufficienza tende, infatti, tipicamente a manifestarsi in età intermedia o avanzata; ne deriva un significativo incremento nel costo della copertura assicurativa, che finisce spesso per scoraggiare le adesioni.

Il  contesto lavorativo odierno della società post-moderna si trova  anche per la salute della nuova categoria sociale dei precari. Uno e cui le dinamiche economiche, sociali e culturali sono in rapida trasformazione a causa dell’impiego delle tecnologie di ultima generazione e della globalizzazione dei mercati. Come si è evidenziato, il sistema produttivo fordista in tutti i paesi avanzati ha ceduto il posto al sistema post-fordista con la conseguente apertura di un mercato del lavoro sempre più flessibile vede nascere nei lavoratori nuovi problemi di salute. Tutti i paesi coinvolti si trova; ad affrontare profonde trasformazioni che riguardano non solo la s mercato del lavoro e l’occupazione, ma anche l’ambiente e gli aspetti nuove forme della salute e della sicurezza sul lavoro. Nello specifico proprio il mondo del lavoro è stato soggetto di radicali cambiamenti che ne hanno alterato il profilo tradizionale, sconvolgendo il sistema di carriera la incentrata sul posto fisso, su contratti a tempo indeterminato e su orari. Le nuove forme di lavoro atipico offrono senza dubbio dei vantaggi alle imprese, che adattano rapidamente la consistenza della forza lavoro ala variabilità della domanda del mercato, e in molti casi anche ai lavoratori che si vedono offerta la possibilità di accedere rapidamente al mercato de personalizzando la propria strada professionale e pianificando a lo] mento la carriera. In questo sistema però si possono riscontrare gli effetti collaterali, se così si può dire, di cui abbiamo più o meno lungamente  parlato che sono stati ben evidenziati nel 2002 dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro.
Gli effetti collaterali di un contratto di lavoro atipico coprono un ampio spettro di ambiti personali e professioni che si caratterizzano per la precarietà, l’insicurezza e soprattutto il rischio per la proprio equilibrio psico-fisico e per il proprio stato di salute. L’eccessiva flessibilizzazione porta a una minore attenzione verso la tutela degli stati di salute e di considerazione verso le norme di sicurezza. Tutto ciò avviene sia perché le modalità lavorative spesso sfuggono al controllo quotidiano del datore di lavoro, sia perché le persone con contratti atipici e precari sono più esposte al rischio di perdita dell’occupazione, hanno minore accesso alle opportunità formative, trattamenti retributivi e condizioni di lavoro peggiori e, soprattutto, minori tutele sia per quanto riguarda gli aspetti previdenziali, sia per quanto concerne le garanzie contro infortuni e malattie professionali. L’intreccio di questi fattori è sintetizzabile in un termine molto in voga tra gli studiosi, flexicurity che in uno stesso concetto, vuole evidenziare la necessaria compresenza dell’idea di flessibilità e sicurezza. Tale principio poggia su quattro pilastri fondamentali: 1)  la creazione di “mercati di transizione”, che possano rendere piùfl 

passaggi tra occupazione e disoccupazione, tra forme di lavoro a k pieno e forme di lavoro a tempo parziale, tra contratti di lavoro diji dente e contratti di lavoro autonomo, tra il sistema formativo e quc occupazionale, tra lavoro e pensione;
2)  lo sviluppo di strategie che possano sostenere l’occupazione attfa~ 

la riorganizzazione degli orari di lavoro;
3)  la pratica di processi di formazione a lungo periodo che siano in gi 

di sostenere i lavoratori nei processi di cambiamento e durante tufi vita lavorativa;
4)  l’attivazione di garanzie di copertura previdenziale e assistenziale, particolare per coloro che hanno carriere lavorative precarie e frammentate.
Con tale principio si cerca di evidenziare la necessità di ricorrere alla flessibilità nel mercato del lavoro, senza minimizzarne i rischi sociali. Un approccio della flexicurity ideato e pensato in questo modo, non si è mai tradotto in un sistema di idee concrete e di misure operative da realizzare, ma la fili che ne sta a fondamento ribadisce che la flessibilità non deve essere solo una “deregolazione” delle condizioni contrattuali e di impiego. Al contrario, essa deve rappresentare un cambiamento paradigmatico del mondo del lavoro, da accompagnare con una serie di interventi istituzionali anche a livello di welfare.
Si potrebbe immaginare la possibilità di fronteggiare le sfide in primo luogo, con un’integrazione efficace tra la materia della salute e della sicurezza la gestione delle complesse realtà contrattuali; in secondo luogo, con la predisposizione di strumenti atti a garantire ai lavoratori flessibili un’adeguata conoscenza dei rischi inerenti la propria attività e delle misure preventive a bili. Non si può dimenticare inoltre che su questo terreno la legislazione corrente è piuttosto inadeguata, dato che i monitoraggi e le patologie codificate sono generalmente strutturali in riferimento alle tipologie di lavoro del periodo fordista.
Una strategia globale che punti alla salute e sicurezza sul luogo di lai dovrebbe tenere presenti anche le nuove esigenze del lavoratore, noncli concezioni di salute e malattia post-moderne, l’obiettivo unico potrebbe q di puntare al “continuo miglioramento del benessere, sia esso fisico, morale, sociale, sul luogo di lavoro”.
Il raggiungimento di uno stato di benessere così concepito può essere seguito solo attraverso il congiungimento di obiettivi complementari e diversificati, che puntino anzitutto alla ridefinizione di tutte le tipologie di malattie professionali, con relativo riconoscimento delle stesse, nonché a un’integrazione degli infortuni sul lavoro con particolare attenzione alle peculiarità dei lavoratori di nuova generazione. Questi interventi potrebbero strutturarsi sul rafforzamento della prevenzione delle malattie professionali, attraverso un’attenta analisi dei rischi nuovi ed emergenti, e di tutte le trasformazioni sociali riguardanti le forme di occupazione e le modalità organizzative del lavoro.

Le famiglie italiane dispongono generalmente di un discreto livello di ricchezza totale. Una parte assai ampia di questa ricchezza è mantenuta però in forme scarsamente o per nulla liquide, in particolare la casa; ciò contribuisce a spiegare perché molti nuclei familiari abbiano difficoltà a mantenere un tenore di vita adeguato in età avanzata, quando i redditi calano e i bisogni aumentano.
L’ultimo censimento della popolazione segnala la presenza in Italia di circa 7,15 milioni di famiglie con capofamiglia di età superiore ai 65 anni; il 74 per cento di esse risulta proprietaria almeno dell’abitazione di residenza. Ipotizzando che il valore degli immobili posseduti oscilli mediamente tra i 163.000 e 213.000 euro (i valori sono tratti da Banca d’italia, Indagine sui bilanci de/le famiglie italiane), si perviene a una stima del patrimonio immobiliare complessivamente in possesso delle famiglie con capofamiglia anziano compresa tra 860 e 1.100 miliardi.
Allo scopo di agevolare almeno in parte la liquidazione di questa enorme massa di ricchezza e sostenere i consumi delle fasce di età più avanzate, la legge finanziaria per il 2006 ha introdotto nell’ordinamento italiano il prestito vitalizio ipotecario. Lo strumento è mutuato dall’esperienza dei reverse mortgages e dei lifetime mortgages, presenti da diverso tempo rispettivamente sui mercati americano e inglese.
Anche per l’italia il legislatore ha abbozzato a fine 2005 ur strumento assai simile a quelli descritti con riferimento ai mercati anglosassoni, denominandolo prestito vitalizio ipotecario. legge finanziaria 2005-2006 si limita, infatti, a stabilire che il prestito ha per oggetto «... la concessione da parte di aziende ed istituti di credito, nonché da parte di intermediari finanziari, ... di finanziamenti a medio e lungo termine con capitalizzazione annua di interessi e spese e rimborso integrale in unica soluzione a scadenza, assistiti da ipoteca di primo grado su immobili residenziali, riservati a persone fisiche con età superiore ai 65 anni compiuti». Non essendo stato seguito da alcun decreto attuativo, lo strumento resta dunque in attesa di una più puntuale sistemazione normativa.
Da parte degli intermediari si avverte in particolare l’esiger di una normativa secondaria che permetta di recuperare capi le e interessi in tempi certi e brevi dopo il decesso del mutuatario; tale certezza costituisce un prerequisito fondamentale per l’avvio di eventuali operazioni di cartolarizzazione dei crediti, finalizzate a trasferire dagli intermediari al mercato una parte del rischio immobiliare connesso all’erogazione di prestiti vitalizi. La novità e la complessità dello strumento suggeriscono inoltre l’opportunità di definire un insieme di regole a garanzia della correttezza della trasparenza del rapporto contrattuale, con particolare rifE mento ai meccanismo di pricing, al fine di assicurare ai mutua ri la necessaria protezione da truffe e raggiri.
L’esperienza anglosassone segnala peraltro che — pur in p senza di un bacino di interesse potenzialmente assai ampio — dimensioni effettive del mercato dei prestiti vitalizi tendono a mantenersi contenute. Nel caso del Regno Unito, l’institute of Actuaries stima che il patrimonio immobiliare libero da ipoteche p seduto dalla popolazione sopra i 65 ammonti a circa 1.1001 miliardi di sterline; a fronte di questa evidenza, il volume dei pre ti concessi sotto forma di lifetime mortgage si è attestato nel 2C a 1,05 miliardi, pari allo 0,5 per cento circa dei valore dei nuovi mutui accesi nel paese nei corso dell’anno. Analogo il caso degli Stati Uniti, dove oltre 14 milioni di persone con più di 62 anni sono proprietarie di un’abitazione, ma solo 60.000 risultano intestatarie di un reverse mortgage.
A ridurre la richiesta di finanziamenti contribuisce sicuramente la riluttanza dei potenziali clienti ad assumere un nuovo debito in tarda età, una volta che abbiano interamente rimborsato Ogni altro prestito contratto in precedenza
Sono tuttavia i costi a rappresentare il principale fattore disincentivante: dedotte le voci di spesa richiamate in precedenza e in relazione all’età del prenditore, l’ammontare del finanziamen to erogabile può scendere sotto il 30 per cento del valore dell’immobile conferito a garanzia. Con riferimento all’offerta, la difficoltà a raggiungere dimensioni minime del business idonee a giustificare le spese fisse — in particolare quelle relative al personale specializzato nel collocamento — ha costretto diversi investitori statunitensi ad abbandonare il mercato.
Le condizioni perché anche in Italia si sviluppi un mercato dei prestiti alle fasce più anziane della popolazione tuttavia non mancano. Si è già detto dello squilibrio tra la ricchezza reale e finanziaria delle famiglie, che rende i nuclei appartenenti alle fasce di età più avanzate sempre più house rich, casb poor (ricche in immobili, povere di liquidità); uno squilibrio destinato ad accentuarsi nel futuro, per effetto della riduzione delle rendite della sicurezza sociale. Crescono parallelamente le aspettative di vita e il costo della salute, mentre il calo della natalità rende in prospettiva meno stringente il movente ereditario.
Alla luce delle dinamiche richiamate, appare particolarmente interessante il legame tra prestito vitalizio e assistenza a lungo termine: per il mercato americano sono già stati strutturati prodotti che consentono di finanziare il premio di una polizza assicurativa per l’assistenza a lungo termine utilizzando gli interessi maturati sulla linea di credito aperta a favore del cliente attraverso un reverse mortgage.

Prima dell’avvento dell’organizzazione post-fordista e dell’era del lavoro flessibile la sicurezza sul lavoro e la tutela della salute erano affrontate come problematiche da risolvere attraverso azioni ex-post mirate se non all’eliminazione perlomeno al contenimento dei fattori di rischio presenti nelle attività. Nell’era fordista è sempre prevalsa questa impostazione, preferita alla prevenzione e alla possibilità di prevedere situazioni di pericolo. Ora invece, nella società del rischio, nell’era della flessibilità, si sente la necessità di affrontare i problemi anticipatamente, aggredendo all’origine le possibili cause determinanti situazioni di pericolo e/o di eventuali infortuni. Si tratta dunque di passare da un’accezione ex-post, se vogliamo “in negativo”, della sicurezza e della salute sul lavoro, che risolve i problemi dopo che sono accaduti (eliminando i fattori di rischio che hanno causato l’evento infortunistico), a un’accezione ex-ante, “in positivo”, che si fondi sulla prevenzione e che presupponga il coinvolgimerito preventivo tra le parti, sulla base del presupposto che la salute e la sicurezza siano elementi fondamentali per la qualità del lavoro. Questo ribaltamento di fronte presuppone una concezione di qualità del lavoro e di valorizzazione delle risorse umane, nell’ottica del miglioramento delle condizioni di vita professionale, e anche personale e sociale. Se si vuole procedere in questa direzione, l’attenzione va rivolta non più solo al progresso tecnologico e ai grandi investimenti, ma anche alla capacità di riconoscere e rispettare i limiti entro i quali poter configurare uno sviluppo tecnologico senza intaccare il benessere dei lavoratori e nel rispetto della loro persona e del loro stato di salute.
Con questo obiettivo sarebbe interessante rivalutare le strategie avviatesi negli anni Novanta sulla valorizzazione delle risorse umane, in termini di miglioramento delle condizioni lavorative.
Lo stato di benessere non può fondarsi soltanto sull’idea di condizioni fisiche migliori ma, considerato che i bisogni rilevati dai lavoratori precari vertono su aspetti legati al riconoscimento di sé e della propria identità sociale, e dato che si ragiona sempre più in termini di salute olistica, esso deve puntare anche al benessere psicologico e sociale. La salute così intesa no può misurarsi semplicemente con strumenti tecnici correlati a fattori fisici ambientali e non può derivare soltanto dall’assenza di infortuni e malattie professionali. Essa si riferisce piuttosto alla ricerca della sicurezza e del] salute in termini previdenziali, progettando e attivando ambienti professionali e relazionali che siano rispettosi deI contesto sociale e portatori di u stile lavorativo qualitativamente migliore. In questa ottica il problema della sicurezza e della salute sul lavoro investe direttamente il processo di trasformazione dell’organizzazione del lavoro, come pure gli interventi tecnici nella strutturazione fisica degli spazi e delle postazioni di lavoro.
A tal proposito sarebbe auspicabile anche un coinvolgimento sempre pi attivo dei lavoratori nei processi decisionali che riguardano la vita quotidiana nel luogo di lavoro e gli interventi da attuare.
Pur trattandosi di idee ambiziose, questo progetto potrebbe rappresentar la nuova fase di cambiamento e di intervento sulle problematiche correlate alla salute sul posto di lavoro. D’altronde, dopo le lotte sindacali degli anni Sessanta e Settanta sulla contrattazione collettiva sul problema e dopo 1 formalizzazione istituzionale delle richieste di una salute migliore sui luoghi di lavoro, accontentate prima dalle normative locali poi dai piani nazionali fino al D. lgs. del 19 Settembre 1994, n. 626 sulla sicurezza, questa nuova fase deve avviarsi aprendo la strada al dibattito. Lo scenario produttivo senza dubbio più complesso, più articolato e sicuramente differenziato a suo interno, ma gli inquadramenti legislativi non appaiono sufficienti a coprire tutte le problematiche di salute correlate alle nuove forme di lavoro. Sicurezza e salute sul posto di lavoro si inscrivono oggi nel quadro delle attività economiche in trasformazione, della società post-moderna sempre pii complessa, delle forme di occupazione sempre più diversificate.
È indubbio che l’importanza di un posto di lavoro sano, sicuro e organizzato per rispondere alle molteplici esigenze, rappresenti una determinante fondamentale per il miglioramento della qualità della vita lavorativa. Il riscontro può aversi sul piano della qualità dei prodotti e/o dei servizi aziendali, della competitività dell’impresa e quindi anche dell’economia del Paese.
Dal punto di vista economico certamente le difficoltà non mancano. Le imprese grandi e piccole si trovano ad affrontare le spese per gli adegua menti, per gli indennizzi, per i costi sociali derivanti dagli infortuni e dalle malattie professionali, ma l’impegno verso un sistema di qualità produttiva organizzativa permetterebbe di superare anche problematiche di questo genere.
Attraverso l’acquisizione dei dati necessari alla valutazione dell’ambiente di lavoro, con la ricostruzione dell’intero ciclo produttivo e della mappa dettagliata dei rischi, si potranno avviare interventi necessari e delineare le strategie che portano alla prevenzione. In tale ottica potrebbe rientrare la creazione di canali informativi e l’attivazione di percorsi formativi ad hoc in materia di sicurezza e salute sul lavoro.
Se esiste una relazione così stretta tra salute e lavoro, e se il lavoro è così centrale nella vita degli individui, l’attività produttiva che occupa una cospicua parte della quotidianità di ciascuna persona, può essere una fonte di rischio che va controllata, limitata e vigilata. D’altro canto il lavoro può anche rappresentare un’opportunità per il miglioramento delle condizioni di vita e per la promozione della salute. In sostanza si tratta di trovare il giusto equilibrio tra condizioni di lavoro e vita esterna anche in vista dell’attuazione di politiche preventive e di promozione della salute.
D’altronde sono gli stessi attori della società post-moderna a reclamare riflessioni basate sul presupposto preventivo. A tal proposito spesso si è evidenziato come tutti gli individui in qualche modo siano costretti a interrogarsi sulle problematiche della salute, anche alla ricerca di elementi che permettano l’attivazione di interventi di autocura31. Tra questi elementi spiccano i comportamenti preventivi, di cui gran parte degli individui, a livello pil~ o meno approfondito hanno senz’altro sentito parlare. Sotto questo profilo, in materia di sicurezza e salute sul lavoro, un ragionamento in termini preventivi rientrerebbe nelle esigenze più volte espresse da coloro che vivono la contemporaneità.


Già il filosofo medievale Tommaso d’Aquino pose il problema della commisurazione del tributo rispetto ai bisogni pubblici e della proporzionalità dello stesso alla capacità contributiva individuale. A quell’epoca non esisteva naturalmente l’esigenza di garantire un livello minimo di prestazioni sanitarie pubbliche e le cure ai malati erano per lo più offerte da confraternite religiose e da enti associativi a carattere mutualistico.
Tuttavia, affermando la necessità di un equilibrio tra entrate e spese pubbliche, equilibrio radicato sul principio di capacità contributiva, Tommaso d’Aquino esprimeva un criterio che sarebbe sopravvissuto lungo il corso del tempo, fino a essere incorporato nelle carte costituzionali delle principali democrazie occidentali; un principio, inoltre, che si prestava a essere adattato all’evoluzione dei bisogni e dei diritti all’interno della società.
La causa del tributo, ossia la sua giustificazione in termini economico-giuridici all’interno del sistema sociale, consiste proprio nell’essere a disposizione per la soddisfazione di bisogni pubblici, che sono espressi dalle voci passive del bilancio dello Stato.
Esiste una stretta correlazione tra il principio di capacità contributiva — il principio per cui ognuno di rispondere dell’obbligazione tributaria in ragione della propria attitudine alla contribuzione, ossia della ~ ricchezza — e la causa del tributo. Non a caso, i due p fili si compenetrano all’interno dell’art. 53 della Costituzione, in base al quale «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Il dovere di concorso alle spese pubbliche è altresì tradizionalmente collegato al dovere di solidarietà politica, economica e sociale solennemente sancito dall’art. 2 della nostra Costituzione.
La spesa sanitaria rappresenta uno dei principali capitoli di spesa pubblica e uno degli snodi fondamentali del welfare state. La nostra Costituzione, all’art. 3 stabilisce che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti..
I principi testé accennati presentano un forte legame tra loro: difatti, le imposte prelevate dalle classi sociali più abbienti servono al finanziamento di una parte d spesa pubblica — quella sanitaria, per l’appunto — solitamente fruita dalle classi sociali meno agiate.
Così, specialmente nell’ambito descritto, si verifica una redistribuzione (perequazione) di risorse a favore delle classi sociali più deboli, le stesse che, proprio in ragione della loro ridotta capacità contributiva, partecipano meno al finanziamento delle pubbliche spese in generale, e di quella sanitaria in particolare.
Si è dunque accennato alla funzione perequativa dei tributi nel quadro del finanziamento della spesa sanitaria. Adesso prenderemo in considerazione alcune misure fiscali previste a favore dei contribuenti che affrontano spese mediche, per proprio conto o per conto delle persone legate da particolari vincoli familiari, di lavoro ecc.

L’assistenza sanitaria dei cittadini italiani all’estero è normata da regolamenti e convenzioni internazionali, sulla base del principio di reciprocità.
La legge che ha dato vita al Servizio sanitario nazionale (legge 833/1978) assicura ai cittadini italiani l’assistenza sanitaria in Italia ma non riconosce un diritto incondizionato alla copertura sanitaria fuori del territorio nazionale.
Esistono differenti modalità di erogazione dell’assistenza a seconda del motivo per cui ci si reca all’estero (temporaneo soggiorno, cure ad alta specializzazione, lavoro, studio ecc.).
Tutti i cittadini italiani iscritti al Servizio sanitario nazionale che soggiornano temporaneamente in. stati dell’Unione Europea hanno diritto a ricevere prestazioni sanitarie in caso di urgenza presso le locali strutture pubbliche. Oltre ai lavoratori dipendenti e autonomi, e ai loro familiari, hanno diritto all’assistenza anche talune categorie di cittadini temporaneamente all’estero, come i borsisti, i ministri del culto, i dipendenti pubblici e i militari in servizio all’estero. Nell’Unione Europea e negli stati che hanno stipulato apposite convenzioni bilaterali con l’Italia, anche i turisti beneficiano dell’assistenza, solo per le cure urgenti. In quei casi le strutture sanitarie locali erogano direttamente l’assistenza ai beneficiari. Naturalmente gli interessi devono munirsi dell’apposita certificazione rilasciata dalle ASL.
Nei paesi non convenzionati, i cittadini temporaneamente all’estero per motivi di lavoro o di studio hanno diritto al rimborso delle spese mediche sostenute secondo la procedura prevista dal decreto del presidente della repubblica 618/1980. Nei paesi non convenzionati i cittadini temporaneamente all’estero per motivi diversi dal lavoro o studio (turismo, motivi di fami ecc.) non hanno diritto al rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero per cure mediche urgenti. Sarebbe, pertanto, prudente tutelarsi con una polizza assicurativa privata contro eventi sanitari imprevisti. Qualora invece essi si rechino all’estero allo scopo di ricevere cure mediche (cure presso centri di alta specializzazione all’estero, trapianti di organo, o casi in non sia possibile ricevere cure tempestive in Italia), devono preventivamente mettersi in contatto con la propria ASL.
Che cosa devo fare prima di andare all’estero per motivi di turismo o di svago per tutelare la mia salute? Cosa devo fare se, durante un viaggio di questo tipo, mi sento male?
Se lo stato in questione appartiene all’Unione Europea, per ottenere l’assistenza, il cittadino deve munirsi prima della partenza dall’Italia di un apposito modulo denominato «tessera europea di assicurazione malattia» (TEAM). L’emissione e la distribuzione della i sera europea di assicurazione malattia a tutti gli iscritti al Servizio sanitario nazionale viene effettuata dal Ministero dell’Economia e Finanze tranne che per gli assistiti della Lombardia per i quali è la Regione che provvede a distribuirla
La tessera europea di assicurazione malattia è entrata in vigore, anche in Italia, dal i novembre 2004. Esibendo tale tessera nel paese di soggiorno temporaneo, il cittadino italiano ha diritto al medesimo trattamento fornito ai cittadini di quello stato.
Si rammenta che la tessera europea di assicurazione malattia (o il certificato sostitutivo provvisorio) permette a un cittadino in temporaneo soggiorno all’estero di ricevere nello stato UE in cui si trova le cure «medicalmente necessarie» e non solo le cure urgenti.
Nel caso in cui il cittadino non abbia ricevuto la tessera europea di assicurazione malattia e debba recarsi in uno stato europeo, fino al 31 dicembre 2005 doveva rivolgersi presso gli uffici della competente ASL per il rilascio del «certificato che sostituisce provvisoriamente la tessera europea»; dopo tale data il certificato viene rilasciato solo in caso di furto o smarrimento della tessera.
La tessera distribuita ai cittadini italiani è contemporaneamente tessera sanitaria (TS) per l’Italia e tessera europea di assicurazione malattia (TEAM). La tessera sanitaria mostra, sul fronte, le informazioni già riportate sul tesserino di codice fiscale e i dati sanitari riservati alla regione. La tessera è riconoscibile anche dalle persone non vedenti, grazie all’uso di caratteri in rilievo. Il retro della tessera sanitaria ha validità di tessera europea di assicurazione malattie, dal 1 gennaio 2006, è utilizzata da chi si reca in soggiorno temporaneo in uno degli stati dell’UE, oltre che dello Spazio economico europeo (SEE: Norvegia, Islanda, Liechtenstein) e in Svizzera.
La tessera ha validità 5 anni, salvo diversa indicazione da parte della Regione o dell’ASL di assistenza. In prossimità della scadenza, l’Agenzia delle entrate provvede automaticamente a inviare la nuova tessera a tutti i soggetti per i quali non è decaduto il diritto all’assistenza.
Se lo stato non fa parte dell’UE né dello SEE bisogna accertarsi se abbia siglato o no un accordo con l’Italia in materia sanitaria. Infatti, esiste tutta una serie di accordi bilaterali stipulati tra l’Italia e gli altri stati extracomunitari per quanto riguarda l’assistenza sanitaria:
Argentina, Australia, Brasile, Croazia, Slovenia, Principato di Monaco, Repubblica di San Marino. Nel caso in cui lo stato non faccia parte dell’UE e neanche dello SEE, è necessario farsi rilasciare dalla ASL l’attestato di copertura sanitaria in quello stato.
In tutti gli altri paesi con i quali lo Stato non ha firmato nessuna convenzione o accordo i cittadini temporaneamente all’estero per motivi diversi dal lavoro o studio non hanno diritto al rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero per cure mediche urgenti. Pertanto, per i paesi non inclusi nell’Unione Europea, come gli Stati Uniti o il Canada, per esempio, è consigliabile munirsi di una apposita polizza assicurativa.
Mediamente la polizza deve contenere:  rientro in Italia su aereo sanitario; anticipo di denaro in caso di furto o spese improvvise per malattia o altro. Il viaggio di un familiare per raggiungere il malato o l’infortunato è spesso previsto solo se c’è una degenza che eccede i sette giorni: occorre verificare quali siano le spese sostenute per questo familiare, perché quasi sempre riguardano solo il viaggio. Il rimborso delle spese mediche è gravato da franchigia (assunzione di una parte del danno da parte dell’assicurato) e riferito, in genere, ai casi di infortunio e non malattia.
È necessario ricordare che sono quasi sempre escluse dai rimborsi quelle patologie di cui l’assicurato soffriva prima della partenza.
Quando si torna dal viaggio occorre fare la richiesta di rimborso con raccomandata A/R nei termini previsti dal contratto, allegando tutte le carte del caso, comprese le ricevute per l’acquisto di farmaci.
Il  rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale delle spese per visite o esami specialistici sostenuti durante una vacanza all’estero dipende dal tipo di stato estero. Infatti, per le cure non urgenti prestate in uno stato dell’Unione Europea il rimborso è previsto dal Servizio sanitario nazionale unicamente se esiste un accordo bilaterale tra l’Italia e lo Stato estero interessato che preveda un rimborso per quel tipo di spese.
Quanto al rimborso delle cure di alta specializzazione all’estero il Servizio sanitario nazionale assicura tutte le prestazioni comprese nei livelli essenziali di assistenza. Nel caso di prestazioni ad altissima specializzazione non ottenibili in Italia in forma appropriata e tempestiva alla particolarità del caso clinico si può richiedere una specifica autorizzazione dell’ASL, che poi consente il rimborso delle spese in forma totale o parziale.
Il servizio sanitario nazionale disciplina l’assistenza sanitaria dei cittadini italiani e dei loro familiari durante la permanenza all’estero dovuta a motivi di lavoro. È loro riconosciuta la piena tutela assicurativa sia in forma diretta, sia in forma indiretta. Anche in questo   caso si possono presentare quattro situazioni: 
  1.  Soggiorno temporaneo: i lavoratori subordinati pubblici e privati), i lavoratori autonomi e i lavoratori dei trasporti internazionali utilizzano la tessera europea di assicurazione malattia (o il certificato sostituti-vo provvisorio).
2.  Residenza: i lavoratori che trasferiscono per motivi di lavoro la residenza all’estero (intesa come abituale dimora) hanno diritto al rilascio da parte dell’ASL del modello E106, che assicura per sé e per i propri familiari l’assistenza sanitaria secondo le stesse regole e gli stessi livelli riconosciuti ai lavoratori residenti.
3.  Stati convenzionati: nei paesi che hanno stipulato accordi bilaterali con l’Italia, l’assistenza sanitaria per i lavoratori e loro familiari che trasferiscono per motivi di lavoro la residenza all’estero è assicurata in forma diretta o indiretta, a seconda di quanto previsto dalla convenzione.
4.  Paesi non convenzionati: l’assistenza sanitaria all’estero è garantita dal decreto del presidente della repubblica 618/1980, che assicura la copertura assistenziale in qualsiasi paese del mondo ai cittadini italiani che si recano all’estero in distacco lavorativo per brevi periodi. Prima di partire, bisogna richiedere alla propria ASL di appartenenza l’attestato previsto dall’art. 15 del decreto del presidente della repubblica 618/1980, contenente una dichiarazione del datore di lavoro, da dove risulti l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale per sé e i familiari. Tale dichiarazione dovrà essere presentata, in caso di necessità, al consolato italiano competente unitamente alle fatture relative alle spese sanitarie sostenute e alla domanda di rimborso; il consolato provvederà a trasmettere al ministero della Salute la domanda di rimborso. Si hanno tre mesi di tempo dalla data delle fatture per presentare domanda di rimborso ai consolati, che nel caso di spese ingenti possono provvedere a degli anticipi fino al 50 per cento del valore.
All’estero, entro tre mesi dalla prestazione sanitaria ricevuta, è possibile richiedere il rimborso per le spese sanitarie sostenute all’ambasciata o al consolato territorialmente competente.
Non rientrano tra le categorie assistite all’estero: le persone che già usufruiscono nello stato estero di prestazioni sanitarie garantite da un’assicurazione pubblica o privata contro il rischio malattia prevista dalla normativa locale, né i lavoratori che hanno un’assicurazione sanitaria garantita dal datore di lavoro.
Gli studenti e i titolari di borsa di studio godono della copertura sanitaria all’estero secondo due diverse modalità, a seconda dello stato prescelto:
1. stati dell’Unione Europea, Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera: l’assistenza sanitaria è equivalente a quella dei lavoratori ed è assicurata dalla tessera europea di assicurazione malattia (o in mancanza dal certificato sostitutivo);
2.  paesi non convenzionali: l’assistenza sanitaria all’estero è garantita dal decreto del presidente della repubblica 618/1980, che assicura la copertura assistenziale ai cittadini italiani che si recano in qualsiasi paese del mondo; prima di partire bisogna richiedere sempre alla propria ASL l’attestato previsto dall’art. 15 del decreto.
Quando ci si trova all’estero, entro tre mesi dalla prestazione sanitaria, è possibile richiedere il rimborso per le spese sanitarie sostenute all’Ambasciata o al Consolato territorialmente competente.
Se si è emigrati residenti all’estero e durante uno dei soggiorni in Italia si ha bisogno di assistenza sanitaria, occorre esibire una dichiarazione del consolato italiano del luogo dove si risiede, che attesti lo status di emigrato. L’assistenza sanitaria è concessa per un periodo di tempo non superiore ai 90 giorni, anche cumulabili, per anno solare.

Per tutti i cittadini la Costituzione italiana riconosce come fondamentale il diritto alla tutela della salute, affermando, nell’art. 32: «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti... i cittadini devono collaborare al mantenimento della salute, sia osservando i comportamenti richiesti nell’interesse collettivo, sia partecipando alle spese necessarie, in rapporto alle loro diverse capacità contributive». L’art. 3 afferma: «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale... senza distinzione di razza, sesso, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali». Il diritto alla salute era stato ribadito a livello internazionale dalla «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo».
Il  «Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali» del 1966 afferma che «ogni individuo ha diritto a un livello di vita adeguato per sé è la sua famiglia che includa un’alimentazione, vestiario e un alloggio, adeguati».
Nella convenzione dell’QNU sui diritti dell’infanzia, approvata dall’assemblea generale il 20 novembre 1989, è citato espressamente l’emigrante e la sua tutela anche sanitaria.
Le indicazioni costituzionali e quelle derivanti da patti e convenzioni internazionali rispondono a una logica di solidarietà umana e di prevenzione collettiva, ma non hanno una natura immediatamente attuativa; resta affidata al legislatore nazionale l’individuazione e la determinazione degli strumenti, dei tempi e dei modi di attuazione. Ciò ha fatto sì che per anni in Italia l’immigrazione, non regolamentata né tutelata, abbia generato l’esclusione non solo dalla normativa, ma anche dall’accesso ai servizi, anche dei più elementari, di coloro che non avevano alcun diritto a prestazioni, pur vivendo accanto a cittadini italiani nello stesso territorio.
Dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, a fronte di un diritto di salute negato per legge agli immigrati clandestini o inaccessibile ai più dei regolari (per complessi iter burocratici, o perché connesso ad alcune condizioni giuridiche precise quali la residenza, la condizione lavorativa ecc.), è stato il volontariato a supplire alla carenza di tutela della salute da parte pubblica, garantendo di fatto un diritto all’assistenza sanitaria.
Con la legge 39/1990, la cosiddetta «legge Martelli», sono state introdotte norme sull’ingresso «il soggiorno in Italia per motivi non solo di lavoro, ma anche di studio, di famiglia o di cure mediche. Sono cominciati così i ricongiungimenti familiari, che tanta importanza hanno assunto negli anni successivi nel modificare le  caratteristiche socio-demografiche della popolazione   straniera presente in Italia. In particolare l’art. 9, comma 12, stabilisce che: «i cittadini extracomunitari e gli apolidi che chiedono di regolarizzare la loro posizione,  sono a domanda assicurati al Servizio sanitario nazionale e iscritti alla USL del comune di effettiva dimora». 
 Negli anni successivi vengono attuati vari interventi legislativi che non vanno però a modificare, se non in piccola parte, la legge 39.  Il successivo decreto in materia di immigrazione, il decreto legge 489/1995 (decreto Dini) dal titolo: (Disposizioni urgenti in materia di politica dell’immigrazione e per la regolamentazione ingresso e soggiorno nel territorio nazionale dei cittadini dei paesi non appartenenti all’Unione Europea», dedica maggiore attenzione alle problematiche sanitarie dei cittadini stranieri presenti in Italia. Il decreto estende il diritto alle cure ordinarie e continuative e i programmi di medicina preventiva, anche agli irregolari e ai clandestini. Vengono inoltre erogate senza oneri a carico dei richiedenti,   le prestazioni preventive, come quelle per la tutela della maternità e della gravidanza. 
 Dopo l’entrata in vigore del trattato di Maastricht (1993) e dell’accordo di Schengen (1997), un traguardo importante per la tutela della salute dello straniero extracomunitario, si è raggiunto con l’emanazione della legge 40/1998 (legge quadro sull’immigrazione, detta anche  «Turco-Napolitano») confluita con decreto legislativo  286/1998 nel Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», le cui disposizioni sanitarie rappresentano una svolta rilevante rispetto al passato. 
 La motivazione di fondo della legge del 1998 partiva dalla consapevolezza che l’immigrazione rappresentava una risorsa economica, demografica e culturale importante, che tale fenomeno era ormai strutturale e necessitava di una politica di risposta ai bisogni di salute dei nuovi cittadini. In particolare gli artt. 34, 35, 36 recano le disposizioni in materia sanitaria, che affrontano i punti che avevano impedito allo straniero di godere del diritto alla salute, che secondo la Costituzione dovrebbe essere effettivamente garantito a ogni cittadino. Significativi sono stati i cambiamenti sia per coloro che possono iscriversi al Servizio sanitario nazionale, sia per i cittadini stranieri non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno, i quali con l’emanazione di questa legge hanno potuto godere di un diritto per tanti anni negato o nascosto.
Il  Testo unico riconosce, a prescindere dalla condizione giuridica, «i diritti fondamentali della persona umana» e sancisce l’inclusione a pieno titolo degli immigrati in condizione di regolarità giuridica nel sistema di diritti e doveri attinenti l’assistenza sanitaria, a parità di condizioni e opportunità con il cittadino italiano, estendendo tali diritti anche a coloro che sono presenti in Italia in situazione di irregolarità giuridica e clandestinità. La legge Bossi-Fini (legge 189/2002, Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo») non ha modificato questi principi stabiliti dal Testo unico.
I  principi e le disposizioni contenute nel Testo unico hanno trovato maggiore concretezza applicativa con l’emanazione del regolamento di attuazione (il decreto del presidente della repubblica 394/1999), che disciplina le modalità più opportune per garantire che le cure essenziali e continuative e le modalità di erogazione nell’ambito delle strutture della medicina nel territorio o nei presidi sanitari, pubblici e privati accreditati. L’art. 43 contempla particolari procedure per evitare che la condizione di clandestinità influisca sull’erogazione delle cure necessarie. A questo proposito, il regolamento di attuazione prevede per la registrazione delle prestazioni erogate a tali soggetti e per le eventuali prescrizioni diagnostiche terapeutiche, l’utilizzo di un codice a sigla STP (straniero temporaneamente presente), tale codice viene rilasciato da tutte le strutture sanitarie pubbliche, è riconosciuto su tutto il territorio nazionale e identifica l’assistito per tutte le prestazioni previste. È subordinato alla dichiarazione d’indigenza, rilasciata dallo straniero attraverso la compilazione del modello 1.STP predisposto dal Ministero della Sanità, che rimane agli atti della struttura che l’ha emesso. Lo straniero in possesso ditale codice è esentato dal pagamento del ticket, per tutte le prestazioni di primo livello e per quelle che sono in esenzione per i cittadini italiani, alle medesime condizioni (patologia, età e reddito).
Ulteriori chiarimenti e dettagli operativi al riguardo sono inoltre stati forniti dal ministero della Sanità con la circolare n. 5 del 24/3/2000 che contiene le indicazioni applicative del decreto legislativo 2286/1998. La circolare fornisce la distinzione tra cure urgenti ed essenziali: sono urgenti «le cure che non possono essere differite senza pericolo per la vita o danno per la salute della persona»; essenziali «le prestazioni sanitarie, diagnostiche, terapeutiche relative a patologie non pericolose nell’immediato e nel breve termine, ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o rischi per la vita».
Nei piani sanitari nazionali degli ultimi anni, a partire da quello 1998-2000 (tale documento, per la rilevanza che ha rivestito in termini di programmazione su base nazionale, ha assunto un significato storico: per la prima volta, infatti, la salute degli stranieri immigrati è stata riconosciuta tra le priorità del Servizio sanitario nazionale e dell’intera collettività che esso tutela), è ribadita la necessità di assicurare l’accesso delle popolazioni immigrate al Servizio sanitario nazionale rendendo l’offerta di assistenza pubblica visibile e facilmente accessibile. In particolare il piano 2006-08 dedica ampio spazio «agli interventi in materia di salute degli immigrati e delle fasce sociali marginali» ed evidenzia la necessità di promuovere politiche di prevenzione in campo sanitario per giovani e minori, studi e ricerche sulla diffusione di malattie infettive nonché interventi di formazione per gli operatori sanitari, focalizzando l’attenzione sul settore materno-infantile, sugli infortuni sul lavoro, sulle condizioni sanitarie delle popolazioni rom e sulle condizioni delle popolazioni senza fissa dimora.  
     
Chi proviene da un paese straniero, e non appartiene all’Unione Europea, ha il diritto, ma anche il dovere, di iscriversi al Servizio sanitario nazionale italiano, che un tempo si chiamava «la mutua». Basta avere un regolare permesso di soggiorno, richiesto per lavoro, motivi familiari, adozione, affidamento, acquisto di cittadinanza, asilo politico o umanitario.
Per iscriversi bisogna recarsi all’ASL del quartiere dove si risiede, presentando il permesso di soggiorno, il codice fiscale e il certificato di residenza che può essere compilato anche da soli (si chiama autocertificazione del domicilio). Poi è possibile scegliere il medico di famiglia e il pediatra di fiducia da una lista di nominativi che la ASL mette a disposizione dei cittadini. L’iscrizione al Servizio sanitario nazionale vale fino allo scadere del permesso di soggiorno, ma per mantenerla valida nel periodo di rinnovo del certificato basta mostrare il cedolino rilasciato dalla questura che attesta la richiesta. È poi precisato che, in mancanza di residenza, il cittadino straniero e i suoi familiari a carico sono iscritti negli elenchi degli assistibili dell’ASL nel cui territorio hanno effettiva dimora; per luogo di effettiva dimora si intende quello riportato sul permesso di soggiorno. Tale innovazione è volta a favorire l’iscrizione di quanti, a causa di una precarietà economica o lavorati va, sono costretti a continui spostamenti sul territorio  nazionale, con corrispondenti cambiamenti di alloggio. 
 Con l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale si ottengono gli stessi diritti e doveri dei cittadini italiani: è possibile scegliere il medico di famiglia e il pediatra, fare tutte le visite e gli esami specialistici che il medico riterrà opportuno prescrivere, essere ricoverati in ospedale, fare un’operazione chirurgica e ottenere le ricette per acquistare i farmaci. Non tutto è gratis. In alcuni casi, regola che vale per tutti, lo Stato chiede di contribuire alla spesa sanitaria facendo pagare una somma di denaro chiamata ticket. 
 L’assistenza sanitaria è garantita anche ai familiari di primo grado a carico del capofamiglia — coniuge, fratelli, genitori e figli — che soggiornano regolarmente in Italia. 
Chi risiede in Italia per motivi di studio, religiosi o è  collocato alla pari, ha due possibilità: procurarsi, prima di partire, un’assicurazione sanitaria riconosciuta dall’Italia contro il rischio di malattie, infortunio o maternità, oppure fare un’iscrizione volontaria al Servizio sanitario nazionale, pagando una quota fissa che però va rinnovata ogni anno. Con quest’ultima formula sono assistiti anche i familiari a carico. Chi ha un permesso di soggiorno di breve durata — per esempio, per affari o turismo — e non ha un’assicurazione privata deve pagare per intero le cure che riceve e gli esami che fa. 
Anche in assenza di un permesso di soggiorno valido (perché è scaduto, non è stato rinnovato, oppure non è mai stato ottenuto) è possibile essere curati in ospedale  o  in ambulatorio presentando la tessera STP (straniero temporaneamente presente), che va richiesta all’ASL e prevede l’erogazione anche «ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno» delle cure ambulatoriali urgenti o comunque essenziali, anche continuative, per malattia e infortunio, e l’estensione dei «programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva». Inoltre l’articolo garantisce: la «tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane» (comma 3, lettera a), «la tutela della salute del minore in esecuzione alla Convenzione sui diritti del fanciullo del 20/11/1989» (comma 3, lettera b), «le vaccinazioni secondo la normativa e nell’ambito di interventi di campagne di prevenzione collettiva autorizzati dalle regioni» (comma 3, lettera c), «gli interventi di profilassi internazionale» (comma 3, lettera d), e «la profilassi, la diagnosi, e la cura delle malattie infettive» (comma 3, lettera c).
In molte città, inoltre, è possibile rivolgersi anche alle associazioni in cui lavorano medici e dentisti volontari.
Tutti gli immigrati irregolarmente presenti in Italia che richiedono prestazioni sanitarie gratuite o soggette a ticket non devono pagare perché si trovano in condizioni di indigenza. Questa condizione deve essere attestata da un’autocertificazione che va compilata su un apposito modulo (dichiarazione d’indigenza) al momento della richiesta. Per ottenere le prestazioni gratuite o parzialmente gratuite occorre eseguire le visite e gli esami nelle strutture pubbliche o convenzionate.
Un clandestino che va da un medico o in ospedale non rischia di essere denunciato. Chi si rivolge a una struttura sanitaria riceverà le cure necessarie e non sarà denunciato per il fatto di non avere il permesso di soggiorno.
Le donne immigrate prive di permesso di soggiorno possono rivolgersi ai seguenti servizi, nel rispetto della riservatezza:
Consultorio familiare per: contraccezione (con pagamento ticket); gravidanza (prestazione gratuita); certificazione per interruzione di gravidanza (prestazione gratuita); controllo menopausa (con pagamento ticket). ~i ospedali per: controllo gravidanza (assistenza e esami) (prestazione gratuita); assistenza al parto (prestazione gratuita); interruzione di gravidanza (prestazione gratuita);
Spazi prevenzione della lega tumore per esami dell’apparato genitale femminile per la prevenzione (con pagamento ticket).
Ai minori irregolari è garantita la tutela della salute in esecuzione della convenzione sui diritti dell’infanzia, che prevede, per tutti i minori di 18 anni «il diritto al godimento del miglior stato di salute possibile e a beneficiare dei servizi medici e di riabilitazione».
Tuttavia i minori stranieri irregolari non possono essere iscritti al Servizio sanitario nazionale e non possono usufruire del pediatra di libera scelta. Hanno però diritto a usufruire delle cure mediche presso strutture sanitarie pubbliche, quali ambulatori specialistici, ospedali, consultori pediatrici di zona. I bambini di età compresa tra i O e i 6 anni, anche se irregolari, hanno diritto alle cure mediche di base e specialistiche presso le strutture ospedaliere e territoriali, in forma gratuita. Se dopo la nascita si richiede un permesso di soggiorno temporaneo, per i sei mesi successivi si ha diritto all’iscrizione al Servizio sanitario nazionale presso il distretto della zona di competenza e ad accedere a tutte le cure previste per i bambini italiani, tra cui il pediatra di base. Le vaccinazioni sono obbligatorie, il bambino può riceverle gratuitamente presso i consultori e i centri di vaccinazione. Tutti i minori irregolari con un’età superiore ai 6 anni hanno diritto fino al compimento del diciottesimo anno a tutte le prestazioni di primo livello. Le prestazioni specialistiche sono erogate in seguito al pagamento del ticket, a parità dei cittadini italiani. 
Chi è ancora all’estero e vuole venire in Italia a curarsi, con un suo eventuale accompagnatore, deve presentare una dichiarazione rilasciata dalla struttura sanitaria italiana per ottenere uno specifico visto di ingresso e relativo permesso di soggiorno per cure mediche. I requisiti che deve possedere tale dichiarazione sono: il tipo di cura, la data d’inizio, e la durata del trattamento terapeutico. Deve, inoltre, dimostrare di potersi pagare il vitto e l’alloggio (per tutto il periodo di permanenza) e versare alla struttura, in genere l’ospedale, il 30 per cento delle spese previste, come deposito. È inoltre necessario farsi rilasciare dall’ambasciata italiana un visto di ingresso e un permesso di soggiorno. 












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[1] La medicina sembra essere profondamente influenzata dai costumi, dai valori, dall’economia e dalla politica delle società in cui si sviluppa. Il confine tra la medicina e la società è sempre più sfumato e incerto. Per ripensare gli scopi della medicina, occorre probabilmente ripensare nello stesso tempo i valori della società.
[2] Dausset J., La medicine predictive et son ethique, in Pathologie et Biologie, 1997, pp. 199-204.
[3] Battisti Francesco Maria, Prefazione, in Federici Raffaele - Garzi Rosita, Le prospettive relazionali nella ricerca sociologica della salute, Milano, Franco Angeli, 2006, p. 1.
[4] Federici Raffaele, Premessa in Federici Raffaele - Garzi Rosita, Le prospettive relazionali nella ricerca sociologica della salute, Milano, Franco Angeli, 2006, p. 17.
[5] Donati Pierpaolo, Salute e analisi sociologica, Milano, Angeli, 1982.   
[6] D‘Auria Giuseppina, Etica, salute e spiritualità: un progetto formativo nazionale ecm “itinerante”,  in www.oltresalerno.it  – “Quelli dell’équipe” (archivio). 
[7] Per approfondimento: D’Auria Giuseppina, Crediti assegnati negli eventi formativi dell’educazione continua in medicina: obblighi ed esenzioni   per professioni socio-sanitarie, in www.oltresalerno.it – “Quelli dell’équipe” (archivio).


[9] DRG Sigla di diagnosis related group (raggruppamenti omogenei di diagnosi nei ricoveri ospedalieri classificazione patologie che presentano caratteristiche cliniche analoghe e che richiedono per loro trattamento quantità omogenee dir sorse (in realtà, all’interno di ciascun gruppo si possono anche ritrovare patologie con caratteristiche cliniche non esattamente corrispondenti ma caratterizzate da un assorbimento di risorse simile). Per assegnare ciascun paziente a un DRG sono necessarie attualmente le seguenti informazioni minime: la diagnosi principE le di dimissione, l’età, il sesso, la modalità di dimissione.

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