Facoltà di Scienze della Formazione
Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione
Anno Accademico 2007-2008
Relatore: Chiar.mo Prof. Natale Ammaturo
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3.
I malati terminali, la donna e la maternità, salute mentale e dipendenze,
assistenza farmaceutica
Questo argomento di studio, quale
nostro lavoro di chiusura del corso universitario, s’immerge nell’attualità, in
“media res”. Abbiamo motivo di augurarci che questi nuovi livelli di conoscenza
possano creare ulteriori spazi di reciproca comprensione tra tutti coloro che,
per sensibilità personale e professionale, vogliano “riscoprire le radici
etico-sociali di ogni costruzione normativa che intenda regolare, redimere e
indicare i percorsi strutturali che sorreggono l’edificio dell’attuale assetto
della Sanità in Italia, della società contemporanea e della stessa civiltà
moderna”.
Una lettura sociologica dei processi
sociali e culturali alla base della definizione della forma sociale della
salute sembra quindi indispensabile nel più generale obiettivo di ricerca
costituito dallo spazio sociale della salute. Tale lettura sembra assumere un
particolare rilievo nel quadro dello sviluppo tecnologico della medicina e dei
trattamenti terapeutici, anche con riferimento
ai costi del sistema salute[1].
La questione sembra spostarsi sempre
di più non solo nel rapporto dell’attore sociale con la malattia ma anche con
una malattia non ancora sviluppata a cui il soggetto è predisposto, ancora
prima della sua nascita.
Il rapporto con l’attore sociale
dovrà essere diversamente interpretato poiché non è possibile considerare
l’individuo una vittima innocente del suo stato: la medicina predittiva valuta
il rischio genetico e caratterizza le condizioni che potrebbero portare la
malattia a manifestarsi.
Tale prospettiva costituisce
un’ulteriore novità a livello di concettualizzazione della salute e della
malattia sia per le strategie medico-sanitarie, sia per l’impatto nel sistema
sociale e culturale, in quanto gli interventi non potranno più essere a livello
di gruppi ma bensì su basi individuali[2].
Una visione sociale della medicina
sembra quindi spostare l’attenzione nella promozione e nella informazione della
salute, sui determinanti sociali, culturali, politici ed economici della salute
in termini di fattori e variabili in relazione fra di loro senza dimenticare
che al centro vi è l’individuo. È in questa prospettiva di tipo relazionale che
la sociologia intende guardare alla salute, in una realtà post-moderna in cui i
valori sembrano spostarsi continuamente verso un individualismo sistemico, una
esigenza di efficienza, una moltiplicazione dei ruoli dell’attore sociale.
Il rapporto tra salute e sistema
sociale è oggi complesso, distanziato e paradossalmente compenetrato.
Ci è sembrato opportuno consultare una
serie di lavori concernenti la Salute, la Sanità e la Sociologia. Dagli autorevoli interventi sono emerse tutte
le scottanti problematiche della società in trasformazione, coinvolta nei
processi di globalizzazione e stravolta nei suoi più intimi valori etici.
Ci proponiamo di tracciare, seguendo
il filo rosso della produzione giuridica nazionale, europea e mondiale,
attraverso una breve analisi dell’universalità dei valori morali e delle
origini dello studio della sociologia della salute, una nuova sintesi e
integrazione, laica e cristiana, di concetti e contenuti in tema di Salute e Diritti
dell’Uomo del terzo millennio (capitolo primo).
La sociologia della salute si occupa
dell’analisi sociologica nel campo delle professioni sanitarie e di quelle
strutture organizzative che tutelano il benessere. La medicina viene definita
dalla Encyclopedia Britannica sia come scienza che riguarda il
mantenimento della salute e la
prevenzione, mitigazione o cura della malattia, sia come pratica professionale
che concerne la protezione della salute e la cura della malattia[3].
La sociologia della salute viene
introdotta in Italia da Costantino Cipolla alla fine degli anni 90, per
affrontare le problematiche di un sistema sanitario nazionale che non sembra
essere più capace di far fronte agli standard di qualità richiesti dall’utenza
e quella clinica in corrispondenza con i lavori di collaborazione con il
Comitato di ricerca dell’International Sociological Association.
La domanda relativa alla salute è
una delle questioni più vive nel recente
dibattito sociologico e tale interesse sembra andare a coincidere con la
frattura tra il positivismo medico ed il positivismo sociologico in una visione
più “comprensiva”, considerando l’osservazione del mondo vitale degli
individui, dei loro bisogni, delle soggettività e delle relazioni quotidiane[4].
Inoltre, portandoci su uno dei
gangli del problema relativi al parametro di legalità costituzionale e
grundnorm dell’ordinamento giuridico, abbiamo cercato di individuare i diritti
inviolabili in ogni democrazia costituzionale, con particolare attenzione
all’Ordinamento giuridico Comunitario e alla normativa nazionale sul Servizio
sanitario.
L’aspetto più significativo riguarda
l’attribuzione alle regioni di molte funzioni in ambito di tutela della salute,
che ha fatto nascere diversi sistemi sanitari regionali, dotati di propri e
autonomi governi. Si analizza la pianificazione sanitaria e l’approvazione dei
piani sanitari regionali, i sistemi di accreditamento e finanziamento,
programmazione e controllo e, infine la definizione degli indirizzi e delle
politiche regionali. Si propongono i dati nazionali di spesa del servizio
sanitario e si analizzano le ragioni che hanno portato ad un aumento della
spesa sanitaria negli ultimi anni.
Questa visione sociologicamente
“comprensiva” della polarità salute-malattia sembra costituire la più grande
preoccupazione sociale sia a livello individuale, sia a livello collettivo con
riferimento ad un soggetto agente che si muove fra il mondo vitale ed un
sistema sociale sempre più imprevedibile e multidimensionale[5]
(capitolo secondo).
Nella generale evoluzione dei
sistemi che afferiscono alla salute, siano essi collocati nella dimensione
biologica e tecnica, sia nella dimensione culturale, politica ed economica,
sembra essenziale tentare di definire le diverse forme ed implicazioni sociali
che questo processo richiede.
Una trattazione particolare abbiamo
dedicato alle mutazioni del fondamento dei diritti umani, in prospettiva
socio-biologica, della Costituzione Europea e delle “super politiche
Comunitarie”.
A tal fine, abbiamo cercato di
tracciare, sulla scorta di diversi studi, il profilo della Salute/bioetica come
“territorio di confronto culturale” nelle Università del mondo, di individuare
e sottolineare i valori umani e professionali, concludendo con “la svolta
pedagogica attuale”, elaborata dalle Istituzioni e percepita dai cittadini,
entro una visione della Paideia occidentale moderna (capitolo terzo).
Si può comprendere l’importanza di
quest’ultima in una società in continua evoluzione, qual è quella in cui
viviamo, contrassegnata proprio dalla comunicazione, dall’apparire, dal senso
della visibilità e dello “spettacolo”, dalla tecnologizzazione di ogni campo
dello scibile umano - compresa la domanda di salute, al mero servizio delle
leggi del mercato mondiale.
Si pone l’introduzione, negli ultimi
anni, dei livelli essenziali di assistenza e del loro continuo aggiornamento
con il passaggio di molte competenze alle regioni. La funzione di termometro è
garantita dalle numerose e diverse correnti di pensiero, in materia di informazione
medico-scientifica, bioetica e diritti dei cittadini, nell’accesso rapido ai
servizi, al diritto di ogni paziente alla sicurezza e all’informazione
adeguata.
Per ciò che concerne l’insegnamento
universitario mondiale, sono state esplorate, in particolare, le weltanshaung
Europea e Africana (capitolo quarto).
Concludono la nostra Tesi alcune
rapide ed essenziali considerazioni in materia di politica, globalizzazione,
ecologia, vuoti etici, formazione e aperture alla speranza. Uno sguardo
sociologico sul contemporaneo si focalizza sul lavoro e la precarietà post-moderna,
sull’assistenza sanitaria per gli italiani all’estero e per gli stranieri in
Italia. Particolare attenzione è fatta nei cenni sui profili fiscali relativi
alla tassazione generale dei cittadini e al finanziamento della spesa sanitaria
nazionale. Qui l’attenzione viene spostata sulle possibili agevolazioni fiscali
di cui può godere il cittadino in base alla normativa vigente (capitolo quinto),
completate da una ampia e specializzata bibliografia e sitografia.
La salute non si configura come un
dato, ma una mappa ed un costrutto generato coordinando diversi punti di vista.
Come la malattia, così la salute, è un modello, costruito socialmente, per
interpretare la realtà. Come la malattia, così la salute, si può configurare
come un evento, che l’individuo può usare per interpretare il mondo e le
relazioni con la società in cui vive: un repertorio di segni che l’attore
sociale può utilizzare per interpretare l’ordine sociale.
Così il disincanto del mondo, un
risultato dell’erosione dei paradigmi tradizionali, lascia l’individuo solo,
solo di rappresentarsi nei diversi ruoli
a cui è chiamato da più parti della società.
Quattro
secoli prima di Ippocrate, i racconti epici contenuti nell’Iliade e
nell’Odissea, testimoniano le significative conoscenze dell’epoca sulle
patologie dell’antichità; le descrizioni delle ferite, ad esempio, sono
caratterizzate da precisione anatomica. Omero descrive le fratture del femore,
parla della prognosi, riporta tecniche di intervento chirurgico, prospetta
anche interessanti ipotesi di fisiologia ma, soprattutto, utilizza la metafora
per descrivere lo stato di salute come quello della gioia di Ulisse che vede un
approdo come la guarigione alla malattia. Ulisse è uomo maturo, un uomo che
molto ha dovuto soffrire e soprattutto molto deve viaggiare; così l’uomo
contemporaneo sembra assomigliare all’Ulisse di Omero. Ulisse torna per non
tornare, per non essere riconosciuto, per non riconoscere. Il ritorno di Ulisse
è il viaggio, non è il suo approdo; così l’individuo è alla ricerca della
salute come esperienza definitiva poiché la salute non sembra essere uno stato
ideale ma una costruzione, un fatto.
Probabilmente,
in questa prospettiva la sociologia ha iniziato ad interessarsi alla salute,
avviando quel percorso scientifico che si sviluppa come dominio scientifico
particolare della sociologia della salute.
I
rapporti fra salute e sociologia hanno origine nella metafora organicistica e
dunque nel parallelismo delle due scienze come scienze del corpo.
Emile
Durkheim ha individuato i collegamenti fra salute e società. I problemi posti
dal Nostro fanno riferimento alla coesione sociale, alla regola,
all’educazione; la società che funziona si basa un corpo sociale sano mentre
una società disgregata sembra configurarsi come una società malata. Più in
generale sembra opportuno rifarsi proprio al concetto di fatto sociale, «è ogni
modo di fare, fissato o meno, suscettibile di esercitare sull’individuo una
costrizione esterna», per identificare quel complesso sistema di relazioni che
configurano la salute dell’individua della collettività come “cose sociali”.
Vilfredo
Pareto ha concentrato la sua opera all’individuazione dei nessi esistenti fra
salute e società. Nel Trattato di Sociologia Generale, infatti, egli ha
mostrato che l’analisi sociale doveva fare i conti con una sempre presente
discrepanza tra il succedersi oggettivo degli eventi ed i fini oggettivi che
dovrebbero guidarli, ma che ne risultano sopraffatti, in cui la ricerca del
benessere sociale raggiungibile, concetto evidentemente collegato alla salute,
i comporsi attraverso una posizione di equilibrio da cui è impossibile spostare
un qualsiasi individuo verso un maggior benessere.
Tale
approccio sembra, in qualche modo, rispecchiare il dualismo di fondo della
sociologia stessa che si traduce in due paradigmi conoscitivi praticamente
alternativi: da un lato il paradigma dell’azione sociale, basato sulla
soggettività e dall’altro il paradigma del sistema sociale, localizzato sulle
strutture sociali oggettivate.
La
sociologia deve connettere questi paradigmi per pervenire così a modalità più
profonde e meno riduttive di comprensione del mondo sociale. Infatti, se
partiamo dall’idea di identificare l’approccio sociologico alla salute come un
esempio applicativo di costruzione di oggetto della teoria sociologica
generale, nei suoi tre aspetti di epistemologia, paradigma e pragmatica, il
nostro problema è di vedere come un fatto lo stato di salute/malattia,
ricondotto dalle scienze mediche a variabili di tipo biologico, e quindi
apparentemente lontano dall’analisi sociologica, in quanto non rileva o rimanda
in modo diretto e palese a fenomeni sociali possa diventare tema ed oggetto
della sociologia come disciplina scientifica autonoma
La
sociologia della salute dovrebbe produrre il proprio approccio pratico nel
paradigma relazionale, ovvero in una ricerca, teorica-pratica, in grado di
mediare la relazione al valore della vita anche perché, sempre di più, la
salute è percepita come “un insieme di valori, di norme sociali e di modelli
culturali, pensati e vissuti dagli individui”.
Il
fatto sociologico delle modalità di osservazione del rapporto salute/malattia
sembra essere ulteriore rispetto alla sociologia della medicina o, ancora alla
sociologia clinica.
Per
Durkheim, la regola di studiare i fatti sociali come cose a un obiettivo:
«quello di limitare i danni, esigendo dall’osservatore di non giudicare i fatti
che egli osservava attraverso le sue preoccupazioni specifiche».
In
particolare, la medicina, la sanità e le attività di ricerca e di produzione;
connesse al sistema salute hanno oggi l’esigenza di trovare un nuovo, reale,
quadro di riferimento concettuale che consenta di integrare e di connettere i
saperi e le esperienze oltre la contrapposizione fra strategie epidemiologico-
sanitarie, biomediche-sperimentali o di costruzione sociale.
Infatti,
per la sociologia la salute non è soltanto un fatto biologico che ha anche
origini e rilevanza sociale, ne solo un fatto culturale, ma è un fenomeno
sociale complesso, che consiste di relazioni ed è prodotto socialmente, è un
modo di essere e di vivere degli individui e dei gruppi nel sistema di azione
sociale.
La
salute è, in altri termini, una relazione sociale. In tale direzione, il
primato della sociologia sembra essere costituito dal fatto che ha compreso che
l’attore sociale «è in grado di raffigurarsi i contenuti dell’immagine del
mondo prescindendo dalla sua reale esistenza o non esistenza, quindi dalla sua
natura.
Da
questi e da altri sforzi più recenti, la sociologia partecipa alla
interpretazione del concetto di salute ed alla definizione delle sue forme in
modo diverso rispetto alle altre scienze mettendo al centro dell’interesse non
l’attore sociale con le sue potenzialità fisiche e psichiche, ma anche gli
stati di salute ed i loro determinanti sociali, le relazioni fra il medico ed
il malato, e, più in generale, l’esperienze della malattia nei diversi luoghi
della vita sociale.
Una
lettura sociologica della salute non sembra essere perciò semplice non solo per
l’altissimo numero di variabili e per la dinamicità che caratterizza la ricerca
scientifica ma anche e soprattutto per il fatto che l’individuo è al suo centro
con risposte sempre diverse a domande mai uguali in uno sviluppo che spesso
«disconosce i suoi limiti».
In
sintesi, l’itinerario scientifico che realizza la sociologia, attraverso i suoi
strumenti, è quello di sottolineare la necessità di una visione di insieme,
connettiva, non colta da altre discipline perché “la conoscenza della realtà,
tanto sociale che fisica, si attua attraverso tutta una serie di disillusioni”.
Salute
non come stato fisico e psichico interno, o almeno non solo, ma come un
processo dinamico e relazionale, di scambio, fra il proprio ambiente ed il
mondo vitale.
Questo
passaggio si rende ancora più necessario con il diffondersi sia delle pratiche
basate sulla Evidence Based Medicine,
sia delle cosiddette teorie economicistiche della salute che sembrano
costituire un rischio nella definizione della salute in relazione alla società
stessa: non è un caso che siano proprio i due temi oggetto di un vivace
dibattito fra i sociologi, lo strumento dell’Evidence
Based Medicine e le implicazioni derivanti dai crescenti costi economici
dei sistemi sanitari, due temi fra loro
lontani ma che sembrano ricondurre l’osservazione alla domanda sociale, ai
bisogni di salute, alle aree di solidarietà e di partecipazione.
La
salute è un fatto sociale, prima di ogni altra cosa e tale dimensione implica
una partecipazione per così dire “regolata” e «regulation virtually defines a profession» è un fatto sociale
perché al cuore del problema salute si trovano da una parte le relazioni
dell’individuo con la socialità, dall’altro perché, latu senso, vi sono i
meccanismi di integrazione odi esclusione; di tolleranza o di emarginazione, in
una società che tende ad operare sempre diversamente nel suo divenire.
In
tale prospettiva, affinché i problemi della salute siano al centro delle
attenzioni, è necessaria una partecipazione del cittadino, partecipazione possibile
solo in modelli “aperti” di comprensione della salute in relazione, soprattutto,
alla sempre maggiore richiesta di informazione e di partecipazione alle scelte
terapeutiche.
Nella
definizione della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la
salute si realizza come uno di completo benessere fisico, psichico e sociale e
non semplice assenza di malattia e viene considerata un diritto e come tale si
pone alla base di tutti gli altri diritti fondamentali che spettano alle
persone come stabilito dalla dichiarazione universale dai diritti dell’uomo.
La
definizione della salute dell’OMS e della promozione della salute stessa supera
il modello, per così dire, ideale della salute, quello che si costituisce come
la assenza di malattia: la salute diventa una condizione di cui si ha
un’esperienza quasi inconsapevole, sembra coincidere con lo scorrere stesso
della vita. La malattia, come agente che interferisce con questo fluire, sembra
svelarla come una condizione perduta. Questo modello della relazione fra salute
e malattia sembra essere quello prevalente nei paradigmi medici e nelle
strutture sanitarie. La logica che sembra caratterizzare i paradigma medici
sembra svilupparsi secondo un complesso sistema di modalità diverse. Una prima
modalità è quella lineare in cui un determinato danno provoca una condizione di
malattia e le cure diventano un sistema atto alla riparazione del danno avuto.
Una seconda modalità è quella individualista: la salute e la malattia sono
determinate dalla assenza/presenza di risorse nell’individuo e le cure
costituiscono interventi diretti esclusivamente all’individuo. Una ultima
espressione è quella a-storica: si ignora l’interazione dell’individuo con il
suo ambiente, la sua cultura, la sua storia, la sua condizione sociale. In
questa direzione, i fattori I fattori macrosociali, le differenze culturali, gli
eventi esterni ed estremi, le condizioni socio-economiche, la mancanza di un
supporto sociale adeguato, l’ambiente relazionale avverso, sono tutti, fattori
totalmente o relativamente indipendenti dalle caratteristiche biologiche o
psicologiche di un individuo. I contesti micro-sociali e macrosociali hanno un
ruolo cruciale nell’insorgenza e nell’evoluzione dello stato di salute degli
individui.
Le
reti di relazioni interpersonali possono
favorire la creazione di meccanismi informali di protezione contro la malattia
e la vecchiaia oppure, attraverso lo stimolo dell’azione collettiva, possono
migliorare l’efficienza e l’efficacia della fornitura di determinati servizi da
parte del settore pubblico.
Focus: Salute e Disabilità: due dimensioni della natura umana – abstract del Corso
Base ICF -INNCB Milano
Il
Corso Base ICF-DIN è centrato principalmente sugli aspetti teorici relativi
alla classificazione ICF dell’OMS (Classificazione Internazionale del
Funzionamento, della Disabilità e della Salute), che rappresenta un modello di
riferimento culturale ineludibile per il settore sociosanitario. Il filo
conduttore di questa giornata porterà dunque i partecipanti a conoscere i
fondamenti teorici di questa classificazione, l’impatto che questa sta avendo
attualmente nell’ambito della salute pubblica e della disabilità, inteso sia
come campo di ricerca, sia di pratica clinica. Il concetto che guida la
giornata verterà su salute e disabilità, intesi non come elementi contrapposti,
ma come due aspetti fondamentali della condizione umana.
I
temi verteranno pertanto su un’introduzione ai concetti dell’ICF, per quanto
riguarda in particolare la forza euristica, esplicativa ed interpretativa del
modello. Lo scopo sarà far conoscere ai partecipanti la capacità descrittiva delle
voci e dei codici, creando in questo modo un linguaggio comune, che sia
applicabile dalle diverse figure professionali e che accompagni il paziente
lungo i diversi passaggi di cura e di care. Sarà presentato l’andamento del
progetto ICF in Italia ed alcune esperienze internazionali sull’uso dell’ICF,
in particolare la nuova classificazione ICF-CY. Si esporrà il razionale alla
base dell’utilità di un percorso di cura e di care basato sul modello
biopsicosociale dell’ICF, con un approccio multidisciplinare.
2.1 – Il concetto di
salute promosso dall’OMS e l’importanza di disporre di strumenti di valutazione
della salute e del funzionamento.
S’introdurrà
l’ICF come strumento di classificazione del funzionamento, della disabilità e
della salute, soffermandosi sulla sua natura multidisciplinare (biologica,
psicologica e sociale), ed approfondendo la nozione di salute così come è
intesa dall’OMS. Il focus sarà sul valore pratico ed euristico di questo
strumento per la condivisione delle informazioni sulla persona e sul suo
ambiente nelle equipe multidisciplinari, così come si approfondirà il crescente
bisogno di disporre delle informazioni relative al funzionamento delle persone
che entrano nei sistemi sociosanitari. Tali informazioni sono necessarie per
definire i percorsi di cura e di care per la singola persona, così come per
definire l’allocazione delle risorse.
2.2 – Salute e
Disabilità nell’ICF: i principi di base, la situazione in Italia e in Europa,
le leggi i concetti e i progetti in atto con ICF.
La classificazione
ICF rappresenta anche un modello culturale di riferimento, le basi su cui è
stata costruita sono state oggetto di lunghe ed approfondite discussioni. In
questo modulo si presenteranno dunque le nozioni di base sottostanti il modello
ICF: concetti di salute e disabilità; modelli di disabilità (medico Vs.
sociale); modello biopsicosociale. Molta attenzione sarà dedicata al
superamento della nozione di handicap e del modello ICIDH-80 ed
all’introduzione dei principi della revisione. Infine si affronteranno le
tematiche relative alle leggi attualmente vigenti in Italia ed in Europa, alle
politiche sociosanitarie in tema di salute pubblica e disabilità, le proposte
di revisione a livello continentale e nazionale. Alla fine del modulo, il
relatore presenterà un upgrade dei
progetti più importanti che sono attualmente in fase di svolgimento, mantenendo
sempre uno sguardo al contesto italiano ed europeo.
2.3 – Conoscere la
capacità descrittiva dello strumento ICF: cosa è un profilo di funzionamento?
In
questo modulo, si illustrerà la differenza teorica fra valutazione e
classificazione, e la ricaduta pratica di questa differenziazione.
Quest’argomento introdurrà la spiegazione della necessità, ravvisata dall’OMS,
di una Classificazione Internazionale del Funzionamento e, di conseguenza, lo
sviluppo dell’ICF (principi di base e applicabilità culturale). Si
presenteranno dunque, nel rispetto dell’architettura strutturale della
classificazione, le dimensioni del funzionamento e della disabilità, i domini
dell’ICF (Funzioni Corporee, Strutture Corporee, Attività e Partecipazione,
Fattori Ambientali) ed il significato di ciascuno di essi all’interno della
struttura gerarchica e culturale della classificazione. Infine si approfondirà
il ruolo dell’ICF nella Family of International Classifications (WHO-FIC), e si
presenterà la ICF tool-box. Il nucleo centrale riguarderà la definizione di un
profilo di funzionamento con l’ICF e la loro utilità nella pratica quotidiana.
2.4 – Struttura ed
elementi della classificazione: come si usa l’ICF?
In
questo modulo pratico si effettuerà un’introduzione alla struttura generale e
gerarchica dell’ICF in quanto classificazione. Recuperando i concetti relativi
alle singole componenti ed ai singoli domini si introdurrà la nozione di
qualificatore, rispetto alla quale si indicheranno una serie di regole pratiche
imprescindibili per l’attività di codifica. Per ciascuna componente si
spiegherà l’uso dei qualificatori, con la specificazione del loro significato e
delle euristiche che è possibile seguire per giungere ad un corretto utilizzo
della classificazione e degli strumenti ad essa correlati, in particolare l’ICF
checklist. Questo modulo comprende anche una parte applicativa, effettuata con
l’uso di semplici Case-Vignette cliniche, che serviranno per vedere la
traduzione in linguaggio ICF delle singole voci.
2.5 – Uso e utilità
dell’ICF nei gruppi multidisciplinari.
Il
modulo conclusivo è focalizzato ad approfondire quale può essere l’uso e
utilità dell’ICF nella pratica clinica, amministrativa e di ricerca. La
discussione verterà dunque sull’uso dell’ICF nei gruppi multidisciplinari quale
linguaggio comune; sulle conseguenze operazionali dovute all’introduzione di
questa classificazione, sui dubbi e sui problemi che essa può comportare.
Verranno poste delle questioni relative all’applicazione dell’ICF nei diversi
ambiti: clinica, statistica, management dei sistemi sociosanitari, management
della disabilità, politiche sociosanitarie, ricerca. Si presenteranno infine
quelli che sono gli adattamenti speciali (ICFcore-set e le checklist dedicate)
e adattamento per bambini (ICF-Children and Youth) che dovrebbe essere
pubblicata nel corso del 2006. Infine si porterà il focus della discussione su
come organizzare un percorso di care con ICF.
I
percorsi interpretativi nella lettura delle relazioni fra malattia e salute si
sono configurati nei diversi contesti culturali, «come il significato e le
pratiche interpretative interagiscano coi processi sociali, psicologici e
fisiologici per produrre forme distintive di malattie, e traiettorie della
malattia».
Kleinman
ha proposto una distinzione etimologica tra: disease, che si riferisce ad
anormalità nella struttura o nel funzionamento di organi e sistemi e che è
dominio del modello biomedico; illness, che si riferisce alla percezione
individuale di uno stato che ha una connotazione negativa e che comprende, ma
non si limita a disease; sickness, che indica gli eventi che possono diventare
disease o illness.
Il
termine illness dovrebbe riferirsi all’esperienza diretta del malato, il
vissuto della malattia, mentre con disease si indica la concettualizzazione
della malattia da parte del medico.
Esiste
perciò una differenza fra l’essere malato e l’avere una malattia, una
differenza che nella lingua tedesca è percepita come Erkrankung e Krankheit, da
cui deriva la necessità di introdurre un ulteriore termine, sickness, per
indicare la percezione della malattia da parte dell’ambiente sociale non medico.
Proprio in tale prospettiva Young, approfondendo l’aspetto della costruzione
sociale della malattia, ha proposto l’ulteriore specificazione attraverso il
termine sickness, che non sembra essere semplicemente un termine ambiguo che
definisce lo stato tra il danno biologico e la percezione soggettiva del danno.
La
malattia-sickness deve essere infatti intesa come il processo attraverso il
quale, a comportamenti preoccupanti e a sintomi biologici, viene attribuito un
significato socialmente riconoscibile e, di conseguenza, accettabile.
Nella
malattia concepita come disease è possibile perciò distinguere le condizioni
fisiologiche constatate oggettivamente dal medico, il pathos, dalla loro
interpretazione medica in forma di entità clinica o anatomo-fisologica, il
nosos.
Ogni
cultura ha, secondo Young, delle regole per “trasformare” i segni del corpo in
sintomi, per collegare i sintomi a un modello eziologico e di intervento. La malattia-sickness,
quindi, sembra essere un processo per socializzare la malattia disease e la
malattia-illness. Lo stesso insieme di segni, ad esempio, può corrispondere e
diversi tipi di diagnosi e di terapia. E’ il modello eziologico dominante in
quella società che “deciderà” che tipo di malattia ha l’individuo e quale potrà
essere la terapia adatta.
La
malattia-sickness, inoltre, determina la dimensione individuale della malattia.
Ma è la società che stabilisce a quali sintomi prestare attenzione, quando è
lecito stare male e quando non lo è. La malattia-sickness, più ancora che la malattia-illness,
è la cultura più che l’individuo, che determina la scelta e la forma che
assumerà la sofferenza.
Tuttavia,
per tentare di chiarire ulteriormente sembra necessario aggiungere le
osservazioni di Grmek a proposito del rapporto fra salute e malattia. Il Nostro
ha suggerito una distinzione dei problemi: «il primo riguarda la malattia,
concetto generale la cui definizione sottintende quella della salute, cioè
della normalità del funzionamento dei corpo; il secondo, ben distinto dal
primo, concerne le malattie, le entità nosologiche. Il primo problema è quello
della definizione del patologico rispetto al fisiologico. Sarebbe ovvio
definire normale ciò che è più frequente, ma questo non quadra con il fatto che
ci sono della popolazioni nella quali la presenza di certi stati patologici è
più frequente della loro assenza. Il concetto di normalità suppone infatti
quello di norma biologica e sociale, concepita come un tipo ideale di
esistenza, un miglior modo di esistere di un individuo».
Il
modo di sperimentare la sofferenza è cambiato nelle sue configurazioni,
restando però legato ad importanti fattori di origine sociale, quali sono le
condizioni igieniche, quelle relative all’ambiente di vita o ai comportamenti a
rischio, nella più generale definizione dei luoghi del confronto e della
relazione: “è altresì innegabile il rapporto esistente fra le diverse
concezioni della malattia espresse nelle diverse epoche storiche e le malattie
dominanti allora in quelle società”.
Ma
la malattia è anche un fatto sociale, come osservato, perché coinvolge tutta il
gruppo dell’attore sociale malato: «la malattia è, allo stesso tempo, il più
individuale ed il più sociale degli eventi». La ulteriore annotazione sembra
riferirsi proprio alla conseguenza sociale, una conseguenza che fa riferimento
alle diverse dimensioni dei concetti di salute e malattia. La complessità dei
diversi significati assunti sembra essere il risultato di una particolare
lettura della realtà, una lettura che rimanda al fatto che ogni sistema medico
non può prescindere dal più complessivo sistema culturale in cui si colloca
Infatti la stessa definizione di medicina sembra contenere una contraddizione
culturale poiché è definita sia come l’insieme delle discipline scientifiche
che, studiando la fisiologia e la patologia si occupa della salute sia la
pratica professionale dell’arte medica da parte di una persona che ha
conseguito un titolo accademico riconosciuto legalmente. La medicina come
scienza delle scienze è però una costruzione recente perché, tradizionalmente è
conosciuta come «iatriké téchne, non epistéme [...] una sintesi fra scienza,
tecnica ed arte».
Sembra
esserci, nello status attuale delle conoscenze mediche convenzionali una specie
di tensione, culturale e sociale, forse perché, sul fronte epistemologico, la
medicina si è caratterizzata in termini ipercritici, una tensione fra il
bisogno dell’individuo e la difficoltà a realizzare una esperienza conclusiva.
La
storia della medicina occidentale è dominata dalla cosiddetta ideologia curativa,
nella prospettiva di guarire dal male o neutralizzare una lesione. In tale
direzione, la medicina convenzionale si è occupata dell’elaborazione di
tecniche terapeutiche sviluppate in funzione della malattia e della guarigione,
prima che della prevenzione dalle possibile malattie. Per comprendere le
ragioni dello sviluppo e delle dinamiche attuali nella medicina occorre
risalire al Seicento; il cambiamento è rintracciabile con la scoperta
dell’importanza della «misura e del modello meccanico, grazie a Galileo,
Cartesio, Newton e con la biologia di Harvey e altri, cambia in modo
fondamentale il vecchio modello ippocratico-aristotelico essenzialmente
qualitativo, sopravvissuto alla medicina galenica».
Il
diciannovesimo secolo si caratterizza per una svolta epocale nella percezione
del rapporto salute e malattia: un secolo che si configura in un più ampio
quadro teorico costituito dalla scientismo.
È il
secolo dei lavori socio-antropologici ed evoluzionistici di Darwin: Thomas
Huxley ed Herbert Spencer rivendicano che i presupposti teorici dell’Origine
delle Specie siano considerati come verità positiviste. L’evoluzionismo, il
laboratorio di analisi, lo stetoscopio rappresentano quella rottura
epistemologica che porta i medici a ri-trovare la dimensione dell’osservazione
del concetto di malattia
La
salute inizia così ad avere una sua forma all‘interno della società proprio a partire
dal rapporto fra biologia e epidemia e contagio. Infatti, l’epidemia, il
contagio, la paura del male si affermano come dei veri fenomeni del sociale,
passando dall’immaginano incontrollabile ed incontrollato ad un immaginario
sociale.
Gli
ospedali si trasformarono in istituzioni tecnologicamente avanzate. In Italia,
ad esempio, questo periodo segna «il definitivo passaggio dall’età delle
epidemie sociali all’età della mortalità controllata. La mortalità per malattie
infettive, nell’arco di quindici anni, crolla di un terzo.
La
fine dell’Ottocento è così contrassegnata sia dalla consapevolezza della
rivoluzione scientifica in atto sia da vere e proprie novità in termini
normativi ed istituzionali. L’incremento delle conoscenze mediche conduce
all’identificazione di patologie che a loro volta danno luogo ad una
ri-classificazione delle degenze. Nasce così il concetto di “ospedale generale”
che assumerà un ruolo centrale nella pianificazione dell’assistenza sanitaria.
In corrispondenza delle varie patologie identificate e delle rispettive cure,
sorgono spazi separati sottoforma di padiglioni l’accresciuto controllo
igienico dello spazio ospedaliero portava al definitivo trionfo dell’asepsi e
dell’antisepsi.
Successivamente
e fino al secondo conflitto mondiale, i progressi furono considerevoli sia in
campo terapeutico e farmacologico, sia chirurgico, soprattutto a causa degli
eventi bellici del primo conflitto mondiale ed alla necessità di un
significativo uso della chirurgia e delle nuove possibilità offerte dall’
avvento della anestesia. Il secolo Ventesimo ha così mantenuto le promesse del
secolo precedente, con una notevole progressione rispetto ai secoli precedenti
in termini terapeutici e diagnostici. Il Novecento costituisce il secolo in cui
le nuove tecniche scientifiche allargano il campo della ricerca.
Di
fronte ai limiti della medicina occorre probabilmente rivedere e riconsiderare
la complessità del rapporto individuo e salute. La società, infatti, è
infinitamente complessa ed una sola teoria, un solo approccio, anche con
riferimento alle possibili condizioni di salute dell’individuo, non può
accogliere la varietà della domande e, soprattutto, delle risposte. La risposta
della sociologia all’osservazione della salute non può essere limitata ad un
funzionalità fissa anche se, spesso, il successo della scienza poggia proprio
sul programma riduzionistico che essa segue.
Gli
individui non sono idiocratici, non conservano le strutture e le funzioni nel
corso della loro vita, anzi, si trasformano continuamente soprattutto in
ragione delle loro relazioni ed interconnessioni. Descrivere lo stato della salute
sembra perciò essere la descrizione di un sistema, un sistema di reti fra di
loro intrecciate, dove ogni attore sociale è un sistema organizzato più o meno
spontaneamente che si muove secondo direzioni complesse. Il sociologo dovrebbe
cosi spostare l’attenzione dai singoli fatti, come danni biologici o psichici,
alle relazioni. In tale direzione, Bateson ha, ad esempio, ha utilizzato il
concetto di relazione come il fulcro di ogni definizione: la legge profonda che
struttura e conferisce significato all’intero mondo sociale.
È
indubbio che la medicina abbia realizzato dei progressi di grande portata.
Tuttavia,
la conoscenza dello stato di salute sembra passare in funzione di una sequenza non ordinata di
atti informazione, è un trasferimento di notizie e di comportamenti.
Probabilmente
è necessario situare i rapporti fra salute e malattia in un contesto aperto, in
grado di comprendere l’ambivalenza dei due stati per favorire una lettura più
comprensiva e meno funzionalista nell‘obiettivo di rinunciare ad una unica
soluzione accettando così una richiesta di senso che i concetti di salute e
malattia sembrano continuamente rimandare.
Alla
ricerca dell’essenza nascosta, il medico sembra quasi ignorare le
caratteristiche osservabili, fenomenologiche delle cose, e perciò tende a
ignorare le differenze che il senso comune riconosce, a inglobare o a
trascurare esempi diversi.
L’osservazione
della salute, nella prospettiva sociologica, sembra cosi costituirsi come un
superamento delle formalizzazioni di modelli di funzionamento e rivolge
l’attenzione all’attore sociale, ai suoi lati forti ed ai suoi lati deboli,
alle risorse relazionali, alle potenzialità come capacità di costruzione
sociale.
Si è
già osservato che il concetto di salute può essere osservato sotto diversi
punto di vista, tuttavia, sembra possibile individuare e sottolineare
l’importanza, per la sociologia, sia delle componenti oggettive, status,
reddito, condizioni personali, sia di quelle soggettive, costituite dalle
valutazioni che gli stessi attori sociali forniscono sul proprio stato di
salute e di soddisfazione nello spazio vitale, che sembrano permettere una
adeguata costruzione della realtà sociale della salute. Infatti, in tale
direzione, numerosi studi hanno dimostrato che la qualità della vita non
dipende semplicisticamente dalle condizioni di salute: persone con patologie
croniche individuano più spesso di quanto non si pensi le conseguenze positive
della malattia, quali il miglioramento delle relazioni sociali e di alcuni
aspetti della personalità, cambiamenti favorevoli nella gerarchia delle
priorità a medio e lungo termine, il reperimento di nuovi obiettivi e di nuovi
significati.
I
problemi della salute sembrano così configurarsi in un sistema a più dimensioni
integrando così le variabili sociali, biologiche, psicologiche, economiche e
culturali come in relazione fra di loro, sia verso i sistemi normativi ed
istituzionali ed è così possibile ritrovarvi tutti gli elementi che
costituiscono il sistema sociale.
In
tale prospettiva il concetto stesso di salute si rileva più complesso poiché
legato alla concezione stessa del valore della vita e, come osservava Ortega,
«la vita di una cosa è il suo essere» o, ancora sullo stesso tema «il primo
attributo di questa realtà fondamentale che chiamiamo la nostra vita è il
semplice fatto che esiste per sé, è cosciente di sé, è trasparente a sé. Solo
questo vuol dire che la vita, e tutto ciò che ne fa parte, è indubitabile e
proprio perché è la sola realtà indubitabile, è anche fondamentale».
“Volgere
lo sguardo alla salute implica una valutazione della vita, osservando, prima di
tutto l’uomo insieme agli altri uomini. Il rispetto per la vita non significa
semplicemente rispetto per l’essere in quanto tale, per la vita biologicamente
intesa, ma rispetto per tutti i valori e per tutti i fini che compongono e
completano la vita. In tale ottica occorre essere consapevoli che non è
possibile partire da un approccio unificante alla salute, ma da più punti di
vista dei modi per guardare la salute.
Questo
modo di osservare la salute parte dalla ri-scoperta del concetto di vita:
l’affievolirsi del rispetto della vita, infatti, sembra essere uno degli
aspetti rilevanti che caratterizzano il mondo della salute.
Mentre
si fanno sforzi ingenti e accaniti per prolungare la vita e per produrla
artificialmente, non si risponde adeguatamente ai bisogni di quelle fasce di
persone che non rispondono a canoni di efficienza e produttività.
Si
creano così delle situazioni di fragilità sociale. Nella sanità vi sono sia i
“quasi esclusi”, sia gli esclusi e, per la loro tutela, non basta la generica
affermazione di diritti sembra quindi configurarsi l’idea che la salute derivi,
in gran parte, dalla distribuzione e dalla disponibilità nella società di una
serie di opportunità, di risorse, e di capacità. In tale direzione non sembra
possibile tentare di definire il concetto di salute senza considerare due
elementi essenziali della società civile: la imparzialità e la giustizia.
Nel
dibattito sulla tutela della salute si dovrebbe privilegiare l’aspetto
dell’equità. In sanità, l’equità ha almeno due connotazioni: l’equità dei
livelli di salute e l’equità
dell’accesso ai servizi.
Se
si osserva la salute in termini epidemiologici, ad esempio, si hanno profonde
disuguaglianze nei livelli di salute. Questo può verificarsi ovunque ed è
dovuto sia alle differenze negli stili di vita delle varie fasce della nostra
popolazione, sia per l’effettiva accessibilità ai sistemi di prevenzione e di
cura. L’equità dell’accesso ai servizi sanitari deve tenere conto che non tutti
i servizi sanitari e socio sanitari sono necessari ed efficaci per modificare
la storia naturale della malattia. Se una parte della società non ha accesso ai
servizi efficaci, il livello di salute sarà evidentemente minore rispetto a
coloro che potranno correttamente accedere ai servizi efficaci. Si pensi, ad
esempio, all’importanza degli screening, dove è possibile rilevare una
differenza d’accesso a queste prestazioni. A questo si aggiunga il problema
dell’accesso ai servizi non efficaci
I
problemi connessi alla salute sono diversi e non misurabili: «non è possibile
misurare la salute proprio per ché essa rappresenta uno stato di intrinseca
adeguatezza e di accordo con se stessi».
Occorre
ri-collocare il problema della salute nell‘orizzonte sociologico: la salute
sembra configurarsi come uno stato di benessere sociale complessivo, fisico e
mentale completo e non l’assenza di uno stato patologico; è un prius bio-sociale e relazionale riconducibile
ad una condizione di benessere plurale: è un valore il cui significato deve
essere interpretato. Indizi sempre più numerosi indicano che le persone con una
vita ricca di capitale sociale se la cavano meglio di fronte ai traumi e
combattano la malattia con più efficacia. Il capitale sociale sembra un
complemento, se non proprio un sostituto del Prozac, delle pillole contro
l’insonnia, dei farmaci contro le droghe, della vitamina C e di altri
medicinali che acquistiamo alla farmacia dell’angolo» e, ancora “le reti
sociali danno sostegno tangibile, come denaro, cure di convalescenza e
trasporti che riducono la tensione fisica e psicologica e forniscono una rete
di protezione.
Le
reti sociali possono anche rafforzare regole di buona salute: è più probabile
che persone isolate fumino e bevano di più, mangino in eccesso ed abbiano altri
comportamenti dannosi per la salute comunità coese sul piano sociale risultano
inoltre più capaci di organizzarsi politicamente per assicurare servizi medici
di primo ordine». Per il Marmot la salute è un bene collegato alle reti
sociali, alle comunità, che offrono agli individui quel sostegno tangibile
costituito dall’assistenza, dalla promozione di comportamenti salutari, dalla
capacità organizzativa, anche verso il rapporto con le strutture sanitarie. Una
ulteriore osservazione è costituita dagli studi dell’epidemiologo Michael
Marmot che ha indicato con “status sindrome” il complesso di cause e meccanismi
sociali quotidiani individuali e di contesto che minaccia la salute.
Ancora
Putnam ha osservato che il capitale sociale potrebbe realmente fungere da
meccanismo psicologico che stimola il sistema immunitario a lottare contro la
malattia e lo stress.
Ricerche
attualmente in corso indicano che l’isolamento sociale ha effetti biochimici
considerevoli». Lisa Berkman indica l’isolamento sociale come una condizione
«cronica di stress cui l’organismo risponde invecchiando più velocemente». Non
sembra quindi possibile immaginare una società senza benessere sociale con il
rischio che la percezione si perda nel senso comune del dibattito politico o di
politica economica.
Lo
sviluppo del welfare, infatti, si basava sul presupposto che il benessere
individuale fosse strettamente dipendente da quello collettivo, oggi si
diffonde un idea dello star bene, della salute, per così dire concorrenziale
verso quello altrui,un bene di consumo, un elemento del successo individuale:
ma la salute si configura nella vita, nella vita sociale. Le mete tradizionali
del welfare state, come, ad esempio, la lotta contro le diverse povertà, la
redistribuzione del reddito ed altro, e le nuove sfide, come, ad esempio, la
medicalizzazione o la de-umanizzazione dei servizi sociali e sanitari, la
crescita delle cosiddette patologie della post-modernità, debbono essere
affrontate con nuovi stili di policy che aiutino le politiche sociali ad essere
orientate alla vita, alla famiglia, alla comprensione.
Una
persona sembra essere così “sana” se, coeteris
paribus, nelle circostanze “normali”, è in grado di realizzare le
aspettative che considera fondamentali per la vita e questo fatto implica che
anche la società sia “sana”, poiché non sembra possibile realizzare le
aspettative degli individui in una società “malata”.
Salute
e società sembrano essere quindi sostanzialmente la stessa realtà. In tale
ottica si afferma quella che è possibile definire la dimensione sociale della
salute, una costruzione che si configura nel valore della vita, nella
osservazione della non residualità quotidiana della vita per osservare la propria
identità, fra equilibri diversi, tutti importanti.
Salute
e Sanità è un titolo che esplicita immediatamente la caratteristica
fondamentale, il filo rosso che unisce i diversi aspetti trattati in questo
lavoro: realizzare una integrazione di concetti e di contenuti. Infatti, mentre
salute richiama il fine per cui certe attività sono svolte, sanità richiama le
conoscenze (tecnico-scientifiche, manageriali, di policy making), strumentali a tale fine, le persone che
garantiscono prestazioni e servizi, le strutture necessarie (ospedale,
ambulatoriali, ecc.), le risorse (finanziarie e di altro tipo).
In
quest’ottica da un lato si vuole far capire il complesso contesto in cui il
paziente si muove, dall’altro ci si propone di chiarire al cittadino come,
concretamente, ci si deve o ci si può muovere in questo sistema, quando si ha
un bisogno. Quali sono i propri diritti, cosa si può chiedere, cosa si deve
fare per avere risposte ai propri bisogni di salute, di recuperare, mantenere o
migliorare il proprio benessere fisico e psichico.
Occorre
allora partire da un’analisi delle principali caratteristiche qualitative e
quantitative del sistema, il modello adottato e la sua evoluzione, i soggetti
istituzionali coinvolti, la distribuzione delle funzioni e dei poteri (tema
della regionalizzazione e
dell’autonomia decisionale), le modalità per valutare e responsabilizzare le
persone fisiche che svolgono diverse funzioni nel sistema.
Si
passa poi a collegare altri due concetti fondamentali, quello dei diritti
finalmente garantiti dalle norme e dalle politiche e quello dei servizi in cui
tali diritti astratti devono (o purtroppo dovrebbero in molti casi) tradursi:
rapporto tra affermazioni dei principi generali astratti (i diritti) in
indicazioni specifiche e concretamente verificabili (i livelli assistenziali
correlati alle diverse condizioni di salute).
Il
quadro è completato con un corredo aggiuntivo, per nulla marginale, di quali
sono le altre informazioni molto rilevanti per il cittadino sui temi sia della
accessibilità ai servizi, sia della sicurezza, dell’urgenza, della salute della
donna, dell’assistenza all’estero: aspetti del rapporto tra natura del bisogno
e qualità della risposta che sono componente determinante del livello di
soddisfazione dei cittadini.
La
sanità costituisce da sempre un tema di grande rilevanza nel panorama politico,
economico e sociale. Anche all’interno del dettato costituzionale si ritrovano,
in merito, disposizioni di notevole rilievo: l’art. 32 afferma che la
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti; l’art.
38 definisce gli obiettivi di un completo sistema di sicurezza sociale.
Tuttavia,
la definizione dell’assetto istituzionale della sanità si evince solo dalla
lettura combinata dalla prima e dalla seconda parte della Costituzione e, in
particolare, dell’art. 117, che attribuisce alle regioni potestà legislativa in
ambito di «assistenza sanitaria e ospedaliera».
L’assetto
istituzionale previsto dalla Costituzione è rimasto però a lungo disatteso. In
assenza delle regioni, il sistema era frazionato tra apparato statale (con
funzione di regolazione), enti ospedalieri ed enti previdenziali. Con
l’istituzione delle regioni è stato operato un primo trasferimento di funzioni
in materia sanitaria (decreti del presidente della repubblica 4/1972 e
616/1977). Occorre aspettare l’anno 1978 per assistere alla legge istitutiva
del Servizio sanitario nazionale (legge 833 del 23 dicembre 1978), con
l’obiettivo di garantire a ogni cittadino la tutela della salute a prescindere
dalla capacità del beneficiano di pagare il corrispettivo per i servizi
ricevuti. In seguito a tale riforma, il passaggio assolutamente centrale è
stato quello dell’integrazione di tutti i servizi in un’azienda dove hanno
trovato convergenza diverse attività: dall’assistenza specialistica dall’assistenza
specialistica e ospedaliera, a quella di base, all’igiene pubblica, alla
veterinaria. Si costruiva, quindi, un’azienda potenzialmente in grado di
assicurare l’erogazione di tutte quelle attività che corrispondevano a una
visione integrata di tutela della salute; di disporre direttamente di tutte le
leve operative necessarie per rispondere dei risultati in termini di stato di
salute della popolazione e, infine, di porre tale complesso insieme di servizi
e attività sotto il controllo della collettività (tramite organi di governo
composti da membri eletti, seppure in via indiretta, dalle collettività
stesse).
La
seconda fase storica del Servizio sanitario nazionale (decreti legislativi
502/1992 e 517/1993) è stata segnata dall’inversione del principio guida
dell’integrazione che tanta parte aveva giocato nella costruzione del modello
833 del 1978: alla ricerca dei vantaggi derivanti dall’integrazione si è
sostituita la ricerca di quelli conseguibili attraverso il decentramento e la
specializzazione. I principali cambiamenti hanno riguardato l’aumento delle
competenze regionali a fronte di una maggiore responsabilizzazione finanziaria
(decreto legislativo 56/2000), l’adozione di nuove logiche legate al
finanziamento delle aziende sanitarie e l’introduzione di strumenti manageriali
nella gestione delle aziende sanitarie. A questa seconda riforma ne è seguita
una terza (decreto legislativo 229/1999) che ha promosso solo in parte la
continuazione del percorso di riforma precedente: mentre il processo di
aziendalizzazione è stato ulteriormente rafforzato, attribuendo alle aziende
sanitarie l’autonomia imprenditoriale (rispetto all’autonomia organizzativa,
amministrativa, patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica introdotta con il
decreto legislativo 502/1992), è stato ripensato il processo di
regionalizzazione. Infine, la promulgazione, nell’ottobre 2001, della legge di
riforma del Titolo V della Costituzione ha innovato il quadro normativo
generale dei rapporti fra lo Stato e altri soggetti istituzionali, intervenendo
sia sulla ripartizione delle funzioni pubbliche tra stato e regioni, sia sul
disegno generale del sistema di finanziamento degli altri livelli di governo.
La riforma ha introdotto nella Costituzione italiana il principio di
sussidiarietà (art. 117): è stato proposto un nuovo riparto di potestà
legislativa tra stato e regione definendo alcune riserve di legislazione
statale esclusiva. Di fatto, per le regioni si è avuto un notevole ampliamento
delle materie di podestà legislativa riservando allo stato la determinazione
dei livelli essenziali di assistenza
(LEA), nel riconoscimento dei vincoli di bilancio stabiliti in sede di
programmazione economico-finanziaria. Ad oggi, il tema del federalismo fiscale
e della responsabilizzazione delle regioni sull’uso delle risorse restano
comunque al centro del dibattito.
Alla
luce di quest’evoluzione normativa, si è voluto analizzare nel dettaglio due
aspetti della questione sanitaria in Italia, attraverso una fotografia attuale
dei diversi attori del Servizio sanitario nazionale distinti per livello
istituzionale di governo (centrale, regionale e locale) e un approfondimento
sul significato dell’attuale processo di regionalizzazione del servizio
sanitario.
A
livello centrale lo stato ha la responsabilità di assicurare a tutti i
cittadini il diritto alla salute mediante un forte sistema di garanzie,
attraverso i livelli essenziali di assistenza. Il ministero della Salute è
l’organo centrale preposto alla funzione di indirizzo e programmazione in
materia sanitaria, alla definizione degli obiettivi da raggiungere per il
miglioramento dello stato di salute della popolazione e alla determinazione dei
livelli essenziali di assistenza tale da assicurare a tutti i cittadini in
condizioni di uniformità sull’intero territorio nazionale.
Il
ministero della Salute si articola in quattro dipartimenti: qualità;
innovazione; prevenzione e comunicazione; sanità pubblica veterinaria,
nutrizione e sicurezza degli alimenti. In particolare:
Il
dipartimento della qualità è preposto a interventi per lo sviluppo e il
monitoraggio di sistemi di garanzia della qualità del Servizio sanitario
nazionale e per la valorizzazione del capitale fisico, umano e sociale;
Il
dipartimento dell’innovazione promuove attività e interventi di propulsione e
vigilanza per lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica in materia
sanitaria a sostegno di azioni di studio e creazione di reti integrate di
servizi sanitari e sociali per l’assistenza a malati cronici, malati acuti,
terminali, ai disabili e agli anziani;
Il
dipartimento della prevenzione e della comunicazione svolge attività di
coordinamento, vigilanza e di diretto intervento di spettanza statale in tema
di tutela della salute, dell’ambiente e delle condizioni di vita e di benessere
delle persone e degli animali, nonché dell’informazione e comunicazione agli
operatori e ai cittadini e delle relazioni interne e internazionali.
Per
la sanità pubblica veterinaria, la nutrizione e la sicurezza degli alimenti
provvede a garantire la sicurezza alimentare e la sanità veterinaria ai fini
della tutela della salute umana e animale, nonché il benessere degli animali,
la ricerca e la sperimentazione, la valutazione del rischio in materia di
sicurezza alimentare; si occupa della nutrizione, dei dietetici e degli
integratori alimentari a base di erbe, del farmaco veterinario, dei
fitofarmaci, dell’alimentazione animale e delle attività di verifica dei
sistemi di prevenzione veterinaria e alimentare.
Accanto
al ministero della Salute, esistono altri attori della sanità che ne supportano l’attività da un punto di
vista consultivo o tecnico. In particolare: il Consiglio superiore di sanità
(CSS) è l’organo consultivo tecnico-scientifico del ministero della Salute la
cui organizzazione e funzionamento sono disciplinati da una apposita normativa,
costituita dal decreto legislativo 266/1993 e dal decreto ministeriale
342/2003; a Istituto superiore di sanità (ISS) è l’organo tecnico- scientifico
del Servizio sanitario nazionale che coniuga l’attività di ricerca a quella di
formazione e controllo applicate alla tutela della salute pubblica;
L’Istituto
superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPEL) è un ente
pubblico che esercita, nelle materie di competenza del ministero della Salute,
funzioni e compiti tecnico-scientifici e di coordinamento tecnico ponendosi
come centro di riferimento nazionale di informazione, documentazione, ricerca,
sperimentazione, controllo e formazione in materia di tutela della salute e della
sicurezza e benessere nei luoghi di lavoro;
L’Agenzia
dei servizi sanitari regionali (ASSR) svolge funzioni di supporto delle
attività regionali, di valutazione comparativa dei costi e rendimenti dei
servizi resi ai cittadini e di segnalazione di disfunzioni e sprechi nella
gestione delle risorse personali e materiali e nelle forniture, di
trasferimento dell’innovazione e delle sperimentazioni in materia sanitaria.
Le
regioni, responsabili in via esclusiva dell’organizzazione delle strutture e
dei servizi sanitari, sono direttamente impegnate ad assicurare l’effettiva
erogazione delle prestazioni incluse nei livelli essenziali di assistenza,
sulla base delle esigenze specifiche del territorio nazionale. Si sottolinea,
inoltre, che le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano partecipano
alle scelte del governo nelle materie di comune interesse e alle questioni
politico-amministrative più rilevanti ti attraverso la conferenza permanente
stato-regioni. Tale soggetto opera nell’ambito della comunità nazionale per
favorire la cooperazione tra lo stato, le regioni e province autonome,
costituendo la sede privilegiata della negoziazione politica tra le
amministrazioni centrali e il sistema
delle autonomie regionali.
La
conferenza stato-regioni è la sede privilegiata di raccordo fra la politica del
governo e quelle delle regioni;
E’
la sede dove il governo acquisisce l’avviso delle regioni sui più importanti
atti amministrativi e normativi di interesse regionale;
Ha
l’obiettivo di realizzare la collaborazione tra amministrazioni centrale e
regionali;
Si
riunisce in un’apposita sessione comunitaria per la trattazione di tutti gli
aspetti della politica comunitaria che sono anche di interesse regionale e
provinciale.
Oltre
agli assessorati, alcune regioni (12 su 21: Piemonte, Veneto, Friuli-Venezia
Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Lazio, Abruzzo, Campania,
Puglia e Umbria) hanno istituito un’Agenzia sanitaria regionale (ASR). Tutte le agenzie sanitarie
regionali istituite sono state attivate, tranne quelle della Liguria e
dell’Umbria, che risultano in via di costituzione. Inoltre, un’ipotesi di
costituzione di un’Agenzia sanitaria regionale
è stata avanzata in Molise e Sardegna.
Le
agenzie sanitarie regionali nascono per finalità diverse:
L’agenzia
come consulente a servizio delle aziende, ossia una struttura fortemente
operativa e attiva sul campo che propone e affianca le aziende nell’introduzione
di innovazioni gestionali e nel fronteggiare le problematiche connesse al
cambiamento;
L’agenzia
come centro studi indipendente, ossia struttura a cui si chiede di svolgere
compiti di osservatorio del sistema sanitario regionale e delle sue singole
aziende, analizzandone almeno in linea generale i profili epidemiologici,
economici e di attività e provvedendo alla loro comparazione con altre aziende,
regioni o realtà internazionali;
L’agenzia
come tecnostruttura a servizio dell’assessorato, ossia una struttura a cui si
appoggia l’assessorato per lo sviluppo di attività innovative che esulano o
comunque richiedono un approccio distaccato dalla sua routine operativa.
A
livello locale gli attori del Servizio sanitario nazionale sono rappresentati
dalle aziende che erogano al ricevente le prestazioni sanitarie. I principali
sono le aziende del gruppo pubblico regionale: le aziende sanitarie locali
(ASL) e le aziende ospedaliere (AO).
Le
ASL, enti dotati di personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa,
patrimoniale, contabile, gestionale e tecnica, provvedono a garantire i livelli
essenziali di assistenza, a organizzare l’assistenza sanitaria nel proprio
ambito territoriale e a erogarla attraverso strutture pubbliche o private
accreditate. In particolare, l’ASL eroga direttamente delle prestazioni sanitarie
e a tal fine si avvale, per l’assistenza territoriale, di una pluralità di
strutture e soggetti:
- Strutture
(ambulatori e laboratori) in cui si erogano prestazioni specialistiche come
l’attività clinica, di laboratorio e di diagnostica strumentale;
- Strutture
territoriali come i centri di dialisi ad assistenza limitata, gli stabilimenti
idrotermali, i centri di salute mentale, i consultori materno infantili e i
centri distrettuali;
- Strutture
semiresidenziali come, per esempio, i centri diurni psichiatrici;
- Strutture
residenziali quali le residenze sanitarie assistenziali (RSA) e le case
protette;
- I
medici di medicina generale (MMG) e i pediatri di libera scelta (PLS), che in
quanto convenzionati con il Servizio sanitario nazionale, rivestono un ruolo di
governo e indirizzo della domanda e di erogazione dell’assistenza di base.
Per
l’assistenza ospedaliera, dei presidi ospedalieri a gestione diretta delle ASL.
Le
aziende ospedaliere, cioè ospedali di rilievo regionale o interregionale
costituiti in aziende, in considerazione delle loro particolari
caratteristiche, erogano prestazioni ospedaliere (e quindi attività di pronto
soccorso, di ricovero ordinario, di day
hospital, di day surgery, di
riabilitazione, di lungodegenza ecc.)
e, in alcuni contesti aziendali, anche prestazioni territoriali di
specialistica ambulatoriale.
Accanto
alle ASL e alle aziende ospedaliere, esistono altre strutture che integrano la
capacità produttiva delle aziende del gruppo pubblico. Esse operano sia
nell’ambito dell’assistenza territoriale, che in quello di quella ospedaliera.
Per quanto riguarda l’assistenza territoriale, accanto alle strutture
territoriali delle ASL si aggiungono le strutture private accreditate per
ciascun ambito di attività (per esempio,
ambulatori e laboratori privati accreditati, strutture residenziali per gli
anziani private accreditate ecc.).
Per
quanto riguarda l’assistenza ospedaliera, accanto ai presidi ospedalieri a
gestione diretta delle ASL e alle aziende ospedaliere si aggiungono:
Le
strutture di ricovero equiparate alle pubbliche, quali istituti di ricovero e cura a carattere
scientifico (IRCCS) di diritto pubblico
e di diritto privato, policlinici a gestione diretta delle università, ospedali
classificati e qualificati, enti di ricerca;
Le
strutture di ricovero private accreditate, denominate case di cura private
accreditate con il Servizio sanitario nazionale.
Art.
32. La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e
garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge
non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona
umana.
Art.
38. Ogni cittadino inabile al lavoro e
sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e
all’assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano
preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di
infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno
diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in
questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo
Stato.
L’assistenza privata è libera.
Clemente,
alla luce delle interpretazioni date in materia di Sociologia della salute, ha
esaminato gli atti relativi al processo di formulazione dell’art. 32 della
Costituzione italiana durante le assemblee della Costituente. Il diritto alla
salute, collocato nel Titolo “Rapporti etico-sociali”, è stato recepito nella sua pienezza di diritto
fondamentale da tutti gli schieramenti politici, con le loro diverse culture solidaristiche cristiano-cattolica,
comunista e socialista, come elemento unificatore “nell’atto di costruire una
casa nella quale tutti devono ritrovarsi ad abitare insieme”. La tutela della
salute implica, anche per sinteticità
costituzionale la prevenzione della malattia.
Nella
Roma antica una norma sintetica citava: salus
pubblica suprema lex. La questione è umana e medica, “troppo ampia e
pericolosa e delicata per essere trattazione della Costituzione”.., .. così
come “il rapporto tra medico e ammalato, sia per carattere tecnico che per sua
stretta colleganza all’organizzazione sanitaria, dovrebbe essere rinviata ai compiti
legislativi dello Stato”.
Il
timore, di alcuni membri della Costituente, che lo Stato Italiano si avvii
verso una struttura decentrata regionalistica dove, in assenza di un organo
centrale coordinatore e autonomo che disciplini
la complessa e delicata materia sanitaria in via normativa, il principio
unitario dell’indirizzo sanitario potrebbe subire le influenze negative di un decentramento
amministrativo e di un decentramento normativo, pericoloso per la tutela di un
principio-base essenziale per la tutela della salute pubblica.
Emerge
l’importanza del rapporto tra medico e ammalato, per il rispetto della volontà
di scelta del malato e della libertà di esercizio professionale del medico,
tuttora dibattuto tema in materia di bioetica, biodiritto e biomedicina che
“imponeva, al tempo della Costituente, “il dovere di avere il coraggio
consapevole e mediato di mirare ad un ordinamento nuovo.. attraverso
l’eliminazione di tutte le disparità e le disuguaglianze fra i cittadini”.
L’orientamento degli emendamenti e dei
discorsi Parlamentari mirava ad individuare, assieme al diritto del cittadino
anche il suo dovere di collaborare con la collettività promuovendo tutti i
mezzi e le iniziative necessarie per
tutelare la sua stessa salute, poiché un individuo malato o minorato nelle sua
capacità fisiche e intellettuali, indubbiamente non è più un uomo libero.
Inoltre “nessuno”, secondo il testo dell’art. 32-secondo comma, “può essere
obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La
legge non può in nessun casi violare i limiti imposti dal rispetto della
personalità umana”.
A
tal punto “sarebbe necessario individuare dei punti di contatto, di
discontinuità e di corrispondenza con il dibattito interno alla
sociologia” della organizzazione
sanitaria, per tracciare un excursus storico-legislativo del sistema sanitario
che ci permetta di comprendere il tipo e il grado di influenze delle teorie
micro e macro sistemiche in sociologia e delle diverse culture bio-mediche.
Il
paradigma bio-medico ad impianto meccanicistico-scientista è l’approccio
dominante nel sapere medico-sanitario. E’ definito “modello meccanico poiché considera
il corpo umano una macchina..”; è detto “scientista perché afferma che la
malattia va trattata come se fosse indipendente dal comportamento sociale, così
come le deviazioni comportamentali, la cui origine sarebbe solo di natura
somatica, anche se disturbata ”. Tale approccio ha avuto come implicazioni
principali il trascurare gli aspetti psicologici, ambientale e sociali della
malattia, ignorando l’autocoscienza, la capacità di autoriflessione e
l’autonoma capacità di decidere ciò che si ritiene importante nella vita.
Il
modello sociale in medicina si sviluppa
a seguito di bonifiche di malattie diffusive nelle campagne, nelle fabbriche,
negli insediamenti popolari urbani derivanti da habitat insalubri e povertà. La medicina epidemiologica ha accertato
numerose correlazioni statistiche tra la speranza media di vita alla nascita e
alcune situazioni sociali e psico-ambientali. Lo status sociale, il livello di
istruzione, il livello di fiducia e autostima, la marginalità e i traumi da
rottura di relazioni umane primarie sono le principali variabili considerate
dagli studi di medicina sociale.
Il
modello neo-scientista è quello attualmente più criticato e utilizzato dalle
scienze naturali e artificiali, le importanti scoperte scientifiche della
biologia della fisica e della matematica sono strettamente correlate alle
scienze dell’artificiale quali la bio-fisica e l’ingegneria molecolare. Lo
scopo comune è quello di indagare e proporre soluzioni medico-scientifiche in
ambiti bio-etici e medici quali ad esempio la chirurgia dei trapianti d’organo,
la chirurgia protesica artificiale, la mappatura del genoma umano e le ricerche
sulle terapie geniche.
Partendo
dal dibattito della Costituente circa l’art. 32 della Costituzione, dalle
impostazioni culturali biomediche e dalle teorie sociologiche sulla salute si
rendono evidenti delle conclusioni generali in materia di salute sociale. La
tutela della salute è un diritto fondamentale del singolo ma riveste importanza
generale per la società, è un principio da tutelare in quanto funzione più
importante dello Stato e suprema Lex della
Repubblica.
Sostenitori
di tali verità sono stati Emile Durkheim e Talcott Parsons nelle loro
riflessioni sociologiche, macro-sistemiche sulla società e i suoi processi,
considerando gli attori sociali e la società stessa come direttamente
proporzionali nelle loro interazioni, individuando correlazioni positive in cui
gli atti sociali sono organizzati in sistemi sociali di riferimento. Parsons,
ne Il Sistema sociale, affronta il
problema della salute con riferimento ai pre-requisiti funzionali del sistema
sociale. Per Durkheim, ne Le Regole del
Metodo sociologico, la salute di un popolo è effetto dell’integrazione
sociale ad opera di una cultura vivente entro l’intero corpo sociale.
Nella
tutela della salute è implicita anche la prevenzione, di cui ogni individuo ne
ha oltre che diritto soggettivo anche dovere giuridico, al fine di rispettare
la stessa collettività che ha interessi di controllo sociale della malattia
anche in termini economici.
Per
le teorie micro-sistemiche in sociologia un importante considerazione è da fare
in merito alla teoria dell’agire sociale di Max Weber. Come applicazione del
suo insegnamento alla sociologia sanitaria è necessario partire dal consiglio
di bilanciamento tra le due azioni
sociali (di tipo tradizionale o razionali e di tipo affettivamente orientate),
al fine di riconoscere i limiti di azioni a dominanza solo valoriale-intenzionale e azioni solo a dominanza razionale-strumentale.
Per
le teorie microsistemiche il problema salute pubblica viene analizzato
attraverso la comprensione dei fenomeni sociali privilegiando gli aspetti
soggettivi e intersoggettivi. Anche Goffmann, ne La vita quotidiana come rappresentazione, analizza la vita
quotidiana di relazioni sociali all’interno di standards secondo i quali gli
attori sociali e i loro prodotti verranno giudicati più o meno aderenti a ruoli
predefiniti. E “l’armonizzazione tra ruoli a carattere personale non è sempre
fattibile, poiché è possibile arrivare a situazioni in cui la forza
costrittiva, nella fattispecie delle istituzioni sanitarie per malati mentali, arrivino
a schiacciare istituzionalmente la variabile persona, per esaltare e regolare
solo il ruolo dell’infermo mentale” .
Con
Achille Ardigò si è arrivati all’orientamento metodologico compositivo che ha
preso coscienza della non piena comprensibilità dei fenomeni sociali nelle
società complesse attraverso singole teorie esclusivizzanti
di micro o macro analisi sociologica.
Circa
l’uguaglianza fra tutti i cittadini e il diritto all’assistenza sanitaria
citato nell’art. 3 della Costituzione italiana, la riflessione attuale e che la
salute viene trattata come un bene meramente economico in un contesto, quello
dell’aziendalizzazione del sistema
sanitario, regolato da leggi simili a quelle del libero mercato; quindi c’è il
pericolo che qualcuno venga leso nel suo diritto sociale-costituzionale e
fondamentale alla salute e quindi anche nella sua libertà di cittadino.
L’importanza della comunicazione empatica alla base del rapporto terapeutico è
un altro tema fondamentale della biomedicina, chiamata doverosamente a dare il
suo contributo con modelli sociali, centrati sul piano del dialogo nel rapporto
tra operatori sanitari e pazienti non dimenticando la cruciale importanza delle
relazioni umane che legano i soggetti al contesto famigliare e sociale.
La
sociologia nasce in un contesto dinamico e relazionale, quello dell’evoluzione
umana: «l’histoire de la civilisation n’est autre chose que la suite et le
complément indispensable de l’histoire naturelle de l’homme». Auguste Comte
assume il punto di vista dell’evoluzione e sembra così vivere l’ansia della
conoscenza, l’ansia della modernità compresa di una umanità oggettiva che
diventa soggetto totale e, in quanto tale, «autorilevazione nella natura, nella
sua natura» (Comte).
La
«scienza del positivismo è una scienza di relazione fra fenomeni. C’è allora la
necessità fra i fenomeni; la necessità non è che un’altra espressione per dire
ordine. L’ordine definito nella natura è un ordine definito ovunque perché
tutto è natura» (Toscano).
L’evoluzione
biologica, e quindi anche umana, e disseminata di eventi contingenti, unici e
irriproducibili e non sembra avere molto senso configurare un piano, ex ante
facto, un disegno, dove, probabilmente non ce ne sono mai stati.
Sostenere
l’aumento della complessità nell’evoluzione potrebbe non essere del tutto vero,
anche per quanto riguarda gli agenti patogeni. Una singola cellula è già molto
complessa e non è affatto evidente, né obiettivamente difendibile, che i
micro-organismi siano meno complicati di specie che sono comparse successivamente.
L’evoluzione
ha attraversato ed attraversa tutta la storia delle scienze sociali, da Comte,
Durkheim e Spencer a Parsons, Hayek, Popper o Eisenstadt, solo per citare
alcuni Autori significativi. In tale prospettiva, il complesso sistema teorico
legato all’evoluzionismo ha uno spazio significativo e fondante nella storia
della sociologia, anche con riferimento al parallelismo fra evoluzione e
funzionalità. Tuttavia l’elemento comune all’interno dei diversi apparati
teorici sembra essere il senso della storia, una storia non più intesa come una
serie unica di eventi particolari bensì come un vero percorso evolutivo.
Esiste
fra la società umana e quella naturale una somiglianza frappante che ha sempre
sedotto il pensiero sociologico a partire dall’aneddoto (apologo delle membra)
di Menenio Agrippa.
L’Homo
sapiens, quello che meglio di altri sembra gestire la conoscenza deriva infatti
dall’Homo abilis, colui che sapeva
usare le mani (De Duve).
Gli
studi demografici di Livi, di Gini, di Boccardo e di Tarde dimostrano che
l’organismo, un sistema in equilibrio, ha la proprietà di mantenere un
equilibrio e di ristabilirlo in caso di rottura. In tale prospettiva la nozione
di equilibro biologico sembra corrispondere quello di qualità della vita. In
tale direzione e soprattutto negli ultimi anni la nozione di qualità della vita
sembra essere un tema Costante, di grande interesse anche nell’ottica dei
principi della prevenzione; spesso i sostenitori della cosiddetta bioetica
della qualità della vita hanno offerto una serie di indici e di algoritmi
nell’obietto di definire proprio tale valore.
Nel
definire la qualità della vita si fa riferimento agli stati mentali piacevoli o
dolorosi dell’individuo in relazione alle sue condizioni sociali e
psicofisiche, per cui si ritiene che promuovere una buona qualità di vita
consista nel produrre condizioni di vita gratificanti, nel rimuovere condizioni
dolorose e nel tentare di controllare i rischi.
A
livello sociale, ad esempio, una politica sanitaria di allocazione delle risorse
sarà ritenuta più o meno adeguata a promuovere la qualità di vita a seconda
degli effetti prodotti e delle situazioni spiacevoli rimosse.
Questo
approccio, per così dire bio-relazionale, non vuole riproporre, in una forma
diversa il biologismo, ovvero un modello scientifico che tenta di ricondurre i
comportamenti mani e le condizioni della salute alle variabili strettamente
biologiche. Occorre proprio ripartire dal considerare l’aspetto biologico sia
una parte de1l’interpretazione della vita poiché l’umano è una «combinazione
particolare interattiva e interpretativa di cui quella distintiva è la cultura
in quanto riferita ad una coscienza non puramente cognitiva ma anche
valutativa» (Donati).
Il
problema non sembra quello dell’insistenza sulla dimensione soggettiva della
qualità della vita, sulla salute, che, quando estremizzata, può introdurre un
tale carattere di relatività che, alla fine, ne è impedita una qualsiasi
valutazione oggettiva, ma, semmai, considerare il biologico come fatto che ha
varie e complessi livelli di compenetrazione dei diversi livelli della realtà.
Il
complesso rapporto fra biologia, società e cultura, che ancora condiziona la
costruzione del sapere anche biomedico, è tipico della civiltà occidentale:
altre culture, non occidentali, non vedono alcuna antitesi fra il dato naturale
e quello culturale, anzi si sottolinea la costante dialettica fra i due
elementi. Soggetti diversi in condizioni diverse, infatti, possono benissimo
dare valutazioni diverse di che cosa sia una vita di buona qualità e questa
variabilità, se si compone solo con criteri di oggettività, sfocia nella più
assoluta indeterminazione, contro la pretesa di fondare la valutazione del
valore della vita su basi razionali e a partire da criteri verificabili e costanti.
Paul Ricoeur nel suo studio sull’opera di Canguilhem, La différence entre le normale et le pathologique comme source de
respect, osserva che, a livello biologico, il patologico può essere
compreso in due modi: negativamente, come una mancanza rispetto ad una
condizione cosiddetta oppure come una diversa interpretazione, una
organizzazione “altra”, che ha le sue leggi, come una struttura “altra” in
rapporto al vivente ed al suo stato.
Tuttavia la salute, la qualità della vita in
relazione alle condizioni presenti nella società sembra essere una nozione
soprattutto culturale, «un concetto che non è né oggettivo né soggettivo, bensì
socialmente condizionato» (Cipolla), spesso implicita e non tematizzata a
sufficienza e soprattutto fenomeno originale.
In
tale direzione, promuovere la qualità della vita significa rispondere in modo
utilitaristico alle attese o realizzare condizioni di esistenza piacevoli ed è
quindi necessario che la collettività sia in grado di apprezzare i risultati,
avere attese, serbare memoria, percepire interessi.
Se
come osservato precedentemente il sistema medicale è una «parte di un sistema
di azione più ampio, quello che opera per la salute all’interno della società»
(Donati), allora anche la parte scientifica della medicina, la biologia, ha il
compito, nella ricerca, di valutare tutti rischi connessi, rischi compresi in
un sistema autopoietico: se per malattia, come possibile danno al valore della
vita, si intende il configurarsi, a diversi livelli dell’organizzazione dei
sistemi fisiologici dell’individuo di modalità anomale di funzionamento
disadattative rispetto all’ambiente allora i confini fra salute e malattia, in
regime di assoluto rigore e nella prospettiva della medicina funzionalista,
sembrano realmente meno definiti oggi di quanto lo fossero nei secoli passati.
Allora,
anche il rincorrere la logica del rincorrere semper et ubique la malattia può
non essere un vantaggio poiché l’evoluzione, in biologia, può necessitare di
una valutazione anche soggettiva. Può essere quindi utile volgere uno sguardo
sull’evoluzione del concetto di organismo ed i funzione organica in relazione
alle trasformazioni dei modelli interpretativi che si sono succeduti nel corso
della stria della biologia e della bio-medicina, e che riguardano le interazioni
tra i costituenti dell’organismo individuale.
Nel
tentativo di definire i percorsi che portano alla malattia il contributo della
biologia resta fondamentale, non solo perché si costituisce come un mito, una
delle possibili rappresentazioni del mondo, ma soprattutto perché si collega
all’aspetto più significativo dell’esistenza: il corpo. Considerare la qualità
della vita, nella sua dimensione fra salute e malattia, come il risultato di un
processo evolutivo, significa utilizzare anche la prospettiva sociobiologia, in
cui i concetti di adattamento all’ambiente, di vantaggio riproduttivo sono
fondamentali.
Tuttavia, come ha osservato Grmek, «l’uso dei
concetti di evoluzione è certamente arbitrario, dipendente più dalla nostra
interpretazione degli eventi storici che dalla loro natura intrinseca…
l’etimologia ci aiuta a cogliere i problemi sottostanti. Evoluzione implica l’evolversi di una cosa preesistente e deriva
dalla pratica di srotolare un rotolo,un manoscritto ravvolto, di forma
cilindrica: dunque l’evoluzione vuoi dire inizialmente ritorno. Il termine
evoluzione ha assunto solo alla fine dell’Ottocento il senso attuale dello
sviluppo graduale di caratteristiche nuove, non esistenti prima».
Questa
osservazione sembra necessaria proprio per introdurre, nell’interpretazione
della salute e della malattia, il cambiamento delle conoscenze, la
rivoluzionari,data dalla conoscenza scientifica, che accompagna la comprensione
del cambiamento: «nel campo scientifico, esattamente come nella politica, le
cosiddette rivoluzioni cambiano le parvenze e la loro importanza è solo quella
di are una espressione visiva a un processo più profondo di evoluzione
sottostante.
Le
teorie evoluzioniste sembrano così conquistare progressivamente il concetto di
integrazione funzionale come il risultato dinamiche selettive considerando
anche che lo studio del cosiddetto sistema immune può aiutare a comprendere
l’evoluzione delle specie e lo sviluppo del loro sistema immunitario.
L’
assunto teorico degli evoluzionisti sembra essere quello che considera la
storia come un patrimonio culturale in grado di rivelare una certa direzionalità di senso in determinati
percorsi in parti diverse del globo con l’obiettivo di fornire un sistema di
spiegazione delle azioni e dei percorsi osservati (Wilson).
Ed è
proprio la parola percorso che configura la natura dell’evoluzione; quando la
vita è apparsa sulla terra, circa tre miliardi e mezzo di anni fa, era mobile,
passava da un organismo ad un altro.
Anche
in tale prospettiva, le scienze sociali, ed in particolare la sociologia,
hanno, da tempo, sviluppato una relazione dualistica con le teorie
evoluzioniste della società, alternando periodi di grande avvicinamento ad
improvvisi e repentini allontanamenti; è a partire dalla seconda metà del XIX secolo
si è avuto un grande interesse per la natura evoluzionista. Auguste Comte in
Francia, John Stuart-Mill e Herbert Spencer in Inghilterra, Jakob Moleschott ed
Ernst Haeckel in Germania, Roberto Ardigò, Augusto Murri e Cesare Lombroso,
soltanto per citare qualche esempio di studiosi che hanno come paradigma
l’evoluzione dell’universo, l’instabilità della omogeneità sembra essere la
certezza che l’unica vera conoscenza è quella scientifica poiché tutta la
realtà è natura. Spencer, ad esempio, insiste «sull’importanza delle doti
naturali nel prevalere sugli altri oppure semplicemente nel sopravvivere
rispetto alle difficoltà poste dall’ambiente» (Battisti). In tale direzione è
opportuno inoltre ricordare il fondamentale lavoro di Emile Durkheim.
Le prime, essenziali, intuizioni del Nostro sono
rintracciabili in De la division du
travail social del 1893 in cui scrive che «l’individualisme, la libre pensée
ne date ni de nos jours, ni de 1789, ni de là reforme, ni de la scolastique, ni
de la chute du polythéisme gréco-romain ou des théocraties orientales. C’est un
phénomène qui commence nulle part, mais qui se développe, sans s’arrêter tout
au long de l’histoire ».
Il
metodo delle scienze naturali vale anche per lo studio della società. Per
questo la sociologia come scienza di quei fatti naturali che sono i rapporti
umani e sociali nasce dentro il movimento del pensiero positivista nel quale la
scienza viene esaltata come unico contesto di risoluzione dei problemi umani e
sociali, i più antichi. La nozione di individualismo deve quindi essere
separata da quella di atomismo. Non si tratta di considerare la società come
composta da una somma di attori sociale ma che all’interno di una società si
possa o non si possa apprezzare una determinata situazione o configurazione.
Per Durkheim l‘individualismo ne commende
nulle part perché una società non è proposta o imposta solamente ma
considerata legittima o illegittima, buona o cattiva, in salute o malata,
secondo l’opinione generale proprio a partire dal fatto che l’individualismo
non e un dato di condizionamento originario a priori occorre ripercorrere
l’interpretazione della storia recente proprio a partire dai percorsi
dell’evoluzione. I cambiamenti profondi che si sono manifestati all’interno
della società sono le conseguenze mediate ed immediate delle scoperte
scientifiche soprattutto della fisica e della chimica.
Mai
nella storia dell’umanità si era avuto una tale accelerazione nell’accumulazione
della conoscenza accompagnato da grandi movimenti geo-politici. Le continue
rivoluzioni geo-politiche che hanno contraddistinto il Ventesimo Secolo
sembrano segnare la scomposta linea della frattura fra modernità e
post-modernità o, in un’altra prospettiva, fra mondo moderno e mondo
contemporaneo in cui il processo di costruzione sociale è di tipo
partecipativo.
Il
recente percorso sembra rappresentare una
accelerazione nello stock di conoscenze proprio nella direzione della biologia,
con particolare riferimento alla biologia molecolare, quella scienza che studia
gli esseri viventi a partire dai meccanismi molecolari alla base della loro
fisiologia (Frati), con attenzione alle interazioni fra le macromolecole,
ovvero le proteine, e gli acidi nucleici DNA e RNA. Questa rivoluzione sembra
permettere una ulteriore osservazione sul come si tenti di definire i confini,
i criteri e le relazioni, nella individuazione dello status evolutivo, della
condizione dell’individuo.
Nonostante
la disponibilità di nuovi punti di osservazione, l’attore sociale del XXI
secolo non sembra avere ancora sviluppato un linguaggio in grado di esprimere
la nuova frontiera dell’evoluzione poiché ancora prigioniero delle logiche
cartesiane riassunte nella celebre frase «cogito ergo sum».
Il
presente è un equilibrio fra il passato e un complesso sistema di avvenire
possibili, fra una situazione definita de facto, ed una in continua
ri-definizione in cui le informazioni immateriali sembrano attraversare la
materia ed interferire in tempi diversi fra l’osservatore e l’oggetto
osservato, in cui si rischia di sostituire al continuum una summa di conoscenze
non più critiche.
Ciò
che interessa al sociologo sembra essere proprio la definizione dei criteri di
scelta per considerare più legittima, e quindi più condivisibile, una
determinata interpretazione del rapporto fra salute e malattia, un rapporto in
continua ri-definizione, anche in tali prospettive I La sociologia si pone come
una scienza in grado di fornire dei modelli di comportamento sociale, che
possono rendere effettivo il riconoscimento dei problemi presenti a tutti i
livelli con l’obiettivo di suggerire strategie interpretative possibili.
Una
azione di questo tipo è sostanzialmente interdisciplinare ponendo su pIani
complementari e collaborativi i saperi della ricerca delle scienze biologiche
con quelli sociologici. È, in altri termini, la definizione e la
interconnessione dei campi per le azioni di ogni attore sociale, per le scelte
che si intende operare rispetto alle definizioni di chi e l’attore sociale oggi
e di come si rapporta all’altro Si tratta di un gioco costante di relazione che
può essere perdurante nel tempo, ma può anche mutare, se mutano le condizioni
di relazione e di esperienza con le posizioni relative degli altri.
La
sociologia ha compreso, prima fra le scienze, il fatto che l’attore
sociale è in grado di rappresentare i
contenuti dell’immagine del mondo a prescindere dalla sua reale esistenza, in
altri termini, dalla sua natura.
Alle
nuove frontiere degli studi biologici, gli studi sociologici più recenti hanno
mostrato che la valutazione degli oggetti e dei fatti, è una parte del mondo
naturale. In particolar modo e grazie all’approccio della sociobiologia, un
tentativo di spiegare in termini biologici aspetti del comportamento umano,
tradizionalmente oggetto di studio delle scienze umane, che si tenta di
ridefinire l’evoluzione della specie ed il suo essere.
L’attore
sociale, nella sua dimensione sociale, culturale e biologica, presenta il
problema di ristabilire ciò che in questa dissociazione è assente, la relazione
individuo, società, specie come permanente e simultanea (Morin). L’approccio
tipico della sociobiologia impiega la teoria evolutiva per interpretare il
comportamento sociale animale ed umano tentando una sintesi piuttosto ampia
comprendente un vasto insieme di fenomeni (Barash). In tale direzione non
sembra esservi dubbio sul fatto che il problema fondamentale sta nel rapporto
fra il sistema sociale e la natura, come evento biologico e, in questa
relazione fra natura, evoluzione e società.
Se
fino a pochi decenni fa esisteva, e forse esiste ancora, una relazione fra
natura e società, fra evoluzione sociale ed evoluzione umana, con la società
post-moderna le cose si sono distanziate e, in qualche modo, anche compenetrate.
Questa relazione, così complessa, che necessita di scienze diverse per essere
osservata compiutamente è chiaramente concettualizzata soltanto da tre secoli.
Quello che si vuole sottolineare è la mancanza di linearità e di prevedibilità
del processo evolutivo.
Che
un individuo venisse al mondo secondo i metodi della riproduzione sessuata
naturale, avesse un corpo e una mente soggetti a malattie e invecchiamento,
soffrisse, godesse e morisse assieme ai suoi organi, appariva un dato di fatto
inoppugnabile; come anche che l’evoluzione fosse un percorso fra ambiente
naturale ed ambiente sociale. Invece sembra necessario ri-formulare molti
parametri con i quali l’attore sociale ha cercato di identificare l’altro ed
identificare se stesso.
Per
questo è necessario riflettere sul tema vita, e non solo in termini biologici. Morin,
già nel 1974, suggeriva di inserire la relazione fra individuo e società in un
rapporto temano specie, individuo e società, un rapporto cultura, ambiente e
società.
Una
riflessione sociologica sul concetto di vita e della sua evoluzione non è
necessariamente terreno scientifico dell’epistemologia e della biologia ma
costituisce il tentativo di definire i contorni sul tema della vita a partire
dalla grande quantità di informazioni disponibili e dei metodi per analizzare
tali dati: «un termine che si incontra spesso nelle scienze sociali per
designare la storia naturale è ermeneutica. Nell’uso originale e circoscritto
questa espressione derivata dal greco Hermeneutikòs
(capace di interpretare) designa l’analisi e l’inter-pretazione dei testi,
specialmente del Vecchio e del Nuovo Testamento. Nel campo delle scienze
sociali e umanistiche è stata allargata fino a comprendere l’esplorazione
sistematica dei rapporti sociali e della cultura, in cui ogni soggetto viene
esaminato da studiosi che esprimono punti di vista e culture diverse» (Wilson).
La
comprensione della vita, anche alla luce della sociobiologia, è possibile anche
relazione al fatto che “solo l’uomo ha coscienza della propria morte. Questa
coscienza è legata alla facoltà immaginativa, che ci permette di proiettarci”
(Ruffiè). Una sociobiologia post-moderna dovrebbe poter comprendere e registra
i cambiamenti, come modificazioni storiche, come conseguenze della
post-modernità.
Non
si tratta solo, come osservato da Zygmunt Bauman, della perdita della forma solida della modernità e della sua
trasformazione in modernità liquida,
ma è soprattutto della incapacità di ordinare e governare la situazione e di
indirizzarne i processi. Per Bauman due sono i caratteri che hanno segnato più
di altri lo spirito moderno: «l’impulso a
trascendere e andare oltre i limiti — cioè, l’impulso a trasformare le realtà
oggettive — e l’impegno costante a perfezionare le capacità/possibilità di
azione — cioè le capacità/possibilità di modificare le situazioni». Ciò
significa che nel cuore della modernità è iscritta la vocazione a manipolare e
trasformare l’oggettività del mondo al fine di superare, in uno sforzo di
liberazione permanente, gli ostacoli che esso ci pone L’unico limite alle
capacita trasformative potrà essere solo quello di fatto, quello dettato dalla
attuale disponibilità di mezzi per metterle in atto.
Il
problema, anche nelle fratture della post-modernità, sembra essere quello della
conoscenza; quando aumenta la conoscenza, l’oscurità intellettuale che circonda
l’attore sociale viene illuminata, e si può meglio osservare ed apprendere dal
mondo naturale. Oggi le nuove conoscenze sembrano portare sia riavvicinamenti
inattesi sia nuove distinzioni, destabilizzando le categorie meglio fondate
nella ricerca, fra le scienze, delle possibili e diverse linee di connessione.
Sembra necessario un impegno teso a chiarire, grazie al fondamentale contributo
della sociologia, la spiegazione scientifica dei fenomeni biologici, fenomeni
di carattere estremamente complesso e vario ed è proprio tale caratteristica
che contrasta con l’esigenza primaria di ogni osservazione scientifica, ovvero
la presenza in un campo di studio costituito essenzialmente dalla diversità e
dalla varietà e che quindi si configura non generalizzabile a priori. Come ha
osservato Grmek: «nel nostro modo di concepire un fenomeno, soprattutto un
fenomeno legato alla vita, esistono sempre delle dualità essenziale tutto o
parte, oppure stato o processo o funzione, causa o scopo.
Il
processo può essere considerato come una continuità o come una sere di
discontinuità fondamentali: evoluzione o rivoluzione, continuità materiale o
continuità informatica. Questa dialettica parte-tutto non vale solo per un
organismo, ma anche per il rapporto fra individuo ed ambiente.
Fino
ad una quindicina di anni fa la maggioranza delle persone, e tra queste la
maggioranza degli operatori, tendeva ancora a considerare la qualità dei servizi
sanitari come una loro componente implicita e non ben definibile,
prevalentemente focalizzata sugli aspetti tecnici.
La
soddisfazione dei cittadini o, più genericamente, le loro valutazioni sulla
qualità dei servizi erano ritenute marginali. Tuttavia la situazione è andata
rapidamente modificandosi, prima con la progressiva presa di coscienza delle
diverse componenti della «qualità» (tecnica, organizzativa, relazionale), poi
con la richiesta sempre più pressante di superare la tradizionale autoreferenzialità
del personale e delle strutture per raggiungere modalità oggettive di
definizione, misurazione e valutazione dei livelli qualitativi dei servizi
forniti.
Lo
sviluppo di questi principi, unito all’aumentata coscienza dei propri diritti
da parte dei cittadini, ha portato a sempre maggiori richieste di trasparenza
di tutela dei diritti. La capacità di garantire predefiniti livelli qualitativi
è diventata quindi una esigenza crescente, sia in una logica strettamente
contrattuale (garanzia della qualità del servizio fornito), sia in una logica
più generale quale quella di un sistema sanitario pubblico a cui è richiesto di
garantire ai cittadini prestazioni/servizi, noi solo in termini quantitativi ma
anche qualitativi.
La
normativa è intervenuta in questo settore con di versi atti, tra i quali
meritano di essere ricordati i seguenti: decreto legislativo 502/1992, che
riordinava la disciplina in materia sanitaria, e il decreto del Presidente del Consiglio
dei Ministri del 27 gennaio 1994 sui principi a cui deve uniformarsi
progressivamente l’erogazione dei servizi pubblici, anche se svolti in regime
di concessione o mediante convenzione.
In
base al decreto del presidente del consiglio de ministri del 27 gennaio 1994
tutte le aziende sanitarie accreditate, pubbliche o private, devono garantire
il rispetto e la promozione di alcuni principi fondamentali:
Eguaglianza:
erogazione dei servizi con regole uguali per tutti, indipendentemente da sesso,
età, razza, lingua, religione, opinioni politiche;
Imparzialità:
erogazione obiettiva, non condizionata da pregiudizi, o da valutazioni
improprie;
Continuità:
l’erogazione, nell’ambito delle modalità stabilite dalla normativa di settore,
deve essere continua, regolare e senza interruzioni;
Diritto
di scelta: l’utente ha diritto di scegliere il soggetto erogatore del servizio;
Partecipazione:
il cittadino-utente ha diritto a partecipare alle prestazioni, anche attraverso
le associazioni di utenti, di volontariato e di tutela;
Efficienza
ed efficacia: i servizi erogati devono essere in grado di ottenere i risultati
migliori e ai costi minori.
Infine
il decreto del presidente del consiglio dei ministri del 19 maggio 1995
fornisce lo schema di riferimento della «Carta dei servizi pubblici sanitari» e
costituisce un atto fondamentale per l’introduzione di una nuova modalità di
rapporto del Servizio sanitario nazionale con il cittadino. Oltre alla
affermazione di una serie di principi e modalità organizzative, .si precisano
le responsabilità delle regioni e delle ASL. Queste ultime devono, in
particolare, garantire:
Informazione:
su prestazioni fornite, modalità di accesso, procedure, partecipazione;
Accoglienza:
limitare disagi, comprendere bisogni, accompagnare, corretto uso dei servizi e
delle strutture;
Tutela:
regolamenti per la tutela dei diritti, gestione dei reclami, attivazione degli
uffici relazione con il pubblico (URP);
Partecipazione:
progetti di adeguamento alle esigenze dei cittadini, rilevazione gradimento,
rapporti coi personale e comfort;
Adozione
di standard di qualità e quantità.
Nell’ambito
normativo è opportuno ricordare anche «Carta dei diritti del malato» presentata
a Bruxelles il novembre 2002 e redatta da un insieme di associazioni di tutela
dei diritti dei malati. Il documento, per quali la «Carta dei diritti non
costituisca un atto normativo, è un importante riferimento culturale per la
rilevanza dei principi affermati e l’ampiezza del dibattito di cui sono frutto
(per maggiori informazioni, si veda www.cittadinanzattiva.it) Esso propone la
proclamazione di quattordici diritti dei pazienti, che nel loro insieme cercano
di rendere concreti i diritti fondamentali previsti dal trattato di Nizza del
2000, applicabili e appropriati all’attuale fase di transizione dei servizi sanitari.
Tutti questi diritti mirano a garantire un «alto livello di protezione della
salute umani (art. 35 della «Carta dei diritti fondamentali») e assicurare
l’alta qualità dei servizi erogati dai diversi sistemi sanitari nazionali. Essi
dovrebbero essere tutelati in tutto il territorio dell’ Unione Europea, e
sono:
Diritto
a interventi e misure di prevenzione;
Diritto
all’accesso;
Diritto
all’informazione;
Diritto
al consenso;
Diritto
alla libera scelta;
Diritto
alla privacy e alla confidenzialità;
Diritto
al rispetto del tempo dei pazienti;
Diritto
al rispetto di standard di qualità;
Diritto
alla sicurezza;
Diritto
alla innovazione;
Diritto
a evitare le sofferenze e il dolore non necessari;
Diritto
a un trattamento personalizzato;
Diritto
al reclamo;
Diritto
al risarcimento.
In
ogni situazione nella quale il cittadino abbia la sensazione che i suoi
diritti, o quelli dei suoi familiari, siano stati lesi, ha il diritto di
presentare reclamo alla struttura sanitaria, sia essa pubblica o privata, che
ha il dovere di rispondere in modo confacente e in tempi contenuti.
Oggi
tutte le aziende sanitarie hanno procedure per la gestione dei reclami;
solitamente è necessario presentare un reclamo scritto, indirizzato al
direttore generale, spiegando in modo sintetico ma chiaro l’oggetto del reclamo
e segnalando l’indirizzo a cui si desidera ricevere la risposta. Il cittadino
può presentare direttamente il reclamo o può farlo attraverso le associazioni
di tutela dei diritti del malato o del consumatore. Un costante aggiornamento
delle informazioni può essere reperito all’indirizzo Internet www.ministerosalute.it/qualita/qualita.jsp
1. Al fine di garantire il costante adeguamento
delle strutture e delle prestazioni sanitarie alle esigenze dei cittadini
utenti del Servizio sanitario nazionale il ministro della Sanità definisce con
proprio decreto, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo
Stato, le Regioni e le Province autonome i contenuti e le modalità di utilizzo
degli indicatori di qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie
relativamente alla personalizzazione ed umanizzazione dell’assistenza, al
diritto all’informazione, alle prestazioni alberghiere, nonché dell’andamento
delle attività di prevenzione delle malattie. A tal fine il ministro della
Sanità, d’intesa con il ministro dell’Università e della Ricerca scientifica e
tecnologica e con il ministro degli Affari sociali, può avvalersi anche della
collaborazione delle Università, del Consiglio nazionale delle ricerche, delle
organizzazioni rappresentative degli utenti e degli operatori del Servizio
sanitario nazionale nonché delle organizzazioni di volontariato e di tutela dei
diritti.
2.
Le Regioni utilizzano il suddetto sistema di indicatori per la verifica, anche
sotto il profilo sociologico, dello stato di attuazione dei diritti dei
cittadini, per la programmazione regionale, per la definizione degli investimenti
di risorse umane, tecniche e finanziarie. Le Regioni promuovono inoltre
consultazioni con i cittadini e le loro organizzazioni anche sindacali ed in
particolare con gli organismi di volontariato e di tutela dei diritti al fine
di fornire e raccogliere informazioni sull’organizzazione dei servizi, Tali
soggetti dovranno comunque essere sentiti nelle fasi dell’impostazione della
programmazione e verifica dei risultati conseguiti e ogniqualvolta siano in
discussione provvedimenti su tali materie. Le Regioni determinano altresì le
modalità della presenza nelle strutture degli organismi di volontariato e di
tutela dei diritti, anche attraverso la previsione di organismi di
consultazione degli stessi presso le Unità sanitarie locali e le Aziende ospedaliere.
Capitolo 3.
Il
volume “I diritti della Persona nella prospettiva Bioetica e Giuridica”,
scritto da mons. Sgreccia, fornisce gli strumenti per comprendere lo scenario
entro cui si sviluppa la sensibilità bioetica e istruire il discorso bioetico
in tutta l'estensione delle sue dimensioni: quelle biomediche ed ecologiche
come quelle etico-normative e antropologiche. Obiettivo di fondo di questa
discussione critica è la costruzione di un modello di bioetica adeguato a
supportare la deliberazione etica in una società pluralistica, con esplicito
riferimento a un livello etico fondamentale basato sul principio del rispetto
della dignità umana e a un livello etico-applicativo mirato a concretizzare
questo principio nelle situazioni nuove aperte dal progresso biomedico.
Questo
argomento di studio, quale nostro lavoro di recensione, s’immerge
nell’attualità, in “media res”. Abbiamo motivo di augurarci che questi nuovi
livelli di conoscenza possano creare ulteriori spazi di reciproca comprensione
tra tutti coloro che, per sensibilità personale e professionale, vogliano
“riscoprire le radici etiche di ogni costruzione normativa che intenda redimere
e indicare i percorsi strutturali che sorreggono l’edificio legale della
società contemporanea e della stessa civiltà moderna”.
Ci è
sembrato opportuno, consultare gli Atti del Convegno sulla bioetica, tenutosi a
Roma nel settembre 2000. Dagli autorevoli interventi sono emerse tutte le
scottanti problematiche della società in trasformazione, coinvolta nei processi
di globalizzazione e stravolta nei suoi più intimi valori etici.
Ci
proponiamo di tracciare, seguendo il filo rosso della produzione giuridica
mondiale, attraverso un ripensamento sempre più radicale dell’universalità dei
valori morali, una nuova concezione laica e cristiana della centralità dei
fondamenti etici della tradizione in tema di Diritti dell’Uomo del terzo
millennio.
Portandoci
su uno dei gangli del problema relativi al parametro di legalità costituzionale
e grundnorm dell’ordinamento giuridico, abbiamo cercato di individuare i
diritti inviolabili in ogni democrazia costituzionale, con particolare
attenzione all’Ordinamento giuridico Comunitario.
Naturalmente
non poteva non seguire una parte dedicata alla Metafisica dei diritti della
Persona umana.
Una
trattazione particolare abbiamo dedicato al fondamento dei diritti umani in
generale e, in special modo nella prospettiva della Costituzione Europea e
delle “super politiche Comunitarie”.
A
tal fine, abbiamo cercato di tracciare, sulla scorta di diversi studi, il
profilo dello stato della bioetica nelle Università del mondo, di individuare e
sottolineare i valori umani e professionali, concludendo con “la svolta
pedagogica attuale”, elaborata dalle Istituzioni e percepita dai cittadini,
entro una visione della Paideia occidentale moderna Si può comprendere
l’importanza di quest’ultima in una società, qual è quella in cui viviamo,
contrassegnata proprio dalla comunicazione, dall’apparire, dal senso della
visibilità e dello “spettacolo”, dalla tecnologizzazione di ogni campo dello
scibile umano, al mero servizio delle leggi del mercato mondiale.
La
funzione di termometro è garantita dalle numerose e diverse correnti di
pensiero, in materia di bioetica, nell’insegnamento universitario mondiale:
sono state esplorate, in particolare, le weltanshaung Europea e Africana.
Ci
siamo, poi, occupati della bioetica in relazione al pensiero religioso, con
puntuale riguardo alla religione
islamica.
Concludono
la nostra recensione alcune rapide ed essenziali considerazioni in materia di
politica, globalizzazione, ecologia, vuoti etici, formazione e aperture alla
speranza, completate da una ampia e specializzata bibliografia.
La
tutela dei diritti fondamentali della Persona , secondo l’attuale orientamento
comunitario e la redigenda Carta europea dei diritti, pongono il cittadino
europeo al centro di un sistema di tutela basati sui Trattati internazionali.
Tali
diritti inviolabili, limiti di ogni potere costituito, e valori supremi di
tutti gli ordinamenti costituzionali, hanno efficacia erga omnes, con una serie
di ricadute e incidenze sulla nozione di Persona quale essere, valore e senso
ontologico e assiologico, nei rapporti concreti dell’esperienza giuridica e
politica.
Nel
sistema comunitario coesistono diversi ordini di valori fondamentali: quello
comunitario e quelli nazionali. Naturalmente le norme comunitarie vanno ad
incidere sugli ordinamenti statali. Un esempio ne sono le costituzioni che,
nate all’indomani delle grandi tragedie subite dagli Stati ad ex regime
totalitario, si sono poste come patti fondamentali sui valori orientativi e
unificanti gli orientamenti giuridici.
L’ordinamento
giuridico europeo è un concentrato di cultura giuridica: gli stessi
orientamenti giuridici nazionali vivono all’interno e all’esterno del contesto
culturale comunitario e, di questo, possiedono forza normativa e cultura
durevole, rinnovatrici del diritto comunitario positivo.
Diverse
posizioni si fronteggiano sulla Costituzione europea. Una giurisprudenza
comunitaria afferma l’esistenza di una Carta costituzionale di base idealmente
costituita dai diritti fondamentali risultanti dalle tradizioni comuni degli
Stati membri, ed espressamente richiamati dal Trattato di Maastricht, integrato
da una Carta dei diritti. Altra parte della dottrina sostiene che l’U.E. vive
di cessioni di sovranità da parte dei singoli stati e quindi non può essere un
Soggetto autonomo.
I
termini della questione, secondo Calabrò, sono da inquadrare in una prospettiva
di Teoria generale del diritto.
Per
chiarezza di esposizione ricordiamo che, nella prima fase del costituzionalismo
moderno, la Costituzione era intesa come una legge superiore, presupponente un
“potere già dato e fondato sulle fonti di legittimazione” (legge divina,
tradizione e diritto naturale), con funzione di “vincolo e limite rispetto ad
un potere che aveva una sua autonoma fonte di legittimazione”. Nello stato di
diritto materiale, la Costituzione muta la sua essenza poiché limita il potere
democratico e, al tempo stesso, lo legittima.
Secondo
Kelsen, la validità della norma è il segno della sua giuridicità e contrassegna
la legittimità di quel potere che si esercita attraverso le norme; quindi, se
la validità della norma è data dalla sua appartenenza all’ordinamento, è
inevitabile porre a capo di esso una norma suprema, fonte di legittimazione
suprema e di validità. Seguendo tale via, la norma fondamentale va sottoposta
alla dialettica della legalità/legittimità, caratterizzante l’ordinamento
giuridico costituzionale. Il locus della instaurazione di un nuovo ordinamento
risolve il problema della legittimazione e presiede alla produzione delle norme
giuridiche attraverso l’idea di ordine.
L’ordinamento
costituzionale viene instaurato in vista di un fine e, pertanto, ha carattere
strumentale; è l’ordinarsi di una società di persone attorno fini e principi
generali e fondamentali.
La
prospettiva emersa dall’intervento di Calabrò, nel Convegno romano, è una
soluzione di sostanza giuridica che non rinunci a cogliere la realtà
sottostante il diritto, ovvero l’origine del potere legittimante la
Costituzione come l’intero ordinamento giuridico.
Concludendo,
il concetto di ordine quale locus artificialis presuppone il processo
dell’ordinarsi in vista di un fine, quello dell’esercizio sociale e collettivo
dei diritti fondamentali della Persona umana nella sua unità ontologica.
Coccopalmerio
individua il problema della considerazione dei diritti umani come l’ordine dell’essere o come ordine del
gioco, in diversa soluzione a seconda dei tempi storici. Ordine dell’essere
significa che nulla si può dire sui diritti umani se non si è fatta luce sulla
natura dell’anima e sul posto che essa occupa nel mondo e nella storia del
pensiero classico. Per il pensiero moderno conta l’ordine del gioco.
Il
pensiero post-moderno si occupa di costruire la macchina sociale, alla cui base
sono le regole del gioco o norme di funzionamento. Essenzialmente due
super-norme garantiscono l’esistenza della società a condizione che vi siano
norme di comportamento e che, poste queste norme di funzionamento, occorre eseguirle. In caso contrario vige il caos,
l’anarchia.
Tali
regole del gioco sono frutto di un atto di volontà individuale e pubblico; sono
lo strumento dello stare (forzatamente) in comunione, basato su un atto
d’imperio. La prima regola del gioco è la maggioranza, che ha ragione ed è la
ragione. La seconda regola del gioco è il rispetto della minoranza, atto di
discrezione della maggioranza. La terza regola del gioco è l’alternanza, nel
governo della comunità sociale, della
maggioranza alla minoranza e viceversa. Tale alternanza è meramente espressione
di rapporti numerici e non di valori morali, è l’esercizio dell’arbitrio.
Alla
base dei diritti umani sono i protocolli istituzionali, ovvero “atti di
decisione sovrana con cui vengono istituite le regole del gioco, dell’ordine
sociale, contro l’individualismo umano e l’alto rischio di conflittualismo
generalizzato” .
Nello
Stato ciascuno può godere del proprio limitato diritto, viene protetto dalla
forza comune, ha la sicurezza dei frutti della propria attività. Lo Stato è
garante del dominio della ragione, della pace, della sicurezza, della ricchezza,
della decenza, della socievolezza… I diritti della Persona esistono per ordine
del volere sovrano dello Stato.
Bobbio,
nel parlare dei diritti della persona, individua una problematica di fondo: la
politica deve occuparsi di proteggere tali diritti, proprio come la filosofia
si preoccupa di giustificarli.
A
seconda del contesto - la classicità o la modernità – i diritti della Persona e
il suo ordine morale e politico hanno significati e contenuti diversi: la
giustificazione l’una, la decisione l’altra. La religione impone una
collaborazione in nome di valori comuni attraverso il ritorno ad una
auto-educazione del genere umano, universale nello spazio, specificata nei
contenuti, positivizzata nelle legislazioni nazionali.
La Dichiarazione dei diritti umani nasce nel
1948 con l’obiettivo di tracciare una
linea divisoria con il periodo storico precedente, facendo in modo che il
problema della protezione dei diritti fosse, finalmente, una questione di responsabilità della
comunità internazionale.. La mancanza di accordo reale sui concetti che
consentono di fondarli, rende impossibile un consenso sulla loro portate e sui
contenuti. Per cui la loro salvaguardia e il loro rispetto da parte degli Stati
sarà diverso a seconda della interpretazione concettuale che se ne darà. La
pietra miliare storica della concezione dei diritti umani è la Dichiarazione Universale.
La
carenza di un fondamento comune ai diritti umani è dovuta all’ambiguità sul
concetto di persona e al dubbio rispetto alla condizione dell’uomo e alla sua
proiezione teleologica. La persona è il fondamento della libertà che, a sua
volta, trova il suo fondamento nell’essere ontologico. L’ottica dei diritti
umani mette fine al vincolo essere-persona-libertà e vuole troncare una
tradizione storica per pensare la libertà come liberazione da ogni
responsabilità intesa come capacità di risposta verso gli altri. Si vorrebbe
concepire la libertà come fine in sé, bandendo l’idea di una inclinazione
necessaria e naturale al bene da parte dell’uomo e dimenticando che è
presupposto della responsabilità non sua condizione e/o causa. Si fa sorgere la
dignità della persona da un consenso o
patto tra gli individui, da un mero assenso dottrinale che, spogliato del concetto
di persona al quale è necessariamente unito, è carente di significato.
L’uomo
è riconosciuto soggetto cosciente della propria essenza ed esistenza: egli è
padrone dei propri atti e della sua dignità, essenziale e comune al genere
umano. Il fine ultimo è lo sviluppo integrale della persona e dal principio
della personalità si evince la conquista della ragione che sa determinare i
propri fini.
Se
spogliato di finalità, l’uomo finisce per essere uno strumento, l’uguaglianza è
una parità nell’avvilimento della condizione umana e la libertà non è veramente
tale, poiché non risiede nel riconoscimento del bene. Dove non c’è conoscenza
non c’è libertà né possibilità di formulare una scelta razionale. Quindi il
vero fondamento della dignità umana è da individuare negli ingredienti
metafisici della persona ossia nella
libertà e nella razionalità dalle quali si deducono i diritti, i doveri e
le responsabilità. L’assenza di doveri ha per risultato l’assenza di un
ordine morale e di un vero ambito sociale, di conseguenza, secondo Giovanni
Paolo II, “non si dovrebbe trattare dei diritti dell’uomo senza tenere conto
dei suoi doveri correlati che traducono con precisione la sua stessa
responsabilità e il suo rispetto dei diritti degli altri e della comunità”,
espressi nelle leggi naturale e umana.
La
dottrina concernente i diritti umani si è basata sulla negazione della natura e
di Dio come Autore della stessa. Mentre i diritti naturali soggettivi sono,
paradossalmente, la negazione dei diritti dell’uomo, l’espressione di un ordine
naturale oggettivo permette il
raggiungimento di diritti-doveri che sono anche comuni e oggettivi, permette il
funzionamento della società e la necessaria articolazione fra i distinti membri
della società. Nella concezione abituale, la coscienza è vista come punto di
non incontro,che serve a giustificare misure disuguali per bandire principi
distinti e anche opposti per negare l’esistenza di una verità oggettiva e del
valore essenziale di essere persona. Non esistendo una verità valida per tutti
la coscienza, frutto dell’arbitrarietà e del decisionismo, si trasforma nella
possibilità di agire senza assumersi le responsabilità che derivano dalle
proprie azioni. In ultima analisi la coscienza avrebbe la capacità di creare
diritti ma non di imporre dei doveri. A causa di ciò ci troviamo dinanzi ad un
nuovo concetto di libertà che si appoggia sull’esercizio dell’arbitrarietà,
basato sull’errore e non sulla conoscenza della verità. Si può alla fine
segnalare che i diritti umani si fondano in una stretta natura dell’uomo e
implicano un’impostura nel proclamarsi universali e, allo stesso tempo, possono
essere usati a favore di alcuni e contro altri. In definitiva diritti
soggettivi forgiati dall’individualismo moderno sono la nozione astratta
dell’uomo. Se vogliamo stabilire una dottrina dei diritti umani dovremmo
superare l’individualismo, che è stato l’artefice della dottrina
sull’argomento; offrire una visione completa e complessiva dell’uomo, una
visione del significato unitario e essenziale della vita umana dello statuto
ontologico sul quale è costituita la persona; fondare i diritti sui loro
corrispettivi doveri; presentare una vere base antropologica ed etica dei
diritti umani che vengono proclamati base morale senza la quale l’edificio dei
diritti umani è una costruzione che manca di stabilità e no può apparire come
una verità universale. Quindi, parlare di diritti universalmente intesi, ci
impone di agire nella verità e di scoprire i frutti della verità e non
sottomettere la verità alle proprie velleità, congiunture e interessi.
La
attuale bozza della Carta U.E. dei diritti fondamentali (e quindi nella
prospettiva dell’ordinamento comunitario , nell’evoluzione e nel suo graduale
allontanamento dalle finalità di una comunità economica europeo dello stesso)
presuppone il processo di costituzionalizzazione avviato già da tempo dalla
giurisprudenza della Corte di giustizia fino al riconoscimento, col trattato di
Maastricht dei diritti fondamentali della persona quali principi generali di
quello ordinamento giuridico. E’ con tale trattato, ratificato dagli stati
membri nel 1993, che prende avvio quel processo di costituzionalizzazione dei
diritti dell’uomo a livello comunitario, il cui riconoscimento ere opera della
giurisprudenza della corte di giustizia delle comunità europee, stimolata a ciò in tempi ormai remoti da
alcune prese di posizione delle corti costituzionali italiana e tedesca.
Con
riferimento all’Europa e ai paesi partner dell’Unione, la presenza di valori
“comuni” presenti in tali carte costituzionali europee vengono a rappresentare
un parametro di riferimento necessario nel complessivo dibattito sui diritti
fondamentali e nella prospettiva di una Carta europea dei diritti fondamentali
in fase di redazione. Ora si è in presenza di una nuova fase caratterizzata dalle emergenze legate a due
importanti rivoluzioni della nostra epoca, quella multimediale, della
globalizzazione e quella biotecnologia.
La
risposta complessa e univoca nella
direzione della salvaguardia della identità della persona risulta comprensibile
solo in ordine a talune questioni rientranti nell’ambito della bioetica. Si
propone da tempo una nuova figura di uomo da contrapporre al “business man”
senza altre finalità che quella del profitto ed in sostanza una rifondazione
del sistema attraverso una vera e propria rivoluzione morale. Parlare di
diritti fondamentali a livello europeo significa individuare diritti e principi
generali che affondano le loro radici in quella dimensione non economica
dell’uomo che fronteggia in particolare, sul piano della produzione e del
mercato, il diritto dell’impresa e taluni valori più radicali che attengono
alla persona in sé e per sé considerata nell’ambito di un complessivo sistema
vivente. Alcune opzioni e scelte di fondo non possono essere pretermesse poiché esse sole possono impedire
che alcuni diritti fondamentali, attinenti alle libertà di impresa e di ricerca
scientifica, possano essere sacrificati in nome della genericità, latitudine e
ambiguità della loro formulazione giuridica.
Il
sistema normativo delle “super politiche” costituisce la sede di principi
generali, dallo sviluppo sostenibile a
quello di precauzione e protezione dei consumatori, che costituiscono momento essenziale di
riferimento nella ridefinizione delle cosiddette politiche economiche
tradizionali. L’approccio rivolto a dare un’anima più profonda alle superpolitiche muove dalla persona
concepita nella sua libertà. Infatti la legalità non è solo conformazione alle
regole giuridiche ma è anche momento di esaltazione dei rapporti sociali e
interpersonali che presuppongono il rispetto sostanziale della dignità
dell’essere persona. Le opzioni di fondo costituiscono le nuove frontiere
dell’Europa che si vuole costruire e di cui la Carta in gestazione dovrebbe
costituire il punto di riferimento obbligato della ricognizione di talune
libertà, strumentali alla mercificazione dei
risultati della ricerca. La tutela fondamentale dei diritti
fondamentali- della vita e dell’integrità della persona, passa attraverso la
tutela giurisdizionale ed è parte preliminare e
preventiva alla costruzione di un sistema giuridico che vuole porre a
fondamento dell’ordinamento i diritti della persona umana. In sostanza manca il
coraggio di fronteggiare il potere economico delle multinazionali e di fare
chiare scelte su un progetto europeo che costituisca un modello di sviluppo
rispondente alla cultura di un’Europa che ha bisogno di attingere a modelli di
sviluppo d’oltreoceano. Il complessivo problema di una vita etica allo sviluppo
riguarda la libertà di impresa di cui, nella bozza della Dichiarazione, mancano
i confini e i limiti che il sistema
delle superpolitiche indica chiaramente nella tutela dello sviluppo
sostenibile, nella tutela della dignità e degli interessi e diritti dei
consumatori.
Il
potere politico sembra venga colonizzato da quello economico per ciò che
concerne la formulazione, a livello internazionale, di una generica libertà di
impresa e di ricerca scientifica. La
concezione di Giuseppe Capograssi, secondo cui la scienza deve servire alla
conservazione della vita, venendo ammantata dal bisogno insopprimibile
dell’uomo di conoscere e legittimata dalle possibili applicazioni per finalità
terapeutiche, oggi viene stravolta rivelando la preminenza del potere
d’impresa. Non c’è da stupirsi che in Europa, anche ai massimi livelli
istituzionali, il rapporto tra libertà e natura
sia impostato in modo da rinnegare
i diritti fondamentali della sicurezza alimentare, con relativa ed
evidente tendenza a legittimare forme di Stato e di governo della società più
che a riconoscere l’esistenza e il valore della persona. Ancora una volta è in
gioco la libertà dell’uomo nel suo rapporto etico con la vita della terra e dei
suoi esseri viventi.
Una
Giurisprudenza economica stenta a decollare nella concezione europea, con
molteplici implicazioni per la biodiversità, l’ambiente e la sicurezza
alimentare dei consumatori.
La
storia della bioetica si può dividere teoricamente in due fasi: il principialismo e la esperienza morale.
Nella Bioetica mondiale è in atto un mutamento di paradigma; si passa dalla
bioetica dei principi a quella del caring, del prendersi cura .
Per
ciò che concerne il paradigma dei principi, esso è basato sulla logica
deduttiva e sull’etica del dovere. Si domanda cosa si deve fare di fronte alle
perplessità morali provocate degli interrogativi sollevati dalle scienze
biomediche e una volta individuati i principi li applica, usando la logica
deduttiva, ai casi particolari, costringendo a priori la complessità e
l’imprevedibilità delle situazioni umane sotto la legislazione di principi
morali astratti. Ciò comporta una sproporzione tra le azioni e situazioni umane
inedite e la fissità dei principi a causa della necessità di una diversa
valutazione in cui è necessaria la saggezza pratica, l’inventiva e la capacità
critica per mediare la norma. Tra princìpi e casi operano il giudizio e il
confronto continuo tra la teoria e le intuizioni morali contestuali e situazionali.
L’attenzione
alla situazione, al vissuto, alla soggettività sta producendo un mutamento nei
paradigmi della bioetica fino a determinarne uno nuovo, induttivo, basato
sull’esperienza. L’interrogativo che si pone è su cosa stia succedendo e sul
tipo di relazioni che vogliamo instaurare con gli altri, cercando di
interpretare i comportamenti morali, le
percezioni e le esperienze. La filosofia morale della virtù teorizzata da
McIntyre teorizza sul tipo di persone che dovremmo diventare e non su ciò che
dovremmo fare, attraverso la formazione del carattere e la pratica delle virtù.
L’etica è intesa come l’acquisizione di abitudini e comportamenti di qualità
umana, trasformandosi da teoria astratta e generale della modernità a filosofia
che ritorna al particolare, la cui casistica si basa sull’esperienza di
paradigmi simili e sullo sviluppo di massime ricavate da tali similitudini,
ricavate per analogia.
Tuttora
la casistica ha pessima fama, per il cattivo uso che se ne è fatto, a causa
della tendenza a mettere in dubbio la validità dei principi oltre che ad
adattarli alle private inclinazioni e tornaconti anziché applicarli alle
situazioni concrete. Per Kant il buon senso è la facoltà di giudicare affinata
dall’esperienza, e per Cartesio è la facoltà di aggiustare per successivi
tentativi l’equilibrio dei valori che vogliamo vedere rispettati in una
determinata situazione. Secondo Thomas,
anche se si ammettesse che l’unica legge morale universale è quella del
rispetto delle persone, “resterebbero da trovare gli intermediari e le
formulazioni che consentono di colmare la distanza le posizioni di principio
dai casi concreti”. L’invenzione nel cuore dell’azione è indispensabile nella
bioetica poiché è, secondo Kant, “un esercizio che insegna come deve essere
cercata la verità”.
Il
paradigma esperienziale prende in seria considerazione la specificità delle
voci morali del prendersi cura delle c.d. categorie protette, ossia donne,
anziani, disabili, malati incurabili, medici e genitori dei pazienti. Sviluppa
l’etica del prendersi cura, della solidarietà attraverso una visione empatica e
relazionale dei comportamenti morali. Le implicazioni sono tendenti a
correggere il predominio di un orientamento esclusivamente razionalista. Il
punto di partenza è fornito dall’apertura empatica all’esperienza, alla persona
e all’ascolto di tutte le voci che esprimono genuine sofferenze e standard
morali in situazioni particolari, consentendo di scoprire la domanda alla quale
le teorie morali devono rispondere.
Sgreccia
teorizza la considerazione dell’esperienza morale come incompleta se non si
riferisce all’oggettività della verità e del bene e alla soggettività del
comportamento. Tra i principi e le virtù si instaura un rapporto di reciprocità
poiché il riconoscimento e l’attuazione del dovere è possibile se si è virtuosi
e se si rispettano, si riconoscono e si applicano nella prassi gli obblighi
morali. Privitera sostiene che “la sopravvivenza della bioetica dipende dal suo
sapersi trasformare in problema e in progetto culturale, ossia in processo di
sensibilizzazione bioetica della cultura”. Quindi il compito principale della
bioetica consiste nel cogliere i punti nevralgici dei processi culturali e
promuovere la sensibilizzazione bioetica della cultura nelle istituzioni
educative prima di formulare un giudizio morale sulle varie opzioni. Si auspica
che la bioetica diventi paideia,
cultura formativa.
Nell’attuale
fase di sviluppo della bioetica diventa sempre più decisivo rispondere alla
domanda etica più radicale, quella che si chiede come mai esistano le persone
buone e come esse siano in assoluto possibili. Il superamento del paradigma principialista e l’affermazione di
quello dell’esperienza morale e delle virtù del caring, spinge la cultura
tutta ad interrogarsi circa la
possibilità di individuare gli itinerari educativi più idonei.
La
qualità educativa inciderà sempre più sul livello morale della nostra civiltà e
sulle scelte etico-politiche nella bioetica. A seguito della sua tendenza a
ridurre il problema del bene comune a quello della giustizia e la vita morale
dell’individuo al conseguimento della propria autonomia, la bioetica ha la
bioetica ha lasciato uno spazio vuoto sul piano morale. Inoltre ha eluso la
collocazione culturale della moralità a causa della continua ricerca dei
principi generali. Al fine di sviluppare una bioetica culturale e comunitaria
occorre una svolta educativa e formativa che potrebbe inaugurare una nuova fase
della storia della bioetica. Tale svolta è rappresentata dalla pedagogia
attuale che apre l’insegnamento della
bioetica nell’ambito universitario italiano. Anche la costituzione di comitati
etici, a causa di carenza di esperti in bioetica, apre un ampio versante alla
formazione della figura professionale
del bioetico.
La pedabioetica si occupa di educare l’uomo
virtuoso, capace di consegnare ai posteri la qualità-verità dell’essere umano;
vuole educare i giovani e gli uomini ad una migliore qualità della vita, a star
bene con sé, con gli altri e col mondo e promuovere una coltura della qualità
della vita anche nella comunità civile e non solo nelle scuole e università. Di
qui si può intuire qual è la più importante frontiera della bioetica: rendere
possibile l’uomo virtuoso, educato e formato nei suoi habitus, che non fa
troppa fatica a giudicare il bene, a fare il bene ed a saper dare qualità alla
vita perché si è lasciato qualificare dalla vita. Il progetto
educativo-formativo e culturale della Bioetica deve ispirarsi pedagogicamente
ai principi fondamentali dell’educazione. La pedabioetica deve educare “la
mente, il cuore e la mano” secondo le indicazioni di Pestalozzi, secondo un
itinerario cognitivo, psicomotorio e psicoaffettivo. Tutto il progetto deve
fondarsi su un’etica della formazione come metodologia e principi che devono
ispirare la programmazione e la metodologia educativa e l’acquisizione di
competenze pedagogiche dei formatori.
Affinché
le relazioni umane possano essere morali devono essere simmetriche e
reciproche. Il senso di tale reciprocità
non è oggettivo, né convenzionale, né sistemico ma oggettivo e
ontologico. Per essere etica la relazione deve essere sempre animata dalla
reciprocità, promuovendo e rispettando l’altro come pari. Oltre alla giustizia
anche la solidarietà deve essere ispirata alla reciprocità che, secondo il
pensatore greco Yannaras, comporta la pienezza di vita. L’etica di ognuno è basata sulla propria
cosmovisione, che contribuisce a chiarire le diverse valutazioni etiche e le
diverse politiche. Spesso le posizioni antagoniste in bioetica non riguardano
tanto l’etica quanto l’ontologia. Le gestalt antagoniste applicano in modo
differente i precetti etici fondamentali perché li riferiscono ad entità
diverse.
La
pedabioetica deve aiutare l’educando a costruirsi ed a formarsi una adeguata
visione della realtà e dei rapporti con il mondo. Secondo le acquisizioni più
aggiornate della scienza e della epistemologia
contemporanea, la ontologia non ci rivela le cose in sé ma reti o campi
di relazioni di cui le cose sono partecipanti. Tale è l’approccio sistemico o
ecologico detto anche gestaltico
secondo il quale tutto è relazionato, interdipendente e interconnesso. Quindi
comprendere qualcosa significa coglierla nel suo complesso di relazioni
contestuali attraverso una ontologia relazionale che stabilisca un nuovo
rapporto tra il tutto e le parti. L’essere si manifesta come essere per,
inter-essere con ogni altra cosa. Tutto ciò che è riceve esistenza e non può
essere inteso adeguatamente nel suo senso se non nel sistema di relazioni che
lo costituisce e lo fa essere quello che è. Proprio tale interdipendenza tra le
cose e l’inter-esistenza tra gli uomini è il fondamento dell’etica.
L’educazione
deve attivare processi di identificazione attraverso l’espansione del Se ,
poiché comprendendo il legame che ci unisce agli altri esseri e identificandoci
con loro aumenta la nostra coscienza. L’incapacità di identificarci conduce all’indifferenza.
I molteplici Io si sviluppano fino a diventare dei Sé sempre più grandi,
proporzionali all’ampiezza dei nostri processi di identificazione.
L’educazione
alla bioetica passa proprio attraverso i processi di allargamento e
approfondimento della coscienza e dei
processi di identificazione. Elias ha osservato che l’immagine dell’uomo
prevalente è quella dell’homo clausus,
poiché nelle nostre società gli uomini pensano per lo più a sé stessi come ad
esseri indipendenti e isolati a cui si contrappone il mondo esterno e gli altri
uomini. L’homo clausus preferisce addossarsi la solitudine della scelta
personale e legarsi con le catene dello schiavo felice attraverso il sogno di
un’utopia che lo liberi dall’onere di dover giudicare da solo. Tale ethos
produce solitudine e isolamento. Elias considera vano “cercare un senso nella
vita di un individuo indipendentemente dal significato che tale vita ha per
altri uomini.
Ogni
uomo ha bisogno di sentire che è importante agli occhi altrui poiché il riconoscimento
sociale è fondamentale per scoprire e valorizzare l’identità personale. Occorre
una cultura più empatica e partecipativa tendente a collegare l’uomo
all’ambiente e ad aiutarlo a convivere con ciò che lo circonda. Presupposto
dell’etica è l’esperienza dell’approssimazione, dell’avvicinamento all’altro,
del superamento di un rapporto con la differenza dell’altro chiuso nell’errore.
La dilatazione e l’arricchimento della nostra sensibilità devono aiutarci a
mettere in dubbio che il mondo così come appare a me coincida con l’essenza del
mondo. Questo presuppone una nostra capacità di riconoscerci nell’altro, di
sentirci a lui uguale pur nella differenza. L’approssimazione sviluppa anche la
compassione che consiste nell’“avere un’esperienza con” e permette che qualcosa
succeda a se stessi contemporaneamente all’esperienza di qualcun altro.
Occorre
ripensare il libero arbitrio e alla volontà di potere occorre sostituire la
“volontà di empatia”. Nell’impostazione empatica il libero arbitrio viene
misurato dal grado di partecipazione e di condivisione comunitaria. La mente
empatica fa proprio questo perché appartenere diventa più importante che
possedere. L’umanità dell’etica è costituita dal posto che occupa l’alterità,
l’essere nella nostra responsabilità. La pedabioetica deve ispirare una forte
esigenza critica nei confronti di tutti i tentativi teoretici e pratici di
deificare l’uomo, la vita e l’essere, intesi come res, come eventi. L’essere non è puro oggetto da dominare ma
secondo la filosofia heideggeriana è evento. Occorre prendere maggior
consapevolezza della distinzione tra azioni ed eventi, tra atti nel potere
dell’uomo ed eventi che sfuggono al suo potere e che avvengono al di fuori
della volontà umana.
Nella
cultura bioetica occorre una conoscenza della conoscenza, una metaconoscenza e per la formazione alla
bioetica si apprende nei tre ambiti del saper conoscere, del saper fare e del
saper essere. Occorre comprendere la
circolarità interdipendente dei problemi. Il carattere applicativo della bioetica
esige che accanto a momenti teorici e generali si analizzino casi concreti. Il
pensiero deve contestualizzarsi al fine di elaborare e raggiungere una
conoscenza pertinente, cos’ come ha insegnato Gadamer, con la
contestualizzazione dell’universale nella situazione particolare. Il
corrispettivo morale del pensiero contestualizzato è l’epieikeia, che serve a correggere l’astrattezza della legge e della
norma, affermando sempre il primato della persona rispetto alla norma e alla
situazione.
La
razionalità di cui l’uomo ha bisogno per fare le proprie scelte è la
ragionevolezza, che nasce dal confluire della vita della ragione con le ragioni
della vita. La ragionevolezza si colloca nella realtà vissuta e integrale della conoscenza; si avverte,
quindi, la necessità di una bioetica ragionevole. La pedabioetica deve
sviluppare nell’educando il ragionamento morale, ma soprattutto educarlo alla euprassia, al corretto apprendimento di
comportamenti morali che portano alla creazione delle virtù.
Un
problema importante nell’educazione morale è quello delle abitudini familiari e
scolastiche. Una abitudine non è semplicemente, secondo la teoria
comportamentista, una risposta ad un certo tipo di stimolo né una passiva
ripetizione dell’atteggiamento ma bensì è una costanza delle nostre azioni
attraverso le quali si costruiscono e si esplicano le nostre opzioni
fondamentali, le virtù. Diventa prioritario l’atteggiamento liofilo nella
comunità educativa per la promozione educativo-formativa delle virtù.
Come
ha insegnato Freud, le soluzioni che l’uomo dà ai problemi quotidiani della sua
esistenza risultano essere,nelle loro intenzionali conseguenze, soluzioni di
vita o di morte. Il connotato degli istinti biofili o necrofili è fortemente
antropologico. Fromm fa notare che la tendenza contro la vita, la necrofilia,
considerata nei suoi aspetti più gravi, è “la patologia più acuta e la radice
della distruttività e dell’inumanità più guaste”. Sempre Fromm fa notare che
nei fenomeni della vita ciò che importa ai fini del comportamento dell’uomo
“non è la completa presenza o assenza di
uno dei due comportamenti ma quale inclinazione sia più forte” . Oggi esiste la
tendenza a ridurre l’essere umano alla sua utilizzabilità, reificandolo nella
vita sociale, facendo da ciò scaturire l’atteggiamento necrofilo dell’uomo
nell’odierna civiltà tecnologica; conta più la memoria dell’esperienza, l’avere
più che l’essere, portando un approccio alla vita sempre meno immediato e
sempre più meccanico.
Al
contrario la vita biofila è deve caratterizzare tulle le età della vita umana e
della comunità educativa, poiché la condizione più importante è che si sviluppi
l’amore contagioso per la vita. L’educatore deve essere una personalità
biofila; chi è pessimista, annoiato e scettico, per la sua antivitalità è un
necrofilo, portato a distruggere e a vendicarsi della vita sbocciante del Tu,
anziché darle senso avvalorandola e promuovendola, anche attraverso la propria
gioia di vivere. La vita viene accettata e amata dall’educando soprattutto
attraverso l’intervento educativo che permette la scoperta del valore
dell’esistenza e, tale consapevolezza, è comunicata dalla presenza premurosa e
paziente di chi lo ama. Nel messaggio educativo è importante trasmettere il
senso della fiducia e della speranza per una vita che c’è, anche se non la
capiamo o non la vogliamo, poiché ci ha chiamati desiderandoci, nonostante le
colpe e i condizionamenti; l’educatore sarà il maestro di positività, apertura
e sviluppo verso ogni forma di esistenza. Tra l’altro, per evitare che l’uomo
venga privato ed espropriato della sua salute,
attraverso la medicalizzazione della vita, la salute stessa deve essere
una virtù.
Secondo
Addison “la medicina è il sostituto dell’esercizio della temperanza” e, volendo
richiamarci ai precetti morali, le virtù si ravvisano nell’esercizio della
prudenza, della temperanza, nella forza d’animo- Piaget ha insegnato che
all’autonomia si arriva attraverso l’eteronomia-, nella giustizia e fortezza,
poiché nell’educazione e nella vita spirituale si ha solo ciò che si conquista.
L’avere tutto e subito, senza alcuno sforzo è un gravissimo errore educativo,
che non consente di apprezzare il valore della conquista e dell’attesa. Bisogna
inoltre infondere nell’animo degli educandi il piacere e la prontezza
nell’aiutare gli altri, vincendo l’egoismo, impedimento fondamentale della vita
morale, che porta a considerare il proprio benessere senza curarsi degli altri,
indifferenti del bene comune.
Comenio
ci ricorda che la disciplina deve essere esercitata contro chi sbaglia, per
evitare che l’errore si ripeta, esercitandola con semplicità e sincerità,
evitando l’odio, l’ira e le altre emozioni, in modo che chi viene punito si
renda conto che la pena disciplinare è rivolta al suo bene e che è consigliata dall’affetto di chi è
responsabile della sua educazione. La disciplina deve tendere a formare e rinforzare “una tempra degli affetti” .
Solo uomini giusti, forti e solidali potranno essere portatori di una vera
cultura bioetica, capace di creare una nuova qualità della vita.
Secondo
Russo la Bioetica europea è troppo
analitica, basata su fondamenti epistemologici, sistemi di pensiero e
impostazioni sistematiche, poiché nata e sviluppata in un contesto fortemente
filosofico e teologico.
L’impostazione
procedurale, sociologica e giuridica, ha
avuto scarso impatto in Europa. Il dibattito sui problemi è stato secondario
rispetto al dibattito sui fondamenti etici della bioetica, intesa come
l’apertura alle nuove frontiere della biomedicina, mentre scarsa o assente è
stata la attenzione globale alla vita, all’ecologia e agli habitat naturali,
ecc., per non parlare di alcuni settori più sociali della vita quali la pena di
morte, la cremazione, gli sports estremi, ecc.
La
bioetica europea non ha avuto percorsi diversi da quella statunitense, è
medicalizzata e dominata dalla produttività scientifica e farmaceutica;
inevitabilmente il confronto è stato tra possibilità biotecnologiche e limiti
dell’etica. Si è trovata epistemologicamente unificata in quanto studio sistematico
e visione d’insieme di una medicina inserita nel contesto del modello
antropocentrico; è fondata eticamente dall’argomentare che ha avuto la meglio
sull’approccio clinico dei casi.
Possiamo
individuare alcune prospettive di lettura antropologica molto attente alla
dignità ontologica della persona umana, contrarie alla natura etica della
persona o ai cambiamenti evolutivi della storia, considerando l’etica un
processo evolutivo simile a quello scientifico per cui la vita umana e sociale
è chiamata ad adeguarsi alle trasformazioni biotecnologiche, dovendo
confrontarsi con forti pressioni e condizionamenti da parte dell’economia.
Russo sostiene che “la bioetica europea ha bisogno di essere liberata
dall’egemonia e dall’efficientismo biomedico a servizio dell’industria” .
Alcuni
studiosi, tra cui Kelly, McCormick e Reich, hanno individuato all’origine della
bioetica un movimento di reazione al riduzionismo e al disumanizzante
avanzamento tecnico della scienza moderna, con conseguente approdo al processo
di Norimberga e agli interventi di Papa Pio XII. Fu proprio Pio XII a chiedere
ad Agostino Gemelli di istituire una facoltà di Medicina e Chirurgia a Roma, con una forte
connotazione etica degli studi.
La
prima apparizione del termine bioetica risale al 1973 in un saggio pubblicato
da Torchio sulla rivista Natura, con forti connotazioni potteriane e
preoccupazioni per le alterazioni degli ecosistemi e degli equilibri biologici.
Il
primo centro di bioetica in Europa fu istituito in Spagna a Barcellona, presso
la Facoltà di Teologia. Presto il dibattito bioetica si diffuse in Francia e a
Roma. Sulla impostazione di pensiero che questo centro introduce e porta avanti
in tutta Europa una bioetica concentrata sulle biotecnologie in medicina. Con
Diego Garcia, in Spagna, la bioetica è stata studiata secondo tre approcci:
quello storico, quello filosofico e quello della teoria della medicina.
A
Londra, nel 1975, viene costituito l’Institute of medical ethics, con una
corrente di pensiero chiaramente utilitarista. Nel 1977 nasce il Linacre
Center, composto in massima parte da docenti dell’area biomedica, legale e
filosofica-teologica. L’impostazione di pensiero è propriamente cattolica e
contribuisce a livello di consulenze governative. Nel 1991 nasce il Nuffield Council
on Bioethics, con un forte lavoro interdisciplinare che ha portato ad una serie
di lavori nei campi della genetica, degli xenotrapianti, dei disordini mentali,
ecc. l’impostazione di pensiero è laica.
Negli
anni ottanta sono sorti i centri di studio di Lille, Lione e Parigi e il noto
Comitè Consultatif National d’Etique, si affermano le iniziative del Centro
Sevres di Parigi, concentrando la ricerca nei campi della sperimentazione e
della procreazione assistita e della genetica, dell’astensione delle terapie e
delle cure palliative. L’impostazione di pensiero è espressamente cristiana. In
Belgio, nel 1983 nasce il Centre d’èdudies bioethiques che promuove la bioetica
come disciplina accademica con l’intento di conciliare nella pratica medica
scienza e coscienza. Nel 1987 con il Protocollo di Bochum nasce il Centro di
etica medica dell’università di Buchum che ha prodotto una considerevole
attività nel campo dell’etica medica e del settore biotecnologico.
L’impostazione di pensiero si articola
su quattro punti metodologici: l’identificazione dei dati
medico-scientifici attraverso una adeguata diagnostica, l’identificazione dei
dati medico-etici a partire dalla salute e dal benessere del paziente e
dall’autodecisione del paziente e dalla responsabilità del medico, dalle
possibili opzioni per il trattamento del caso e questioni supplementari per la
valutazione etica. Centro studio di simili impostazioni metodologiche ma di
tendenza cattolica-protestante è quello di Tubinga, nato nel 1985, e la cui
prospettiva di fondo è che nei problemi sollevati dalle nuove frontiere della
medicina e della scienza non è possibile offrire il parere o la risposta di una
sola area scientifica; la comunicazione e lo scambio di informazioni sono
essenziali per costituire un parere comune.
In
Olanda nel 1987 presso l’università di Utrecht è stato istituito il Center for Bioethics
and Health Law, con il compito del coordinamento di tutta l’attività bioetica
dell’università. La ricerca si è concentrata sulla sperimentazione umana e
animale, sull’eutanasia, sulla fanatica e sulle tecnologie riproduttive, ecc.
La corrente di pensiero è da loro stessi chiamata “modello operativo a rete”,
secondo cui il giudizio morale e particolare può essere giustificato solo
quando si raggiunge un equilibrium
tra fatti moralmente rilevanti, intuizioni e principi morali. Nel 1992 sorge in
Europa, con sede a Strasburgo, il Comitato Direttivo della Bioetica,
organizzazione intergovernativa del consiglio d’Europa. Lo scopo principale è
quello di permettere agli Stati di disporre di testi organicamente rispondenti
alle sfide delle scienze biomendiche. Tale centro si pone sulla linea di
pensiero di proporre il riconoscimento dei diritti dell’uomo, l’affermazione
della libertà della scienza, la partecipazione di tutti i gruppi sociali
interessati ad una politica comune e la libera circolazione delle informazioni.
In
italia il primo centro di bioetica avviene nel 1985 a Roma presso l’Università
Cattolica, con una Cattedra di Bioetica affidata al Prof. Sgreccia. Il Centro
si prefigge un costante riferimento ai criteri di scientificità propri della
visione cattolica della vita e della fedeltà al magistero della Chiesa, e vede
la bioetica aperta alla metafisica in una sorta di personalismo ontologico.
Tale personalismo ontologico è una concezione generale della vita e dell’etica
che pone l’uomo come realtà positiva e centrale della bioetica, come facoltà di
discernimento tra ciò che è tecnicamente possibile e ciò che è eticamente
lecito.
Sulla
scia del pensiero sgrecciano altri centri hanno dinamicamente strutturato la
bioetica italiana. Sulla corrente di pensiero alternativa, nel 1983 nasce il
Centro Politeia, per la ricerca e la formazione in politica e in etica. A
Genova, nel 1984 nasce il Centro di bioetica, apportando una dimensione di
pensiero nuovo con approccio etologico
ed ecologico che concepisce la nuova disciplina come etica applicata al Bio-Realm. Accanto alla bioetica medica
esistono una bioetica animalistica, detta della biocultura, e una bioetica ambientale.
La Società italiana di bioetica, sorta nel 1987 a Firenze presso la Cattedra di
antropologia, vede la bioetica in senso potteriano con accentuazione darwiniana
dell’evoluzione della specie animale e di quella umana, cioè bioetica globale e
non focalizzata solo sui problemi delle biotecnologie in medicina. Mori
ha affermato che, per i laici, è assolutamente necessario focalizzare il
dibattito sulla bioetica perché i c.d. periodi critici in cui dominano i dubbi
e le incertezze durano poco. Inoltre va tenuto presente che se l’interesse per
la giustificazione fosse frustrato, la società umana tornerebbe alle intuizioni
tradizionali. Il dibattito europeo in questi ultimi 30 anni è stato improntato
al semplice confronto aperto a tutti e
volontà di capire le ragioni dell’altro. La bioetica si è manifestata come un
luogo d’incontro e di confronto per il
dialogo e la tolleranza.
Secondo
Simporè l’insegnamento della bioetica
nelle università del continente africano è molto debole anche se ciò non significa
che questi popoli vivano senza principi etici. “L’Africa da molti decenni è
teatro di guerre fratricide che decimano
la popolazione e distruggono le ricchezze naturali e culturali” . Il
tribalismo, il razzismo, il fondamentalismo e l’integralismo religioso, la sete
di potere e di denaro hanno rafforzato i regimi totalitari provocando questi
conflitti. Le strutture d’insegnamento tradizionale Africano sull’etica della
vita sono individuabili nei campi di iniziazione, nei canti del griot e cura
dei malati e nei diritti della vita. Per ciò che concerne i riti d’iniziazione,
essi esistono in quasi tutti i paesi dell’Africa Nera. “In Guinea, durante le
iniziazioni, i capi del campo formano umanamente, intellettualmente e
socialmente gli uomini e le donne responsabili del domani ”.
Secondo
Mara nel centro Africa l’iniziazione è spesso legata alla circoncisione dei
maschi e l’escissione delle femmine. Durante questa iniziazione questi giovani
devono dimostrare la loro maturità, la loro resistenza fisica e la loro
competenza attraverso diverse prove. Sono istruiti sulla storia dei loro
antenati e della loro famiglia, apprendono i miti e le leggende sulla creazione
del mondo e lo sviluppo della vita sulla terra imparando a comportarsi bene
nella società. In questi racconti ci sono molti insegnamenti sull’etica della
vita. Presso alcune popolazioni della Nigeria i gobbi, gli albini e gli atipici
sociali sono considerati come delle persone protette da Dio.
In
una cultura orale i canti del griot, del cantastorie, ha funzione fondamentale
per l’educazione e la formazione. E’ la memoria del popolo ed il maestro per eccellenza di tutta la
società. Con il suo tam-tam egli parla e con la sua chitarra lancia enigmi;
incoraggia sempre ad essere figli del clan osservando scrupolosamente i costumi
ed essendo sempre pronti a dare la propria vita per difendere gli interessi
della tribù.
Per sdrammatizzare la morte e sostenere un
vecchio agonizzante una donna si distacca dal gruppo e prendendo il paziente
tra le braccia lo assista fino all’agonia, dandogli da mangiare e da bere,
esattamente come si fa per la circoncisione e per il parto, cantando le glorie
degli antenati, come fosse una nenia che lo aiuta a raggiungere in compagnia la
propria fine.
Per
ciò che riguarda i diritti della vita, testimoniati nel continente africano
attraverso le società ben strutturate e gerarchizzate con capi, imperatori e
loro vassalli, l’antropologia stessa
della vita e della morte di questi regni ci insegna che la vita umana è
sacra e che per conseguenza deve essere rispettata, protetta e curata
attraverso il rispetto dei diritti e dei doveri dell’uomo nelle sue diverse
società.
I
diritti dell’uomo in Africa sono vissuti tra violenze politiche, assassini,
cruenti colpi di stato, torture e genocidi, attraverso coalizioni tra poteri
politici, giustizia e legislazioni. La Conferenza dei Capi di Stato e di
Governo dell’Organizzazione dell’unità africana, riunita a Banjul nel 1981, ha
stabilito una convenzione intitolata Carta Africana dei diritti dell’Uomo e dei
Popoli, che afferma la libertà, al giustizia e la dignità come oggettività
essenziali per la realizzazione delle aspirazioni legittime dei popoli
africani.
Il
punto di vista di alcuni docenti universitari africani sui problemi della
bioetica è di estrema importanza per la
comprensione del pensiero sull’etica della vita che, pur variando da una
persona all’altra, ha un comune filo conduttore: la sete di pace e unità, di
stabilità e di maturità politica, di giustizia ed etica nella sua politica e
azione sociale.
Circa
l’aborto, il Rettore dell’Università di Ouagadougou, solleva problematiche di
etica e diritto. L’aborto è uno dei primi problemi sollevati in bioetica. Il
diritto alla vita è diversamente inteso
e protetto a livello internazionale e rivive nella questione giuridica
dell’embrione. Secondo il Prof. Sawadogo “ogni interruzione volontaria di
gravidanza costituisce la negazione al diritto alla vita o, almeno, una
negazione della vita” . Anche per Monique Ilboudo, giurista, il principio della
dignità della persona umana è definito come un principio secondo cui “ un
essere umano deve essere trattato come un fine a se stesso” ; per riconoscere
alla persona umana la dignità che le
compete “è necessario interdire i trattamenti degradanti e l’avvilimento
dell’uomo”. Ciò porta a postulare la questione dei diritti fondamentali
universali anche se essi, nella realtà, variano a seconda delle specificità
culturali, quali segni della nostra comune appartenenza alla condizione umana. Secondo lei ciò che
gli uomini hanno in comune sono la vita, la libertà e il diritto di essere e
agire umanamente.
Per
un approccio socio-antropologico del diritto alla vita nelle società
dell’Africa Nera, il Prof. Nyamba evoca il trattato storico di Kurukan Fuga del
1235. All’indomani di una grande battaglia fu convocata una grande riunione con
lo scopo di gettare le basi per un nuovo ordine politico, sociale, culturale ed
economico. Sotto forma di precetti giuridici orali fu elaborato un trattato allo scopo di preservare e difendere la vita individuale e
collettiva danneggiata dalla guerra,
stigmatizzando la protezione dell’ambiente naturale, gettando un ponte tra la
vita dell’esistenza globale detta soffio e quella degli esseri umani detta
yonre, il naso.
Il
Vescovo della diocesi di Bobo, Sanon, scrive in merito alla cultura
africana e la sessualità che gli organi
sessuali sono le porte della vita e che bisogna considerare e rispettare come
sacri il proprio corpo e il proprio partner. Vi è un legame fondamentale tra le
credenze e i comportamenti che legano sessualità, matrimonio, famiglia, amore,
vita e procreazione.
Per
Daniel Ilboudo, decano della facoltà di medicina tema fondamentale della
bioetica è la fase terminale della vita, in cui il paziente domanda al suo
medico altre cose al di là della salute quali il benessere sociale e morale,
molto di più di ciò che la ipocrita medicina ha per oggetto di dargli. Sono i
doloro morali che non si alleviano facilmente e devono essere oggetto di
modalità di accompagnamento ben precise quali sostegno morale e fisico, quale
elevata forma di solidarietà umana. Morire con dignità significa sentirsi
accettati dalla comunità dei vivi.
La
riflessione bioetica rappresenta una occasione di riscatto e di recupero dei
valori dell’Islam proprio nel campo dell’etica in cui la religione
islamica rivendica il primato su ogni
altra religione e cultura. Le caratteristiche del dibattito sulla bioetica concernono il contesto, la
prevalenza degli studi su singoli temi della bioetica a scapito di analisi
sullo statuto, sulle metodologie e sulle
distinzioni rispetto ad altre discipline, della bioetica islamica e i tentativi
di lettura critica.
L’Islam,
che comprende il 90% dei musulmani del mondo, non possiede una gerarchia
religiosa né una autorità suprema a parte quella riconosciuta ai principi e
alle norme presenti nella Svaria. Quando le Sacre Fonti non guidano
esplicitamente i fedeli dinanzi a nuovi problemi, costoro possono rivolgersi ai
dottori della Legge islamica e chiedere delle interpretazioni delle Fonti
attraverso l’emissione di Fatata o opinioni giuridiche. Nelle controversie tra
dottori le divergenze vengono risolte solo con il passare del tempo o con la
opinione prevalente che esprime il consenso dell’intera comunità. Attualmente
al fine di formulare posizioni rappresentative
della comunità su nuovi problemi ci si affida ai responsi di
congressi e conferenze pan-islamiche, il
cui valore è prevalentemente quello di una fatwa, opinioni giuridica
contestabile da altri soggetti giuridici. L’influenza dei giuristi risulta
prevalentemente limitata alla sfera morale mentre quella giuridica è materia
dei governi, i quali possono ignorare i pareri dei giureconsulti. La
riflessione bioetica nei paesi musulmani viene orientata da principi e criteri
tratti dal diritto musulmano e dall’etica medica. I criteri e principi
fondamentali sono la sacralità della persona umana, il principio giuridico di
necessità, il principio medico del male minore e il principio del beneficio
pubblico.
Per
l’Islam la vita è un dono divino da tutelare dall’inizio e sul quale l’uomo non
ha piena disponibilità. Tuttavia la difesa della vita e l’integrità della
persona non sono valori assoluti in quanto la pena di morte, la pena del
taglione e la fustigazione sono comminate dal Corano e dalla Sharia per determinati reati. La tutela
della vita della comunità islamica prevale su quella del singolo o sulla sua
integrità fisica. Il Codice Islamico di Etica Medica stilato in Kuwait nel 1981
afferma che la vita umana non deve essere mai tolta volontariamente se non nei
casi previsti dalla Sharia.
Il
principio giuridico della necessità rende lecito ciò che altrimenti sarebbe
vietato, mentre il principio medico del male minore riguarda l’obbligo di non
danneggiare o ferire il paziente se non per un superiore fine terapeutico
qualora l’intervento si renda inevitabile. Il principio del beneficio pubblico
antepone l’interesse della comunità a quello dell’individuo, con importanti
risvolti in ambito biomedico, non ancora approfonditamente rilevati.
Circa
la contraccezione sono indicate delle pratiche permesse ma contemporaneamente
biasimevoli perché il comportamento più adatto ad un credente è il matrimonio e
la filiazione. Attualmente la maggior parte dei giuristi sembra tollerare la
contraccezione se esiste il consenso della moglie e se gli strumenti
contraccettivi non causano danni a chi li utilizza né sugli eventuali figli.
Viene
sostanzialmente rifiutato l’intervento legislativo dello Stato qualora intenda
imporre un limite massimo di figli alle famiglie. A ciò si aggiunge il timore
che il controllo demografico sia stato elaborato in Occidente e imposto tramite
pressioni economiche ai governi
musulmani, proprio perché la componente fondamentalista propende per un aumento
della popolazione quale arma anti-occidentale facendo leva sul Corano. Essendo
dono di Dio i figli hanno diritto di crescere in condizioni dignitose, in caso
contrario è preferibile limitarne il numero.
Circa
il pericolo Aids i giureconsulti islamici insistono sulla prevenzione fatta non
attraverso l’uso di contraccettivi ma attraverso il ricorso alla castità
prematrimoniale e alla fedeltà matrimoniale.
Le
posizioni circa l’aborto sono più rigide e il problema consiste nello stabilire
quando comincia la vita umana. L’interpretazione storicamente più diffusa fa
coincidere la “creazione nuova”del brano cranico con l’infusione dell’anima al
centoventesimo giorno dalla fecondazione; ne consegue che la vita di ogni
creatura umana si articola in due periodi, uno privo dell’anima e l’altro
animato. Storicamente i dottori della legge accettano l’aborto terapeutico
affermando che la Svaria salva la madre in base a tre principi: ella è vita già
sviluppata e fonte di vita, in base al principio dell’albero e del ramo e sul principio
del male minore. Il significato di aborto terapeutico è flessibile in quanto
può riferirsi all’interruzione della gravidanza per salvare la vita materna,
può includere il solo desiderio di tutelare la salute della donna o evitare la
nascita di un feto con gravi handicap. Tutte le scuole giuridiche concordano
nel tenere in vita una donna gravida condannata a morte per gravi reati al fine
di portare a conclusione lo svezzamento. Altra scuola di pensiero, quella del
Comitato delle Fatawa, dichiara che
l’aborto è assolutamente illecito anche in caso di stupro o di adulterio,
tranne quando la vita della madre è in pericolo, tuttavia, molti giuristi
musulmani, tollerano l’aborto praticato nel periodo prima dell’infusione
dell’anima.
Per
ciò che concerne la procreazione artificiale la situazione in Islam è
complicata poiché, pur non essendo obbligatoria, la procreazione è una delle
finalità fondamentali del matrimonio, inoltre il Corano vieta l’adozione,
ritenuta un inganno nei riguardi del bambino circa i suoi legami genetici ed
ereditari. La sessualità è lecita esclusivamente tra coniugi mentre gli stati
scoraggiano, senza proibirla, la poligamia. Ogni rapporto sessuale
extraconiugale viene condannato dalla Sharia e, in quest’ottica, vengono solo
accettate le tecniche di fecondazione artificiale omologa sia in vivo che in
vitro, purché la tecnica non sia lesiva per la donna. La crioconservazione di
ovuli fecondati in eccesso sembra lecita a condizione che il gamete appartenga
alla coppia e possa essere trasferito nella moglie da cui proviene solo finché
è valido il matrimonio, che termina con la morta dello sposo o con il divorzio.
Nel 1991 si è tenuta la prima Conferenza Internazionale sulla bioetica della
procreazione umana nel mondo islamico al Cairo. Il documento conclusivo di
dichiara favorevole all’utilizzo di embrioni crioconservati e fa divieto di
ricerche a fini commerciali o comunque non mirate alla salute dell’embrione o
della madre.
Le
interpretazioni dei dottori della legge circa i trapianti d’organo si
inseriscono tra due estremi: i fautori della pratica del trapianto fanno riferimento a più principi, quello
della necessità, il principio del minore tra due mali e il principio del
beneficio pubblico. La donazione è considerata un dovere sociale verso la
comunità senza distinzione di religione tra donatore e ricevente. Nonostante
ciò parecchi giuristi conservano la preferenza per uno scambio di organi tra
musulmani per rafforzare la nazione islamica. Resiste una minoranza di
religiosi contraria al trapianto in genere ma soprattutto da cadavere: questo
orientamento è sostenuto dalla
concezione teologica che vede il Creatore come unico proprietario del corpo
umano di cui l’uomo non può disporre neppure per il bene del prossimo.
Il
problema della definizione della morte e dei criteri per determinarla è tuttora
aperto. Per i sanitari musulmani il criterio sempre più diffuso è quello della
morte di tutte le funzioni della neocorteccia e del tronco nonostante i criteri
di morte cerebrale espresso dai giurisperiti della Lega islamica riunitasi alla
Mecca nel 1987. L’Arabia Saudita rifiuta il consenso presunto del defunto se
non è attestato dalla donor card, in quanto la donazione di un organo è un
evento tanto importante da necessitare del consenso esplicito e responsabile
del donatore.
Circa
la clonazione umanai giudizi sono diversificati. Alcuni giuristi la ritengono
non vietata dalle Fonti Sacre dell’Islam. Per altri la clonazione può essere la
prova della resurrezione dei corpi alla fine dei tempi oppure della nascita di
Cristo senza contatto carnale. Per altri ancora è impossibile clonare l’uomo
perché la scienza non è in grado di clonarne l’anima e tale pratica è immorale
e satanica.
Uno
sceicco egiziano, Quaradawi, è
interessato alle conseguenze sociali e familiari della clonazione e, su queste
basi, esprime un giudizio negativo in quanto la famiglia e il matrimonio
rischiano di diventare inutili, la varietà tra gli esseri umani viene
compromessa e non è più segno distintivo della creazione divina e, a causa
dell’effetto fotocopia, il partner potrebbe non riconoscere più il partner
originale. Secondo lo sceicco il ricorso alla clonazione rimane tollerabile se
tutela la salute del feto o per
sconfiggere alcune patologie ereditarie. L’introduzione di un gene sano in
cellule somatiche è approvata dall’Islam se effettuata con finalità
terapeutiche. La chiusura verso qualsiasi utilizzo della clonazione e della
ingegneria genetica è netta. La manipolazione genetica è permessa solo
nell’ambito della microbiologia, della batteriologia, della botanica e della
zoologia solo nei casi di interesse collettivo approvati dalla Sharia.
Esiste
una notevole preoccupazione da parte di alcuni stati musulmani di diventare
terra di sperimentazione e di diffusione delle tecniche di clonazione praticate
da organizzazioni straniere.
Sgreccia
chiude gli interventi del Convegno sui Diritti della Persona nella prospettiva
bioetica e giuridica facendosi interprete di una attesa e di una speranza di
tutta la cultura mondiale : l’individuazione e la conoscenza dei principi, dei
valori e delle norme fondamentali, di validità concreta e universale,
necessarie e condivise per cui la vita umana possa continuare ed essere
rispettata di fronte alle varie modalità con cui la scienza, la tecnologia e
l’azione dell’uomo possano intervenire su di essa.
Sgreccia
si chiede il perché di tutto questo parlare di bioetica se non si va verso
proposte e fatti concreti e fa una riflessione sulla politica e sulle
legislazioni, poiché solo attraverso il biodiritto si può ottenere il consenso
e l’apporto della legge per rendere
efficace la disciplina bioetica.
Nei
Parlamenti le leggi sulla difesa della vita nascente o sul rispetto del morente
hanno tutte avuto formulazioni permissive, per un vago concetto di libertà e
per aumentare consensi politici, dove in un gioco tra minoranze e maggioranze,
le Costituzioni risultano gracili e inefficaci nella tutela dei diritti
inalienabili della persona e i problemi etici vengono ridotti a questioni
private, a causa dell’impostazione delle nostre democrazie a carattere
procedurale. Tale impostazione non è una
garanzia per i valori e, al momento, non presuppone sempre la
inalterabilità costituzionale dei diritti della persona.
Ancora
Sgreccia fa richiamo al vuoto etico delle correnti di bioetica più diffuse
ossia “il contrattualismo, il liberalismo etico e l’utilitarismo che portano a
giustificare il fatto compiuto, il profitto, l’interesse soggettivo
rappresentando la negazione di una morale dei valori oggettivi” . La speranza è
che la manipolazione dei concetti, quali ad esempio quelli di pre-embrione o di
terapia applicato ad azioni che non sono terapeutiche, non continui nel
tradimento dell’intelligenza e della verità. Sul piano etico “occorre
ristabilire la dignità della persona attraverso il personalismo ontologico” ,
poiché essa vale per ciò che è nella profondità della sua essenza e della sua
dignità spirituale e non per la “qualità di vita” intesa in senso
funzionalistico.
Per
Sgreccia, solo a patto che ci sia una ripresa filosofica realista e
personalista, la bioetica potrà evitare il vuoto e la delusione. La scienza
deve avere un profilo che ricerchi la pienezza dell’uomo e il rispetto della
dignità del bene di tutti e solo la presenza di una bioetica fondata veritativamente può impedire il
paradosso attuale: mentre si parla di bioetica
si constata l’abbandono e la vanificazione dei valori fondanti la vita
dell’intera umanità; sul piano giuridico “è necessaria la tutela e la
promozione dei diritti al di sopra di ogni contrattazione o compromesso” .
Nel
2000, anno giubilare, i temi dell’amnistia e dell’indulto sono tornati
violentemente alla ribalta nel programma politico oltre che nella coscienza
pubblica anche a seguito dell’intervento sul tema di Papa Giovanni Paolo II.
I
segni di clemenza delle Autorità, dimostrabili attraverso la riduzione delle
pene, e il rispetto per la dignità umana, restituito ai detenuti attraverso la
revisione del sistema carcerario e del diritto penale, sono stato oggetto del
messaggio del Sommo Pontefice per il Giubileo nelle carceri.
Circa
la nozione di amnistia e indulto è necessaria una breve introduzione, a causa
dei profondi significati giuridici e morali relativi all’applicazione dei
suddetti Istituti.
Una
legge costituzionale del 1992 ha sottratto gli istituto al potere esecutivo a
causa dell’abuso che se ne è fatto negli anni precedenti, attribuendone la
concessione alle Camere.
L’amnistia
è un provvedimento generale con cui lo Stato rinuncia all’applicazione della pena
per determinati reati e si distingue in amnistia propria, quando viene
proclamata prima che sia esaurito l’accertamento giurisdizionale del reato, e
amnistia impropria quando interviene dopo la sentenza irrevocabile di condanna:
ha effetto sui reati commessi fino alla data stabilita per la sua decorrenza
dalla legge che la concede.
Del
pari, l’indulto è un provvedimento di carattere generale ma opera solo
esclusivamente sulla pena principale che viene condonata o commutata in altra
pena, di diversa specie, consentita dalla legge. La sua efficacia è relativa ai
reati commessi al giorno precedente alla data del decreto .
Per
ciò che riguarda il sistema giudiziario l’amnistia potrebbe essere una “valvola
di sfogo” per il suo equilibrio; ciò che
fondamentalmente preme dirimere è il dibattito tra la funzione sociale
della pena e la sua funzione penale. Secondo alcuni, entrambi gli istituti,
poiché sottraggono senso e credibilità alle regole il cui rispetto diventa
opzionale e non fondamento della convivenza civile, potrebbero costruire un
circolo vizioso di illegalità diffusa; secondo altri potrebbero essere validi
strumenti per il reinserimento del detenuto.
Il
nostro legislatore è vincolato, da un principio etico, nell’impostare
l’esecuzione delle pene, dall’articolo 27 della Costituzione; esse non devono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato.
Le
Scuole moderne di diritto penale, a partire dal 1700, affrontano il problema
della scelta delle pene e delle modalità della loro applicazione.
La
Scuola classica nasce nell’ambito di un movimento garantista che porterà
all’affermazione del principio secondo cui nessuno può essere punito se non per
un fatto espressamente previsto dalla legge come reato e con pene dalla stessa
stabilite. Sotto la spinta dei vari movimenti di pensiero relativi alla scuola
classica nasce l’idea di penitenziario e il conseguente problema del
trattamento dei detenuti.
La
Scuola positivista fiorisce in Italia verso la fine dell’ottocento e i suoi più
illustri rappresentanti sono Lombroso, Ferri e Garofalo. Essa afferma che vi è
un assoluto determinismo nell’azione delittuosa per cui la pena, a scopo
terapeutico, si prefigge la difesa della società attraverso il trattamento
curativo del delinquente. Si pone il problema del trattamento penitenziario e
l’esecuzione della pena non potrebbe assumere altro significato se non quello
della vendetta della comunità nei confronti del trasgressore delle regole.
La
Scuola sociologica considera il delitto un prodotto sociale e quindi normale
poiché affonda le sue radici nella comunità; il controllo del crimine dipende
essenzialmente dai mutamenti della società. Il delitto, deplorevole, è un
fenomeno inevitabile in quanto parte di tutte le società sane.
La
Scuola radicale manifesta la tendenza ad escludere la validità della legge
penale e dei sistemi sanzionatori ad essa collegati, poiché i tentativi di
repressione sono autodistruttivi e potrebbero aumentare le devianze.
Il
fine ultimo del trattamento rieducativi del condannato è quello di procedere ad
una osservazione che permetta l’individuazione della natura dei soggetti e dei
caratteri dei possibili interventi rieducativi quali il disadattamento,
l’antisocialità e la delinquenza. Ci si auspica di porre in essere trattamenti
rieducativi con il fine di modificare socialmente ed eticamente la personalità
del detenuto, rimuovendo le cause del comportamento criminoso e dotando il
soggetto della capacità di adeguarsi all’etica giuridico-sociale per un congruo
reinserimento nella società .
La
attuale situazione nelle carceri italiane è preoccupante a causa del timore che
possa sfuggire dal controllo degli operatori. Si lamentano enormi disagi che,
legati al degrado morale, economico, logistico, sanitario e sociale, portano a
disattendere l’articolo 27 della Costituzione repubblicana. L’amnistia e
l’indulto determinerebbero una diminuzione numericamente significativa della popolazione carceraria con la conseguenza
di un notevole vantaggio economico oltre che un aumento della vivibilità sia
per i detenuti che per gli operatori. Il rischio è che molti detenuti, messi in
libertà a seguito del provvedimento, potrebbero tornare a commettere reati con
grave pregiudizio economico e sociale per l’intera collettività.
Alcune
valutazioni etico-giuridiche circa l’applicazione e la concessione degli istituti giuridici
dell’amnistia e dell’indulto sono necessarie anche ai fini del discorso
sulla bioetica. Nasce l’esigenza del
biodiritto al fine di poter valutare con cognizioni di causa i diritti
fondamentali, i valori irrinunciabili di cui l’essere umano è titolare,
attraverso la valutazione degli aspetti giuridici-pratici e dell’aspetto etico
del problema, sollevato dalla richiesta di concessione dei provvedimenti di
amnistia e indulto. In conclusione ci si auspica che tali e tanto discussi
provvedimenti non si trasformino in strumenti d’emergenza, intrisi di colori
politici. Il dibattito dovrebbe essere finalizzato alla tutela dei diritti e
della dignità delle persone recluse e delle loro vittime, alla tutela del
potere statale e delle migliori scelte di politica giudiziaria e penitenziaria
e ad interventi riabilitativi per la persona e la tutela dei diritti della
comunità.
Le
frontiere attuali della bioetica possono
venire identificate in almeno sette punti: esse sono la difesa dell’ecosistema,
il coinvolgimento della ricerca pubblica, la questione delle moratorie da
infliggere per le sperimentazioni indiscriminate, la sconfitta delle malattie
infettive incurabili, l’accantonamento dei metodi di ricerca discutibili sul
piano etico, la regolazione chiara e condivisa delle politiche demografiche e
non ultimo il problema dell’aumento della povertà ai limiti della
sopravvivenza. Si va configurando una Global Bioethics.
In
merito alla brevettabilità e difesa dell’ecosistema si stanno muovendo alcuni
passi verso una elaborazione legislativa in cui le biotecnologie sono le
priorità di tutti i documenti di programmazione economica europei.
La
causa di questa rielaborazione è dovuta anche ad una presunta inadeguatezza
della base giuridica della Direttiva europea n. 44, del maggio 1998 sulla brevettabilità delle
innovazioni biotecnologiche, e della presunta violazione del principio di
sussidiarietà della certezza del diritto internazionale europeo e dei brevetti
da parte della stessa Direttiva. Appare opportuna una attenta valutazione che
direttamente riguardi la ricerca e la sperimentazione scientifica, pubblica e
privata, per la valutazione delle conseguenze pratiche e le valenze effettive
sul piano bioetica.
Il
rigore scientifico e l’etica della ricerca sono intimamente interconnessi e
interdipendenti; l’U.E. ha indicato la necessità di creare un organismo
scientifico che sia responsabile dell’applicazione di una procedura trasparente
e attendibile per la valutazione degli organismi geneticamente modificati. Per
ciò che concerne la brevettabilità di un gene umano persistono delle ambiguità
circa le stesse definizioni di “materiale biologico” e “procedimento microbiologico”
.
Lo
statuto giuridico dell’embrione umano è uno degli argomenti più controversi sia
per la bioetica che per il biodiritto.
Tutti
i maggiori organi nazionali e sovranazionali si sono attivati per riflettere
giuridicamente in tema di fecondazione artificiale umana e di manipolazione
genetica.
La
giurisprudenza costituzionale europea, prestando attenzione ai diritti della
persona studiati sulla base delle decisioni
di otto paesi dell’Unione, trai quali Italia, Francia, Spagna,
Portogallo, Germania, Austria, Polonia e Ungheria, sembra essere una comune e
complessiva realtà, anche se registra notevoli differenze e reciproche influenze. Gli elementi comuni
ravvisati sono tre: la tendenziale preferenza per il regime di “indicazioni”
rispetto al principio di autodeterminazione della donna, la mancanza di
negazione dell’umanità del concepito e la riflessione costituzionale europea.
Le
giurisprudenze europee sono tolleranti nei confronti della legalizzazione
dell’aborto su indicazioni ma non della
libertà di decisione della donna di interrompere liberamente la gravidanza.
In
nessuna decisione europea si sostiene che il concepito non è un essere umano .
Anche la Convenzione sui diritti del bambino quando si riferisce al bambino in
fase prenatale lo indica come titolare di un vero e proprio diritto alla vita.
L’inquietitudine
delle giurisprudenze europee nasce dal dilemma tra il salvare le decisioni
parlamentari e il non voler rinunciare ai principi di dignità umana e di
uguaglianza che costituiscono l’aspetto più alto e moderno della cultura
giuridica. La massima difesa del diritto alla vita è consegnata nelle mani
della razionalità giuridica della giurisprudenza costituzionale europea.
Vico
ci fa opportunamente rilevare che “si è
aperta e continua a dilatarsi l’età dei diritti
il cui requisito fondamentale sta nel fatto che l’uomo afferma di non
essere un puro dato e riconosce che un infinito cammino di senso si realizza in
lui.., comportando apertura agli altri, partecipazione e modalità nuove di
responsabilizzare se stesso e gli altri intorno al problema vita”.
E’
molto evidente l’intensificarsi del rapporto bioetica- scienze dell’educazione,
soprattutto per ciò che concerne l’attenzione alla formazione bioetica degli
operatori sanitari e delle loro coscienze, che non può prescindere dal
privilegiare i diritti umani. Molte
delle tematiche affrontate dalla bioetica nascono nell’ambito della biomedicina
e, quindi, i primi ad essere interpellati nei loro doveri e responsabilità sono
i ricercatori, gli scienziati, i medici e gli operatori sanitari in genere. La
bioetica si pone come momento chiarificatore, unificatore e integrativo della
professione sanitaria, perché spinge verso al chiarezza etica circa il
comportamento professionale da assumere, perché è il punto di incontro
unificatore di varie specialità in medicina e perché guarda alla realtà in
prospettiva ontologica e assiologica.
La
sfida comune ai diritti umani e alla
bioetica è quella di tutelare l’inviolabilità della dignità di ciascun essere
umano, sul territorio della vita che inizia, che soffre, che muore venendo
manipolata, selezionata, usata, emarginata.
Il
principio dell’alleanza terapeutica ha portato alla considerazione del paziente
come soggetto attivo della propria vicenda diagnostica-terapeutica, come
eloquente forma di una autentica cultura della vita in cui scienza e tecnica,
sganciate dalla riflessione etico-filosofica e dalle ricadute educative e
culturali, siano in grado di indicare da sole una “nuova cultura della vita”
che abbia da attingere nella persona, quale portatrice di valori e diritti, la
sorgente alla quale attingere orientamenti, obiettivi e traguardi.
Alle
Scienze dell’Educazione va il compito di informare, educare e formare gli
educandi nelle loro coscienze, comportamenti e scelte rispettose della persona
mentre non sono da trascurare le interdisciplinarietà relative ai documenti
giuridici internazionali che hanno ricaduta sulle professioni sanitarie.
Clemente,
alla luce delle interpretazioni date in materia di Sociologia della salute , ha
esaminato gli atti relativi al processo di formulazione dell’art. 32 della
Costituzione italiana durante le assemblee della Costituente . Il diritto alla
salute, collocato nel Titolo “Rapporti etico-sociali”, è stato recepito nella sua pienezza di diritto
fondamentale da tutti gli schieramenti politici, con le loro diverse culture
solidaristiche cristiano-cattolica, comunista e socialista, come elemento
unificatore “nell’atto di costruire una casa nella quale tutti devono
ritrovarsi ad abitare insieme”. La tutela della salute implica, anche per sinteticità costituzionale
la prevenzione della malattia.
Nella
Roma antica una norma sintetica citava: salus pubblica suprema lex. La
questione è umana e medica, “troppo ampia e pericolosa e delicata per essere
trattazione della Costituzione”.., .. così come “il rapporto tra medico e
ammalato, sia per carattere tecnico che per sua stretta colleganza
all’organizzazione sanitaria, dovrebbe essere rinviata ai compiti legislativi
dello Stato” .
Il
timore, di alcuni membri della Costituente, che lo Stato Italiano si avvii
verso una struttura decentrata regionalistica dove, in assenza di un organo
centrale coordinatore e autonomo che disciplini
la complessa e delicata materia sanitaria in via normativa, il principio
unitario dell’indirizzo sanitario potrebbe subire le influenze negative di un
decentramento amministrativo e di un decentramento normativo, pericoloso per la
tutela di un principio-base essenziale per la tutela della salute pubblica.
Emerge
l’importanza del rapporto tra medico e ammalato, per il rispetto della volontà
di scelta del malato e della libertà di esercizio professionale del medico,
tuttora dibattuto tema in materia di bioetica, biodiritto e biomedicina che
“imponeva, al tempo della Costituente, “il dovere di avere il coraggio
consapevole e mediato di mirare ad un ordinamento nuovo.. attraverso
l’eliminazione di tutte le disparità e le disuguaglianze fra i cittadini” .
L’orientamento degli emendamenti e dei
discorsi Parlamentari mirava ad individuare, assieme al diritto del cittadino
anche il suo dovere di collaborare con la collettività promuovendo tutti i
mezzi e le iniziative necessarie per
tutelare la sua stessa salute, poiché un individuo malato o minorato nelle sua
capacità fisiche e intellettuali, indubbiamente non è più un uomo libero.
Inoltre “nessuno”, secondo il testo dell’art. 32-secondo comma, “può essere
obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La
legge non può in nessun casi violare i limiti imposti dal rispetto della
personalità umana”.
A
tal punto “sarebbe necessario individuare dei punti di contatto, di
discontinuità e di corrispondenza con il dibattito interno alla
sociologia” della organizzazione
sanitaria, per tracciare un excursus storico-legislativo del sistema sanitario
che ci permetta di comprendere il tipo e il grado di influenze delle teorie
micro e macro sistemiche in sociologia e delle diverse culture bio-mediche.
Il
paradigma bio-medico ad impianto meccanicistico-scientista è l’approccio
dominante nel sapere medico-sanitario. E’ definito “modello meccanico poiché
considera il corpo umano una macchina..”; è detto “scientista perché afferma
che la malattia va trattata come se fosse indipendente dal comportamento
sociale, così come le deviazioni comportamentali, la cui origine sarebbe solo
di natura somatica, anche se disturbata ”. Tale approccio ha avuto come
implicazioni principali il trascurare gli aspetti psicologici, ambientale e
sociali della malattia, ignorando l’autocoscienza, la capacità di
autoriflessione e l’autonoma capacità di decidere ciò che si ritiene importante
nella vita.
Il
modello sociale in medicina si sviluppa
a seguito di bonifiche di malattie diffusive nelle campagne, nelle fabbriche,
negli insediamenti popolari urbani derivanti da habitat insalubri e povertà. La
medicina epidemiologica ha accertato numerose correlazioni statistiche tra la
speranza media di vita alla nascita e alcune situazioni sociali e
psico-ambientali. Lo status sociale, il livello di istruzione, il livello di
fiducia e autostima, la marginalità e i traumi da rottura di relazioni umane
primarie sono le principali variabili considerate dagli studi di medicina
sociale.
Il
modello neo-scientista è quello attualmente più criticato e utilizzato dalle
scienze naturali e artificiali, le importanti scoperte scientifiche della
biologia della fisica e della matematica sono strettamente correlate alle
scienze dell’artificiale quali la bio-fisica e l’ingegneria molecolare. Lo
scopo comune è quello di indagare e proporre soluzioni medico-scientifiche in
ambiti bio-etici e medici quali ad esempio la chirurgia dei trapianti d’organo,
la chirurgia protesica artificiale, la mappatura del genoma umano e le ricerche
sulle terapie geniche.
Partendo
dal dibattito della Costituente circa l’art. 32 della Costituzione, dalle
impostazioni culturali biomediche e dalle teorie sociologiche sulla salute si
rendono evidenti delle conclusioni generali in materia di salute sociale. La
tutela della salute è un diritto fondamentale del singolo ma riveste importanza
generale per la società, è un principio da tutelare in quanto funzione più
importante dello Stato e suprema Lex della Repubblica. Sostenitori di tali
verità sono stato Emile Durkheim e Talcott Parsons nelle loro riflessioni
sociologiche, macro-sistemiche sulla società e i suoi processi, considerando
gli attori sociali e la società stessa come direttamente proporzionali nelle
loro interazioni, individuando correlazioni positive in cui gli atti sociali
sono organizzati in sistemi sociali di riferimento. Parsons, ne Il Sistema
sociale, affronta il problema della salute con riferimento ai pre-requisiti
funzionali del sistema sociale. Per Durkheim, ne Le Regole del Metodo
sociologico, la salute di un popolo è effetto dell’integrazione sociale ad
opera di una cultura vivente entro l’intero corpo sociale.
Nella
tutela della salute è implicita anche la prevenzione, di cui ogni individuo ne
ha oltre che diritto soggettivo anche dovere giuridico, al fine di rispettare
la stessa collettività che ha interessi di controllo sociale della malattia
anche in termini economici.
Per
le teorie micro-sistemiche in sociologia un importante considerazione è da fare
in merito alla teoria dell’agire sociale di Max Weber. Come applicazione del
suo insegnamento alla sociologia sanitaria è necessario partire dal consiglio
di bilanciamento tra le due azioni
sociali (di tipo tradizionale o razionali e di tipo affettivamente orientate),
al fine di riconoscere i limiti di azioni a dominanza solo
valoriale-intenzionale e azioni solo a dominanza razionale-strumentale. Per le
teorie microsistemiche il problema salute pubblica viene analizzato attraverso
la comprensione dei fenomeni sociali privilegiando gli aspetti soggettivi e
intersoggettivi. Anche Goffmann, ne La vita quotidiana come rappresentazione,
analizza la vita quotidiana di relazioni sociali all’interno di standards
secondo i quali gli attori sociali e i loro prodotti verranno giudicati più o
meno aderenti a ruoli predefiniti. E “l’armonizzazione tra ruoli a carattere
personale non è sempre fattibile, poiché è possibile arrivare a situazioni in
cui la forza costrittiva, nella fattispecie delle istituzioni sanitarie per
malati mentali,arrivino a schiacciare istituzionalmente la variabile persona,
per esaltare e regolare solo il ruolo dell’infermo mentale” .
Con
Achille Ardigò si è arrivati all’orientamento metodologico compositivo che ha
preso coscienza della non piena comprensibilità dei fenomeni sociali nelle
società complesse attraverso singole teorie esclusivizzanti di micro o macro
analisi sociologica.
Circa
l’uguaglianza fra tutti i cittadini e il diritto all’assistenza sanitaria
citato nell’art. 3 della Costituzione italiana, la riflessione attuale e che la
salute viene trattata come un bene meramente economico in un contesto, quello
dell’aziendalizzazione del sistema sanitario, regolato da leggi simili a quelle
del libero mercato; quindi c’è il pericolo che qualcuno venga leso nel suo
diritto sociale-costituzionale e fondamentale alla salute e quindi anche nella
sua libertà di cittadino. L’importanza della comunicazione empatica alla base
del rapporto terapeutico è un altro tema fondamentale della biomedicina,
chiamata doverosamente a dare il suo contributo con modelli sociali, centrati
sul piano del dialogo nel rapporto tra operatori sanitari e pazienti non
dimenticando la cruciale importanza delle relazioni umane che legano i soggetti
al contesto famigliare e sociale.
Hans
Jonas, partendo da un punto di vista analogo a quello di Potter, prende in
considerazione il potere della tecnologia in quanto minaccia per il futuro e la
sopravvivenza dell’umanità. Privitera ci parla della vita e dei comportamenti
umani che, “direttamente o indirettamente si ripercuotono, oggo o nel futuro,
sulla vita, intesa come fatto biologico o come valore dell’antropos” . La
bioetica si propone di scoprire nel meccanismo della vita quel minimo comune
denominatore che si realizza in tutti i viventi e che li separa da tutti i
viventi; essa non è caratterizzata solo dalla “riflessione sulla vita dell’uomo
e sulla salvaguardia dell’umanità ma anche da uno sguardo ampliato alla
biosfera, cioè ad ogni intervento scientifico dell’uomo sulla vita in genere” .
Jonas prende in considerazione l’accresciuto potere della tecnologia
esaminandone le eventuali minacce per la sopravvivenza dell’umanità, muovendo
da una analisi simile e quella di Potter.
L’umanità
ha il diritto-dovere di sopravvivere e, a tal fine, occorre che venga fondata
una nuova etica del futuro basata sull’esame delle conseguenze, sulle
generazioni future, degli interventi umani sulla biosfera.
In
Organismo e libertà Jonas esamina la
riformulazione dell’ontologia a partire dal ricambio metabolico e/o organico
dell’evoluzione anomale, in gradi fisici e psichici sempre più elevati fino a
giungere all’uomo. A tal merito Ricoeur ha parlato di una vera e propria
filosofia della biologia, elaborata in chiave antidarwiniana e
antiriduzionista, attraverso la quale si elabora un percorso dell’organismo
verso la libertà e la vita afferma categoricamente se stessa. Si recupera la
nozione di fine che rivela una gerarchia tra tutti gli esseri viventi, in cui
ci sono ovunque tracce di intenzionalità e interiorità. Jonas invita a
comprendere il meno evoluto -l’ameba- alla luce del più evoluto -l’uomo-
permettendo alla filosofia della vita di
spaziare dall’organismo alla mente. “Se dovessimo usare il linguaggio
dell’ontologia, potremmo dire che, partendo da quanto afferma Jonas gli
organismi sono entità il cui essere è il loro fare. Il che significa che essi
esistono solo in virtù di quello che fanno e questo nel senso più radicale” .
La
vita animale introduce ulteriori differenziazioni di questa iniziale forma di
libertà, attraverso le modalità della percezione, dell’emotività e della motilità. Tra animale e uomini ci
sono differenze non solo sul piano della libertà, della razionalità e della
metafisica, ma anche la teleologia del mondo animale è diversa da quella
dell’uomo, poiché l’animale persegue il suo scopo in modo lineare, orizzontale
mentre l’uomo ha la possibilità di prefiggersi degli scopi e di sceglierne, liberamente
e coscientemente, uno tra tanti in quanto responsabile della scelta che compie
di fronte a sé e agli altri esseri.
Jonas
afferma che “ogni scopo è un bene in sé ed è bene che ogni essere vivente
raggiunga il proprio a condizione che ci sia la vita, scopo superiore di tutti
gli scopi”. Con ciò vuole dimostrare che la natura custodisce i valori in
quanto custode degli scopi e che il finalismo della natura risulta essere
l’unico fondamento di una nuova etica del futuro. Per Jonas non si può fare etica
se l’essere è concepito in senso svalutativo e ateleologico. Il dover essere
che l’uomo è chiamato liberamente a realizzare è già insito nell’essere e, in
forza dell’appartenenza dell’uomo all’essere, ciò che è bene per questo lo è
anche per il primo”. Secondo l’interpretazione di Jonas da parte di Furiosi “è
più che mai urgente una formulazione di un’etica del futuro che sappia
giustificare razionalmente e oggettivamente regole, indicazioni condivisibili
da tutti ma che sappia anche distaccarsi dall’etica tradizionale, ormai
insufficiente a rispondere alle problematiche dell’uomo contemporaneo” .
Partendo da un ontologia dell’essere Jonas gli riconosce valore e senso. Da ciò
nascono degli imperativi fondamentali dell’etica della responsabilità per l’uomo
contemporaneo: l’umanità deve esistere e deve essere così, assicurando la
qualità della vita attraverso il rispetto dell’integrale realizzazione di ogni
vivente nella sua condizione di vulnerabilità e precarietà.
La
responsabilità umana spazia dall’ambiente alla salute, dall’economia alla
politica ed è fondamentale analizzare varie problematiche etiche emergenti
dall’impiego delle biotecnologie alla luce delle scelte politico-governative e
dei rapporti tra potere economico e progresso scientifico. L’etica di Jonas è
ontocentrica poiché mette al centro di tutta la speculazione l’essere nelle sue
diversità e indica nell’euristica della paura una terza via per l’agire
dell’uomo. Alla paura viene attribuita una valenza pedagogica poiché ha la
capacità di mobilitare l’attenzione al carattere irreversibile e cumulativo
della tecnica, impedendo “il tutto per tutto nelle faccende dell’umanità” ,
poiché solo chi vede nell’essere un valore primario da rispettare accetta la
rinuncia al potere incontrollato per fini utilitaristici.
Il
traguardo della responsabilità è l’aprirsi a favore di una dimensione che la
trascende rendendola possibile.
La
Società Internazionale di Bioetica (SIBI)
ha esaminato la bioetica come conseguenza della necessità di assicurare
il rispetto della dignità dell’uomo, minacciato o aiutato dai risultati della
ricerca scientifica. A seguito della mappatura del genoma umano, delle
manipolazioni genetiche e della terapia genica si sono raggiunte delle
conoscenza che avranno la possibilità concreta di intervenire in malattie gravi
e sulla stessa durata della vita.
Una
dichiarazione del Comitato scientifico del CIBI afferma che le bioscienze e le
nuove tecnologie devono seguire al benessere del genere umano, sviluppandosi in
tutti i paesi, per consentire una pace mondiale ed evitare le guerre nel
rispetto e nella conservazione della natura. La bioetica è una attività
scientifica pluridisciplinare che ha il compito di armonizzare scienza,
tecnologia nell’applicazione dei principi e dei valori etici delle convenzioni
e dichiarazioni internazionali, producendo conoscenze obiettive senza
esplicarne le finalità.
Il
termine bioetica fu coniato nel 1971 da Potter unendo la radice bio che
simboleggia i fatti biologici e il suffisso etica che simboleggia i valori
etici creando una nuova scienza della sopravvivenza che avrebbe dovuto
combattere i pericoli creati dal progresso scientifico nei confronti
dell’umanità. Reich, definendo la bioetica come “lo studio sistematico della
condotta umana nel campo delle scienze della vita e della salute esaminata alla luce dei valori
e dei principi morali”, ha ulteriormente ampliato la definizione.
In
molti paesi manca l’insegnamento della Bioetica a livello universitario ad
eccezione per le facoltà di medicina sotto forma di deontologia del medico, e
nelle facoltà di biologia e filosofia. Non vengono divulgate sufficientemente
le informazioni generali concernenti le scoperte scientifiche, i problemi delle
biotecnologie e della verità in ordine alla sicurezza dell’uso delle medesime.
Gerin si riferisce alla Convenzione di Montreal sulle biotecnologie e al
Protocollo di Cartagena, in cui sono state stabilite delle norme relative
all’emanazione di documenti speciali di trasporto e di uso che contengono le
indicazioni necessarie che evitino danni a causa del prodotto modificato
geneticamente ivi inserito.
Vi
sono correnti diverse che riguardano l’innocuità del prodotto o il pericolo
dell’uso dei prodotti biotecnologici. In merito alla brevettabilità del genoma
umano si spiega che non è brevettabile poiché il genoma è una parte del corpo
umano, patrimonio dell’umanità.
Si è
anche parlato di autonomia e di rispetto della singola persona, della sua
identità e specificità, mentre vengono riconfermati i principi del consenso
informato e del migliore trattamento
medico possibile, che riguarda l’accordo
tra medico e paziente in ordine al
trattamento da usare nel singolo caso.
Per
ciò che concerne la riproduzione umana assistita molti stati europei hanno già
delle leggi che ammettono la riproduzione in vitro. L’orientamento comune della
Commissione delle Comunità Europee è quella di limitare le tecniche di
riproduzione assistita ai casi di sterilità della coppia quando manchi
qualsiasi altra terapia che garantire la discendenza nelle famiglie che non
sono in grado di procreare. Vi è negazione della clonazione umana e necessità
di pervenire il prima possibile alla definizione dello status dell’embrione ,
poiché si tratta della tutela della persona in fieri, ancora non nata, che non
ha modo di difendersi se non esiste una convenzione che la tuteli. Non è
consentito il commercio di organi umani e vi è la necessità di analisi cliniche
prima di pervenire ad una possibile attuazione degli xenotrapianti.
Attualmente
è di primaria importanza la necessità di pervenire ad una comune indicazione
del significato di dignità umana, analizzando e approfondendo le differenti
concezioni etiche e culturali nell’ambito della ricerca sull’uomo evitando
confusioni tra scoperte e invenzioni.
La
letteratura viene intesa da Giardina e da Mele come esperienza di vita , la
strada più completa per la conoscenza di noi stessi. Può essere una “misura
della coscienza e della memoria del nostro spirito e, assieme, ricerca metafisica e trascendente, poiché il
valore dell’opera resiste allo scorrere del tempo, veicolando ideali morali al
di fuori delle contingenze umane” . A tal fine “la letteratura è sicuramente un
valido strumento d’indagine conoscitiva che, attraverso il confronto con altre
discipline può incamminarsi verso un terreno comune a tutte: la valorizzazione
della vita umana”. Calvino rafforza questa tesi nelle sue Lezioni Americane
definendo alcuni valori, qualità e specificità della letteratura per recuperare
i valori in declino della civiltà contemporanea.
La
letteratura, in quanto esperienza morale, propone diverse soluzioni ai problemi
dell’agire umano, etico e religioso. E’ in questo contesto che avviene
l’incontro fra la letteratura e la bioetica, che adotta il senso del limite, da
apprendere cognitivamente e da vivere nella vita attraverso la conflittualità
del mondo psichico e la interiorità della persona. L’educazione alla bioetica
avviene attraverso lo studio e la definizione dell’agire morale e della vita
etica.
L’esperienza
di vita viene trasmessa al lettore attraverso l’empatia che il testo suggerisce
creando una sorta di comunione affettiva in seguito al processo di
identificazione. In tal senso la “letteratura è una forza attrattiva,
rivelatrice, comunicativa, persuasiva del cuore e della ragione ed è in grado
di condurre l’uomo verso il ragionamento etico”
e può facilitare la riflessione teorico-morale, afferrando il lettore e
immergendolo nel flusso di un’altra vita creando l’illusione di averla vissuta.
Tale coinvolgimento è di fondamentale importanza in materia di Bioetica.
Reich
evidenzia il modo in cui i testi letterari accedano all’etica medica
evidenziandola e chiarificandola attraverso l’empatia suscitata nel medico o la
focalizzazione di un caso clinico. La letteratura porta ad “umanizzare la
medicina ed i pazienti accorciando le distanze tra gli uomini”, attraverso
l’uso di “termini più familiari e umani che ci offrono sollievo di fronte alla
soffocante neutralità del linguaggio scientifico”, ricordandoci che “la scienza
è parte di una cultura più ampia” .
La
bioetica personalista, ontologicamente fondata, si rivolge alla persona nella
sua totalità di corpo e spirito e nel suo racchiudere tutto il valore
dell’umanità e tutto il senso dell’universo. Esempio letterario ne è l’Antigone
di Sofocle da cui emergono i valori etici a seguito di un conflitto interiore
tra legge divina e umana. L’arte si sofferma alla comunicazione di valori e
sensazioni estetiche e la scienza bioetica va oltre gli elementi descrittivi e
quantitativi per recuperare la Verità che tutto trascende contribuendo al saper
essere dell’agente morale: ecco il punto di incontro tra la letteratura e la
bioetica. L’uso della letteratura nell’insegnamento della bioetica è utile per
recuperare l’aspetto umano della medicina e i tradizionali valori umanistici
dell’ars medica, troppe volte trascurati a favore di un determinismo stretto.
Il sensibilizzare l’attenzione agli aspetti umani della morte e del morire
produce empatia, “partecipazione affettiva, sincera e immediata alla sofferenza,
ai problemi e alle preoccupazioni dell’altro, visto non come un paziente o un
caso clinico ma come una persona”. Il medico deve saper comunicare e non
semplicemente informare: il paziente deve poter sentire la sua
compartecipazione emotiva e deve sentirsi aiutato nella sua disperata ricerca
di senso. Anche lo studente che affronta le tematiche della bioetica può
esserne aiutato nella comprensione dall’uso del testo letterario per cogliere
le analogie con la vita reale, per le immagini e le sensazioni che sa creare
nello sviluppare una consapevolezza della condizione umana. Concludendo si può
affermare che, se la medicina è l’arte del saper fare, la bioetica, che si
avvale della capacità letteraria dell’empatia, è l’arte del saper essere.
Ne
il Principio Responsabilità Hans Jonas
afferma che le nostre azioni di oggi sono responsabili di coloro che
ancora non esistono, fondando un’etica per le generazioni future che “sia
disposta a sacrificare qualcosa del presente per salvare il futuro dell’uomo sulla
terra”. La scienza è diventata lo
strumento per stabilire il dominio sulla natura non umana, per sfruttarla e
assoggettarla all’uomo; si rende necessaria una riflessione sulla compatibilità
etico-sociale degli interventi
tecnologici, in mancanza di condivisa moralità
e argomentazioni al riguardo, che non siano soltanto descrittivi ma che
tengano conto delle partecipatività insite nella natura e nell’umanità.
All’orizzonte
antropocentrico deve essere contrapposta “un’etica che non è più limitata dalla
reciprocità e dalla contemporaneità dell’obbligazione” e che quindi sia “capace
di fare del futuro dell’umanità l’oggetto di preoccupazione prevalente”,
richiedendo anche un “nuovo genere di umiltà” dell’uomo dovuta “all’enorme
grandezza del suo potere” . E’ opportuno ricercare non solo il bene dell’uomo
ma anche il bene delle cose extraumane limitando il politeismo etico delle
società contemporanee. La Bioetica si pone come quella disciplina che attua un
“momento di scelta etica all’interno di realtà sociali divise per valori” .
“Il
mutamento quantitativo dell’azione umana porta in realtà ad un mutamento
qualitativo dell’azione che ha per oggetto il mondo intero nella sua globalità
e la permanenza della vita umana sulla terra”. “La tecnica ha finito con il
rendere oggetto il suo stesso autore”; ha prodotto uno squilibrio esistenziale
della natura e, se ha dato all’uomo il senso dell’onnipotenza, ha anche
sottolineato la limitatezza della conoscenza e l’incapacità di dominare
cognitivamente e responsabilmente il potere acquistato.
Parafrasando
Agazzi, “non è moralmente legittimo tutto ciò che è tecnicamente fattibile”. La
nuova etica di cui parla Jonas è caratterizzata da una responsabilità per
l’esistenza o responsabilità del prendersi cura, simile a quella che hanno i
genitori verso i figli. Secondo Wolf solo “l’utilitarismo riconosce
esplicitamente il problema delle generazioni future”.
Il
notissimo dettato kantiano “agisci in modo da considerare l’umanità sempre come
fine e mai come mezzo” può essere riletto attraverso l’ottica ontologica di
Jonas come “agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano
compatibili con la permanenza di una autentica vita umana sulla terra”. Il
nostro dovere verso le presenti e le future generazioni nasce dal rapporto costitutivo che lega la
coscienza all’essere, al rispetto della natura umana quale bene indisponibile
da tutelare; è una sorta di testamento spirituale dell’uomo di oggi per l’uomo
del domani.
“I
mutamenti culturali sempre più veloci, la mondializzazione, le nuove
biotecnologie, le scoperte di una scienza sempre più insofferente a qualsiasi limite,
caratterizzano la nostra epoca e si susseguono a ritmi incalzanti e senza
ormeggi etici” . Attualmente l’uomo può intervenire sia sulla vita nascente che
su quella morente non accettando più la natura come destino immodificabile ma
interpretandola come insieme di possibilità. L’arma essenziale per frenare la
deriva del nostro futuro è l’etica del limite che Spinsanti individua
nell’”incontro tra bioetica e personalismo”. Assistiamo al primato della
ragione strumentale sulla saggezza pratica e la attuale importanza della
bioetica trova sua ragion d’essere nella coniugazione tra poter fare e dover
fare. Dalla tecnica fine a se stessa sta emergendo la nuova realtà del
post-umano, popolato da inquietanti forme di vita. L’alternativa di scelta che
l’uomo ha oggigiorno è bipolare: tecnica fine a se stessa, soddisfattrice dei
bisogni consumistici o progetto di vita che vede l’uomo al centro del Creato
con un senso e un valore dell’esistenza. “La bioetica è quella parte della
filosofia morale che considera la liceità.. degli interventi sulla vita
dell’uomo e, particolarmente di quegli interventi connessi con la pratica e lo sviluppo delle scienze mediche e biologiche.
L’antropologia personalistica non può essere ideologica: la persona umana
rimane una grandezza che trascende, nel mistero della sua libertà e
responsabilità, anche lo sforzo di autocomprensione e rimane il fine, e non il
mezzo, dell’agire etico”. Secondo Sgreccia le dimensioni scientifica,
antropologica e giuridico-antropologica compongono il triangolo che configura
il giudizio etico. La fondamentazione
della bioetica in quanto scienza, attraverso la definizione di concetti comuni
a persone provenienti da diverse esperienze culturali, è un tema di enorme
importanza, almeno attraverso l’enunciazione dei tre principi laici di
autonomia, beneficenza e giustizia dell’agire morale.
Le
statistiche mondiali sull’aumento della vita media della popolazione registrano
un aumento del fenomeno dell’invecchiamento
che non ha precedenti per la sua estensione e velocità, con altrettante
conseguenze socio-politiche e di responsabilità per i Governi. Le
trasformazioni sociali della famiglia hanno provocato l’impoverimento e
l’emarginazione dell’anziano, in quanto depositario di un sapere non più
spendibile in senso pedagogico all’interno del nucleo familiare, ormai
frantumato dai cambiamenti tecnologici in atto.
La
medicina ha creato la geriatria per far fronte alle esigenze assistenziali di
una larga fetta della popolazione mondiale. Essa si occupa della ricerca e del
raggiungimento di una buona qualità della vita intesa come la conservazione dei
principali parametri biologici ma anche delle motivazioni, interessi,
creatività e spiritualità, necessarie alla pienezza dell’esistenza umana.
Sarebbe auspicabile che a tutto ciò si accompagnasse una corretta educazione
all’invecchiamento capace di contrastare il processo di distacco dall’ambiente
e la perdita degli interessi vitali.
Per
misurare la qualità della vita degli anziani sono state predisposte delle scale
di misura che riguardano lo stato fisico e la capacità funzionale, lo stato
psicologico e il senso del benessere, le interazioni sociali e i fattori
economici ed i fattori etici-valoriali globali. L’elemento utilitaristico, di
tale visione della qualità della vita, si inserisce quale valutazione del
recupero della produttività e dei costi economici che l’anziano comporta alla
società, e viene rafforzato dal principio di autonomia per cui, solo il
paziente, può decidere sul proseguimento o la cessazione delle cure,
sull’eutanasia o sul suicidio. In tale visione utilitaristica l’anziano non
avrebbe più l’obbligo di difendere e conservare la vita in quanto privo del
quoziente minimo prefissato di “qualità della vita”, unico fondamento della
norma etica. Per fortuna la nostra civiltà considera ogni essere umano persona
sempre ed in ogni condizione e si propone di difendere tale personalismo
ontologico da ogni attentato dell’utilitarismo scientifico-tecnologico.
Anche
il diritto è tenuto ad aggiornarsi, per essere sempre attuale, a seguito degli
interventi dell’uomo sulla vita umana resi possibili dalle nuove acquisizioni
delle scienze e della tecnologia biomedica, oltre che per essere garanzia di
liceità e legittimità delle stesse procedure. Da qui l’accentuarsi delle
attenzione del diritto per la bioetica fino alla necessità di teorizzare una
nuova disciplina giuridica: il biodiritto. Esso esprime il tentativo di dare
pubblica rilevanza a molte gravi problematiche di bionormazione e di
biolegislazione oltre che l’esigenza di una riflessione sistematica e coerente circa i criteri necessari alla costruzione
del pensiero biogiuridico, sviluppandone i confini e i contenuti, raccogliendo
al sfida delle novità e scavando a fondo per portare alla luce il senso ultimo del Diritto
nell’ambito dei diritti umani.
Il
Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo cita: “il
riconoscimento della dignità inerente ad ogni membro della famiglia umana e dei
suoi uguali ed inalienabili diritti, costituisce il fondamento della libertà,
della giustizia e della pace nel mondo”. Quindi il diritto che si occupa di
bioetica è chiamato ad essere se stesso nella fedeltà ai suoi compiti e alla
sua natura di tutela dell’essere umano nelle situazioni estreme. Due principi etico-giuridici fondamentali, quelli
di autodeterminazione e di responsabilità
nel prendersi cura, emergono nella letteratura biogiuridica e nelle proposte di
leggi in tema di bioetica. “Il principio di responsabilità nei confronti della cura fa emergere la
interdipendenza reciproca e la solidarietà umana del tessuto sociale mentre il
principio di autodeterminazione mira ad assolutizzare l’elemento di
soggettività dell’individuo” .
La
donna è pari dell’uomo in quanto a dignità e diritti fondamentali ma alcune
tematiche del biodiritto la riguardano in senso stretto: la riproduzione
assistita, l’aborto, la sterilizzazione.
Etica e diritto non possono e non devono prescindere dalle differenze
sessuali, esigono di essere declinati secondo il sesso e, nella forma più
estrema, sono legati alla specificità etniche, ambientali e culturali dei
soggetti sessuati” . Le peculiari modalità d’esistenza, diverse per tipologie
di educazione e di formazione che vengono offerte alla donna o all’esperienza
che ella fa dell’accudimento del bambino, la rendono comunque e sempre capace
di empatizzare con un altro essere umano, di entrare in sintonia profonda con
lui e quindi di prendersene cura. E’ l’alterità
connaturata alla donna, diversa per ethos, predisposizione spirituale e
inclinazione stabile dell’animo nei confronti dell’essere, a rendere la stessa
soggetto di un biodiritto declinato al femminile, che segue un’etica
relazionale più che soggettiva. La globalizzazione è un processo ambivalente: è
positiva perché senza dubbio promuove lo sviluppo dell’unione tra i popoli, è
negativa perché potrebbe comportare l’egemonia di alcuni popoli su altri oppure
l’eventuale livellamento delle differenze etniche e culturali. La
globalizzazione per essere etica dovrebbe giungere ad un’unità mondiale nel
rispetto delle reciproche diversità.
Il
legame tra la bioetica e la
globalizzazione si pone a diversi livelli. A livello di oggetto materiale
comune delle tematiche ecologiche o ambientali oppure a livello di effetti
causali capaci di contribuire alla strutturazione di alcune realtà politiche in
ambito biomedico (es. le politiche sanitarie). A livello di oggetto formale il
legame tra globalizzazione e bioetica si esprime nell’identità ontologica e
culturale della persona umana.
Il
background antropologico influisce sulle modificazioni della riflessione bioetica,
così come tutti i popoli della terra sono uniti dalla globalizzazione fondata
spiritualmente nella dignità della razza umana. L’obiettivo comune da
raggiungere è la dignità della persona, mentre attualmente la globalizzazione
riguarda soltanto aspetti dell’economia, delle telecomunicazioni, della
politica, del lavoro, dell’alimentazione, della cultura anche se si sta
espandendo a tutti gli aspetti umani del vivere, “influenzando notevolmente la
vita dei singoli individui, le loro scelte e i loro modi di vivere” .
Gallino
sostiene che la globalizzazione dovrebbe teoricamente favorire la crescita
economica, la riduzione della disoccupazione e l’aumento della produttività, in
un contesto di interdipendenza delle società di tutto il mondo. Mentre, in realtà,
i dati statistici mondiali dimostrano inequivocabilmente che “l’economia
planetaria sta dividendosi in due blocchi ben delineati, geograficamente
trasversali, contrapposti e sempre più distanti caratterizzati rispettivamente
da una minoranza sempre più ricca economicamente, che detta le regole della
vita sociale, culturale e finanziaria, e una massa di individui che subisce i
dettami dell’altro blocco, non avendo il potere
di negoziare o di influenzare le scelte ed i valori in gioco” .
Rifkin
ha illustrato un ulteriore esempio di “effetti perversi” della globalizzazione
in materia di biotecnologie, a proposito del nostro modo di comprendere e
interagire con l’ambiente in cui viviamo a seguito della genetica: i geni
stanno prendendo il posto delle materie prime dell’era industriale. La genetica
viene utilizzata per la creazione di nuovi prodotti agricoli, farmaceutici,
materiali da costruzione e nuove forme di energia. Rifkin sostiene la
negatività degli effetti globalizzanti delle biotecnologie in quanto esse
rappresentano delle possibilità di monopolio a causa delle strumento giuridico
della brevettazione. Vi è una sostanziale rottura con il passato poiché prima del 1987 non veniva ritenuto oggetto di
brevetto alcun elemento che fosse comunque presente in natura e non
inventato ma soltanto scoperto. A
seguire da suindicata data il Patent and Trademark Office statunitense ha
decretato che le componenti di creature viventi sono brevettabili e possono
venire considerate proprietà intellettuali di chiunque ne descriva per primo le
funzioni, ne isoli per primo le proprietà indicandone le applicazioni
commerciali.
Una
categoria della globalizzazione ambientale, quella biotecnologica, è
particolarmente preoccupante per i rischi intrinseci e immediati, ossia per la
salute dei consumatori, originati dall’economia e da specifiche circostanze
socio-politiche.
Anche
i brevetti farmaceutici hanno grande peso sulle vite di milioni di esseri umani
a causa del fatto che è vietato produrre un farmaco o acquistarlo dall’estero
senza autorizzazione del titolare del brevetto, che ne conserva il diritto per
venti anni. E’ altresì vietato l’uso di farmaci copia non autorizzati. In tal modo i paesi poveri
del mondo non hanno “accesso a cure
essenziali ed efficaci a causa dei prezzi proibitivi dei nuovi farmaci sotto
brevetto”, della “mancanza di progetti di ricerca che abbiano come obiettivo le
malattie dei poveri”, ormai debellate in tutti i paesi industrializzati, e “a
causa dell’abbandono della produzione dei farmaci efficaci per la mancanza di
compratori che garantiscano un adeguato profitto all’industria produttrice” .
Una
globalizzazione democratica richiede il passaggio ad una cultura della
solidarietà, intesa come struttura etica che dovrebbe sottendere ad un concetto
di progresso lento ma migliore in termini di fruibilità e partecipazione di
tutti a scapito della attuale situazione governata dalla morale dei
costi-benefici.
La
bioetica globale dovrebbe occuparsi della considerazione dei temi
dell’ecologia, dell’ambiente e del territorio, in parole semplici delle
biodiversità dell’ambiente antropizzato.
I
temi ambientali sono di vastissima portata e di immediato interesse e
riguardano l’eredità economica primaria che si lascia alle generazioni future
in termini di fruizione e consumo delle risorse naturali del pianeta, sotto
forma di energie e materie prime, e la gestione appropriata, attraverso la produzione e lo smaltimento
eco-compatibili, dei rifiuti pericolosi.
L’ambiente
antropizzato si configura come la mentalizzazione del territorio, secondo
esigenze antropologiche-culturali, in riferimento alle esigenze di
preservazione e rispetto dei valori di vita e salute. L’ecologia è un tema di
profondità antropologica ed etica così ampia da non poter venire trascurato dalla
speculazione bioetica globale.
Mele
e Maglietta distinguono diversi modelli di ecologia relativi ad elaborazioni
antropologiche di riferimento. L’approccio di fondo è di tipo scientifico, ed i
modelli individuati sono “l’ecologia ambientale, l’ecologia sociale, l’ecologia
profonda, l’ecologia umanitaria o integrale o dell’ambiente globale. L’ecologia ambientale sottolinea il dato
biologico-chimico-fisico degli equilibri che prendono forma nell’ambiente
attraverso strumenti e metodi di analisi, mappe e modelli matematici,
simulazioni, coefficienti, indici, indicatori per la valutazione del rischio o
impatto ambientale, diventa una eco-filosofia. L’ecologia sociale individua il
problema ecologico nel tipo di società presente sul pianeta, estendendo l’analisi
alla politica e all’economia, influenzatici dei processi di modificazione degli
equilibri ambientali. L’ecologia profonda si caratterizza per il rifiuto
dell’immagine dell’uomo nell’ambiente a favore dell’immagine relazionale a
tutto campo, dove gli organismi sono nodi della rete biosferica. Si
caratterizza per l’egualitarismo biosferico ossia per l’uguale diritto a vivere
e realizzarsi pienamente da parte dell’ambiente; per i principi di diversità e
simbiosi, per la lotta contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse e
per la complessità degli ecosistemi che esaltano l’ignoranza umana circa le
relazioni biosferiche e le relative interferenze.
All’ecologia
umanistica dell’ambiente globale fanno capo considerazioni etico-antropologiche
che richiamano l’antropologia filosofica, il personalismo e la religione.
La
bioetica deve porsi al servizio della prospettiva ecologica per offrire in
chiave multidisciplinare i suoi
fondamenti, sviluppi e metodi” . La chirurgia dei trapianti viene definita come “sicura ed insostituibile
opportunità terapeutica capace di risolvere positivamente oggettive situazioni
di pericolo e di danno per la vita o per la validità individuale, non
altrimenti e non altrettanto efficacemente trattabili” .
“Oltre
a migliorare le qualità della vita in termini di funzionalità organica, i
trapianti d’organo hanno risvolti psicologici e sociali non indifferenti:
tolgono la dipendenza da apparecchiature strumentali riducendo la spesa
pubblica e permettendo ai soggetti di ricoprire le loro attività lavorative, il
loro ruolo sociale, acquisendo sicurezza interiore e vita autonoma”. I
sentimenti nei confronti della donazione sono molteplici e offrono una lettura
socio-psicologica della indifferenza, della speranza o della paura rimossa. La
carenza di sensibilità verso la donazione e la conseguente reticenza sono state
forzate del nostro legislatore attraverso la nuova legge sui trapianti n. 91 del 1999. I punti
salienti dell’attuale normativa in merito sono l’informazione della cittadinanza,
il consenso alla donazione e il riassestamento organizzativo dei centri di
coordinamento e prelievo degli organi. Lo scopo dei trapianti è assolutamente
terapeutico ed esclude ogni tipo di sperimentazione fine a se stessa.
L’informazione è il presupposto principale per dare la facoltà di libera
decisione attraverso la sua intenzionalità e autodeterminazione. Il Ministero
della Sanità promuove vere e proprie campagne di informazione volte a
sensibilizzare il cittadino sull’importanza della donazione di organi e tessuti
a scopo di trapianto. Le competenze impegnate in tale fase informativa sono
quelle sanitarie, giuridiche e filosofiche. La legge introduce in merito il
concetto di silenzio-assenso informato e ha previsto la distribuzione di una
card che rappresenta un mini-testamento biologico, circa la singola
disponibilità alla donazione degli organi post mortem. Il solo lascito di una
dichiarazione scritta in cui si nega
esplicitamente il proprio assenso pone la legge nell’impossibilità di
permettere l’espianto.
I
principi etici in materia di trapianto sono la tutela della vita umana e lo
scopo di migliorarla in caso si trovi in situazioni di malattia inguaribile.
Naturalmente la vita del donatore e del ricevente sono valori fondanti e
rappresentano un bene indisponibile. La legge vieta il guadagno economico e
sociale del donatore, se vivente, o della sua famiglia e rifiuta l’agire degli
operatori sanitari per puro bisogno di successo o di avanzamento di carriera.
Il
trapianto è accettabile a condizione che risulti terapeutico e che venga
eseguito attraverso una buona pratica clinica rispettando il corpo e l’identità
del donatore e del ricevente, deve mirare a massimizzare i benefici e
minimizzare i danni e gli errori, e il suo fine è il dono e la solidarietà,
configurandosi come atto gratuito, volontario, responsabile e disinteressato
nel pieno rispetto della decisionalità del donatore. La donazione si configura come una scelta
pienamente consapevole ed ha connotato di oblazione, di dono giuridico e morale.
La
ricerca sperimentale viene giustificata
in prima analisi dall’interesse del soggetto partecipante, in secondo luogo per
una esigenza interna della medicina, di tipo conoscitivo.
Il
consenso informato alla ricerca si pone come istanza etica fondamentale poiché
testimonia il rispetto dell’altro, considerato persona e non ridotto a semplice
mezzo sul quale agisce la sperimentazione e testimonia la condivisione degli
obiettivi dello studio da parte del paziente. Il Codice di Norimberga del 1946
considera essenziale il consenso volontario del soggetto umano, mentre la
Dichiarazione di Helsinki prevede la possibilità del consenso sostitutivo solo
per la ricerca terapeutica. Secondo la Raccomandazione del Consiglio deI
Ministri d’Europa, “una persona legalmente incapace non può essere sottoposta a
ricerca medica senza che ci si aspetti di produrre un diretto e significativo
beneficio alla sua salute”. La Direttiva CIOMS n. 6 del 1993, relativa alle
ricerche condotte su persone affette da disturbi mentali o comportamentali
prevede che, prima di iniziare il ricercatore debba assicurare che tali persone
non saranno impiegate in ricerche che possano essere condotte ugualmente bene
su persone nel pieno possesso delle loro facoltà mentali; lo scopo è quello di ottenere conoscenze attinenti alle particolari necessità sanitarie delle
persone affette da disturbi mentali o comportamentali ed il consenso dei
soggetti è ottenuto in base alle sue capacità. Nelle norme europee di Buona
Pratica Clinica recepite in Italia nel 1997 e nel 1998, si prevede la
possibilità di condurre studi su soggetti non in grado di esprimere consenso
attraverso il consenso del proprio rappresentante legale. Secondo Portei
sarebbe necessaria una bozza di linee guida per l’utilizzo in ricerche di
persone con demenza, distinte anzitutto per grado di disabilità in fase
iniziale e fase medio-grave; altra distinzione riguarda la ricerca terapeutica
e quella a scopi non terapeutici dove, in entrambi i casi vi è un rapporto
rischio-beneficio che sia a favore del beneficio; tali valutazioni sarebbero di
spettanza dei comitati etici nazionali.
Il
cambiamento culturale coinvolge tutti gli ambienti; anche in quello sanitario
muta la concezione del rapporto medico-paziente. Per Scalise la “virtù
essenziale del medico è la filantropia, la dedizione quasi religiosa all’uomo,
che si traduce in sentimenti di simpatia, benevolenza e umanità” . Il nuovo
Codice di Deontologia Medica del 1998 sancisce il rispetto della dignità del
cittadino malato attraverso il principio dell’autonomia per cui il paziente,
escluse le situazione di emergenza e di incapacità, non può e non deve delegare
nessuna decisione ai medici, così da mantenere sempre sotto controllo la sua
salute. La nostra tradizione mediterranea è basata su quello che Entralgo
chiama modello di amicizia medica, che impronta la relazione medico-paziente come
una amicizia, una alleanza terapeutica nella quale il medico è capace di
compassione ed empatia.
L’idea
della neutralità delle scelte è stata smentita dai fatti storici, come il
fallimento in senso antilibertario di modelli di vita legati a diverse tipologie
ideologiche e alla drammatica proliferazione delle sette religiose,
dimostrazione pratica che nessuna chiusura possa essere di per sé fruttuosa. La
recente riflessione bioetica in tali contesti ha dimostrato che il procedimento
procedurale rimane fondamentale per delimitare il rispetto del singolo e le
necessità dei più..”. L’universalizzazione dei valori morali e il relativismo
normativo confermano che ogni decisione umana è impoverita dall’assenza di un
fondamento etico, così come cita Lévi-Strauss: “dietro la società vi è lo
spirito umano, ma dietro di esso vi è il cervello”. “Per Durkeim i fatti
sociali consistono in modi di agire,
pensare e di sentire, esterni all’individuo e dotati di un potere di coercizione
per il quale gli s’impongono. E’ l’applicazione in campo giuridico delle
posizioni espresse da Hengelhardt nel versante etico. L’idea che le questioni
morali sia da considerare irrisolvibile e conduca ad un’accettazione minimale
delle parti o ad una sorta di statalizzazione etica, non elimina la questione
essenziale: è la stessa capacità umana un valore in sé”.
“La
questione che l’uomo possa costruire la sua scienza, la sua morale e la sua
stessa società su una fredda applicazione di postulati è l’ultima chimera
offerta da un pensiero che non osa più definirsi debole o forte, un’etica che
non è capace di guardare al di là della prima facie duty”. I postulati della vita umana si sono storicizzati in
evidenze e le credenze hanno trovato una analisi razionale nella contingenza
spazio-temporale come sintesi tra intuizionismo e formalismo valoriale.
L’unica
strada percorribile per una nuova assiologia dei valori è il discernere una
strategia che faccia di ogni sistema un valore da considerare per ampliare le
ragioni del proprio. Bellino indica nella
diversità dei valori la concezione di
culture, tradizioni, sistemi politici e socio-economici così eterogenei da
essere incommensurabili, mentre sono modi di applicare e attuare comuni valori
di fondo. La conclusione di Sinno è che il pluralismo etico è uno stato di
libera necessità, il riconoscimento che l’ascolto di più note conduce ad
un’armonia.
La
legge sul silenzio-assenso introduce l’ambiguità e il compromesso di una norma
al servizio della legittima coercizione sociale. Il trapianto terapeutico per
l’opinione di Sinopoli resta una terapia d’emergenza e sperimentale, troppo
costosa e non applicabile, per peculiarità e specificità, a tutta la
popolazione, ma capace di salvare la vita o di prolungarla sempre e solo in una
minoranza di casi, compatibili e selezionati, persino quando gli organi
dovessero abbondare o essere prelevati per disposizione di legge, come potrebbe
avvenire in molte situazioni nei prossimi anni.
Il
supporto della Bioetica al diritto nella presente situazione di rapida affermazione
del progresso tecnologico nella medicina e nella genetica umana, trova essenza
di riflessione e di attenta prassi nelle decisioni non ignare dei pericoli
dell’esasperazione tecnologica, di falsa indipendenza della scienza e libertà
assoluta rispetto all’identità dell’uomo.
Soldini
lamenta le numerose prospettive della bioetica, strettamente correlate alle
teorie sottostanti e auspica un “personalismo ontologico , proprio della
cultura occidentale in qualità di fondamento per una bioetica europea forte,
che si poggi sopra una tradizione filosofica di tipo sostanzialista e realista, fondata sulla persona piuttosto che
sull’individuo, nel tentativo di non lasciare intentata la globale dignità di
ciascuno e di tutti nello stesso tempo” .
Dalle
problematiche culturali recenti emergono i diritti di terza generazione
(habitat sano, qualità della vita, ecc.) e quelli di seconda generazione, non
ancora risolti (economico-sociali).
Soldini è convinto che l’identità della bioetica debba essere unicamente
singolare e non plurale, dal momento che non può essere che una la verità alla
quale dobbiamo tendere, consapevoli che dal punto di vista teorico possono
coesistere versioni diversificate di bioetica in relazione alla visione etica
di fondo alla quale si fa riferimento. Possono cambiare le vie, i metodi, la
percorribilità ma la verità non può mutare.
Il
mondo contemporaneo ha bisogno di un pensiero forte e di certezze e che solo il
superamento dell’individuo con la concezione dell’essere umano come persona, come
uni-totalità somato-psichica-spirituale, un valore di per sé anche a livello
psichico e spirituale. C’è bisogno di una nuova formazione delle coscienze dei
medici del XXI secolo, un ritorno alla formazione umanistica e filosofica oltre
che una forte preparazione scientifica.
Le
relazioni esistenti fra i modelli di medicina convenzionale, alternativa,
naturale e non convenzionale sembrano essere caratterizzati da una elevata
complessità, una complessità che sembra configurarsi nel confronto fra scienza
non ortodossa e la cosiddetta mainstream
science, un confronto che, spesso, si è contraddistinto in una vera
controversia, in una crisi di connessione1, sull’efficacia della medicina
convenzionale e delle altre medicine, in una vera “parata di tiranni” in cui
ogni sistema tende ad escludere l’altro. In tale ottica, sembra esservi una
certa confusione nella definizione delle medicine non convenzionali, spesso
definite alternative, naturali o eretiche.
La
medicina convenzionale può definirsi come l’insieme di teorie fisiopatologiche
e di metodologie clinico-terapeutiche che derivano dal patrimonio di conoscenze
sviluppate dalle scienze naturali occidentali dal loro sorgere ai giorni nostri.
caratteristica fondamentale della medicina convenzionale è quindi quella di
costituirsi sul metodo sperimentale. In tale ottica, la medicina convenzionale
si può quindi anche definire scientifica, perché questa ne è una caratteristica
imprescindibile.
Nei
sistemi sanitari occidentali si riscontra il ruolo prevalente dei metodi di
cura fondati sui principi della medicina scientifica e tale prevalenza porta a
ricomporli nella medicina ufficiale o convenzionale. In tale prospettiva l’uso
dei termini convenzionale, ufficiale, scientifica o ortodossa sembra rimandare,
nel sistema medicale, ad una credibilità per così dire automatica. I sinonimi
per il termine ortodosso, infatti, includono: “accettato”, “approvato”,
“stabilito” ed ogni termine osservato sembra contenere un elevato grado di
credibilità all’interno del sistema di riferimento.
Il
termine medicine alternative, non convenzionali o tradizionali dovrebbe invece
essere criticamente osservato poiché costituito da un insieme eterogeneo di
teorie e di pratiche terapeutiche che non rientrano nei canoni accettati dalla
medicina convenzionale. Alla definizione “non convenzionale” sono spesso
associati ulteriori termini come olistica, naturale o terapie tradizionali ed
ognuna di queste definizioni sembra contenere un diverso corpus teorico sia in
conflitto con le medicine convenzionali, sia come possibilità ulteriore.
Nello
scorso 2006 abbiamo partecipato ad Corso di formazione ECM[7]
(educazione continua in medicina) dal titolo Etica, Salute e Spiritualità,
tenutosi in tutta Italia secondo un calendario itinerante (COMO, MILANO, ROMA, RECANATI,
TRECENTA)[8].
Hanno partecipato il Centro di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro
Cuore di Milano, l’Istituto Neurologico Besta
(centro di ricerca) di Milano, l’Opera Nazionale Don Guanella con la sua
rete di residenze protette, centri di riabilitazione, case di riposo per
anziani, presenti su tutto il territorio nazionale ed estero, e l’Istituto
Camillianum di Roma. Un mega-evento di formazione “itinerante”, pensato per
operatori sociosanitari, con gli obiettivi di affrontare le problematiche che
emergono nelle relazioni di una cura protratta nel tempo, attraverso la
creazione di un linguaggio comune che, grazie al contributo di ambiti
disciplinari diversi, etico, medico, psicopedagogico, teologico, possa fornire
gli strumenti per dare una risposta adeguata alle esigenze, non solo
clinico-assistenziali, delle persone, nel rispetto e nella tutela della loro
dignità. Scienza Salute Santità sono
sempre state per Don Luigi Guanella la
meta delle tre “S”….prende tutto l’uomo e
bisogna averla dinnanzi e prima
di tutto desiderare di raggiungerla.
Durante
le prime giornate del corso sono stati introdotti gli aspetti salienti di una
formazione professionale che tenga conto di una pluralità di elementi: etici,
sanitari e spirituali. Nelle seconde giornate sono stati affrontati i temi
etici della relazione di aiuto con persone bisognose di una cura protratta nel
tempo. A tal fine sono stati messi in luce i fattori culturali attuali, che concorrono
a formare la personalità e la professionalità dell’operatore stesso,
individuando le esigenze a cui si deve dare una risposta etica della cura,
modulata secondo le diverse professioni. Nelle terze giornate le relazioni sono
focalizzate sulla salute e sulla disabilità: è stato effettuato un corso base
ICF, concernente gli aspetti culturali e concettuali che sottendono la
classificazione ICF, i principi cui si ispira, al sua struttura ed il suo
impatto sulla pratica quotidiana.
Pensiamo
che comprendere lo scenario entro cui si sviluppa la sensibilità bioetica e
istruire il discorso bioetica, in tutta l'estensione delle sue dimensioni,
quelle biomediche ed ecologiche come quelle etico-normative e antropologiche,
sia l’obiettivo dell’evento formativo a cui abbiamo partecipato in molteplici
vesti.
Obiettivo
di fondo di questa discussione critica è la costruzione di un modello di
bioetica adeguato a supportare la deliberazione etica in una società
pluralistica, con esplicito riferimento a un livello etico fondamentale basato
sul principio del rispetto della dignità umana e a un livello etico-applicativo
mirato a concretizzare questo principio nelle situazioni nuove aperte dal
progresso biomedico. E’ importante, per la riflessione bioetica, la costruzione
di un quadro concettuale in grado di integrare nell'elaborazione del giudizio
principi, valori, esperienza .
Obiettivo
del corso, costruito attorno ad un'essenziale presentazione dei modelli di
argomentazione etica e bioetica, è di offrire strumenti teorici e pratici utili
ad una tale integrazione. Il problema dell’assistenza non può essere pensato a
prescindere dal contesto storico sociale in cui si pone. Una riflessione
sull’etica della condizione umana deve in tal senso tener conto di una ormai
diffusa disomogeneità nelle valutazioni morali che, problematicamente, porta a
ritenere il pluralismo etico non solo un fatto, ma anche un valore. La bioetica
diviene così un riferimento importante quando cerca di salvaguardare la pluralità dei valori
riconoscendo, nello stesso tempo, l’unicità della morale. Essa aiuta anche a
comprendere i cambiamenti inerenti alle relazioni di cura. Da un lato il
rapporto tra medico e paziente tende ad assumere una forma contrattuale e,
quindi, potenzialmente conflittuale, dall’altro il passaggio dalle cure
intensive a quelle estensive modifica profondamente i tempi e le relazioni di
assistenza. La bioetica si evidenzia, in questo senso, come una disciplina
capace di cogliere e valutare i cambiamenti inerenti alla realtà culturale che
fanno da sfondo alle nuove prassi assistenziali.
In
merito ai cambiamenti culturali e la bioetica abbiamo ascoltato con piacere il
pensiero di Adriano Pessina del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano. Egli sostiene che ci troviamo in una particolare
situazione storica in cui siamo chiamati ad esprimere giudizi, valutazioni
morali, anche senza averne le conoscenze adeguate, usando le parole. Esse non
sono innocenti e ci danno il polso delle trasformazioni dell’esperienza. Siamo
chiamati a vivere in un’epoca che
combina e trasforma l’esperienza per
motivi di sovraesposizione morale, abbiamo una serie di conoscenze estese ma la nostra formazione morale si arresta ai
primi anni di vita. Il fine da proporre viene deciso singolarmente da ognuno di
noi, in quanto pensiamo che l’unica cosa importante è il nostro proprio
pensiero.
Il
punto fondamentale è la costruzione dello spirito critico, della capacità del
discernere, che nasce da una grande fiducia nella ragione umana, che s’impara
pensando alle cose, usando lo strumento dello spirito critico, esercitando la
capacità del discernere senza negare il valore ma guardando alla consistenza di
ciò che diciamo, pensiamo e facciamo. Abbiamo la necessità di avere il tempo
per pensare.
Secondo
Pessina l’etica, prima di essere una questione di azioni da compiere, è una
capacità di guardare alla realtà stando da soli, poiché in questo spazio
abbiamo la possibilità di riflettere sulle nostre azioni e pensieri che
esprimono la nostra capacità di vedere quali sono i beni in gioco che, in modo
non ordinario, dobbiamo decidere di utilizzare nelle nostre personalità e
libertà. L’assenza di pensiero è il tema su cui dobbiamo soffermarci poiché ci
presenta la banalizzazione del male che ha le due facce della sofferenza
(disagio umano esistenziale) e del dolore, poiché corpo e mente, fisico e
spirito sono una unità. Capire il dolore e la sofferenza significa capire che
non sono valori. Quando si comprendono le cose importanti si decide in seconda
istanza di fare bene: tutto dipende dalla nostra volontà. Ci sono dei mezzi
che, in vista di fini, ci costano sudore e sangue. Bisogna avere chiarezza dei
fini e volontà di decidere di volerli raggiungere. Oggi non riusciamo a fare i
conti con noi stessi e con la finitezza
della nostra condizione. Molte volte il dolore e la sofferenza non sono degli
altri ma sono nostri: quindi l’immagine
dell’uomo è come l’immagine di sé. C’è
un modo di leggere i comportamenti degli altri cercando le cause e ce n’è un
altro che comprende i motivi dell’altro anche se non li condivide. Non
giudichiamo la persona ma i suoi atti cattivi
poiché la persona può sempre cambiare. Quando ci prendiamo cura degli
altri dovremmo aver imparato a prenderci cura di noi stessi. La capacità di
avere una relazione significativa dipende dal riconoscimento del valore della
persona di cui ci prendiamo cura e della conoscenza della sua opacità. Per
questo diciamo che il valore dell’assistenza è dato dal valore incommensurabile
della persona umana. La bioetica è proposta da Pessina come coscienza critica
della civiltà tecnologica, discernendo sul da farsi. Nella storia dell’umanità
i bisogni si modulano all’interno dei contesti culturali che modificano il
nostro modo di guardare, non solo ai bisogni degli altri, alla loro umanità.
Esiste una sproporzione tra conoscenza scientifica e formazione etica. La
verità non ha un copyright poiché una volta compresa la verità è mia: possiamo usarla tutti e
rimane intatta. Le zone della nostra esistenza, i nostri mondi, sono tanti e
dove noi troviamo il centro, l’equilibrio? Nell’uomo c’è uno squilibrio totale
tra il nostro desiderio di pienezza, di infinito e la nostra finitezza; l’uomo
è sempre squilibrato perché non si accontenta, ha bisogno di capire quali sono
i beni in gioco nella propria vita, discernendo ciò che è essenziale da ciò che
non lo è. Non è vero che ognuno di noi è in grado di fare tutto e noi non siamo
insostituibili nelle nostre funzioni e ruoli; lo siamo nella nostra unicità
umana poiché il mondo incomincia di nuovo quando nasce un uomo perché cambia
attraverso la novità del suo sguardo. L’assenza di pensiero, secondo Anna
Harendt, non si identifica con la stupidità: si può incontrarla in persone di
intelligenza elevata e un cuore malvagio non ne costituisce la causa. È vero
probabilmente il contrario, che la malvagità può essere causata dall’assenza di
pensiero. La prima forma di malvagità è l’indifferenza nella quotidianità. È
una questione alimentata dalla televisione e dalla grande recita della
solidarietà personale; questo modello in cui siamo generosi per interposta
persona ci riguarda direttamente poiché l’indifferenza la esercitiamo
generalmente attraverso la scissione tra
mente e cuore che, col tempo, ci fa sentire inariditi, si diventa automi
coscienti che operano ma non sanno dare altre indicazioni concrete se non
quelle che dipendono dalle situazioni pesanti. È importante rileggere le cose
con la nostra novità. Crediamo nei diritti umani che, calati nella situazione
concreta, se non sono astratti, riguardano una questione di giustizia che è
solo il compito di alcuni ma è una questione che riguarda tutti, un dovere
sociale.
E’
possibile coniugare la prospettiva della giustizia sociale con quella
dell’amore per il prossimo: la cura è tanto una risposta ad un diritto
(giustizia nei confronti dell’uomo), quanto un atteggiamento di gratuità e
solidarietà propriamente umano.
Nella
cura e nel prendersi cura è possibile scoprire quanto oggi sembra offuscato: la
coincidenza della dignità della persona con la dignità del suo essere
corporeo.
Il
nostro lavoro cambia se noi ci rendiamo conto che quello che noi facciamo ha
valore. Il nostro valore è incommensurabile e non è dettato dalla realtà di ciò
che gli altri ci riconoscono ma dalla dignità di ognuno di noi. Tutto ciò è
solo una questione culturale. Le parole che noi usiamo sono dei macigni non si
giudicano le persone ma bisogna capire la verità delle cose. Per Anna Harendt è
importante essere veritieri con noi stessi. Sarebbe bene non vivere tutta la
vita insieme con un mentitore. La malafede ci fa trasformare in buone le cose
solo perché le facciamo. La questione non è quello che io farei ma quello che dovrei fare; non sono io il
criterio della mia moralità ma la verità che dovrebbe guidare le nostre
scelte. Non bisogna giocare sulla mia
emotività che mi condiziona ma trovare il modo di cambiare le cose. S’impara a
riflettere sulle situazioni prima di entrarci dentro, per avere riscontri in
più per agire concretamente. Marx dice che noi siamo la nostra corporeità
(siamo ciò che mangiamo): noi siamo prima di tutto ciò che pensiamo. Ci sono
azioni che cambiano il mondo e ci sono azioni che cambiano noi stessi, la
nostra personalità. Il discorso del pensare è l’avere una alimentazione per la
nostra quotidiana salute mentale. La vita della mente non è fare un corso di
filosofia ma è alla portata di ognuno di noi. È quella capacità di riflettere,
di comunicare, quel gusto di pensare, che ci introduce nella profondità del
senso del nostro esistere. La qualità dell’assistenza dipende dalla qualità
umana del nostro farci carico degli altri ma non si può cogliere l’umanità
altrui se è inaridita la nostra. Nel prendersi cura degli altri emerge il vero
problema della relazionalità: i gesti che qualificano la quotidianità (es.
palpazione del dolore, criteri di accertamento della morte cerebrale, ecc.).
Nell’assistenza ci si prende cura dell’uomo malgrado la sua malattia, la sua
fragilità, la sua opacità personale: questo malgrado serve per non farci
ridurre l’uomo alla sua patologia. La patologia va combattuta perché si ha cura
dell’uomo, che è sempre più della sua condizione di malato e sofferente perché
lui è una persona unica e irripetibile. Dobbiamo coltivare la nostra umanità
perché non si è buoni spontaneamente e automaticamente. Amare un individuo
significa amarlo nelle sue stagioni della vita, passando dalle sue qualità ai
suoi malgrado che ci permettono di pensare seriamente alla condizione umana.
La
dottoressa Matilde Leonardi, Direttore Scientifico dell’Istituto Neurologico
Nazionale Carlo Besta di Milano ha
relazionato sulla classificazione internazionale ICF (Classificazione
Internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute), pubblicata
nel maggio 2001 dall’OMS, che rappresenta una autentica rivoluzione nella
definizione e quindi nella percezione della salute e della disabilità.
Ogni
persona in qualunque momento della sua vita può trovarsi in condizioni di
salute che, in un ambiente negativo, divengono disabilità. Milioni di persone soffrono a causa di una
condizione di salute che, in un ambiente sfavorevole, diventa disabilità. Usare
un linguaggio comune e cercare di affrontare i problemi della salute e della
disabilità in maniera multidisciplinare può essere un primo passo per cercare
di diminuire gli anni di vita persi a causa della disabilità. Nel maggio 2001
l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato la "Classificazione
internazionale del funzionamento, della salute e disabilità", l'ICF, che
191 Paesi riconoscono come la nuova norma per classificare salute e disabilità.
Spostando l'attenzione dalle cause all'impatto sul funzionamento della persona,
e ponendo tutte le condizioni di salute allo stesso punto di partenza l'ICF è
lo strumento universale per misurare e descrivere salute e disabilità. La
Classificazione ICF è, infatti, lo strumento dell'Organizzazione Mondiale della
Sanità per descrivere e misurare la salute e la disabilità delle popolazioni ed
è il risultato di 7 anni di un lavoro svoltosi in 65 Paesi, e che è partito
dalla revisione della vecchia classificazione ICIDH, pubblicata nel 1980 per
prove sul campo.
Il
messaggio "chiave" dell'ICF è il seguente: L'ICF riconosce che ogni
essere umano può avere un problema di salute e chiarisce il ruolo fondamentale
dell'ambiente nel determinare la disabilità. Questo non è qualche cosa che
capita solo a una minoranza, ma può capitare a chiunque.
L'ICF
quindi è uno strumento di riferimento per il mainstreaming dell'esperienza di disabilità e la riconosce come una
esperienza umana universale. La Classificazione ICF rappresenta una autentica
rivoluzione nella definizione e quindi nella percezione della salute e della
disabilità, ed è estremamente importante il fatto che, evidenziando
l'importanza di un approccio integrato, per la prima volta, si tiene conto dei
fattori ambientali, classificandoli in maniera sistematica. La nuova
classificazione prende infatti in considerazione gli aspetti contestuali della
persona, e permette la correlazione fra stato di salute e ambiente arrivando
cosi alla definizione di disabilità come: una condizione di salute in un
ambiente sfavorevole.
Il
"Progetto ICF in Italia" del Ministero del lavoro e delle Politiche
Sociali Italiano ha inteso l’ICF da classificazione di funzionamento,
disabilità e salute a strumento per sviluppo di politiche di welfare e propone di avviare un'azione
sperimentale di stimolo, affinché nell'arco di alcuni anni, il più ampio numero
di persone che operano nel settore della disabilità sia formato ad una diversa
cultura e filosofia della disabilità, e quindi all'uso ed ai vantaggi della
nuova classificazione dell'OMS e degli strumenti ad essa collegati. Accettare
la filosofia dell'ICF vuol dire considerare la disabilità un problema che non
riguarda i singoli cittadini che ne sono colpiti e le loro famiglie ma,
piuttosto, un impegno di tutta la comunità, e delle istituzioni innanzitutto,
che richiede uno sforzo ed una collaborazione multi-settoriale integrata.
Il
modello di salute e di disabilità proposto dall'ICF è, infatti, un modello
biopsicosociale che coinvolge, quindi, tutti gli ambiti di intervento delle
politiche pubbliche e, in particolar modo, le politiche di welfare, la salute,
l'educazione e il lavoro. Solo dalla collaborazione intersettoriale e da un
approccio integrato è possibile, pertanto, individuare soluzioni che
diminuiscano la disabilità di una popolazione.
La
II Conferenza Nazionale sulla Disabilità svoltasi a Bari nel Febbraio 2003 ha
chiaramente identificato nell'ICF lo strumento di riferimento per lo sviluppo
di azioni nell'ambito della disabilità in Italia.
Il
Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, attraverso il progetto
sperimentale "ICF in Italia: ICF e Politiche del lavoro", affidato
per la parte esecutiva ad Italia Lavoro, intende promuovere l'utilizzo della
Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della
Salute dell'OMS, l'ICF, nell'ambito delle proprie competenze e dei propri
ambiti. Nell'ambito del "Progetto ICF in Italia" il progetto
"ICF e Politiche del lavoro" rappresenti la prima serie di azioni, di
tipo sperimentale, e riguarda il complesso settore delle Politiche del Lavoro,
con particolare riferimento al ruolo svolto dai Servizi per l'Impiego per
l'inserimento lavorativo delle persone con disabilità. In seguito, le
esperienze maturate potranno essere capitalizzate e diffuse verso altri settori
interessati all'utilizzo della nuova classificazione come il Ministero della
Salute, il Ministero dell'Istruzione e Ricerca scientifica, Regioni ecc.
Sarà
possibile utilizzare l'ICF per avviare le attività di raccolta di dati sulla
salute e disabilità della popolazione usando criteri comuni e comparabili in
maniera interdisciplinare. Inoltre, si favorirà lo scambio di informazioni e,
quindi, una migliore comunicazione tra operatori con background differente su
temi diversi di salute e disabilità.
Sviluppando
una formazione sull'ICF usufruibile da tutti, e rispondendo così ad una
crescente richiesta che proviene dai settori più diversi della realtà italiana,
il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali inoltre garantirà lo sviluppo
di una corretta applicazione della Classificazione in Italia. Il "Progetto
ICF in Italia" è coordinato dal Ministero del Welfare.
La
rete dei Centri Collaboratori dell'OMS nei diversi Paesi sarà informata sullo
svolgimento dei lavori in Italia e l'OMS stesso riceverà dal Disability Italian
Network, DIN, un rapporto regolare sullo sviluppo del lavoro in Italia.
Nell'ambito
dei programmi di creazione di nuove e migliori opportunità di occupazione,
Italia Lavoro nel corso del 2003 ha avviato una serie di azioni progettuali e
di interventi informativi e formativi finalizzati a favorire l'inserimento
lavorativo delle persone con disabilità con l'obiettivo di creare le condizioni
affinché anche nel mercato del lavoro si sviluppi una cultura che consideri
"normale" che una persona con disabilità possa vivere pienamente gli
aspetti sociali della sua vita e possa quindi ottenere un posto di lavoro
rispondente alle proprie aspettative, alle proprie competenze professionali e
capacità funzionali e allo stesso tempo in grado di soddisfare le esigenze di
inserimento produttivo di chi domanda lavoro.
La
strategia di Italia Lavoro risponde agli obiettivi del legislatore che ha
strutturato un impianto normativo che con la legge n. 68/1999 mira, attraverso
la diffusione del concetto innovativo di "collocamento mirato", a
promuovere una serie di comportamenti ed azioni che si pongono la finalità di
collocare "la persona giusta al posto giusto".
La
prima azione di rilievo è rappresentata dal progetto "ICF e Politiche del
Lavoro" che intende promuovere la diffusione della nuova Classificazione
Internazionale del Funzionamento, Disabilità e Salute (ICF) dell'Organizzazione
Mondiale della Sanità nel settore delle politiche del lavoro, mediante
interventi di sensibilizzazione, formazione, sperimentazione sul campo e
comunicazione. L'obiettivo è duplice: da un lato, migliorare le condizioni di
inserimento lavorativo mediante la diffusione di un metodo di valutazione della
disabilità più attento e mirato all'individuazione delle capacità personali,
anche in relazione alle diverse condizioni sociali ed ambientali; dall'altro,
sperimentare l'utilizzo della classificazione in un campo specifico ed offrire,
a livello nazionale ed internazionale, spunti e suggerimenti per eventuali
azioni successive, anche in settori diversi. In gioco c'è l'aspettativa di
500.000 persone con disabilità iscritte allo specifico elenco ed in cerca di
una occupazione produttiva e finalmente in grado di coniugare competenze
professionali e capacità funzionali.
Il
Ministero del Lavoro e delle politiche sociali italiano con il progetto
"ICF in Italia" intende promuovere, nell'ambito delle proprie
competenze istituzionali, l'utilizzo della ICF.
Nel
2003, in occasione dell'apertura dell'Anno Europeo delle persone con
disabilità, è stata più volte confermata l'esigenza di introdurre in Italia
tale classificazione, quale moderno strumento di accertamento e valutazione
della salute e della disabilità.
L'ICF
è, infatti, in grado di valutare le performance e le abilità e di valorizzare
le capacità personali delle persone con disabilità ed è in grado di misurare
l'impatto dell'ambiente nel quale la persona con disabilità vive . Cosa è la
disabilità? Risultato della interazione tra condizione di salute + fattori
ambientali = DISABILITA’. Descritta a 3 livelli nell’ICF:
1.Corpo
2.Persona
3.Ambiente
L’ICF
riconosce che ogni essere umano può avere un problema di salute e chiarisce il
ruolo fondamentale dell’ambiente nel determinare la disabilità. Questo non è
qualche cosa che capita solo a una minoranza, ma può capitare a chiunque.
L’ICF
quindi è uno strumento di riferimento per il mainstreaming dell’esperienza di
disabilità e la riconosce come una esperienza umana universale. Applicando la
prospettiva descrittiva biopsicosociale (ICF):
1. ogni persona si caratterizza per vari
patterns di funzionamento,
determinati dall’interazione
dinamica tra fattori personali e fattori contestuali (modello bio-psico-sociale
dell’ICF)
2. descrivere le componenti del funzionamento
3. descrivere le interazioni ambientali
4. il problema si realizza (o si risolve) nell’intersezione dei fattori
5. gli interventi devono essere indirizzati a
tutti i fattori in gioco
Le
applicazioni dell’ICF riguardano:
Statistica:
demografia, studi su popolazioni, sistemi informativi.
Ricerca:
per misurare i risultati, la qualità della vita o i fattori ambientali.
Clinica:
assessment dei bisogni, valutazione dei risultati.
Politica
sociale: previdenza sociale, indennità, pianificazione di servizi.
Formazione:
incremento della consapevolezza e delle azioni sociali
La
Classificazione ICF trova in Italia un contesto favorevole per una sua
applicazione (background culturale, sensibilizzazione delle associazioni e di
alcuni Ministeri, lavoro scientifico e di ricerca su ICF del DIN, legislazione
nei settori scuola, lavoro, sociale e riabilitazione ..) ma anche una serie di ostacoli legati a
diversi fattori; mancano:
Linguaggio
comune
Comparabilità
dati
Dati
di salute e disabilità certi
Modello
di disabilità condiviso
Percorso unificato vita-scuola -lavoro
Definizioni
NON a priori
Applicazione
leggi esistenti (328- cura/care e
percorso individ.)
Risposta
uniforme del sistema alla stessa richietsa
Il
rispetto della condizione umana
I
servizi o La ricomposizione dei servizi
Le
risorse economiche
Le
risorse umane
La
competenza professionale
Saper
esprimere i bisogni ( cosa chiedere, come chiedere)
Rappresentanza
completa
Saper
leggere i segnali di crisi
Usare
il Funzionamento ( functioning) per definire.
In
particolare, nel settore delle politiche del lavoro, l'approccio globale di
valutazione dell'ambiente e delle abilità e potenzialità della persona,
garantisce l'identità di ciascuno rispetto al lavoro.
Per
altro, in sede comunitaria, sia nei documenti approvati dedicati alle tematiche
della disabilità che nella Strategia europea per l'occupazione, l'esclusione
dal mercato del lavoro delle persone con disabilità è indicata tra le condizioni
più gravi da contrastare, anche attraverso la comprensione dei diritti, dei
bisogni e delle potenzialità delle persone disabili, e migliorando le
conoscenze sulle tematiche della disabilità.
Maroni
ha voluto sottolineare l'impegno del nostro Paese, ed in particolare del
Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nell'anno 2003, anche con
l'avvio di questo progetto sperimentale volto ad introdurre la nuova
classificazione ICF con il fine di elaborare nuove e più efficaci modalità e
procedure per l'accertamento della disabilità e per valutarne l'impatto sui
processi di inclusione sociale, a partire dalle procedure previste dalla
normativa italiana per l'accertamento della disabilità ai fini del collocamento
delle persone disabili. Il Ministro auspica che tale iniziativa possa
contribuire a diffondere una nuova cultura della disabilità in Italia ed in
Europa, per il pieno godimento dei diritti e delle opportunità e l'eliminazione
degli ostacoli che ancora oggi si frappongono alla reale integrazione delle
persone con disabilità nella vita dell'Unione.
Si
tratta di una vera e propria svolta epocale, in quanto l'ICF sostituisce la
vecchia classificazione ICIDH del 1980 - della quale costituisce la radicale
revisione - ed è il frutto del lavoro di oltre sette anni, accettato da 191
Paesi come nuovo standard internazionale per misurare e classificare salute e
disabilità. L'Italia è stata tra i 65 Paesi che hanno contribuito alla sua
creazione.
"Il
governo italiano - conferma Matilde Leonardi, Editor dell'edizione italiana
dell'ICF - è stato tra quelli che hanno espresso parere favorevole
all'approvazione del nuovo strumento da parte dell'Assemblea Mondiale della
Sanità nel maggio del 2001. La prima Consensus Conference italiana, uno dei
momenti di revisione e validazione della classificazione richiesti dall'OMS a
tutti i centri partecipanti al lavoro, si è tenuta a Udine nel dicembre del
1998 e da allora l'Agenzia Regionale della Sanità del Friuli Venezia Giulia,
previo accordo con l'OMS, si è presa l'onere - e l'onore - di coordinare i
lavori per l'Italia, ciò che motiva anche la scelta di Trieste quale sede della
presentazione ufficiale per il nostro Paese. In seguito a quel momento, si è
costituito, in maniera volontaria e spontanea, quello che poi è stato chiamato
il DIN - Disability Italian Network - che nel corso dei mesi ha coinvolto
sempre più persone provenienti da ogni parte d'Italia. Ho trovato personalmente
straordinario che i partecipanti del DIN provengano dai settori e dalle
situazioni più diverse. Università, IRCCS, Ospedali, organizzazioni di
disabili, centri pubblici e privati di riabilitazione, singoli ricercatori di
aree diverse, dalla fisioterapia alla statistica, amministrativi e politici,
funzionari del Ministero della Sanità e soprattutto persone con diverse
condizioni di salute e le loro famiglie, tutti hanno contribuito al processo di
revisione e validazione dell'ICF e l'Agenzia della Sanità ha elaborato e
portato i risultati della sperimentazione italiana all'OMS" .
Ma
perché è il caso di parlare di una vera e propria svolta epocale e prima
ancora, quali sono state le esigenze principali da cui è nato questo lungo
lavoro di revisione?
"L'ICF
- ha dichiarato con chiarezza e semplicità Gro Harlem Bruntland, Direttore
Generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità in una intervista pubblicata
sul sito web del DIN- intende descrivere ciò che una persona malata o in
qualunque condizione di salute può fare e non ciò che non può fare. La chiave,
infatti, non è più la disabilità, ma la salute e le capacità residue. In altre
parole si può dire che mentre prima quando incominciava la disabilità, la
salute finiva o anche che quando una persona era disabile, si trovava
automaticamente in una “categoria separata” (letteralmente etichettata come
disabled), oggi, con l'ICF, abbiamo voluto elaborare uno strumento che rovesci
quasi radicalmente questo modo di pensare, misurando le “capacità sociali”. Uno
strumento molto più versatile, con un ventaglio assai più ampio di applicazioni
possibili che non una classificazione tradizionale. Insomma, si tratta quasi di
una “rivoluzione culturale”, che passa dall'enfatizzazione della disabilità a
quella della salute delle persone".
"Altro
particolare molto importante - segnala Matilde Leonardi - va rilevato nel fatto
che l'ICF, riguardando la salute e le condizioni di essa, non “classifica le
persone”, ma riguarda veramente tutti, poiché ciascuno di noi, in un contesto
ambientale sfavorevole o a fronte di qualche difficoltà, può venire a trovarsi
in una condizione di salute che lo renda “disabile”. Ci sono milioni di persone
che soffrono a causa di una condizione di salute che, in un ambiente
sfavorevole, diventa disabilità. Usare un linguaggio comune e cercare di
affrontare i problemi della salute e della disabilità in maniera
multidisciplinare può essere certamente un primo passo per cercare di diminuire
gli anni di vita persi a causa della disabilità. Non più dunque punteggi e
graduatorie per la misurazione della minorazione fisica o psichica, ai fini dell'erogazione
di sussidi assistenziali, bensì classificazione della salute e di tutte le
condizioni ad essa correlate, tenendo in considerazione anche il contesto
ambientale (familiare, sociale, economico, lavorativo) dei soggetti
interessati".
Un
classificatore della salute, quindi, ma in parallelo anche della qualità della
vita. "Mentre gli indicatori tradizionali si basavano sul tasso di
mortalità, l'ICF pone come centrale proprio la qualità della vita nelle persone
affette da patologie o menomazioni, prendendo in considerazione esattamente gli
aspetti sociali della disabilità, con la correlazione fra stato di salute e
ambiente: “come le persone convivono con la propria condizione e come è
possibile migliorare questa condizione per poter vivere un'esistenza il più
possibile produttiva e serena”.
A
giudicare da quanto ci viene detto, sembra perciò di trovarsi di fronte ad un
formidabile strumento di lavoro, base ideale per le future politiche sanitarie
della stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. Secondo Gro Harlem Bruntland
– “è necessaria una premessa generale. Per troppi anni gli investimenti nella
salute sono stati visti, da parte di molti economisti, quasi come un lusso che
solo i Paesi sviluppati, dopo aver raggiunto un alto livello di redditi, avrebbero
potuto permettersi di attuare. Personalmente, invece, sono sempre stata
convinta del contrario, ovvero che proprio una popolazione in salute può essere
il prerequisito per una crescita dei redditi! Abbiamo quindi messo intorno a un
tavolo, per alcuni anni, numerosi tra i principali economisti da una parte ed
esperti della sanità dall'altra, per far sì che trovassero assieme una linea
comune di lavoro. Ebbene, alla fine sono arrivati a una semplice conclusione,
ovvero che le malattie sono un freno allo sviluppo, mentre gli investimenti
nella salute possono essere un input concreto per la crescita economica. L'ICF
nasce proprio da queste linee teoriche e credo che i suoi standard potranno
costituire la base fondamentale per i futuri investimenti nella sanità, in
tutto il mondo. Potrà innanzitutto far tratteggiare il quadro preciso della
salute, misurando poi l'efficacia delle varie politiche e i miglioramenti
eventualmente originati da queste ultime".
"L'ICF
- aggiunge come particolare non secondario Leonardi - pone tutte le patologie
sullo stesso piano, indipendentemente dalla loro causa. Se infatti una persona,
per un motivo di salute, non riesce a lavorare, ha poca importanza che la causa
sia di origine fisica, psichica o sensoriale. Occorre invece intervenire sul
contesto sociale, costituendo una rete di servizi di qualità che consentano di
fatto di ridurre la disabilità".
Ecco
quindi ben precisato un altro tassello che supera radicalmente i vecchi
concetti di classificazione dell'handicap. Ma quali elementi possono garantire
che il nuovo ICF sarà inteso allo stesso modo in tutto il mondo, al di là delle
diverse culture? "L'ICF - afferma Bruntland - è stato il prodotto di un
processo di consenso internazionale durato quasi un decennio, che ha coinvolto
numerosissime componenti, tra le quali, in ogni sua fase, anche le persone
disabili e varie Organizzazioni Non Governative. Esso è stato ampiamente
testato sul campo per assicurarne l'applicabilità anche a livello
transculturale, coinvolgendo addetti ai lavori della sanità, fornitori di
servizi, uomini politici. La base di partenza perché quelle difficoltà si
possano superare c'è quindi tutta!".
Per
concludere, il cosiddetto messaggio chiave dell'ICF mette in una nuova luce lo
stesso concetto di salute e di disabilità, riconoscendo che quest'ultima non è
più la prerogativa di un gruppo a sè, ma che può coinvolgere ogni essere umano,
colpito da una perdita più o meno grave (o più o meno temporanea) della propria
salute. L'ICF codifica l'esperienza della disabilità, riconoscendola come
universale, e nel suo spostare il fuoco dalla causa all'impatto, colloca tutte
- ma proprio tutte - le condizioni di salute su un piede di parità,
consentendone una comparazione, basata su un metro comune. Con ICF si è chiuso
un percorso di redazione e ricerca di consenso a livello internazionale ma si è
aperta al tempo stesso una nuova “stagione” culturale e scientifica.
I
processi applicativi sono quindi appena cominciati. Gli operatori del Don
Guanella che hanno frequentato questa serie di corsi di formazione,
ricongiungibili tutti ad un unico evento itinerante “Etica, salute,
spiritualità”, possono contribuire a questo processo inarrestabile di
cambiamento. Nel presente contesto culturale vige l’immagine, pressoché
universalmente condivisa, secondo cui la persona umana è centro di valori e di
diritti. Come esiste però un pluralismo etico di cui occorre tenere conto,
esiste anche una pluralità di concezioni antropologiche. La risposta alla
domanda su “chi è persona?” è rilevante perché condiziona le logiche di
inclusione ed esclusione nelle dinamiche di cura e di assistenza. Alla base del
complesso rapporto fra dignità della vita e qualità della vita si riscontra
spesso una separazione fra il concetto di vita personale e vita corporea, come
se potesse esserci la prima senza la seconda. Così si assiste ad un cambiamento
da un modello in cui l’esistenza dell’essere umano è considerata sacra, ad uno
che fa dipendere il valore della vita dalle capacità possedute dal soggetto in
un determinato momento. All’idea della vita come qualcosa di “dato” (da Dio o
dalla natura) si contrappone quella della vita come “progetto” dell’uomo
stesso, in cui si definisce quando e come nascere, quando e come morire, e si
stabilisce se essa sia, o meno, degna di essere vissuta. La valutazione di
questi modelli antropologici è incentrata sulla tesi secondo cui la dignità
della persona è il fondamento adeguato per promuoverne la qualità della vita.
Padre
Donato Cauzzo, Camilliano, segretario dell’Istituto Nazionale di Teologia
Pastorale Sanitaria Camillianum di Roma ha tenuto, nella prime giornate di
corso, l’intervento “Quale spiritualità nella quotidianità dell’assistenza” e
nelle seconde giornate la relazione su “La condizione umana: salute, sofferenza
e morte nel pensiero cristiano ”.
Nelle
lezioni delle prime giornate di formazione Padre Cauzzo ci ha relazionato su
cosa si intende per spiritualità: innanzitutto fa la distinzione tra
spiritualità e religiosità.
Spiritualità:
* l’aspirazione a trovare un senso
all’esistenza
* l’insieme delle convinzioni e dei
valori di una persona
* la tensione alla trascendenza
La
dimensione spirituale è anteriore all’adesione a un credo religioso
“Si
può vivere senza aderire ad alcuna religione. La spiritualità appartiene a
ciascuno di noi per il solo fatto di esistere” (Marie de Hennezel)
Non
si soffre solo nel corpo o nella psiche, ma anche nello spirito
bisogni spirituali
I
bisogni spirituali si collocano nelle diverse aree della persona:
* rapporto con se stessi
* rapporto con gli altri
* rapporto con il cosmo, la storia
* dimensione trascendente, rapporto col
divino
* senso dell’esistenza
Ogni
riflessione etica e la prassi assistenziale dipendono da come consideriamo la
persona: Per il personalismo l’uomo è unità di corpo e spirito
Ä “spirito incarnato” – “corpo spirituale”
La
persona non è la semplice somma delle diverse parti che la compongono ma: unità
di corpo + psiche + spirito
Ä le parti collegate / interdipendenti
Ä ogni parte influisce sulle altre
Nel
discorso del Camilliano è fondamentale mettere la persona “al centro”:
considerarla soggetto, partner della relazione terapeutica, capace di
collaborare. Il relatore ha parlato di un modello terapeutico esemplare: Gesù
di Nazareth
* instaura relazioni personali, un
dialogo tra uguali
* non ha atteggiamenti di superiorità o
paternalismo
* non impone la sua presenza né la
guarigione
* suscita l’iniziativa del malato
* lo toglie dall’isolamento, lo mette al
centro della scena
* rispetta la dignità e la privacy
* coinvolge la famiglia
* prende sul serio tutti – ogni
situazione
Solidarietà
e donazione sono due valori che rispettano la dimensione spirituale degli
operatori e degli assistiti. Solidarietà è il rapporto di fratellanza che
unisce i membri di una collettività e si manifesta con atti di reciproco aiuto:
“È
la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune”
(Giovanni Paolo II)
“Carità
sociale” (Pio XII)
Sul
piano umano, deriva dalla pari dignità di tutti e dal rapporto di
interdipendenza
Sul
piano cristiano, deriva dalla comune origine dall’unico Creatore, e dal
principio di fraternità universale
Destinatari
privilegiati della solidarietà sono coloro che soffrono
La
scelta di solidarietà di Gesù è preferenziale e concreta
Alla
radice della solidarietà c’è la compassione:
* Uso improprio del termine
* significato etimologico (da cum-patior
)
* sensibilità per saper interpretare le
situazioni di bisogno
* disponibilità a farsene carico, a
“mettersi in gioco”
* i pesi portati insieme sono più
leggeri, le gioie condivise si moltiplicano
Nella
domanda di salute, cresce la domanda di attenzione ai bisogni relazionali e “di
senso”
• Accanto a chi soffre: cosa posso
fare ? chi posso essere per lui ?
• La categoria del dono di sé unisce le
qualità dell’essere e del fare
• L’attività assistenziale non si riduce a
“prestazioni” ma coinvolge l’intera persona dell’operatore
• Ne derivano: migliore risposta ai bisogni
degli assistiti + più soddisfazione e realizzazione di sé per gli operatori
Il
bisogno di relazioni significative, anche per chi assiste
La
dimensione relazionale criterio di qualità dell’assistenza (cf. Piano sanitario
nazionale 1998-2000)
Le
virtù relazionali:
* disponibilità a lasciarsi interpellare
* l’ascolto
* trasmettere interesse e calore
* il rispetto per ogni malato
* l’empatia
* ottimismo e serenità
L’attenzione
ai bisogni religiosi (con discrezione e rispetto)
Concludendo
il discorso sulla spiritualità cristiana, Padre Donato la definisce come
l’esperienza di vita di chi mette in pratica l’insegnamento di Cristo. Ha
illustrato i diversi modi di vivere l’unica spiritualità cristiana nelle
diverse epoche storiche, nelle diverse forme di vita, sottolineando un aspetto
particolare del Vangelo.
La
spiritualità è caratteristica che nasce da un fondatore e dalla famiglia
religiosa da lui fondata; Qual è il primo comandamento? La “scoperta” di
Dio-Amore e la relazione di figliolanza; tutti suoi figli, quindi fratelli tra
noi – “consanguinei”. L’amore a Dio + l’amore al prossimo: la linea verticale e
la linea orizzontale - Coessenzialità di entrambe le dimensioni. L’amore al
prossimo: concreto ed esigente
L’amore
al prossimo è la via più breve per arrivare a Dio, è banco di prova e di
credibilità della fede. E’ uno “sguardo” da educare, da seguire come le
indicazioni della parabola del samaritano: amare tutti – amare per primi –
amare in concreto –amare fino in fondo – amare comunitariamente.
L’assistenza
è sempre un rapporto tra persone con un
grado maggiore o minore di autonomia. L’autonomia, però, si afferma e si
rafforza sempre in legami di dipendenza: pertanto, l’idea che una relazione di
dipendenza sia lesiva della dignità della persona nasce da una concezione
irreale dell’autonomia stessa. Non è la dipendenza, dunque, ad essere un
problema, ma il modo in cui essa viene realizzata tenendo conto, o meno, della
dignità della persona umana in ogni condizione o stadio della sua esistenza. Le
tematiche trattate da padre Donato
vogliono essere una risposta agli interrogativi che ognuno di noi,
almeno una volta nella vita, si è posto, poiché:
• Domandare sulla salute significa
domandare sull’uomo
• « Malattia e sofferenza sono fenomeni che
non riguardano soltanto il corpo, ma tutto l’uomo e pongono interrogativi
sull’essenza della condizione umana » (Giovanni Paolo II)
• Restituire alla salute e all’azione
terapeutica il valore simbolico di “rimandi” al valore integrale della vita e
della persona e alla salus
- esemplarità dell’impegno professionale
- la salute non è il fine ultimo della
vita, ma un mezzo
- la persona conserva la sua dignità anche
in mancanza di salute
- alleanza terapeutica tra chi chiede e chi
dona salute
- la salvezza offerta da Cristo orizzonte
ultimo della salute e della vita
L’esperienza
umana della sofferenza è un dato fondamentale e universale della condizione
umana, inseparabile dalla vita; « Una sorte penosa è disposta per ogni uomo… »
(Siracide). La sofferenza è un’esperienza personale e ognuno la vive “solo”. «
Ognuno sta solo sul cuor della terra … Ed è subito sera » (S. Quasimodo)
Le
reazioni dipendono da una varietà di fattori: oggettivi, personali, ambientali.
Decisivo è il significato che vi si attribuisce: « Chi ha un perché per vivere
può affrontare quasi ogni come » (F.
Nietzsche)
Il
Padre Camilliano ha relazionato su Sofferenza e morte alla luce dell’esperienza
di Gesù Cristo: Il Dio di Gesù Cristo: “Uno di noi” - « L’amore è la fonte più
ricca del senso della sofferenza. Cristo ci fa entrare nel mistero e ci fa
scoprire il perché » (Giovanni Paolo II, SD 13)
-
Nei vangeli nessun discorso di “spiegazione” del dolore e del male, né inviti
alla rassegnazione – la risposta nell’esperienza vissuta da Gesù fino al
“culmine”
-
Nel Figlio, Dio è partecipe della nostra condizione umana
-
Due tappe: nella prima parte del vangelo Gesù appare come portatore di gioia e
di liberazione dal male – nella seconda è il servo umiliato che va incontro
liberamente alla sua “ora” e soffre e muore in croce.
Anche
il modo in cui ha sofferto Gesù è esemplare e ci dimostra come Egli non ha
sofferto tutti i dolori, ma le reazioni e i sentimenti che essi provocano; non
ha cercato la sofferenza, ma ha lottato contro di essa. Quando è apparsa
inevitabile, l’ha affrontata come uno di noi, in maniera pienamente umana, ma:
nell’amore; le parole del Getsemani e del Calvario: parole di umanità – di
accoglienza e perdono – di fiducia in Dio. Altri nodi fondamentali del discorso
sono stati:
• Gesù non ha “spiegato” la sofferenza:
l’ha vissuta dal di dentro, svuotandola della sua assurdità, vivendola “per
amore”
• Gesù è stato trasformato dalla
sofferenza, e ha trasformato la sofferenza in “via” alla gloria
• Due insegnamenti:
• combattere il dolore e soccorrere chi ne
è colpito
• accettare la sofferenza ineliminabile e
il limite della morte
• Alla ricerca di senso: « Smettere di
chiedersi: “perché?”. Interro-garsi piuttosto su: “a quale scopo, verso dove?”
(M. de Hennezel)
• Opportunità di crescita – provocazione –
purificazione – ruolo educativo – revisione dell’immagine di Dio – scuola per i
sani
• Sofferenza e morte non sono le ultime
parole dell’esistenza
Volendo
concludere con le parole che il prof. Pessina ha pronunciato nella sua prima
relazione “L’assenza di pensiero non si identifica con la stupidità: si può
incontrarla in persone di intelligenza elevata e un cuore malvagio non ne
costituisce la causa: è vero probabilmente il contrario, che la malvagità può
essere causata dall’assenza di pensiero.
Nel prendersi cura degli altri emerge il vero problema della
relazionalità: nessuno può aiutare gli altri se non si è riconciliato in se
stesso con la sua condizione di mortale, di possibile sofferente, di uomo. La
paura “per noi” rischia di condizionare sotto le spoglie dell’altruismo una
schietta dedizione per l’altro. La prima forma di malvagità è l’indifferenza
nella quotidianità. La qualità dell’assistenza dipende dalla qualità umana del
nostro farci carico degli altri ma non si può cogliere l’umanità altrui se si è
inaridita la nostra. Quando si è amici, non c’è alcun bisogno di giustizia,
mentre, quando si è giusti, c’è ancora bisogno di amicizia ed il più alto
livello della giustizia si ritiene che consista in un atteggiamento di amicizia
(Aristotele, Etica Nicomachea).
Crediti assegnati
negli eventi formativi dell’educazione continua in medicina: obblighi ed
esenzioni per professioni
socio-sanitarie
L’ECM
è l’acronimo di Educazione Continua in Medicina; è un obbligo recente per i
professionisti operanti nel settore socio sanitario; gli articoli 16-bis e
16-ter del decreto legislativo 502 prevedono, in generale, l’obbligo formativo
per tutti gli “operatori sanitari”.
Sono
necessarie, però, alcune precisazioni in merito alle diverse situazioni professionali. Sul sito web del
Ministero della Salute sono pubblicate una serie di faq (domande frequenti). A
partire dal 2002, anno in cui inizia la fase a regime del Programma nazionale
di E.C.M., è obbligatoria la formazione continua. E' esonerato dall'obbligo
dell'E.C.M. il personale sanitario che frequenta, in Italia o all'estero, corsi
di formazione post-base propri della categoria di appartenenza (corso di
specializzazione, dottorato di ricerca, master, corso di perfezionamento
scientifico e laurea specialistica), previsti e disciplinati dal Decreto del
MURST del 3 novembre 1999, n. 509, pubblicato nella G.U. n. 2 del 4 gennaio
2000; corso di formazione specifica in medicina generale, di cui al Decreto
Legislativo 17 agosto 1999, n. 368, emanato in attuazione della Direttiva
93/16/CEE in materia di libera circolazione dei medici e di reciproco
riconoscimento dei loro diplomi, certificati ed altri titoli; formazione
complementare es. corsi effettuati ai sensi dell’art. 66 “Idoneità
all’esercizio dell’attività di emergenza” di cui al Decreto del Presidente
della Repubblica 28 luglio 2000 n. 270, Regolamento di esecuzione dell’accordo
collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina
generale; corsi di formazione e di aggiornamento professionale svolti ai sensi
dell’art. 1, comma 1, lettera d) “Piano di interventi contro l’AIDS” di cui
alla Legge 5 giugno 1990, n. 135, pubblicata nella G.U. n. 132 dell’8 giugno
1990) per tutto il periodo di formazione (anno di frequenza). Sono esonerati,
altresì, dall’obbligo E.C.M. i soggetti che usufruiscono delle disposizioni in
materia di tutela della gravidanza di cui alla legge 30 dicembre 1971, n. 1204,
e successive modificazioni, nonché in materia di adempimento del servizio
militare di cui alla legge 24 dicembre 1986, n. 958, e successive
modificazioni, per tutto il periodo (anno di riferimento) in cui usufruiscono o
sono assoggettati alle predette disposizioni.
Alcune
Associazioni professionali di operatori sanitari hanno chiesto alla Segreteria
della Commissione nazionale ECM conferma dell’obbligatorietà del Programma ECM
per i liberi professionisti, facendo riferimento alle considerazioni svolte dal
TAR Lazio nella sentenza n. 14062/2004 del 18 novembre 2004 che ha rigettato il
ricorso proposto dalla FIMMG avverso il decreto del Ministro della salute 31
maggio 2004.
Le
perplessità sulla obbligatorietà dell’ECM per i liberi professionisti sono
derivate dal fatto che il TAR Lazio ha sentenziato che “per una migliore
comprensione dei fatti in causa L’ECM si rende
obbligatoria solo per i sanitari dipendenti dagli enti del SSN, o per
quelli che con esso collaborano in regime di convenzione o d’accreditamento”;
infatti i costi di aggiornamento e formazione sono a carico del servizio
sanitario nazionale.
Viceversa,
per i professionisti, che erogano prestazioni sanitarie non coperte dal SSN, il
controllo della prestazione connesso alla formazione e all’aggiornamento è
rimesso, oltre che al mercato (ossia all’apprezzamento, o meno, del
cliente-paziente), agli Ordini ed ai Collegi professionali, quindi per questa
categoria l’ECM rappresenta un onere, non un obbligo”.
Il
TAR Lazio non ha affrontato il problema dell’obbligatorietà o meno dell’ECM per
i liberi professionisti ma si è limitato
a svolgere alcune considerazioni sugli articoli 16-bis e 16-ter del decreto
legislativo 502/92, e successive modificazioni, al fine di “chiarire per sommi
capi il quadro fattuale e normativo di riferimento del DM impugnato”.
Da
una parte, non è sostenibile l’interpretazione della obbligatorietà o meno
dell’ECM basata sulla diversa attribuzione dei costi dell’ECM fra
dipendenti/convenzionati e liberi professionisti, in quanto, per il personale
dipendente e convenzionato, il S.S.N. si accolla, solo in alcuni casi e solo in
parte, i costi dell’ECM. Infatti gli accordi, sanciti dalla Conferenza
Stato-Regioni, hanno previsto che i costi delle attività formative possono
gravare sulle risorse per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale …
solo entro il limite costituito dall’importo complessivo medio di spesa
annualmente registrata nel triennio 2001/2003 per interventi formativi nel
campo sanitario nelle singole Regioni.
La
Formazione continua è, infatti, un requisito essenziale per il corretto
esercizio professionale, ossia per il mantenimento nel tempo dell’abilitazione
all’esercizio professionale di ciascun operatore sanitario; in quanto tale,
deve essere necessariamente obbligatoria per tutti i professionisti e
richiedere regole e garanzie uniformi su tutto il territorio nazionale. Regole
e garanzie che sempre di più saranno comuni a tutti i Paesi dell’Unione
europea.
La
verifica periodica dell’abilitazione professionale, ossia la verifica del
mantenimento di adeguati livelli di conoscenze professionali e del miglioramento
delle competenze proprie del profilo di appartenenza, è possibile attraverso
vari strumenti. L’ECM è, allo stato, l’unico strumento preordinato
all’aggiornamento professionale ed alla formazione permanente per tutti i
professionisti della salute che consente la verifica periodica del mantenimento
dell’abilitazione professionale. Ovviamente saranno necessarie ulteriori
specifiche disposizioni legislative in materia. Si rileva comunque che il
d.d.l. governativo sulle professioni sanitarie non mediche (A.C. 3236) già
prevede al riguardo che “l’abilitazione all’esercizio della professione
sanitaria non medica è sottoposta a verifica periodica con modalità identiche a
quelle previste per la professione medica”. In tale prospettiva il Piano
Sanitario 2003/2005, approvato con D.P.R. 23 maggio 2003, ha confermato
chiaramente l’obbligatorietà della formazione continua per tutti i
professionisti della salute. Il Piano sanitario, facendo riferimento al
Programma ECM, fra i dieci progetti proposti per il cambiamento, prevede,
infatti, quello di “realizzare una formazione permanente di alto livello in
medicina e sanità” e, al riguardo, afferma che “elemento caratterizzante del
programma è la sua estensione a tutte le professioni sanitarie”. E' possibile
acquisire crediti ECM partecipando in qualità di docente o relatore ad un
evento o ad un progetto formativo aziendale accreditato. Infatti i
docenti/relatori hanno diritto, previa richiesta all'organizzatore, a 2 crediti
formativi per ogni ora effettiva di docenza in eventi o progetti formativi
aziendali accreditati ECM, entro il limite del 50% di crediti formativi da
acquisire nel corso dell’anno solare (per il 2002 massimo 5 crediti riferiti ad
attività di docenza). I crediti possono essere acquisiti in considerazione
esclusivamente delle ore effettive di lezione; i crediti non possono, cioè,
essere frazionati o aumentati in ragione dell’impegno inferiore o superiore ai
sessanta minuti di lezione (es. un’ora o un’ora e trenta minuti di lezione
danno diritto a due crediti formativi; le lezioni di durata inferiore a
sessanta minuti non possono essere prese in considerazione, né possono
cumularsi frazioni di ora per docenze effettuate in eventi diversi).
I
docenti/relatori possono conseguire solo i predetti crediti ECM: non possono
conseguire i crediti formativi in qualità di partecipanti ad eventi nei quali
effettuano attività di docenza. Per ciò che concerne le assenze, ai fini
dell’acquisizione dei crediti formativi ECM, è necessaria la presenza degli
operatori sanitari interessati effettiva del 100% rispetto alla durata
complessiva dell’evento formativo residenziale, mentre, ai sensi dell’art.1,
comma 4, del D.M. 27/12 /2001 la presenza effettiva degli operatori sanitari
interessati al progetto formativo aziendale è del 90%. Nei particolari casi di
assenza brevissima sarà cura dell’Organizzatore valutarne la giustificazione e
l’incidenza dell’assenza sull’apprendimento finale essendo unico responsabile
dell’evento residenziale o del progetto formativo aziendale.
Quando
l’organizzatore richiede l’accreditamento di un evento formativo destinato a
più professioni, di fatto richiede più accreditamenti per ciascuna delle
professioni coinvolte. Le valutazioni di questi eventi formativi sono
attribuite automaticamente da esperti che sono competenti per la professione e
per la disciplina indicata dall’organizzatore.
Gli
esperti, relativamente alla professione di riferimento, valutano quanto e se è
coerente: l’obiettivo formativo, il percorso didattico, i docenti che insegnano
in relazione all’argomento trattato e la sua ricaduta sulla specifica
professione.
E’
possibile che quello che vale per una professione possa non avere lo stesso
valore culturale scientifico per un’altra professione. Ciò provoca valutazioni
diverse di uno stesso evento.
In
generale lo stesso evento formativo destinato a più di una professione può
avere per le varie professioni coinvolte crediti uguali o diversi, anche se di
pochi crediti. Ricordando che è esonerato dall'obbligo dell'E.C.M. il personale
sanitario che frequenta, in Italia o all'estero, corsi di formazione post-base
propri della categoria di appartenenza, sono esenti anche i soggetti che
usufruiscono delle disposizioni in materia di tutela della gravidanza di cui
alla legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (astensione obbligatoria), e successive
modificazioni; i soggetti che usufruiscono delle disposizioni in materia di
adempimento del servizio militare di cui alla legge 24 dicembre 1986, n. 958, e
successive modificazioni. Naturalmente occorre conservare la documentazione
comprovante la facoltà della fruizione dell'esonero, data l'impossibilità di
frequentare i corsi.
L'esonero
dall'obbligo di acquisire i crediti è valido per tutto il periodo (anno di
riferimento) in cui i soggetti interessati usufruiscono o sono assoggettati
alle predette disposizioni. Occorre specificare che nel caso in cui il periodo
di assenza dal lavoro ricadesse a cavallo di due anni, l'anno di validità per
l'esenzione dai crediti sarà quello in cui il periodo di assenza risulta
maggiore. Ad esempio: se l'astensione obbligatoria cade nel periodo da
settembre 2003 a gennaio 2004, l'esenzione dall'obbligo di acquisire i crediti
sarà valida esclusivamente per l'anno 2003, ossia per l'anno 2003 non si devono
acquisire i crediti.
Eventuali
crediti percepiti nell'anno di esenzione non possono essere portati in
detrazione per l'anno successivo, in quanto vengono assorbiti dal diritto di
esonero vantato dall'operatore per le tipologie indicate precedentemente.
In
conclusione, il Programma ECM deve ritenersi obbligatorio per tutti gli
operatori sanitari dipendenti, convenzionati o liberi professionisti; tutte le
figure del ruolo sanitario, indicate genericamente come "operatori della
Sanità", comprendono: Medico chirurgo, Veterinario, Odontoiatra,
Farmacista, Biologo, Chimico, Fisico, Psicologo, Assistente sanitario,
Dietista, Educatore professionale, Fisioterapista, Igienista dentale,
Infermiere, Infermiere pediatrico, Logopedista, Ortottista/Assistente di
oftalmologia, Ostetrica/o Podologo, Tecnico della riabilitazione psichiatrica,
Tecnico della fisiopatologia cardiocircolatoria e perfusione cardiovascolare,
Tecnico audiometrista, Tecnico audioprotesista, Tecnico della prevenzione
nell'ambiente e nei luoghi di lavoro, Tecnico di neurofisiopatologia, Tecnico
ortopedico, Tecnico sanitario di laboratorio biomedico, Tecnico sanitario di
radiologia medica, Terapista della neuro e psicomotricità dell'età evolutiva,
Terapista occupazionale, Ottico, Odontotecnico.
L'attestato
di partecipazione all'evento formativo o al PFA, dopo il preliminare controllo
dei dati ivi riportati quali l'organizzatore, l'evento e la professione, deve
essere scrupolosamente conservato dall'interessato ai fini della successiva
verifica dell'aggiornamento effettuato, da parte delle Istituzioni (Regioni,
Aziende Ospedaliere, Ordini e Collegi) che saranno successivamente rese note
sul sito a cura della Segreteria della Commissione
Chi
si reca per un lungo periodo all’estero, per giustificati motivi (per esempio
legge N. 26 dell’11 febbraio 1980) o per attività lavorative svolte, ed è un
operatore sanitario, avente obbligo ECM ne viene esonerato. Tale esonero
dall'obbligo di acquisire i crediti è valido per tutto il periodo (anno di
riferimento) in cui i soggetti interessati usufruiscono o sono assoggettati
alle predette disposizioni.
Occorre
specificare che nel caso in cui il periodo di assenza dal lavoro ricadesse a
cavallo di due anni, l'anno di validità per l'esenzione dai crediti sarà quello
in cui il periodo di assenza risulta maggiore.
Il
debito formativo decorre dall'anno successivo a quello di conseguimento del
titolo e dell'iscrizione all'Albo o al Collegio di riferimento. Se la data di
iscrizione all'Albo professionale non è immediatamente successiva alla data del
conseguimento del titolo abilitante, è comunque legittimo ritenere l'obbligo
formativo vigente dall'anno successivo a quello di iscrizione.
Eventuali
crediti percepiti nell'anno di esenzione non possono essere portati in
detrazione per l'anno successivo, in quanto vengono assorbiti dal diritto di
esonero vantato dall'operatore. I crediti per il primo quinquennio sono stati
fissati in complessivi 150 crediti, con un obbligo progressivo di crediti da 10
per il primo anno fino a 50 per il quinto anno (10-20-30-30-50) con un minimo
annuale di almeno il 50% del debito formativo previsto per l'anno e con un
massimo annuale del doppio del credito formativo previsto per l'anno. Il numero
dei crediti da conseguire ogni anno e nel quinquennio è uguale per tutte le categorie.
Alla
luce di tale premessa, la Commissione ha ritenuto opportuno prevedere una
progressione nel numero di crediti acquisibili annualmente secondo il programma
quinquennale così definito : 2002 : 10
crediti (con un minimo di 5 ed un massimo di 20); 2003 : 20 crediti (con un
minimo di 10 ed un massimo di 40); 2004 : 30 crediti (con un minimo di 15 ed un
massimo di 60); 2005 : 30 crediti (con un minimo di 15 ed un massimo di 60); 2006
: 50 crediti (con un minimo di 25 ed un massimo di 100).
Pertanto,
per l'anno 2004, chi ha conseguito 15 crediti (il minimo previsto), potrà
recuperare gli ulteriori 15 nel corso dell'anno 2005; mentre chi ne ha ottenuti
fino a 60 (il massimo previsto), potrà utilizzare i crediti in esubero per
l'anno 2005.
Per
ciò che concerne la progettazione di un evento formativo ECM possiamo affermare
che funziona come la progettazione tradizionale anche se più facilitata dal
fatto che la stesura finale del progetto avviene telematicamente attraverso un
accesso controllato sul sito del ministero della Salute oppure sui siti
regionali allo scopo deputati. Infatti dopo l’accesso sul sito si chiede al
gestore un numero identificativo e una password che permetteranno gli accessi
successivi con la possibilità di validare i contenuti attraverso una procedura
particolare che si serve di schermate susseguenti.
Molti
siti non sono perfetti, come ad esempio quello del ministero della salute, e
non danno la possibilità di trattenere i dati in memoria senza valicarli; ciò
significa che il progettista, se non riesce ad inserire il proprio lavoro in
una unica soluzione, è costretto a ricominciare daccapo come se non avesse
fatto nulla. Il sito della regione Veneto, invece, è fatto molto bene, si serve
di schermate molto semplici e da la possibilità di salvare il lavoro fino al
punto in cui interessa, dando la possibilità di riprendere o modificare
all’accesso successivo. Il progettista, inoltre, ha a disposizione la
possibilità di consultare guide in linea o scaricarne l’equivalente in formato
cartaceo assieme a moduli preordinati relativi ad autocertificazioni, schede
docenti, valutazione degli operatori, dichiarazioni di assenza
d’incompatibilità con gli obiettivi nazionali, e quant’altro possa agevolare il
lavoro organizzativo.
Obiettivo
del corso è stato quello di aiutare gli operatori socio-sanitari ad affrontare
le diverse problematiche che emergono nella relazione con persone bisognose di
una cura protratta nel tempo e individuare le esigenze, non solo
clinico-assistenziali, a cui un’etica della condizione umana deve dare
risposta. Per far ciò risulta imprescindibile mettere in luce i fattori
culturali che concorrono a formare la personalità dell’operatore stesso. Per
questo motivo si sono affrontati anche i cambiamenti verificatisi all’interno
della medicina e della società che condizionano forme di assistenza alla
persona. L’idea di una riflessione etica sulla condizione umana nasce
dall’esigenza di valorizzare la dignità della persona, sia dell’operatore sia
dell’assistito.
1 – La bioetica come
sfondo culturale delle nuove prassi assistenziali
Il
problema dell’assistenza non può essere pensato a prescindere dal contesto
storico sociale in cui si pone. Una riflessione sull’etica della condizione
umana deve in tal senso tener conto di una ormai diffusa disomogeneità nelle
valutazioni morali che, problematicamente, porta a ritenere il pluralismo etico
non solo un fatto, ma anche un valore. La bioetica diviene così un riferimento
importante quando cerca di salvaguardare
la pluralità dei valori riconoscendo, nello stesso tempo, l’unicità della
morale. Essa aiuta anche a comprendere i cambiamenti inerenti alle relazioni di
cura. Da un lato il rapporto tra medico e paziente tende ad assumere una forma
contrattuale e, quindi, potenzialmente conflittuale, dall’altro il passaggio
dalle cure intensive a quelle estensive modifica profondamente i tempi e le
relazioni di assistenza. La bioetica si evidenzia, in questo senso, come una
disciplina capace di cogliere e valutare i cambiamenti inerenti alla realtà
culturale che fanno da sfondo alle nuove prassi assistenziali.
2 – Dignità della
persona e qualità della vita
Nel
presente contesto culturale vige l’immagine, pressoché universalmente
condivisa, secondo cui la persona umana è centro di valori e di diritti. Come
esiste però un pluralismo etico di cui occorre tenere conto, esiste anche una
pluralità di concezioni antropologiche. La risposta alla domanda su “chi è
persona?” è rilevante perché condiziona le logiche di inclusione ed esclusione
nelle dinamiche di cura e di assistenza. Alla base del complesso rapporto fra
dignità della vita e qualità della vita si riscontra spesso una separazione fra
il concetto di vita personale e vita corporea, come se potesse esserci la prima
senza la seconda. Così si assiste ad un cambiamento da un modello in cui
l’esistenza dell’essere umano è considerata sacra, ad uno che fa dipendere il
valore della vita dalle capacità possedute dal soggetto in un determinato
momento. All’idea della vita come qualcosa di “dato” (da Dio o dalla natura) si
contrappone quella della vita come “progetto” dell’uomo stesso, in cui si
definisce quando e come nascere, quando e come morire, e si stabilisce se essa
sia, o meno, degna di essere vissuta. La valutazione di questi modelli
antropologici è incentrata sulla tesi secondo cui la dignità della persona è il
fondamento adeguato per promuoverne la qualità della vita.
3 – Autonomia e
dipendenza nella condizione umana
L’assistenza
è sempre un rapporto tra persone con un
grado maggiore o minore di autonomia. L’autonomia, però, si afferma e si
rafforza sempre in legami di dipendenza: pertanto, l’idea che una relazione di
dipendenza sia lesiva della dignità della persona nasce da una concezione
irreale dell’autonomia stessa. Non è la dipendenza, dunque, ad essere un
problema, ma il modo in cui essa viene realizzata tenendo conto, o meno, della
dignità della persona umana in ogni condizione o stadio della sua esistenza.
Il processo
di aziendalizzazione della sanità italiana richiede a regioni e aziende di
sviluppare capacità strategiche e organizzative per:
Analizzare
le caratteristiche del bisogno di salute della propria popolazione di
riferimento, della domanda sanitaria e del comportamento degli utenti,
individuando eventuali cambiamenti in atto o probabili in futuro;
Verificare
il proprio livello di efficacia attuale;
Innovare
e gestire in modo sempre efficiente ed efficace i propri servizi. L’analisi
delle caratteristiche dei bisogni e della domanda richiede la considerazione di
una pluralità di variabili (demografiche, epidemiologiche, sociali ed
economiche), la cui incidenza varia tra le regioni e all’interno delle stesse.
Al
31 dicembre 2006 la popolazione complessiva italiana risultava pari a
58.751.711 residenti, mentre alla stessa data del 2005 ammontava a 58.462.375.
Si rileva, quindi, un incremento della popolazione di quasi 290 mila abitanti,
pari allo 0,5 per cento della popolazione. Tale incremento è in larga parte
ancora dovuto alle iscrizioni anagrafiche successive alla regolarizzazione
degli stranieri presenti in Italia.
Analizzando
alcuni indicatori di struttura demografica riferiti alla popolazione italiana
al 31 dicembre 2004, si rileva che la quota di persone con più di 65 anni
costituisce il 19 per cento della popolazione (dato in costante crescita) e che
l’indice di vecchiaia è pari a 134,1:
vale a dire che ci sono circa 134 anziani ogni 100 bambini (Tabella 6).
Le
regioni caratterizzate da un minor peso della popolazione anziana (65 anni e
più) sono quelle del Sud (in particolare la Campania) e la Provincia autonoma
di Bolzano; mentre le regioni del Centro-Nord (in particolare la Liguria)
presentano un peso più elevato ri spetto
al corrispondente valore nazionale. L’indice di dipendenza economica
(indicatore di rilevanza economica e sociale) mostra invece che ci sono 50,1
persone «non attive» ogni 100 persone «attive». Pur non tenendo conto
dell’effettivo grado di partecipazione alla vita attiva da parte di coloro che
sono nell’età per farlo (né del fatto che ci sono persone in età non attiva che
svolgono un’attività lavorativa), tale indice ci fornisce in maniera
approssimativa il carico che grava sulla popolazione attiva per il mantenimento
di quella non attiva.
Oltre
ai fattori demografici, altri fattori rilevanti nell’analisi dei bisogni sono
quelli economici, sociali ed epidemiologici. Proprio le differenze territoriali
rispetto a queste variabili possono spiegare il differente ricorso ai servizi sociosanitari.
Regioni e aziende devono quindi sviluppare tecniche e modalità operative per
l’analisi dei bisogni che sappiano integrare dati demografici, epidemiologici,
sociali ed economici e permettano l’individuazione dei migliori servizi da
offrire alla popolazione.
A
tal fine, un primo passaggio rilevante è quello di valutare l’attuale capacità
di risposta ai bisogni, individuando adeguati indicatori dei livelli di
efficacia raggiunti.
Tra
gli indicatori di efficacia gestionale assumono particolare rilevanza (e per
questo sono presentati di seguito) quelli relativi a:
Flussi
di mobilità;
Tempi
di attesa;
Ricorso
ai servizi sanitari.
La
migrazione sanitaria, ossia il ricovero in una struttura ospedaliera
localizzata in un’altra regione rispetto a quella di residenza, può essere
motivata da ragioni sanitarie oggettive (centri di alta specialità, malattie
rare), da esigenze geografiche, viarie o familiari, da un’inadeguata
distribuzione dei servizi diagnostico-terapeutici, da disinformazione, oppure
da differenze reali o percepite tali rispetto alla qualità delle cure offerte dalle
strutture regionali ed extraregionali.
L’analisi dei flussi di mobilità può essere
quindi utilizzata per valutare la qualità dei servizi sanitari offerti dalle
diverse strutture o regioni, considerando le scelte di mobilità dei pazienti
come un parametro della reputazione delle stesse. In particolare si segnala
che:
La
Lombardia è la regione che attrae oltre il 20 per cento della mobilità complessiva
fuori regione, seguita da Emilia (12,6 per cento), Lazio (11,3 per cento), Veneto
(7,9 per cento) e Toscana (7,5 per cento). Come già evidenziato, questi valori
sono in parte determinati dalla disponibilità di specifiche specialità, oltre
che da una molteplicità di fattori (come, per esempio, i flussi turistici, i
flussi di emigrazione e immigrazione, i fattori culturali, l’accessibilità e
comodità delle regioni confinanti), ma sono anche in parte legati alla
reputazione delle strutture di alcune regioni;
Se si considera la provenienza dei pazienti
ricoverati fuori regione rispetto alla mobilità complessiva, è la Campania a
presentare la percentuale più elevata (11,2 per cento), seguita da Lazio (8,8
per cento), Lombardia (8,4 per cento),
Sicilia e Puglia (8,1 per cento) e Calabria (8 per cento). Si consideri che la
popolazione residente in Campania rappresenta il 10 per cento della popolazione
italiana. Le percentuali per le altre regioni citate sono: 9 per cento (Lazio),
15,9 per cento (Lombardia), 8,7 per cento (Sicilia), 7 per cento (Puglia) e 3,5
per cento (Calabria).
I tempi di attesa
Rispetto
ai tempi di attesa, negli ultimi anni, è stata dedicata forte attenzione al
problema delle liste di attesa, come dimostrano i numerosi richiami e
provvedimenti normativi per la riduzione e gestione delle stesse. In
particolare, il piano sanitario nazionale 2006-2008 chiarisce che:
«l’erogazione
delle prestazioni entro tempi appropriati alle necessità di cura degli
assistiti rappresenta una componente strutturale dei livelli essenziali di
assistenza. Per questo motivo, l’eccessiva lunghezza delle liste rappresenta,
nei fatti, la negazione del diritto dei cittadini ad accedere ai livelli
essenziali. La soluzione di questo problema è particolarmente complessa e
richiede interventi volti sia alla razionalizzazione dell’offerta di
prestazioni sia alla qualificazione della domanda. Per questi aspetti ci si
atterrà a quanto previsto dal Piano nazionale per il contenimento dei tempi di
attesa previsto dalla legge n. 266 del 23 dicembre 2005».
Nello
specifico, all’art. 1 comma 280 della legge finanziaria 2006 subordina
l’accesso al concorso delle somme stanziate a livello nazionale per la
copertura dei disavanzi sanitari regionali (in deroga a quanto stabilito dalla
legge 405/2001) alla stipula di una intesa tra stato e regioni che preveda la
realizzazione da parte delle regioni degli interventi previsti dal piano
nazionale di contenimento dei tempi di attesa. Per questo motivo, il 28 marzo
del 2006 è stato approvato lo schema di intesa tra il governo, le regioni e le
Province autonome di Trento e di Bolzano sul piano nazionale di contenimento
dei tempi di attesa per il triennio 2006-08, di cui all’art. 1 comma 280 della
legge finanziaria 2006, il quale definisce:
L’elenco
delle prestazioni diagnostiche, terapeutiche e riabilitative di assistenza
specialistica ambulatoriale e di assistenza ospedaliera, per le quali vanno
fissati i tempi massimi di attesa da parte delle singole regioni entro novanta
giorni;
La
previsione che, in caso di mancata fissazione da parte delle regioni dei tempi
di attesa di cui sopra, nel le regioni interessate si applicano direttamente i
parametri temporali determinati, entro novanta giorni dalla stipula della
stessa intesa;
La
quota delle risorse da vincolare alla realizzazione di specifici progetti
regionali per il perseguimento dell’obiettivo del piano nazionale di
contenimento dei tempi di attesa (determinata in euro 150 milioni e destinata
anche alla realizzazione del centro unico di prenotazione, che opera in
collegamento con gli ambulatori dei medici di medicina generale, i pediatri di
libera scelta e le altre strutture del territorio, utilizzando in via
prioritaria i medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta);
Le
modalità di attivazione nel nuovo sistema informativo sanitario (NSIS) di uno
specifico flusso informativo per il monitoraggio delle liste di attesa;
Le
modalità di certificazione della realizzazione degli interventi in attuazione
del piano da parte del comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei
livelli essenziali di assistenza.
In
linea di massima, se si osservano i risultati del monitoraggio nazionale sui
tempi e le liste di attesa tenuto a gennaio 2004, in attuazione di quanto
indicato dall’accordo stato-regioni dell’11 luglio 2002, sembra emergere
comunque un miglioramento delle performance delle aziende rispetto a questo
tema, benché in molte regioni si continuino a non rispettare gli standard
previsti dall’accordo stesso, soprattutto con riferimento alle visite specialistiche.
In
conclusione, indipendentemente dalle strategie generali su base regionale, i
provvedimenti assunti in tema di riduzione dei tempi di attesa si
caratterizzano per un carattere sempre più spiccatamente aziendale. Le
differenze tra tempi di attesa per le singole prestazioni erogate da aziende
differenti nell’ambito della stessa regione, talvolta anche in territori assai
vicini tra loro, ne è una testimonianza evidente. Ciò è comprensibilissimo,
anche in considerazione della rilevanza degli aspetti organizzativi e
gestionali, oltre che della necessità di raccordarsi strettamente ai bisogni
del territorio.
Presentiamo, infine, i dati relativi a
un’indagine, condotta da Ermeneia-Studi & Strategie di Sistema (una società
specializzata che si occupa di analisi e di consulenza per le associazioni di
categoria e per i soggetti pubblici e privati) per l’AIOP (Associazione
italiana ospedalità privata) nel settembre del 2005, volta a ricostruire il
rapporto tra famiglie italiane e ospedali. L’indagine è stata svolta attraverso
la somministrazione di questionari a un campione rappresentativo di popolazione
italiana da 18 anni in su (4.011 persone adulte) e i risultati presentano, con
un intervallo di confidenza del 95 per cento, un margine di errore valutabile a
± 1,55 per cento.
Secondo l’indagine condotta da Ermeneia, gli
italiani fanno ricorso ai servizi ospedalieri tendenzialmente per malattie
lievi, con un andamento di fatto costante nel corso dell’ultimo triennio. Se si
va ad analizzare il fenomeno in relazione alle caratteristiche del campione è
possibile evidenziare:
Uomini e donne ricorrono con le stesse
modalità ai
servizi ospedalieri;
Il
ricorso all’ospedale è maggiore dopo i 55 anni, ma è elevata anche la
percentuale tra i 25 e i 34 anni; ci sono i cittadini delle regioni del Nord a
usufruire con maggior frequenza delle cure ospedaliere, con una percentuale di
popolazione che per diversi motivi ha fatto ricorso all’ospedale superiore al
30 per cento, a fronte del 26,5 per cento delle regioni centrali e del 17,7 per
cento delle regioni meridionali;
Casalinghe
e pensionati evidenziano una percentuale di fruizione dei servizi ospedalieri
decisamente superiore alla media nazionale, mentre non si evidenziano
differenze significative in relazione al livello d’istruzione dei pazienti.
Il
livello di soddisfazione di chi ha fatto ricorso nell’ultimo anno ai servizi
ospedalieri sembra piuttosto buono: quasi il 25 per cento di chi ha fatto
ricorso alle cure ospedaliere nell’ultimo anno si dichiara molto soddisfatto,
mentre quelli abbastanza soddisfatti sono il 61,7 per cento e solo l’11,5 per
cento si dimostra poco o per niente soddisfatto.
Se
si va ad analizzare nel dettaglio il motivo per cui si ricorre all’ospedale,
emerge che le prestazioni più richieste siano le analisi e le visite
specialistiche: di fatto, la situazione era simile anche nel 2004 e nel 2003,
ma si rileva nel 2005 un aumento consistente del ricorso al pronto soccorso (il
che sembra andare in direzione opposta rispetto al tentativo, condotto in tutte
le regioni, di razionalizzare l’accesso alle strutture di emergenza). Se si va
ad analizzare il fenomeno in relazione alle caratteristiche del campione è
possibile evidenziare:
Uomini
e donne ricorrono tendenzialmente per gli stessi motivi ai servizi ospedalieri;
Per
analisi e visite specialistiche ricorrono di più i cittadini con più di 55
anni, per interventi e cure quelli tra 18 e 24 anni mentre l’accesso al pronto
soccorso è più elevato tra i 25 e i 34 anni;
Sono
i cittadini delle regioni del Nord a usufruire con maggior frequenza di analisi
e visite specialistiche, mentre sono quelli del Sud a richiedere più cure,
interventi e prestazioni d’urgenza;
Casalinghe
e pensionati evidenziano ricorso superiore alla media ad analisi e visite
specialistiche ospedaliere, mentre a ricorrere alle cure sono soprattutto i
lavoratori dipendenti, mentre non si evidenziano differenze significative in
relazione al livello d’istruzione dei pazienti.
Il ricorso alle prestazioni ospedaliere, inoltre,
come ampiamente dimostrato nell’ambito del presente paragrafo, avviene non solo
all’interno del proprio comune o dell’ASL di appartenenza ma anche fuori
regione e addirittura al di fuori dei confini nazionali.
Tuttavia,
più di un terzo del campione intervistato ha dichiarato di non essere a
conoscenza della possibilità di curarsi in una regione diversa da quella di
appartenenza e, in generale, solo il 21,8 per cento si è definito perfettamente
a conoscenza di questa facoltà. Nonostante ciò, la disponibilità degli
intervistati a recarsi fuori regione o anche in uno stato diverso per curarsi è
alta ed è aumentata nel corso dell’ultimo anno.
Nel
delineare l’articolazione generale dei vari settori d Servizio sanitario
nazionale (SSN), e quindi le risposte ai bisogni di salute dei cittadini, è
bene premettere a cune considerazioni che riguardano le trasformazioni che la
salute degli italiani ha subito negli ultimi anni sia l’evoluzione demografica,
sia le mutate condizioni economiche e sociali della popolazione hanno portai il
sistema sanitario ad adeguarsi non solo dal punto vista dell’organizzazione dei
servizi, ma anche di quello normativo.
Il progresso compiuto dalla medicina nella diagnostica
e nella terapia, le nuove tecnologie, hanno permesso di allungare sensibilmente
la vita media del popolazione e di migliorarne la qualità. I tassi di mortalità
si sono ridotti, l’attesa di vita è aumentata ed sensibilmente cresciuta la
popolazione anziana; allo stesso tempo sono aumentate le cosiddette “malattie del
benessere”, come l’obesità o il disagio mentale. In modo parallelo, è cresciuta
la consapevolezza dei cittadini rispetto ai propri bisogni e alle possibilità
di miglioramento del proprio stato di salute e ciò ha consenti di dare
un’importanza sempre maggiore al fattore della prevenzione.
Secondo
gli ultimi dati Istat cresce l’invecchiamento: gli italiani con più di 65 anni
rappresentano il 20 per cento della popolazione e in particolare i grandi
anziani, con più di 90 anni di età, sono circa 500.000. I dati relativi
all’anzianità della popolazione italiana residente sono sensibilmente superiori
a quelli di altri paesi dell’Unione Europea, dove in nessun caso si arriva a
sfiorare il numero di 130 anziani per ogni 100 ragazzi con età fino a 14 anni,
quota superata dall’Italia già all’inizio degli anni Duemila. La spesa
sanitaria cresce naturalmente anche in relazione all’aumento dell’età.
Invecchiando, le persone si ammalano di più, si complicano le malattie croniche,
aumentano i consumi sanitari e le spese mediche.
Questo
dato di fatto crea motivi di preoccupazione per l’aumento della spesa sanitaria
se si guarda alle previsioni demografiche che segneranno l’Italia nei prossimi
cinquant’anni. Il cambiamento Secondo
l’Istat, nel 2050 la popolazione italiana avrà subito una diminuzione di 4,7
milioni di abitanti, rispetto al 2005, e le persone anziane costituiranno il 34
per cento del totale. Su 52 milioni di abitanti, gli anziani saranno ben 18
milioni. Di conseguenza, la spesa per assistere gli anziani nel 2050 potrebbe
assorbire i due terzi del budget del Servizio sanitario nazionale.
L’uso
dei servizi sanitari cresce progressivamente con l’aumentare dell’età.
Attualmente, la popolazione con oltre 60 anni di età assorbe, infatti, la
grande maggioranza delle prestazioni sanitarie: l’87 per cento dei ricoveri in
ospedale, il 69 per cento dei farmaci e il 51 per cento delle prestazioni
specialistiche. La salute in cifre Secondo i dati del ministero della Salute le
malattie cardiovascolari sono al primo posto tra le cause di mortalità e di
malattia della popolazione. In Italia ogni 14 minuti circa una persona muore di
infarto acuto del miocardio, mentre ne muoiono sette ogni ora per ictus
cerebrale. Inoltre, è da segnalare che lo scompenso cardiaco colpisce
notevolmente la popolazione anziana: vi sono circa 3 milioni di persone affette
da tale patologia, proprio lo scompenso cardiaco è al primo posto in assoluto
tra le cause di ricoveri ospedalieri.
Per
le neoplasie si calcola che annualmente siano diagnosticati oltre 250.000 nuovi
casi di natura maligna e ogni anno si registrano 940.000 ricoveri per tali
affezioni. Il diabete rappresenta un problema sanitario per le persone di tutte
le età con un maggiore coinvolgimento per le classi economicamente più
svantaggiate. Questa malattia è in costante aumento, tanto che gli esperti
parlano di una vera e propria “epidemia mondiale di diabete”.
Le
malattie respiratorie prevalenti sono l’asma e la bronchite cronica, che
colpiscono più del 20 per cento della popolazione con età superiore ai 65 anni.
Le malattie respiratorie rappresentano la terza causa di patologia cronica,
mentre la broncopneumopatia cronica ostruttiva è la quarta causa di morte nel
mondo industrializzato.
L’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) indica poi nelle malattie reumatiche la prima causa
di dolore e disabilità in Europa e precisa che esse rappresentano la metà delle
affezioni croniche che colpiscono persone al di sopra dei 65 anni.
Infine,
la tutela della salute mentale continua a essere oggetto di attenzione
prioritaria nella programmazione degli interventi sociali e sanitari nei paesi
industrializzati e anche in Italia vi è un aumento della prevalenza di disturbi
mentali con diversi gradi di disabilità e di sofferenze individuali e dei
relativi costi economici.
La
definizione dei livelli essenziali di assistenza costituisce nel nostro paese
un punto di svolta determinante per il sistema sanitario, in quanto rappresenta
la risposta del Servizio sanitario nazionale alla domanda di salute degli
italiani.
Definiti
con decreto del presidente del consiglio dei Ministri del 29/11/2001, i livelli
essenziali di assistenza sono l’insieme di prestazioni, servizi e attività che
i cittadini hanno diritto a ottenere dal Servizio sanitario nazionale in
condizione di uniformità, cioè erogati a
tutti e su tutto il territorio nazionale, indipendentemente dal reddito
e dal luogo di residenza, in tempi adeguati alle condizioni cliniche.
La
necessità di definire con precisione tutti i livelli essenziali di assistenza
da garantire ai cittadini era già contenuta nel decreto legislativo 502/1992,
in cui si stabiliva che nel piano sanitario nazionale dovessero essere definiti
«livelli essenziali e uniformi di assistenza». Tale esigenza è stata poi
riconfermata con il decreto legislativo 229/1999, che ne offriva una
definizione più dettagliata, sia pure in
controluce, dal momento che definiva i possibili contenuti dei fondi
integrativi, cioè delle risorse destinate a coprire prestazioni aggiuntive non
comprese nei livelli essenziali di assistenza.
Infine, in virtù dell’accordo stato-regioni
dell’agosto 2001 e con il supporto dell’Agenzia per i servizi sani tari regionali, si è arrivati
all’approvazione (decreto del presidente del consiglio dei ministri del 29
novembre 2001) della definizione dei livelli essenziali di assistenza che
costituiscono, nel loro insieme, un quadro di riferimento nazionale omogeneo
per l’offerta dei servizi sanitari in termini quantitativi e qualitativi in
relazione a predeterminate risorse economiche.
Con
la definizione dei livelli essenziali di assistenza si supera il precedente
orientamento del sistema sanitario, che prevedeva di utilizzare i livelli di
assistenza per determinare una quota di spesa pro-capite, quale risultanza
della divisione del monte di risorse disponibile per il numero degli assistiti.
Il
punto di svolta costituito dai livelli essenziali di assistenza consiste nel
fatto che si passa da una logica secondo cui tutti gli italiani hanno diritto
alla stessa «quota di spesa sanitaria» a quella per cui tutti gli italiani
hanno diritto a ricevere le stesse «prestazioni». Nel panorama internazionale
quest’impostazione rappresenta un elemento di novità che contraddistingue
certamente il Sistema sanitario italiano.
L’obiettivo
del legislatore nell’individuare i livelli fondamentali di assistenza è stato,
infatti, quello di connotare il Servizio sanitario nazionale come un sistema universale
e solidale, in grado di rispettare la dignità
della persona umana, di rispondere al bisogno di salute dei cittadini,
di garantire uguaglianza ed equità di accesso all’assistenza, qualità delle
cure, appropriatezza delle prestazioni erogate rispetto alle specifiche esigenze
di economicità delle risorse.
Vale
la pena di soffermarsi su alcune di queste caratteristiche per meglio
comprendere la natura del provvedimento.
Sono
livelli «essenziali», e non livelli «minimi», in quanto racchiudono tutte le
prestazioni, tutte le attività che lo Stato, in relazione al grado di sviluppo
sociale e culturale in cui si trova la società italiana, considera così
importanti da non poter essere negati a nessuno dei suoi cittadini.
Con essenziale s’intende quindi non il
razionamento delle prestazioni (livelli minimi), ma piuttosto l’impegno a
garantire le cure appropriate, basate su prove di efficacia, in grado di
evitare gli sprechi e con la massi ma attenzione rivolta al paziente.
A questo proposito è bene sottolineare che la
definizione dei livelli nasce da un accordo stipulato in sede di conferenza stato-regioni e quindi le
regioni, nell’erogare l’assistenza sanitaria, non possono escludere autonomamente
prestazioni contenute nei livelli essenziali di assistenza, mentre possono
definire livelli «ulteriori» di assistenza non compresi nei livelli.
Ogni
amministrazione regionale, infatti, può decidere come applicare i livelli
essenziali di assistenza nel rispetto dei principi formulati a livello
nazionale, ma gode anche
di notevole autonomia sia per quanto riguarda
la programmazione, sia per quanto riguarda l’allocazione delle risorse.
Principio di
sussidiarietà
In
ambito politico-amministrativo rappresenta quel principio che stabilisce che i
servizi amministrativi, sociali e sanitari dovrebbero essere svolti dall’entità
territoriale amministrativa più vicina ai cittadini, e che può essere delegata
ai livelli amministrativi superiori solo come «sussidio» per fornire il
servizio in maniera più efficace ed efficiente.
Si
parla di sussidiarietà verticale quando s’interviene su servizi ai cittadini
erogati dall’azione degli enti amministrativi pubblici, e di sussidiarietà
orizzontale quando i servizi sono forniti dai cittadini stessi, magari in forma
associata o volontaristica.
Sono
livelli “uniformi”, in quanto devono essere forniti tutti i cittadini senza
distinzione di reddito, di territorio di residenza (dalle città metropolitane
alle isole), di religione, di etnia, di grado di istruzione, di atteggiamento individuale nei confronti della
salute o altro. Viene così garantito il principio di equità del Servizio
sanitario nazionale, di uguaglianza nell’accesso ai e alle cure contenuto nella
legge 833/1978 che lo istituiva.
Visti
in quest’ottica, i livelli essenziali di assistenza costituiscono una vera e
propria sfida: da una parte, pongono le regioni, che li devono erogare in modo di
fronte a una rinnovata responsabilità nella gestione del proprio territorio e
al rispetto del principio di sussidiarietà e di solidarietà e, dall’altra, richiedono
un alto livello di vigilanza da parte della popolazione, per verificare
l’effettiva responsabilità politica per quanto attiene alla tutela della salute
e alla organizzazione dei servizi sanitari.
Contenuti dei livelli
essenziali di assistenza
L’elenco
delle prestazioni garantite dal Servizio sanitario nazionale contenuto nel
decreto di definizione dei livelli essenziali di assistenza prevede
praticamente tutte le voci che hanno rilevanza per la tutela della salute ed è,
per comodità, suddiviso in tre grandi aree (prevenzione, assistenza
distrettuale, assistenza ospedaliera) ripartite come segue:
Prevenzione.
Assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro, che comprende
tutte le attività di prevenzione rivolte alla collettività e ai singoli: tutela
dagli effetti dell’inquinamento, dai rischi infortunistici negli ambienti di
lavoro, sanità veterinaria, tutela degli alimenti, profilassi delle malattie
infettive, vaccinazioni e programmi di diagnosi precoce, medicina legale.
Assistenza distrettuale. Comprende tutte le attività e i
servizi sanitari e sociosanitari diffusi capillarmente sul territorio, dalla
medicina di base all’assistenza farmaceutica, dalla specialistica e diagnostica
ambulatoriale alla fornitura di protesi ai disabili, dai servizi domiciliari
agli anziani e ai malati gravi ai servizi territoriali consultoriali
(consultori familiari, servizio tossicodipendenze, servizi per la salute
mentale, servizi di riabilitazione per i disabili ecc.) alle strutture
semiresidenziali e residenziali (residenze per gli anziani e i disabili, centri
diurni, case famiglia e comunità terapeutiche).
Assistenza ospedaliera. Assistenza presso le strutture
ospedaliere in pronto soccorso, ricovero ordinario, day hospital (ricovero
diurno) e day surgery (interventi chirurgici con dimissioni in giornata),
regime di ricovero per la lungodegenza e la riabilitazione.
Appropriatezza
Oltre
alla lista delle prestazioni garantite dal Servizio sanitario nazionale sono
presenti nel provvedimento sui livelli essenziali di assistenza altri tre
elenchi. Il primo elenco riguarda le prestazioni totalmente escluse dai livelli
essenziali di assistenza, per le quali cioè non si è ritenuto che esistano
sufficienti prove di efficacia; nel secondo sono comprese le prestazioni
parzialmente escluse, in quanto erogabili solo secondo precise indicazioni
cliniche, mentre il terzo elenco comprende le prestazioni incluse nei livelli
essenziali di assistenza ma che presentano un profilo organizzativo
potenzialmente inappropriato, o per le quali occorre comunque individuare
modalità più appropriate di erogazione.
Per
fare qualche esempio del primo elenco, il Servizio sanitario nazionale non
rimborsa gli interventi di chirurgia estetica a meno che si rendano necessari
in conseguenza di incidenti o di malformazioni; così come non si fa carico
delle prestazioni delle terapie non convenzionali (con l’unica eccezione
dell’agopuntura per anestesie). Le cure odontoiatriche vengono garantite solo
per i bambini e per alcune categorie di adulti.
Nell’elenco
delle prestazioni da fornire, ma in modo appropriato, compaiono una serie di
DRG[9]
«a rischio di inappropriatezza»: si tratta di 43 tipologie di ricoveri considerati
potenzialmente inappropriati se forniti in regime di ricovero ordinario, in
quanto le medesime prestazioni potrebbero essere erogate diversamente: per
esempio, in ricovero diurno o in regime ambulatoriale. In sostanza, per
razionalizzare le risorse, la stessa prestazione può essere fornita invece che
in regime di ricovero ospedaliero (occupando quindi un letto di ospedale per
più giornate di degenza con il relativo costo) in modo più appropriato in
ambulatorio, in day hospital, o, per
interventi chirurgici poco complessi, in day
surgery. Per fare qualche esempio, tra gli interventi e le prestazioni più
frequentemente erogati in regime di ricovero ospedaliero, troviamo quelle sul
cristallino (cataratta) e la decompressione del tunnel carpale che, con un’adeguata
riorganizzazione dei servizi, potrebbero essere erogate in regime
ambulatoriale.
È
evidente che un aumento delle prestazioni ambulatoriali comporta una maggiore
appropriatezza, nonché un risparmio consistente di risorse, come dimostra
l’analisi effettuata dall’Agenzia per i servizi sanitari regionali nel maggio
2007 relativa a tutti i ricoveri effettuati (ordinari e in day hospital nel
periodo 2001-2004. Dai dati analizzati risulta che, nel periodo considerato,
relativo agli anni 2001-2004, ovvero i dati più aggiornati disponibili, per 43
DRG “a rischio di inappropriatezza” se effettuati in regime di ricovero
ordinario sono stati effettuati più di 300.000 ricoveri impropri in meno. Un
calo di ricoveri ordinari «inappropriati» e un aumento di ricoveri in day
hospital che si registra in tutte le regioni, anche se con una notevole
variabilità.
Tra
i fattori determinanti di questa variabilità vi è, senza dubbio, anche la
diversa capacità delle regioni di trasferire dal regime di ricovero a quello ambulatoriale
alcune procedure. Diversa capacità riconducibile sia alla struttura per età
della popolazione, sia a quella delle strutture ospedaliere. In particolare, in
Toscana e in Emilia Romagna per alcuni DRG, come la decompressione del tunnel
carpale e gli interventi sul cristallino con o senza vitrectomia, diminuiscono
sia i ricoveri ordinari, sia quelli che in day
hospital chirurgico perché queste prestazioni sono erogate in regime
ambulatoriale.
Aggiornamento dei livelli
essenziali di assistenza
È evidente
che, una volta fissato il quadro generale delle prestazioni fornite dal
Servizio sanitario nazionale, siano necessarie continue operazioni di
aggiornamento, dal momento che lo stato delle conoscenze scientifiche e la
pratica clinica e organizzativa evolvono continuamente, e di conseguenza la
complessa macchina della sanità pubblica deve essere messa in grado di
continuare a funzionare diversificando e migliorando sempre l’offerta.
Per
questo motivo, fermo restando il contenuto dei livelli essenziali di assistenza
che deve restare uniforme su tutto il territorio nazionale, le regioni hanno in
alcuni ampliato la propria offerta di prestazioni, o, in altri hanno riempito
eventuali lacune normative, adottando iniziative che tuttavia si riferiscono
sempre ai criteri di efficacia, appropriatezza ed economicità che sono alla base del decreto sui livelli essenziali di
assistenza.
Per esempio, per quanto attiene alle
prestazioni escluse dai livelli essenziali di assistenza, molte regioni hanno
garantito un ulteriore livello regionale, come le certificazioni di idoneità alla
pratica sportiva che pressoché tutte le regioni forniscono gratuitamente o
l’erogazione dell’agopuntura in presenza di determinate condizioni cliniche che
alcune regioni hanno deciso di erogare ai propri residenti.
Per quanto attiene alla manutenzione dei
livelli essenziali di assistenza dobbiamo tener presente che i nuovi servizi
informativi consentono di esaminare la documentazione clinica sotto diversi
aspetti, e quindi di poter valutare, per ogni prestazione, non solo il costo,
ma anche la necessità medica dell’assistenza fornita, così come le modalità con
cui è stata erogata e la sua durata.
Un monitoraggio costante delle prestazioni
erogate, inoltre, è reso necessario dal fatto che la pratica medica e il management
sanitario si vanno sempre più sviluppando, così come è aumentata la
disponibilità di tecnologie sanitarie più raffinate, come la chirurgia
laparoscopica e mininvasiva, la radiologia interventistica e i laser. Tutti questi
elementi, opportunamente valutati, consentono di ridurre le lunghe degenze
negli ospedali e di fornire nello stesso tempo un’assistenza più efficace e
meno costosa.
In particolare, per quanto riguarda i costi,
si è visto che, applicando in misura sempre crescente le modalità di
appropriatezza organizzativa dei ricoveri, sono diminuiti i ricoveri ordinari
per i 43 DRG «inappropriati» e le stesse prestazioni vengono sempre più fornite
in regime di day hospital o day surgery, con una significativa riduzione dei
costi sostenuti.
La
valutazione dei risultati ottenuti, in termini economici ma anche di efficacia,
ha indotto a formulare recentemente una proposta di estendere a ulteriori 55
DRG, medici e chirurgici, la qualifica di «a rischio di inappropriatezza»,
invitando le regioni a far sì che anch’essi vengano erogati in regime di day hospitalo day surgery.
Costi della salute
Come
conseguenza dei cambiamenti della struttura demografica e delle modifiche
intervenute negli anni sia nei volumi, sia nell’intensità della pratica clinica
si è andata via via allargando la forbice tra bisogni e risorse della sanità. I
costi della sanità, in Italia come in tutti i paesi industrializzati, crescono
anno dopo anno.
I
fattori che influiscono maggiormente sull’incremento della spesa sanitaria
pubblica, a parità di popolazione raggiunta dai diversi sistemi sanitari, sono
generalmente l’evoluzione delle tecnologie e l’invecchiamento della
popolazione. Gli effetti dei due fattori sono per altro in parte interdipendenti,
in quanto, se l’evoluzione tecnologica ha consentito l’allungamento della vita
media, l’aumento della popolazione delle fasce di età più avanzata ha
comportato un incremento di consumi sanitari soprattutto per le patologie
croniche.
La
spesa sanitaria pubblica è andata aumentando in Italia come negli altri paesi
europei. Mettendo a confronto l’andamento della spesa sanitaria pubblica
dell’Italia con quello di Francia, Germania, Olanda, Regno Unito e Spagna, appare
evidente come il nostro paese abbia un andamento della spesa più simile a
quello della Francia e del Regno Unito e che per tutti i paesi presi in
considerazione un incremento più sensibile della spesa manifestata da 2000 in
poi. Il confronto con i valori della spesa pubblica complessiva (espressi in milioni di dollari
anche per i paesi europei per tenere conto della parità del potere di acquisto,
un metodo convenzionale per confrontare dati di diversi paesi e di diversi
periodi temporali). La variazione della spesa dal 2000 al 2004, per tutti i
paesi, è quasi il doppio di quella registrata dal 1995 al 2000.
La spesa per la salute
in Italia
Attualmente,
il finanziamento del Servizio Sanitario nazionale proviene per il 95% circa
dall’imposizione fiscale diretta (sui redditi delle imprese e delle persone
fisiche) e da quella indiretta sui consumi e, per la rimanente parte, da ricavi
ed entrate proprie delle aziende sanitarie, oltre che dalla compartecipazione
dei cittadini alla spesa sanitaria pubblica.
In
particolare, dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo 56/2000 sul
federalismo fiscale, le fonti di finanziamento del Servizio sanitario nazionale
sono rappresentate da: risorse regionali, quali IRAP e addizionale IRPEF,
compartecipazione all’IVA, accise sulla benzina, ulteriori trasferimenti dal
settore pubblico (regioni, province, comuni ecc.) e da quello privato, risorse
proprie delle aziende sanitarie (tra cui i ticket versati dai cittadini),
risorse (statali) del Fondo sanitario nazionale (per gli interventi derivanti
da accordi internazionali, dal funzionamento di alcuni enti particolari del
Servizio sanitario nazionale e dalla realizzazione di specifici obiettivi
previsti da leggi speciali). In base alla normativa in vigore, le regioni Valle
d’Aosta e Friuli-Venezia Giulia e le Province autonome di Trento e di Bolzano
provvedono al finanziamento dell’assistenza sanitaria pubblica esclusivamente
con risorse a carico dei propri bilanci senza alcun onere a carico dello Stato;
per quanto a statuto speciale, le regioni Sicilia e Sardegna oltre a proprie
risorse devono ricorrere al finanziamento del Fondo sanitario nazionale per una
quota parte dei costi per i livelli essenziali di assistenza. Risorse pubbliche
aggiuntive vengono destinate al finanziamento degli investimenti e della
ricerca in campo sanitario. In Italia i dati sull’evoluzione della spesa
sanitaria, forniti dal ministero della Salute, mostrano, nel periodo compreso
tra il 2002 e il 2005, un incremento molto diversificato tra regione e regione.
Nella
spesa complessiva del Servizio sanitario nazionale (in milioni di euro) vengono considerate
quelle sostenute dalle strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale
(ASL e aziende ospedaliere), dalle strutture private accreditate, dagli
istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS), dai policlinici
universitari, sia pubblici che privati e da altri enti (tra cui la Croce rossa
italiana, gli istituti zooprofilattici sperimentali) per l’erogazione dei
livelli essenziali di assistenza e per il raggiungimento di altri specifici
obiettivi di sanità pubblica previsti dalla vigente legislazione (Non sono
compresi i costi sostenuti dai cittadini per acquisti di prestazioni sanitarie
presso strutture private non accreditate).
La
spesa media pro-capite nazionale è di 1.621 euro. A livello territoriale si
riscontra un’ampia variabilità, con il valore minimo di 1.404 euro della
Calabria e il valore massimo pari a 2.076 euro della Provincia autonoma di
Bolzano; i valori più bassi sono concentrati prevalentemente nel Centro-Sud del
paese, con le eccezioni rappresentate dalla Lombardia, dal Veneto, dalla
Toscana e dalle Marche, con valori al disotto della media, e dal Lazio,
dall’Abruzzo e dal Mouse, con valori al di sopra della media.
Nel
corso degli anni molte regioni hanno prodotto disavanzo, cioè hanno speso per
la sanità importi maggiori dei finanziamenti previsti. Questo fenomeno ha reso
sempre più necessaria la verifica dell’effettiva erogazione dei livelli
essenziali di assistenza, in particolare nel confronto tra i costi sostenuti a
parità di livelli essenziali di assistenza erogati.
Bisogna, infatti, considerare che il
finanziamento dei livelli essenziali di assistenza assorbe la gran parte della
spesa sanitaria corrente per i residenti praticamente in tutte le regioni
italiane. Secondo i dati 2005 di una recente ricerca Farmafactoring-Cergas Bocconi si rileva che l’incidenza del
finanziamento per i livelli essenziali di assistenza sulla spesa effettiva si
attesta, per esempio, al 98,5 per cento per la Puglia, al 97,8 per cento per la
Calabria, al 97,0 per cento per la Lombardia.
In
tale contesto, si è reso necessario prevedere misure adeguate, sul fronte della
spesa sanitaria, per la copertura di eventuali disavanzi. Tali misure si
propongono sia di individuare forme di incremento delle entrate, sia di
adottare iniziative di razionalizzazione della spesa.
Una
delle più importanti iniziative per contenere il fenomeno è stata la
promulgazione della legge 405/2001 con la quale si attribuisce alle regioni
l’onere di copertura dei disavanzi sanitari. In particolare, il comma 3
dell’art. 4 della legge stabilisce: «3. Gli eventuali disavanzi di gestione
accertati o stimati, nel rispetto dell’accordo Stato-regioni di cui all’art. 1,
comma 1, sono coperti dalle regioni con le modalità stabilite da norme
regionali che prevedano alternativamente o cumulativamente l’introduzione di:
a) misure di compartecipazione alla spesa
sanitaria, ivi inclusa l’introduzione di forme di corresponsabilizzazione dei
principali soggetti che concorrono alla determinazione della spesa;
b) variazioni dell’aliquota dell’addizionale
regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche o altre misure fiscali
previste nella normativa vigente;
c) altre misure idonee a contenere la spesa, ivi
inclusa l’adozione di interventi sui meccanismi di distribuzione dei farmaci».
Nel
nuovo contesto normativo che attribuisce alle regioni piena competenza in
materia sanitaria e al governo la definizione dei livelli essenziali di
assistenza da garantire in condizione di uniformità su tutto il territorio
nazionale, un passo decisivo è stato compiuto il 22 settembre 2006 con l’intesa
tra il governo e le regioni relativa a
un nuovo patto per la salute di durata triennale.
Il patto si compone di un aspetto finanziario
e di un aspetto normativo e programmatico. L’accordo, siglato dal ministro
della Salute, dal ministro dell’Economia e dal presidente della conferenza delle
regioni, punta alla riduzione degli sprechi, alla stabilizzazione della spesa e
al miglioramento della qualità dei servizi e delle prestazioni, anche
attraverso il superamento del divario tra Nord e Sud con particolare
riferimento all’assistenza oncologica e alle malattie rare.
Gli
elementi essenziali dell’accordo finanziario possono essere così
sintetizzati:
Le
risorse messe a disposizione dallo Stato centrale saliranno da 91,2 miliardi
nel 2006 a 97 miliardi 2007, comprensivi di un fondo di accompagnamento di 1
miliardo per sostenere il risanamento delle regioni attualmente non in linea
con i livelli di spesa concordati;
La
spesa sanitaria complessiva si attesterà nel 2007 al 101,3 miliardi, facendo
registrare una diminuzione di 2.4 miliardi rispetto al tendenziale del 2007
(pari a 111 miliardi) nonché una leggera flessione rispetto al livello previsto
nel 2006 (pari a 102 miliardi);
Per
le regioni che non raggiungeranno gli obiettivi di spesa concordati verranno
confermati i meccanismi di piena responsabilizzazione finanziaria, come esempio
le misure di affiancamento e gli automatismi fiscali (aumento delle aliquote
regionali dell’addizionale IRPEF e dell’IRAP);
Il
governo svolgerà azioni di contenimento della spesa, tra cui quella
farmaceutica, di riorganizzazione dispositivi medici e di omogeneizzazione di
forme di partecipazione alla spesa.
Il governo, dopo il 2007, continuerà a dare
certezza riguardo alle risorse finanziarie messe a disposizione delle regioni per il Servizio
sanitario nazionale, garantendo per conto dello Stato centrale un livello di
finanziamento adeguato.
L’accordo,
normativo e programmatico, è stato definito nelle sue linee di indirizzo e nei
suoi contenuti essenziali, ed è finalizzato a migliorare la qualità dei
servizi, a promuovere l’appropriatezza delle prestazioni, a garantire
l’unitarietà del sistema. Queste le sue maggiori caratteristiche:
Adeguamento
dello stanziamento pluriennale ex art. 20 della legge 67/1988 per il
cofinanziamento degli investimenti nel Servizio sanitario nazionale in modo da
consentire la definizione di nuovi accordi di programma per la qualificazione
delle strutture sanitarie, l’innovazione tecnologica e il superamento del
divario Nord-Sud;
Inserimento
della tematica “sanità-sviluppo economico” tra le finalità per l’utilizzo dei
fondi strutturali dell’Unione Europea 2007-2013;
Aggiornamento
dei livelli essenziali di assistenza ai
nazionale per regione nuovi bisogni di assistenza, revisione e
ampliamento dei 43 DRG ad alto rischio di inappropriatezza, analisi dei costi
delle prestazioni ricomprese nei livelli essenziali di assistenza, assumendo
come riferimento i costi delle pratiche più efficienti;
Attivazione
di un sistema di monitoraggio basato su un pacchetto adeguato di indicatori,
concordato tra il ministero della Salute, il ministero dell’Economia e delle
Finanze e le regioni;
Promozione
e valorizzazione delle risorse umane del Servizio sanitario nazionale e
partecipazione del per- sonale medico e delle altre professioni sanitarie al
governo del sistema;
Riorganizzazione
e potenziamento della rete delle cure primarie, mediante la promozione di forme
evolute di associazionismo tra i medici di medicina generale e di integrazione
con l’attività dei distretti sanitari;
Sviluppo
dell’integrazione sociosanitaria a partire dall’assistenza alle persone non
autosufficienti; u messa in rete e monitoraggio dell’attività di prescrizione
di esami e farmaci da parte dei medici di medicina generale;
Riorganizzazione
e umanizzazione della rete ospedaliera, finalizzata anche al recupero di
maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse nelle regioni;
Razionalizzazione
dei sistemi di acquisto di beni e servizi attraverso, modalità di esercizio
sovraziendale e di centralizzazione degli acquisti.
Spesa sanitaria e
società
La
sanità batte il marxismo nella capacità di trasformare dalle fondamenta la
società moderna? È la tesi paradossale di uno dei più noti economisti
statunitensi, Kenneth Rogoff che è professore a Harvard ed è stato chief economist del Fondo Monetario
Internazionale. Secondo Rogoff (La sanità
sfida il capitalismo, «Il Sole 24ore», 19 agosto 2007) la combinazione del
livello alto e crescente della spesa sanitaria e dell’approdo ugualitaristico
alle cure sanitarie che caratterizza le società più evolute può trasformarsi in
«una delle più grandi sfide per il capitalismo contemporaneo».
Per
quanto riguarda la crescita, Rogoff allinea alcune scioccanti previsioni; «La
spesa sanitaria che rappresenta già una fetta dell’economia pari al 16 per
cento salirà fino al 30 per cento del PIL di qui al 2030, fino forse ad
avvicinarsi al 50 per cento più avanti». Il sistema sanitario USA è
notoriamente carissimo, nonostante sia ad accesso limitato e lasci
insoddisfatta la maggioranza degli utenti. in Europa e, in particolare, in
Italia, la spesa sanitaria è «solo» 18,3 per cento del PIL, ma anche da noi la
crescita sembra fuori controllo: 7,8 per cento all’anno tra il 2000 e il 2006.
Qual
è il motore dì questa crescita travolgente? Si è soliti pensare che le cause
dell’aumento dei costi sanitari siano legati all’invecchiamento della
popolazione. Ma a un esame più attento l’invecchiamento si rivela solo una
parte del problema e neanche quella più significativa.
Il
vero problema è se le società sono disposte a fornire agli anziani un accesso
uguale per tutti a tecniche sanitarie sempre nuove e migliori. Un altro
cambiamento è il peso crescente delle cure personalizzate. Gli interventi al
cuore in molti paesi ricchi rappresentano già uno dei principali fattori di
prolungamento della vita media. Analogamente, le TAG permettono di individuare
tumori quando sono ancora a uno stadio curabile. Ed è difficile sul piano
morale e politico difendere le disuguaglianze in un contesto così attento ai
diritti umani proprio quando si tratta del diritto alla vita.
Le
previsioni da capogiro sopra citate incorporano dunque il costo di
un’applicazione di massa di un progresso tecnologico sempre più rapido. Di qui
l’allarme di Rogoff: «Il socialismo sanitario comincia a diventare marxismo: a
ciascuno secondo i suoi bisogni».
Si è
spesso auspicata l’apertura del settore Sanitario alla concorrenza. Ma con una spesa
sanitaria che cresce a un tale ritmo i risultati in termini dì miglioramento
dell’efficienza che si possono ragionevolmente attendere da un ricorso al
meccanismo di mercato diventano sempre meno rilevanti. Sembra quindi
inevitabile il «regredire [di] una fetta considerevole dell’attività economica
a un sistema con caratteristiche più socialiste». A qualcuno, conclude Rogoff,
potrebbe venire in mente di pensare «Meglio rossi che morti».
Risposte
meno ideologiche al problema della crescita della spesa sanitaria, però, erano
già venute, qualche anno fa, da Michael Porter, il guru dell’impresa, del mercato e della competizione globale (M.
Porter e E. Olmsted Teisberg, Redefining Health Care: Creating Value based
Competition and Results, Harvard Business School Press, 2004). Secondo Porter,
non c’è un solo tipo di competizione e negli Stati Uniti si è affermato il tipo
sbagliato, una competizione nella quale i vari soggetti impiegano molto tempo
ed energie a cercare di scaricare i costi su altri soggetti del sistema, ad
appropriarsi di una parte maggiore del valore economico delle prestazioni
erogate, a limitare l’accessibilità a chi non può pagare assicurazioni o prezzi
dei servizi: «La competizione che serve nel sistema di tutela della salute è
quella in cui ogni soggetto è focalizzato a generare valore per il paziente».
Azioni e interventi capaci di evitare accertamenti diagnostici inutili e non
corretti, diagnosi errate, uso eccessivo di farmaci, interventi chirurgici non
necessari contribuiscono ad aumentare la qualità dell’assistenza e
contemporaneamente a ridurre i costi. E in questa prospettiva, il sistema è
riformabile senza alcun big bang tramite un processo «dal basso all’alto».
Ciò
vuol dire privilegiare azioni che facciano leva sulla ricostruzione di nuovi
rapporti di fiducia tra pazienti e medici, tra medici e manager, nonché sulla
valorizzazione dell’autonomia delle aziende che vanno responsabilizzate sulla
loro capacità di creare condizioni favorevoli per nuovi rapporti
medici-pazienti e valore finale per i pazienti.
La
lezione di Porter può essere utile, in particolare, suggerendo che la
competizione di per sé non è la soluzione dei problemi del settore sanitario e
che occorre applicare forme di competizione che non riproducono gli effetti
negativi riscontrati negli Stati Uniti.
Capitolo 4.
L’informazione (medico - scientifica) nella prospettiva sociologica
La problematica
degli effetti e dell’efficienza della comunicazione e della promozione medico
scientifica e della salute è relativamente recente e si è sviluppata
soprattutto a partire dagli Settanta ed Ottanta del Ventesimo secolo, soprattutto
in considerazione della maggiore ampiezza ed importanza raggiunta dal mercato
dei prodotti farmaceutici e parafarmaceutici ed all’impatto di tali processi
nell’ambiente sociale. In particolare la dimensione della comunicazione assume
dimensioni e ritmi più elevati in relazione all’innovazione, una innovazione
che oggi tende ad essere condivisa, socializzata, e “vissuta “. Inoltre, negli
ultimi anni sono emersi due macro fenomeni che stanno condizionando la svolta
sociale, culturale ed organizzativa della sanità; il primo macro fenomeno è
relativo alla elevata crescita della complessità dell’informazione bio-medica,
il secondo fenomeno è invece relativo ai costi crescenti all’interno del
sistema delle cure che obbligano a compiere scelte difficili, comprese fra
qualità ed efficienza. In questo modo anche il processo comunicativo, da
questione scientifica e tecnica che interessa pochi soggetti specializzati,
diventa oggetto di azione sociale diffusa, che coinvolge i singoli individui, i
nuclei familiari, le istituzioni specialistiche e non specialistiche, le
imprese e le reti informali, portandoli ad adottare, a volte anche
inconsapevolmente, orientamenti e comportamenti evidenziano quelle zone di
penombra della scienza» in cui può esservi «confusione fra verità ed utilità
sociale». Il concetto di salute rappresenta uno degli aspetti più significativi
e rilevanti della sfera simbolica nella società contemporanea, al centro di
parte considerevole della comunicazione sia scientifica, sia di senso comune.
Il ruolo dei mezzi di comunicazione si configura come di indubbia importanza
nella costituzione delle rappresentazioni sociali; tuttavia esso è stato
parzialmente riconsiderato alla luce del ruolo attivo che i soggetti rivestono
nel processo di interpretazione della realtà.
In
particolare, l’informazione medico-scientifica ha lo scopo di promuovere le
conoscenze via via acquisite nella ricerca medica e farmacologia per migliorare
la descrizione del corpo umano, della malattia e dello stato di salute, secondo
tratti culturalmente peculiari. In tale ottica Guizzardi ha osservato che la
comunicazione scientifica nello spazio pubblico non costituisce un’appendice
della ricerca scientifica, «ma ne rappresenta una parte integrante», non si può
più parlare di divulgazione della scienza, in particolare di quella
medico-scientifica, ma di una «negoziazione mediatica della scienza», «in altre
parole se si sposta l’ottica della scienza alla scienza comunicata e
contemporaneamente ci si allarga dall’interno del campo scientifico allo spazio
pubblico si possono notare non soltanto le interconnessioni esistenti, e
parlare di continuum scienza-comunicazione, con i concetti relativi di natura
interattiva della comunicazione e di contesti multipli nei quali la
comunicazione della scienza si colloca, ma soprattutto porre in luce il fatto
che il campo scientifico si espande fino a comprendere non scienziati, con la
conseguenza, fra le altre, di articolare in modo complesso la figura dello
scienziato stesso».
In
tale direzione, il processo comunicativo medico-scientifico può essere studiato
e descritto attraverso l’ottica di un passaggio di informazioni tra emittente e
ricevente che assolve specifiche funzioni, o anche attraverso lo studio dei
processi di codificazione dei segni comunicativi, ma anche attraverso le
diverse controversie sulla essenzialità della persuasione nella scienza ed
ancora nella sua qualità di modulazione della relazione interpersonale, nello
specifico contesto in cui è immersa.
L’etimo
della parola comunicazione deriva dal greco koinonéo
che intende il partecipare e rinvia all’idea della comunità, ad un luogo di
interscambio di relazioni tra individui. Nel concetto di interscambio si
configura la bidirezionalità, nel senso che ciascun comunicatore è allo stesso
tempo emittente e ricevente.
Nel
definire la comunicazione per la salute dovrebbe essere tenuto in
considerazione il fatto che gli individui non costituiscono più un obiettivo,
ma sono i protagonisti fondamentali nell’ acquisizione e nell’accettazione dei
messaggi che fanno riferimento alle loro condizioni: la comunicazione e
l’informazione scientifica si realizza non solo fra mediatori della scienza ma,
soprattutto, fra attori sociali. In tale ottica la comunicazione per la salute
può definirsi come un sistema di informazione complesso sui temi della salute e
della prevenzione della salute in cui quanto comunicato e scambiato fra gli
attori sociali cessa di essere fine a se stesso, viene e verrà prodotto per
essere scambiato.
Il campo della comunicazione della salute si è
sviluppato in ambito sociologico soprattutto a partire dalla metà degli anni
Ottanta negli Stati Uniti e, successivamente, in altri paesi europei. È
indicativa di questo sviluppo l’apparizione, nel 1989, della prima rivista
scientifica dedicata specificatamente a questo settore, il Journal of Health
Communication.
Jackson
e Duffy hanno analizzato i mutamenti intervenuti nel corso degli anni Novanta
nella comunicazione medico-paziente, nell’organizzazione dei servizi sanitari,
nelle campagne di prevenzione del rischio e promozione della salute, nella
presentazione della salute nei media, compresi i siti in Internet dedicati a
questo tema: nel complesso la “questione comunicativa” sembra essere
fondamentale nel campo sanitario e in quello del benessere poiché è in grado di
modificare le dinamiche e le concezioni della salute: «in realtà esiste ormai
una ampia evidenza del fatto che il processo di costruzione dei fatti
scientifici si spinge frequentemente oltre i confini della comunità scientifica
entrando nella sfera pubblica mediale».
L’ambito
della comunicazione della salute comprende la prevenzione delle malattie, la
promozione della salute, la politica sanitaria e il miglioramento della salute
degli individui all’interno della comunità e, in questi anni, il contesto di
riferimento è progressivamente cambiato: i cambiamenti sembrano includere sia
il crescente numero dei canali disponibili, sia il numero della specificità
disciplinari. Comunicare la scienza in ambito medico- sanitario equivale ad un
impegno rigoroso nella diffusione di notizie o di informazioni sulle conoscenze
scientifiche e sulle acquisizioni tecnologiche in grado di destare interesse. L’informazione
medico scientifica è investita da una vera e propria questione morale, nell’ambito
della quale ad essere chiamati in causarono i rapporti che intercorrono fra
media, industria farmaceutica, medici, farmacisti ed informatori scientifici
sul farmaco.
La
questione sembra porsi sia in termini “morali”, ed a questo proposito il
problema si sposta nelle connessioni fra industria e medici, sia in termini di
credibilità e spendibilità di quanto offerto in termini comunicativi. A questo
proposito sembra opportuno ricordare che il ritardo alla revisione della legge
541/92 ha spinto molte regioni, in via autonoma, a legiferare sull’informazione
scientifica del farmaco per garantire un maggior controllo sull’attività di
informazione e, in via indiretta, per controllare la spesa farmaceutica
regionale. Tale fatto sembra confermare sia la confusione per la mancanza di
uno strumento normativo unico, con il rischio che si arrivi, prima o poi, a
venti leggi diverse in materia, sia all’aperto conflitto di interessi in corso
ed alla relativa mancanza di comportamenti socialmente responsabili da parte dei
produttori di informazione.
L’efficacia
terapeutica e diagnostica raggiunta oggi dalla medicina e dalla ricerca
farmacologia non rivestono solo un significato organizzativo, politico,
culturale ed economico, ma soprattutto un profondo significato sociale. A
questa maggiore efficacia si sovrappone il passaggio, avvenuto negli anni ottanta,
da una nosologia dominata dalle malattie infettive ad una nosologia dominata
dalle patologie cosiddette cronico-degenerative, ha contribuito ad una profonda
evoluzione della prevenzione e dell’educazione sanitaria impegnate sempre meno
su interventi specifici per curare singole patologie e sempre più con
l’obiettivo di migliorare gli stili di vita e l’ambiente in cui vive
l’individuo.
Il
termine educazione sanitaria, che fa riferimento agli interventi mirati
nell’ambito di un rapporto asimmetrico con l’attore sociale, ha lasciato il
posto a quello di promozione della salute: ciò ha segnato il passaggio da una
semplice strategia della prevenzione ad una strategia integrata che privilegia
la rimozione di cause di patologie o di fattori di rischio ed azioni mirate a
mantenere l’equilibrio della salute, raggiungibile solo con la
responsabilizzazione del soggetto e con il miglioramento dell’ambiente in cui
vive, oltre che un continuo aggiornamento delle conoscenze diretta alle
professioni impegnate nella costruzione della salute (medici, farmacisti,
personale sanitario). Tuttavia per tutti gli anni Ottanta con il termine
educazione sanitaria si intendevano tutte le strategie preventive ed educative
in materia sanitaria. Il dibattito terminologico fra “educazione.
sanitaria”/”educazione alla salute” e “promozione della salute” fu molto
acceso, soprattutto nel mondo anglosassone circa la distinzione tra “Health
Promotion” e “Health Education”.
Attualmente,
soprattutto nella pubblica amministrazione, si preferisce utilizzare il
concetto di Promozione della salute perché ritenuto più completo e intuitivo,
meno prescrittivo rispetto alla sola educazione sanitaria e in linea con il linguaggio
adottato da numerosi documenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L’idea
di promozione della salute si afferma anche nella informazione
medico-scientifica che riveste un ruolo specifico e riservato agli operatori
sanitari. Nell’ambito della promozione della salute i modelli di riferimento
hanno privilegiato un approccio sistemico centrato sulla persona, almeno nelle
dichiarazioni di intento. L’obiettivo, infatti, dovrebbe essere quello di
considerare l’individuo nella sua interezza, tenendo conto delle sue relazioni
sociali e familiari, dell’importanza della salute e del benessere psico-fisico,
senza dimenticare che la salute un costrutto sociale ed è soggetta a variazioni
in base al contesto in qui viene considerata. Questo modello implica l’avvio di
numerosi processi di promozione della salute in differenti ambiti (scolastico,
familiare, lavorativo, ospedaliero, sanitario).
Tuttavia,
l’osservazione su alcune caratteristiche della ricerca clinica contemporanea
segnalano un progressivo distacco delle specialità del corpo della medicina
generale e la tendenza delle stesse specializzazioni verso una
settorializzazione. Inoltre, l’efficacia diagnostica ha spostato il suo centro
da fatto assistenziale e curativa, verso un approccio diagnostico-curativo,
mentre per alcune patologie, ad esempio quelle degenerative, la ricerca sembra
essersi concentrati sulla cronicizzazione.
Una
interpretazione della forma assunta da questi fenomeni, anche nella prospettiva
comunicativa, sembra richiedere un passaggio ulteriore poiché l’individuo non
può essere considerato il semplice destinatario del progresso scientifico
Accanto all’evoluzione del sapere medico si assiste cosi ad una forte
evoluzione delle informazioni e delle rappresentazioni, documentata, ad esempio,
dal proliferare di riviste sulla salute, dalle trasmissioni televisive
sull’argomento e dai tanti ed incontrollati siti Internet dedicati. Emergono
con forza nuovi concetti di salute e di benessere, di malattia e di malessere.
La scienza, ma soprattutto la tecnica sembrano oggi impegnate non più a
ricercare la verificabilità o falsificabilità di teorie ed ipotesi in termini
di verità disinteressata, quanto piuttosto a legittimare il sapere soprattutto
in termini di successi pratici e di utilità conseguita.
È
così che la razionalità individuale si è fatta limitata ed il pensiero da forte
si è fatto debole. In particolare la biologia, la farmacologia, la medicina
pratica, con il loro sapere tecnico avanzato, suscitano una miriade di prassi
relazionali fra gli uomini e le macchine. Per vie tecnologiche si ripropongono
nuove questioni per la sorte dell’umanità, sfide che inducono ad uscire dalle
artificialità autoreferenziali e dalla limitatezza di un pensiero che guarda
solo alla tekné.
Alla
trasformazione dell’ interpretazione del concetto di salute e di conservazione
si associa l’effetto comunicativo. La comunicazione avviene in un numero
elevatissimo di contesti, dalla scuola al lavoro, attraverso una varietà di
canali, dalle relazioni interpersonali fino alla posta elettronica, per
messaggi di grande diversità e per motivazioni diverse. La comunicazione
medico- scientifica della salute assume un suo valore specifico non solo perché
si svolge in luoghi della prassi medica, ma anche perché presuppone un passaggio
di conoscenze scientifiche dalla ricerca alla società e viceversa. Questo
passaggio di conoscenze implica tutte le problematiche poste dallo scambio tra
esperti e non esperti; tuttavia, il contesto di cura e di prevenzione ha delle
particolarità che rendono la comunicazione “medico-paziente” un caso
particolarmente interessante.
Il recente sviluppo della comunicazione
medico-scientifica configura un più generale cambiamento relativo all’immagine
della salute su come viene rappresentata e come è invece attesa. In tale
ottica, l’informazione medico-scientifica è un sapere delle relazioni, vale a
dire quel sapere che ha per oggetto i processi interattivi nel quale gli attori
sociali sono immersi. In una società in cui si vive più a lungo sembra necessario
dotarsi non solo di nuovi parametri per definire la salute ma anche per rendere
effettivamente possibile una partecipazione alle scelte terapeutiche ed al
processo di prevenzione.
L’informazione
e la comunicazione medico-scientifica appare così in tutta la sua complessità:
un processo che richiede una profonda integrazione fra competenze ed ambiti
operativi diversi. Si pensi, ad esempio, alla comunicazione della salute in
ambito oncologico, il Censis ha osservato che il tumore e la malattia più temuta
dagli italiani (67,5%) «la televisione e i giornali sono le fonti di
informazione sanitaria non professionali a cui i cittadini con più frequenza fanno
riferimento. Entrambi i media evidenziano una capacità di impatto sui
comportamenti non indifferente: gli italiani, dal 15 al 18% hanno concretamente
modificato atteggiamento a seguito dell’acquisizione di informazioni sulla
salute apprese, dalla carta stampata e dalla televisione».
L’informazione
medico-scientifica e della salute si dimostra così a più dimensioni ed è
richiesta una capacità comunicativa connettiva tesa all’adozione di linguaggi
comuni e comprensibili da tutti, che faciliti il collegamento tra i diversi
sistemi relazionali, con il sostegno e la partecipazione da parte degli attori sociali.
Il
Censis ha osservato, nel 2001, che oltre quattro milioni di Italiani cercano su
Internet informazioni in tema sanitario, quasi altrettanti sono i
telespettatori delle sei principali trasmissioni televisive di medicina e più
di un milione sono i lettori di periodici dedicati alla salute Cresce
l’attenzione per la propria salute e cresce la voglia di saperne di più, è
quanto emerge da una indagine realizzata dal Forum per la Ricerca Biomedica e
dal Censis su un campione rappresentativo di (1.200) italiani. La ricerca ha
evidenziato come la cosa più importante per l’83,6% degli italiani, quando si
trova di fronte ad un problema di salute, sia capire bene cosa gli stia
succedendo, e il medico rimane, il soggetto nel quale gli italiani ripongono
maggiore fiducia e dal quale attinge informazioni per ogni evenienza (oltre il
90% gli si rivolge per malattie gravi o molto gravi il 75 7% per malattie poco
gravi ed il 66 3% anche per i piccoli disagi). Tuttavia nei casi di malattie
poco gravi e di piccoli disagi gli italiani credono ci si possa rivolgere per
ottenere informazioni anche ai media (16,5% in caso di malattie poco gravi e
16,4% in caso di piccoli disagi) e ai conoscenti (6% per malattie poco gravi e
14,5% per piccoli disagi). Cresce anche la fiducia in Internet, il cui uso da
parte dei pazienti è giudicato positivamente dal 60,2% degli intervistati
(quasi il 75% tra i più giovani), perché accresce la cultura scientifica,
mentre il 72,9% (l’84% tra i più giovani) ne valuta positivamente l’uso da
parte dei medici, perché consente l’aggiornamento in tempo reale. Il 60,6%
degli italiani considera il suo rapporto con il medico come una “collaborazione
reciproca in vista della salute”, e il 69,6% lo consulta per primo in caso di
disturbo grave.
Negli
ultimi cento anni, soprattutto a partire dalla diffusione dei cosiddetti media
elettrici, è sopraggiunta una nuova tendenza: scienza e sapere si sviluppano
secondo trame tessute da più fili, ai centri si sono sostituiti nodi e collegamenti
fra livelli, anche molto diversi. Sembra possibile osservare un significativo
cambio di paradigma, una perturbazione epistemologica nel segno della
complessità e delle reti di conoscenza. Al pensiero analitico si sostituisce
l’idea del mondo come un insieme relazionale e connesso in cui al primato
dell’affermazione della scoperta scientifica è collegato il principio della divulgazione
scientifica. Il nuovo paradigma della conoscenza ha modificato, da tempo, i
termini di riferimento di comunicazione. La ricerca scientifica si interroga
sui principi di organizzazione fondamentali è sul contesto dei fenomeni; i
sistemi comunicativi, comunque organizzati, si strutturano proprio intorno a
questo interrogativo.
Prima
di tentare di definire i contorni ditale esperienza sembra necessario tracciare
i termini di riferimento di comunicazione e di promozione della salute come un
sistema complesso di azioni di tipo educativo, politico, legislativo ed
organizzativo che possa favorire una migliore qualità e stili di vita sia a i
vello individuale sia a livello di gruppo o collettività. In altri termini,
questi sistemi complessi sono dei veri e propri sistemi cognitivi che tendono
ad orientare e guidare l’analisi e l’interpretazione delle conoscenze Infatti,
i sistemi relazionali producono ed implicano conoscenza e configurano le relazioni
sociali cosi prodotte come configurazioni dinamiche.
Il mondo della comunicazione scientifica è un
mondo estremamente eterogeneo e non ci si riferisce più al solo ambito
chimico-biologico ma anche al campo della prevenzione e della promozione della
cultura dello star bene, degli stili di vita, della sostenibilità,
dell’innovazione scientifico-tecnologica al servizio delle persone, alla cura
del corpo, al benessere ed alla qualità della vita.
La
frequenza con cui il tema della salute compare nei mezzi di comunicazione di
massa e la comunicazione trasversale e pubblicitaria di tutti i prodotti
inerenti al benessere (in Google, ad esempio, nel mese di ottobre 2004, la
parola salute compare oltre sei milioni di volte e la parola health
duecentotrentacinquemilioni di volte), lo stesso abuso del concetto di
benessere come valore
di riferimento per la vita, hanno importanti effetti sulla cultura e sui
comportamenti e le relazioni delle persone. In tale direzione, il contesto
epidemiologico che corrisponde alla scoperta dei nuovi fatti sembra essere la
pietra angolare della salute pubblica e, proprio partendo da questo punto, in
genere è proprio l’epidemiologia la base di partenza di ogni attività rivolta
all’informazione sul benessere. Tuttavia, da una parte una medicina troppo
spesso orientata solo ed esclusivamente verso la evidence based medicine,
proprio perché il contesto principale sembra essere quello epidemiologico,
dall’altra una banalizzazione ed una volgarizzazione non mediata della
informazione scientifica, rischiano di costituire una minaccia seria ai
principi d efficacia e di valutazione del sistema. L’epidemiologia è
tradizionalmente strutturata intorno ad un paradigma biomedico: il metodo in
cui la teoria è relativamente poco importante e l’approccio multidisciplinare
attraverso le teorie proprie delle scienze sociali. Sia il paradigma biomedico
sia l’approcci multidisciplinare dividono un interesse comune: la prevenzione
della saluti della popolazione, poiché si ricercano dati inconfutabili.
Tuttavia,
se gli uomini di scienza hanno il dovere di comunicare il loro sa pere critico
per mettere le società nelle condizioni di operare al meglio le diverse scelte,
alle funzioni chiave della ricerca, da tempo, si è inserita, qual variabile
ulteriore di un sistema strutturalmente instabile, l’analisi delle necessità e
sostenibilità industriali e finanziarie.
Le
osservazioni intorno ad alcuni dei problemi della comunicazione
medico-scientifica rendono estremamente complesso il campo di analisi. In
particolare, è proprio dalla costruzione del fenomeno di informazione che
sembra possibile osservare l’origine delle difficoltà; la comunicazione si
realizza in uno speciale rapporto fra due termini principali: il promotore ed
il recettore, Il promotore trasmette al recettore, tramite appropriati
strumenti e codici, la notizia. Appropriati strumenti e codici sembrano essere
la prima delle difficoltà poiché non è più vero che, più alta sarà la
specializzazione più ristretto sarà il numero dei recettori. Tradizionalmente,
infatti, si tendeva a considerare l’informazione sulla salute come un processo Top-Down in cui le informazioni più
complesse venivano riservate ad un ristretto numèro di specialisti, per poi
essere trasferite, attraverso mezzi di comunicazione più appropriate, verso un
pubblico meno specializzato, fino alla definitiva volgarizzazione. Soprattutto
nella modernità solida tali processi hanno costituito la struttura di base
delle diverse forme di comunicazione, non solo quelle riservate alla salute ed
al benessere. Ma nella cosiddetta modernità liquida non sembra possibile
configurare tale processo come quello peculiare. Il diffondersi delle
informazioni in quantità, forme e velocità, di fatto, incontrollabili, ha
completamente modificato il sistema della comunicazione scientifica.
L’esplosione
del fenomeno della comunicazione attraverso le reti informatiche ha aggiunto
non solo una diversa velocità nella propagazione di una nuova informazione e la
maggiore quantità di dati a disposizione, ha introdotto il concetto di quantità
aggiuntiva di informazione prodotta dal sistema mediale stesso. In altri
termini, Internet non è solo un nuovo media, è soprattutto un sistema
autopoietico che più o meno inconsapevolmente produce una qualità ed una
quantità aggiuntiva di informazione, spesso ridondante, in forma autonoma
rispetto al promotore della comunicazione. Sul Web ogni giorno vengono
pubblicate nuove riviste scientifiche e, se apparentemente il processo di
pubblicazione di queste riviste è identico a quello tradizionale sulla carta
stampata, i costi sono così bassi da rendere accessibile l’informazione a tutti
in tempi brevissimi. inoltre, e questo sembra essere l’elemento che introduce
la quantità aggiuntiva di informazione, poiché molte delle pubblicazioni e dei
gruppi di discussione, comunque strutturati, non sono mediati e non vi è
corresponsabilità, si tende a produrre ex
postfacto una quantità marginale di informazione. I mezzi di comunicazione
hanno una enorme responsabilità e tale responsabilità, può riassumersi nelle
raccomandazioni di Gould: «non vi nulla nella scienza che non possa essere
trasmesso in forma chiara,
rigorosa ed onesta» ed ancora «la scienza, dal n mento che viene praticata dall’uomo,
è un’attività socialmente inserita. E progredisce per impressioni,
immaginazione ed intuizione. La maggioranza dei suoi cambiamenti nel tempo non
registra un avvicinamento alla verità soluta, ma il mutamento dei contesti
culturali che la influenzano così fortemente. I fatti non sono frammenti puri e
incontaminati d’informazione; anche la cultura influenza che cosa vediamo e
come la vediamo. Se
preoccuparsi della efficacia della comunicazione scientifica e della promozione
della salute è preoccuparsi del processo della distribuzione delle conoscenze
sulla salute, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita del comunità
interessate, occorre tenere in considerazione le distorsioni presenti nel
sistema. Medicina e
sociologia necessitano di un dialogo continuo, integrato nelle mappe cognitive
a livello sociale, attraverso un flusso comunicativo complesso, non
auto-diretto o auto-referenziale. La percezione del rapporto complesso rapporto
salute/malattia, dei comportamenti utili al miglioramento del benessere
sembrano passare attraverso lo sviluppo e la connessione dei flussi
comunicativi e, in tale direzione, la comunicazione apre sia alla costruzione
ulteriore della ricerca, sia al senso ed al significato di essa.
La
scienza dovrebbe considerarsi come un vera e propria rete di modelli e di nodi
semantici e, in tale prospettiva, il concetto di sapere, nella fattispecie di
sapere scientifico, sembra ridurre i concetti di centralità e prevedibilità.
Sembra esservi una possibile divergenza fra gli standard di integrità, la
scienza ed i problemi posti sia dal conflitto di interesse nella ricerca sia
dalla difficoltà di comunicare tout court. Gli effetti delle distorsioni nei
processi comunicativi e nella produzione di nuova conoscenza scientifica sembrano
essere così tanti quanti i modi di stabilire connessioni fra sistema e pubblico.
Al processo comunicativo della
salute occorre, probabilmente associare un processo sistematico di osservazione
e di verifica dei dati raccolti, oltre la farmaco- vigilanza; un modello
concettuale basato sull’interazione fra cliente e sistema sanitario attraverso
la farmacia ed il sistema sanitario.
Il
bisogno di relazione del sistema sanitario sembra sottolineare la necessità da
parte del sistema medico scientifico di aprirsi al contributo delle scienze
sociali, in generale, ed alla sociologia della comunicazione in particolare.
Il sistema comunicativo dedicato alla salute ed
al benessere dovrebbe rendere possibile l’integrazione, la sussidiarietà, fra
saperi diversi, fra attori sociali ed Istituzioni, ed una più equa
distribuzione dei saperi stessi.
Il
malessere, nei processi comunicativi, sembra derivare da una relazione tra
individui sempre più improbabile: si assottigliano le probabilità che la
comunicazione intersoggettiva sia vissuta come significativa per i soggetti in
interazione; diminuisce la probabilità che il contesto oggettivo possa favorire
una comprensione intima tra chi comunica; diminuisce la probabilità che si
realizzino le condizioni specifiche della comunicabilità. Queste
caratteristiche della comunicazione sembrano configurarsi anche nell’
implosione delle relazioni di sostegno, di aiuto tra persone: sia la
solidarietà spontanea, di mondo vitale, tra singoli o gruppi informali, sia le
relazioni istituzionali come quella tra medico e paziente che soffrono
dell’incapacità di padroneggiare relazioni profonde e personalizzate.
Cominciare
la prevenzione, la cura e la ricerca sulla salute significa riconoscere il
valore dell’esistere proprio ed altrui in tutta la sua complessità: corrisponde
all’accoglienza dell’esistenza dell’altro come prossimo e simile.
Una
buona salute e una efficiente condizione fisica sono garantite dall’eredità
genetica, ma anche e soprattutto da un sano stile di vita. Pochi ma importanti
sono i fattori che contribuiscono a un buon invecchiamento, tra questi il
movimento fisico, la lotta all’obesità e al fumo.
Dai
dati forniti dal ministero della Salute per quanto riguarda l’attività fisica
dei cittadini italiani emerge un preoccupante andamento: aumenta il numero dei
sedentari e tale fenomeno assume particolare rilievo nelle fasce di età
giovanile.
Circa
il 60 per cento degli adulti tra i 25 e i 64 anni non svolge alcuna attività
fisica. La medicina sportiva, invece, ha potuto constatare come negli sportivi “di
vecchia data” l’uso costante e sorvegliato di un’attività sportiva adeguata
incrementa le resistenze totali dell’organismo, limita l’involuzione
muscoloscheletrica e cardiovascolare, stimola le capacità psicocerebrali del
soggetto. Un tessuto muscolare quotidianamente attivo è, infatti, il motore
attraverso cui sono impiegati la maggioranza degli zuccheri, grassi e proteine
introdotti con l’alimentazione. Un muscolo inattivo, invece, limita la potenzialità
espressiva della persona e conduce a un invecchiamento precoce e accompagnato
da tutte quelle patologie legate alla sedentarietà.
Una
regolare attività fisica previene patologie croniche come diabete di secondo tipo, disturbi
cardiocircolatori, obesità. Inoltre protegge da condizioni disabilitanti tipo
osteoporosi, artrite. Infine riduce o elimina fattori di rischio come pressione
alta, colesterolo alto.
Alcuni studi dimostrano che le persone
fisicamente attive hanno una speranza di
vita superiore ai sedentari in media di circa sei anni. Inoltre, l’esecuzione
di un’attività sportiva regolare è molto efficace nel ridurre la sintomatologia
depressiva, rallenta il declino fisico e cognitivo che talvolta caratterizza
l’invecchiamento e garantisce un buon
riposo notturno.
In un esperimento statunitense si è raggiunto
l’obiettivo di migliorare la salute e la qualità della vita dei partecipanti
semplicemente aggiungendo alla normale attività quotidiana 2000 passi in più.
Sono sufficienti 30 minuti di cammino svelto, se non tutti i giorni almeno nei
fine settimana, per ottenere risultati salutari a tutte le età.
Camminare
ogni volta che è possibile, ricordando che i benefici maggiori si ottengono con
la continuità. Sfruttare al meglio il tempo a nostra disposizione anche, per
esempio, prendendo i mezzi pubblici per andare in ufficio, scendendo una
fermata prima della destinazione, passeggiando
durante le pause lavorative, utilizzando le scale al posto dell’ascensore, andando
a parlare di persona con il collega anziché utilizzare il telefono o la
posta elettronica. L’importanza della diagnosi precoce di una
malattia e la maggiore efficacia di una terapia tempestiva sono ormai
patrimonio culturale non solo della medicina, ma sostanzialmente di tutti i
cittadini. Laddove esistono prove scientifiche dell’efficacia di pratiche in
grado di garantire ai cittadini significativi vantaggi in termine di salute, è
dovere dei servizi sanitari non lasciare la presa in carico di situazioni
cliniche all’occasionale, individuale incontro tra medici e assistiti o solo
quando si è già in presenza
di sintomatologia significativa, ma intervenire con programmi attivi e
organizzati di sanità pubblica.
Lo
screening è un programma organizzato e sistematico di diagnosi precoce condotto
su una popolazione asintomatica, cioè che non accusa nessun disturbo o sintomi
di quella specifica malattia: lo screening si rivolge a persone «che si sentono
sane». Questa popolazione viene attivamente invitata dalla struttura sanitaria
a effettuare gratuitamente un esame clinico, strumentale o di laboratorio,
attraverso il quale si può identificare una malattia in fase iniziale, perché,
tanto più è precoce la diagnosi, tanto più è probabile riuscire a modificare la
storia naturale della malattia utilizzando un trattamento dimostratosi
efficace.
Uno
screening ben gestito è considerato più efficace dei controlli clinici individuali su
richiesta, in quanto organizzato sempre con un rigoroso approccio scientifico e
fondato sulle migliori prassi disponibili.
Condizioni di salute e
ricorso ai servizi sanitari
Nel
2007 l’Istat ha pubblicato i risultati dell’indagine «Condizioni di salute e
ricorso ai servizi sanitari», in cui ha rilevato i dati del 2005 sullo stato di
salute degli italiani, il ricorso ai principali servizi sanitari, alcuni
fattori di rischio per la salute e i comportamenti di prevenzione. Nella
rilevazione il campione complessi vo
dell’indagine, che comprende circa 60.000 famiglie è analizzato riguardo
a:
Le
condizioni di salute della popolazione;
Il
consumo di farmaci;
La
prevenzione;
L’obesità
e l’abitudine al fumo;
La
fruizione dei servizi sanitari;
L’opinione
dei cittadini.
L’indagine,
tra l’altro, evidenzia che nelle quattro settimane precedenti l’intervista sono
state effettuati 31.213.000 visite mediche, con una media di 1,9 visite a
persona. Negli ultimi cinque anni il numero di visite effettuate è aumentato
del 16,7 per cento (pari 4.478.000 prestazioni) e ha riguardato soprattutto gli
ultra settantacinquenni (+36,7 per cento). Il numero di visite generiche è
cresciuto del 20,5 per cento, quello delle specialistiche del 10,5 per cento.
L’incremento complessivo delle visite si verifica in più del
la metà dei casi per ripetizione di ricette,
in 917.00 casi per malattia e 895.000 per controllo dello stato di salute. Tra
le visite specialistiche sono più numerose le visite odontoiatriche (26,9 per
cento), seguite da quelle ortopediche (11,4 per cento), oculistiche (10,8 per
cento) e cardiologiche (9,5 per cento). L’incremento maggiore rispetto al 1999-2000 si registra
per le visite urologiche (+35,4 per cento), cardiologiche (+34,3 per cento),
geriatriche (+33,0 per cento) e dietologiche (+ 32,8 per cento).
Il 57 per cento delle visite specialistiche è
pagato interamente dalle famiglie. Se non si considerano le visite
odontoiatriche si arriva a circa il 48 per cento. Marche e Umbria si
distinguono per le quote più alte di visite a pagamento; le più basse percentuali
si registrano invece in Sardegna e in Sicilia. È elevata la quota di persone di
status sociale basso (46,8 per cento) che si fanno interamente carico della
spesa. Nelle quattro settimane
precedenti la rilevazione gli esami effettuati sono stati 15.298.000,
escludendo i controlli effettuati durante eventuali ricoveri ospedalieri o in
day hospital. Sono 10.664.000 gli accertamenti di laboratorio (18,4 per 100
.persone) e 4.634.000 gli esami specialistici (8 per 100 persone), stabili
rispetto al 2000 e eseguiti più dalle donne che dagli uomini. Il 21 per cento
degli esami specialistici è a pagamento. Lazio, Puglia, Marche e Sicilia sono
le regioni nelle quali più frequentemente i controlli specialistici sono
interamente a carico degli utenti.
Le
persone di status sociale più elevato fanno più visite e accertamenti
specialistici. Le persone con livello di istruzione più basso fanno più visite
generiche (41,2 per cento contro il 18,1 per cento), accertamenti di
laboratorio (23,3 per cento contro il 16,9 per cento) e ricoveri (4,4 per cento
contro 2,3 per cento).
Si
ricorre a visite e ad accertamenti specialistici a pagamento soprattutto per la
fiducia nel medico o nella struttura di riferimento (71,5 per cento e 55,0 per
cento rispettivamente). Anche per il ricorso nelle strutture pubbliche la
fiducia è il motivo prevalente (53 per cento per visite e accertamenti
specialistici).
I diritti
dell’ammalato
I
diritti dell’ammalato: un tempo così poco riconosciuti da rendere necessaria la
creazione di un apposito «Tribunale del malato», così come si era resa
necessaria la creazione di un tribunale dei minori. Minori e ammalati due
categorie che, per diversi motivi, non possono difendersi, si trovano in
condizione di debolezza nei confronti della società, necessitano di regole
«diverse» rispetto al cittadino adulto e sano.
Il
Tribunale del malato nasce nel 1980 con il preciso scopo di tutelare i diritti
dei cittadini quando devono ricorrere alle strutture sanitarie e assistenziali
a causa di una qualsiasi infermità; si sviluppa negli anni successivi
inserendosi in un contesto reso ancora più complesso da una profonda
rivoluzione, anche culturale, del sistema sanitario: rivoluzione che è in atto
da più di venti anni e che, per alcuni aspetti, non è stata ancora a fondo metabolizzata,
né da operatori né da utenti.
La
legge 833/1978 che istituisce il Sistema sanitario nazionale recita all’art. 1:
«La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e
interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La
tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità
e della libertà della persona umana. Il servizio sanitario nazionale è
costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle
attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero la salute
fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni
individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei
cittadini nei fronti del servizio.»
Come
si vede la tutela dei diritti, la dignità, la libertà della persona umana sono
il principio ispiratore della legge, principio ispiratore che viene ribadito
nella successiva legge 502/1992, che istituisce le aziende sanitarie locali.
È
ben chiaro dunque come il diritto l’ammalato sia una delle idee centrali della
riforma e che essa si debba esprimere traverso il «rispetto della dignità e
della libertà della persona umana». È interessante allora cercare di capire
come questo principio ispiratore si sia tradotto nella pratica comune
dell’organizzazione sanitaria e come abbia inciso anche sui comportamenti del
personale sanitario.
La tutela della salute
La
tutela della salute è ovviamente l’obiettivo cruciale degli interventi sanitari
sul cittadino. Tralasciamo l’aspetto della prevenzione etimologicamente più
vicino al concetto tutela della salute, ma che trova uno spazio ridotto dallo
strapotere della «medicina cura» e che quindi ripristina una salute persa. In
fondo è questo che interessa di più al cittadino: quando ci si ammala, avere una
sposta in grado di risolvere il problema bene e il più rapidamente possibile. Il
che fortunatamente coincide con gli obiettivi che si pone un’azienda sanitaria,
anche se, criticamente, dobbiamo dire che il primo obiettivo affrontato e
raggiunto è stato quello del “presto” piuttosto che del “bene”.
Ora
si parla diffusamente anche di efficacia e non più solo di efficienza come
all’inizio della suddetta rivoluzione, e questo si traduce in una maggior
garanzia per il paziente, che si vede inserito in un percorso
diagnostico-terapeutico ottimale, sia per quanto riguarda la possibile
soluzione del suo problema nei tempi più rapidi possibili, sia per quanto
riguarda il contenimento degli errori. Già: contenimento e non eliminazione.
L’utopia
dell’eliminazione dell’errore, in medicina come in tutti gli altri campi
dell’agire umano, è stata abbandonata da tempo per una più realizzabile e
concreta ipotesi di contenimento dell’errore, mediante linee-guida, procedure
controllate, attraverso un’organizzazione del lavoro e del personale che, se
gestita in modo efficace, dovrebbe essere in grado dì raggiungere tale
obiettivo. Obiettivo che per la professione medica continua ad avere un valore
etico più ancora che legale o assicurativo.
Quello
che emerge dalle politiche sanitarie moderne dunque, e che sostanzialmente
nasce da una forte spinta al contenimento dì costi sempre più rilevanti e
insostenibili, si traduce ed evolve ora in una miglior gestione complessiva
orientata a rispondere al diritto fondamentale di ogni cittadino di avere la
miglior assistenza possibile in caso di bisogno sanitario.
Dire
che sia stato facile metabolizzare tutto questo da parte della dirigenza medica
sarebbe una menzogna: dopo un rifiuto iniziale e immediato verso il meccanismo
di controllo che tale concezione prevede, la classe medica si sta lentamente e
faticosamente riadattando a un sistema che sostituisce il clinico puro con il clinico-manager, pagando l’inesperienza e
le difficoltà che emergono ogni volta che si affronta radicalmente un sistema
organizzativo. A volte, facendolo pagare anche agli assistiti.
L’uguaglianza
Questo
diritto fondamentale deve essere assicurato a tutti, secondo un principio di
uguaglianza che oggi non è certo negato. L’esempio più evidente è l’assistenza
che viene erogata sul territorio anche a cittadini stranieri non in regola, i
quali, in caso di bisogni sanitari urgenti o che possono creare elementi di
rischio alla popolazione autoctona, possono accedere ai servizi sanitari in modo
gratuito mediante il cosiddetto codice STP (straniero temporaneamente
presente). Il libero accesso alle strutture e l’assistenza assicurata anche
agli indigenti sono solo alcuni degli aspetti che pongono il Servizio sanitario
nazionale italiano ai primi posti delle graduatorie internazionali.
Rispetto che si manifesta nella ricerca
di situazioni logistiche sempre più contorte- voli durante il ricovero,
nell’attenzione alle necessità quotidiane dei pazienti, nel tentativo sempre
più evidente di rendere la degenza in ospedale confortevole e più breve. A tal
punto che quando è possibile la degenza si trasforma in day hospital, si
comincia a parlare di «ospedale a domicilio» e, nuovamente, di servizi sanitari
territoriali, da sempre considerati «parenti poveri» nella concezione ospedalocentrica della sanità italiana, e ora assurti a
nuova vitalità.
5.
Famiglia “in crisi” e salute “a rischio”: uno sguardo sociologico sul
contemporaneo
La
famiglia è rappresentata da un gruppo di persone direttamente legate da
rapporti di parentela, all’interno del quale gli adulti hanno la responsabilità
di occuparsi dell’allevamento dei più piccoli1. I legami di parentela sono il
risultato di rapporti provenienti da ‘matrimoni o da linee di discendenza tra
consanguinei e non. In tal senso, la famiglia rappresenta un’ istituzione della
società, un gruppo primario la cui funzione fondamentale è consentire la
socializzazione, l’apprendimento, la comunicazione e lo scambio dei sentimenti.
Per un bambino l’ambiente familiare occupa dunque uno spazio primario per lo
sviluppo della propria personalità, non a caso in essa si ritrovano i più
importanti agenti di socializzazione primaria.
Talcott
Parsons, familista convinto, le ha attribuito il primato assoluto in tale
processo, sottolineando come i primi rapporti sociali della vita di un
individuo si instaurino proprio al suo interno e come questi momenti siano
decisivi per la formazione dell’identità. Distaccandosi da Emile Durkheim, che
alla famiglia contrapponeva le corporazioni come nuova istituzione di base,
Parsons ne esalta la funzione nel processo di integrazione dell’individuo nella
società, che comincia con l’assunzione di ruolo quale “perno connettore” tra i
due sistemi, quello personale e quello sociale. Obiettivo principale del pro
cesso di socializzazione è proprio di far apprendere tutto ciò che serve per
l’assunzione del ruolo sociale.
A
tal proposito Pierpaolo Donati precisa che la
famiglia non è un gruppo primario come gli altri, ma piuttosto un luogo in cui
la relazione è particolare, originale, e segue criteri di differenziazione
propria. Il tipo di relazione che ne sta a fondamento corrisponde a
esigenze «funzionali e sovra-funzionali non surrogabili da altre relazioni
sociali.
Diversamente
da altri gruppi primari la famiglia si caratterizza per un modo specifico di
vivere la differenza di gender (che
implica la sessualità) e le obbligazioni fra generazioni (che implicano la parentela)».
In base a queste due dimensioni, essa segue criteri propri di differenziazione
che la rendono diversa dagli altri gruppi primari. I fattori che originano la
famiglia sono di carattere relazionale e la sua struttura e dimensione non è la
risultante di motivazioni individuali o collettive, siano esse psicologiche,
economiche, politiche o religiose, ma le sue radici sono da ricercare nei suoi
stessi impulsi interni, che non sono per forza riconducibili a motivazioni
esterne quali il sentimento, l’utilità o il potere.
Si
tratta dunque di un sistema relazionale primordiale che «esiste all’inizio e
dall’inizio», poiché essa è all’origine dell’evoluzione della specie umana e al
contempo mediatrice dell’ingresso dell’individuo nella società. La sua
composita struttura si sostanzia di mediazioni di cui gli individui non sono
sempre esplicitamente consapevoli, ma che ritrovano una significatività nelle
relazioni interne e nella formazione della personalità di ciascun individuo che
ne entra a far parte.
In
questo quadro risulta difficile descrivere e schematizzare tutti i processi
relazionali che vivono al suo interno e che vi si auto-producono, tuttavia si
può affermare che le relazioni familiari possono essere formalizzate e
trasformare la famiglia da gruppo sociale primario a istituzione sociale «la
cui importanza sta nel rendere esplicite e regolate le mediazioni funzionali e
sovra-funzionali che la famiglia realizza fra il singolo individuo e le sfere
extrafamiliari, fra gli elementi naturali e quelli culturali, fra le dimensioni
private e quelle pubbliche della vita sociale».
Il ruolo fondamentale che essa ha, rientra nel
processo di socializzazione, fondamentale nella vita dell’individuo per la
presa di coscienza del proprio ruolo nella società, ma non solo: nella
prospettiva relazionale la famiglia acquisisce tra gli altri anche un ruolo
determinante nella salute, nella cura delle malattie, nell’igiene, nelle abitudini
alimentari, negli stili di vita e nell’educazione alla prevenzione. Questo
importante ruolo multifattoriale del rapporto tra salute e famiglia, per lungo
tempo è stato sottovalutato sia dalla scienza sia dalle istituzioni sanitarie,
isolando il paziente dal proprio contesto storico psicologico, relazionale e
sociale.
Escludere
la famiglia e il ruolo da essa compiuto nel momento della comprensione del
disturbo e della comunicazione con il paziente, può significa anche non
comprendere la malattia, lo stato di disagio vissuto, i processi che ne stanno
all’origine, se non addirittura sottovalutare le possibilità cura,
riabilitazione e prevenzione provenienti dal sistema di reti relazioni interne
alla famiglia.
In
un momento storico in cui emerge una concezione olistica della salute (di cui
peraltro si è già parlato in altri capitoli), la famiglia emerge con tutta sua
importanza, quale ambito da valutare nei processi di cura e di trattamento
delle malattie e patologie di varia natura. Alla base di questa concezione pone
l’idea che la salute sia un fatto globale, di natura processuale e relazionale
che chiama in causa tutti gli ambiti dell’esistenza umana nel loro infinito
processo di intreccio sociale.
Indubbiamente
i legami tra famiglia e salute sono evidenti anche nei fenomeni contemporanei,
quali l’incremento dell’obesità nei bambini provenienti da famiglie disagiate
sui quali torneremo oltre, o nelle forme di bulimia nervosa, che possono
originarsi come reazione a un disagio inscritto negli schemi relazionali della
famiglia. Tra gli elementi che predispongono i disturbi alimentari, si fa
accenno anche all‘importanza dei fatti familiari, come ad esempio l’esistenza di
un rapporto disturbato tra genitore figlio/a o una particolare configurazione
della dinamica familiare. Ciò che emerge dalle osservazioni allargate di
famiglie con un componente affetto anoressia nervosa, è che esiste una
molteplicità di fattori relazionali conflittuali interni alla famiglia, che
possono generare tale disturbo.
In
ogni caso risulta difficile trovare dei denominatori comuni sempre uguali in
situazioni diverse, ciò anche nel rifiuto dell’idea che vi sia una famiglia
tipica che favorisca l’insorgenza di malattie, disturbi o patologie di vario genere,
anche perché ognuna ha dinamiche proprie di trasmissione di un disturbo «Non
soltanto tipi, gradi e proprietà della diffusione variano secondo i tipi e le proprietà delle strutture familiari, anche
come “reti allargate”, ma sono rilevanti anche aspetti qualitativi differenti,
a parità di profili strutturali (intesi come le classiche variabili dell’età,
sesso, numerosità dei componenti)». In tal senso, dunque, le relazioni
familiari possono rappresentare una causa possibili disturbi del comportamento
alimentare.
La
famiglia quale istituzione sociale può giocare un duplice ruolo nel processo di
relazione con la salute da una parte essere un “canale” per la trasmissione
delle malattie, dall’altra rappresentare “un aiuto” possibile nella cura e
terapia delle stesse.
L’idea
di una correlazione diretta e univoca tra famiglia e salute, tra contatti
familiari e malattia apre un dibattito assai vasto cha va dalla vicinanza
fisica quale elemento di trasmissione di infezioni, virus o stati patologici
diversi, fino alla diffusione di concezioni, abitudini e conflitti di vario
genere, quali fattori determinanti l’origine di un disturbo. Indubbiamente il
problema va trattato su due fronti, il primo di carattere epidemiologico, il
secondo prettamente relazionale; vi è comunque la convinzione ormai accertata
che esista una suscettibilità differenziale delle famiglie nel diventare motivo
diretto o indiretto di malattia. La variabile famiglia di per sé non può
comunque essere la sola causa di uno stato di malattia, piuttosto la
correlazione con altre variabili che in qualche modo toccano la vita
dell’individuo all’interno e all’esterno della struttura familiare.
I
censimenti, le indagine e le ricerche in questo senso testimoniano un nesso tra
i tassi di morbosità e le situazioni familiari vissute dai pazienti. Nelle
famiglie conflittuali, frammentate o in cui è assente una possibilità d’aiuto,
sono maggiori le probabilità di insorgenza di un disturbo. Se si combinano
situazioni difficoltose o problematiche in famiglia con un’insufficienza di
sostegno sanitario, si verifica anche un accrescimento della suscettibilità nei
confronti di malattie fisiche, psicologiche e mentali In questo senso la
famiglia contribuisce sul piano causale all’insorgenza della malattia, in modo
scatenante o collaterale, «ma in taluni casi può essere essa stessa la malattia
soggiacente al corso esistenziale delle persone, o comunque il fattore
strutturale di amplificazione delle patologie».
Quale
canale di trasmissione, il ruolo della famiglia deve comunque essere inteso
come un rinforzo che si struttura sulla base del sistema delle risposte che la
famiglia fornisce nell’insorgenza della malattia: può contribuire ad aggravarne
lo stato di gravità, come influenzare negativamente il processo di cura.
Esistono dinamiche familiari, peraltro ancora difficili da spiegare nella loro
globalità, che arrivano a situazioni contraddittorie nel trattamento della
malattia, manifestandosi attraverso la negazione della stessa, la vergogna dell’essere
malati o la considerazione superficiale di uno stato di salute gravemente
compromesso. La letteratura psicologica evidenzia come alcuni casi di malattia
come ad esempio il diabete, siano negati nella famiglia e il trattamento del
malato sia espresso in condizioni nascoste, private; così come nel caso di
stati patologici di anoressia o bulimia nervosa ove le madri rifiutano l’ammissione di stati gravi di
disturbi del comportamento alimentare, anche di fronte a evidenze tangibili di
dimagrimento improvviso e immotivato.
Oltre
a rappresentare un canale di trasmissione delle malattie, la fan può comunque
rappresentare anche un luogo di cura e terapia, soggetto nella prevenzione e
nella riabilitazione di diverse patologie. Determinante nell’educazione alimentare,
nell’apprendimento degli stili di vita e di comportamento, nonché nelle abitudini
e nelle pratiche d’igiene, la famiglia ha un ruolo da valorizzare nei programmi
di cura e di trattamento delle patologie Ancora, preso atto che per il malato
la famiglia rappresenta un aspetto da valutare come parte del contesto storico,
sociale, culturale e psicologico in cui vive, appare inevitabile un suo
coinvolgimento al momento nel trattamento terapeutico. Nei casi di malattie
cardiovascolari, di ipertensione arteriosa, di problemi respiratori, le
abitudini quotidiane della famiglia sono coinvolte nella prevenzione; nel caso
di trattamenti specifici farmacologici o di rientri dall’ospedale dopo
interventi chirurgici di rilievo, la famiglia diventa determinante per il
rispetto dei programmi di cura; nei casi di incidenti, invalidità problemi di
mobilità, le reti familiari acquisiscono un ruolo decisivo programmi di
riabilitazione (se si pensa ai soli costi di terapie riabilitative alla
gestione quotidiana di chi con costanza deve effettuare ginnastiche o massaggi
terapeutici); infine nei casi di riuscita dalla tossicodipendenza o da disturbi
del comportamento alimentare, la rete relazionale dell’istituzione familiare,
diventa essenziale ai fini del reinserimento sociale.
Nella
concezione olistica di salute, e sulla base di una teoria relazionale come
espressa da Donati, diventa indispensabile rivalutare il ruolo della famiglia e
di "tutta la rete che si muove dentro e attorno”, quale risorsa basilare
per la comprensione e il trattamento delle malattie, senza limitarsi a ricercare
il problema nei singoli aspetti che possono averlo originato.
Tale
prospettiva ha aperto spazi di considerazione nella gestione della malattia a
domicilio: una politica che spinge a creare le possibilità domestiche per le
terapie nella cura dell’HIV o a dimettere quanto prima i pazienti anziani che
nelle strutture sanitarie vivono un’esperienza troppo forte di sradicamento.
Sia nei casi di malattie gravi, sia nella cura degli anziani o di bambini
ammalati di una delle “malattie dell’infanzia”, la tendenza odierna è di
agevolare la terapia nella famiglia, che può diventare attore principale nel
trattamento e nella cura. La rete di relazioni presente in essa, agevola così
le condizioni per una guarigione più rapida e meno faticosa della malattia, nonché
un decorso meno sgradevole. Nel caso dei bambini, la famiglia e soprattutto la
madre, rappresentano un universo senza dubbio più umano rispetto all’ospedale.
In casi di malattie che si protraggono nel tempo poi, la “domesticità” della
cura permette anche la possibilità di mantenere il contatto con la scuola e con
la dimensione dell’apprendimento, fattore determinante per la crescita
psicosociale.
Seguendo
tale prospettiva diventa inevitabile pensare alla famiglia come a un soggetto
basilare di prevenzione, di cura e di riabilitazione, proprio per la sua duplice caratteristica di possibile fonte
e possibile cura della malattia.
Lavoro e salute: la precarietà nell’età post-moderna
Nell’affrontare
la tematica dedicata alla relazione tra salute e lavoro nella società
post-moderna, ci si trova di fronte a una lunga lista di aspetti di rilevanza
sociologica. L’argomento è senza dubbio ampio e il dibattito contemporaneo
vivace: si va dall’importanza della tutela della salute, alla sicurezza e
all’igiene sul posto di lavoro, dalla discussione sulla normativa esistente
alle forme assicurative del lavoratore, dal mobbing alle nuove “malattie da
ufficio”. Ciascuno di questi apre un’ampia discussione sociologica.
Qui
ci si occuperà di alcuni di questi aspetti che, partendo dall’analisi del
contesto economico - produttivo della società contemporanea e passando
attraverso la descrizione delle nuove modalità lavorative atipiche, si sono
ritenuti importanti per capire quali siano i rischi di salute dei nuovi
lavoratori.
La
società contemporanea vive un momento di transitorietà caratterizzato da una
spiccata evoluzione tecnologica, da mutamenti economici, sociali e culturali di
entità globale. Non a caso la letteratura sociologica contemporanea pullula di
definizioni di una società post-moderna in crisi, una società dell’incertezza e
del rischio. In effetti le nuove tecnologie, la globalizzazione dei mercati e
la nascita di società multiculturali, stanno cambiando radicalmente il volto
della società contemporanea trasformandola da moderna e razionalizzata in
liquida e instabile.
Se
guardiamo soltanto ai processi in atto all’interno del mercati del lavoro
europei, appare evidente come si stia manifestando, seppur in maniera differente
a seconda del contesto nazionale, una sorta di erosione del contratto lavoro
classico, stabile, di tipo fordista
che ha caratterizzato per tutta la modernità l’occupazione nelle grandi imprese
pubbliche e private, in favore una moltiplicazione di contratti di lavoro
“marginali”.
Contemporaneamente
si sta assistendo a un indebolimento dell’opposizione tra mercati del lavoro
interni e mercati del lavoro esterni, nonché ad una complessificazione dei percorsi professionali che trattengono diversamente
i giovani nei loro percorsi di studio: Si sta verificando una redistribuzione
dei rischi economici e sociali tra imprese e lavoratori, che sta comportando la
nascita di nuove forme di precarizzazione
sociale. Questa sembra essere causa oltre che dall’emergere di nuovi mercati
transizionali, anche e soprattutto c la moltiplicazione delle forme giuridiche
dei contratti di lavoro. Le trasformazioni avvenute negli ultimi anni
all’interno dell’organizzazione delle modalità lavorative hanno profondamente
modificato il quadro dei rischi relativi salute e alla sicurezza dei lavoratori.
Si sono attenuate alcune patologie ma sono giunte di nuove, tra cui tutta una
serie di gravi malattie di cui è difficile individuare con certezza l’origine e
di cui è impossibile trovare immediatamente una relazione causale diretta con
l’attività professionale.
Al
fine di comprendere quali siano i nuovi rischi per la salute e la sicurezza di
chi oggi è attivo nel mercato del lavoro occorre valutare una molteplicità
fattori piuttosto differenziati. È necessario analizzare le trasformazioni organizzative
avviatesi con le tecnologie e valutare le conseguenze che hanno le modalità,
sulla percezione e sulla qualità del lavoro; solo in un secondo momento si
comprenderà il legame esistente «tra i cambiamenti avvenuti rapporti
contrattuali e le ripercussioni causate nell’ambito della salute e sicurezza».
Infine si focalizzerà l’attenzione sulle nuove figure professionali soggette ai
rischi sociali e di salute
Come
già era stato indicato dal CENSIS nel 2000, nel sistema economico contemporaneo dell’Italia,
innovazione, competitività e tecnologia divengono parole d’ordine sia per le
imprese sia per i lavoratori. Per le prime esse si traducono in investimenti
economici, in formazione professionale e in capacità di rischio, mentre per il
lavoratore diventano richieste di competenza, capacità organizzative e
autonomia, in una parola sola flessibilità. Ciò che il CENSIS aveva intravisto
nel 2000 era solo un anticipo di ciò che a distanza di sei anni è diventato
ancor più reale.
Il
mercato del lavoro italiano si va caratterizzando sempre più per un’occupazione
flessibile, che reclama al lavoratore una marcata autonomia, una viva
intraprendenza e una spiccata capacità organizzativa e di adattamento. Si sta
compiendo infatti l’ultimo passaggio da un modello industriale di economia a un
modello post-industriale, in cui a un accento sul volume della produzione, si
sostituisce il valore della produzione e quindi una concezione della crescita
non più quantitativa, ma soprattutto qualitativa. Si sta passando
definitivamente da un’economia di scala a un’economia flessibile.
Il modello fordista che per buona parte del XX
secolo è stato a fondamento del processo produttivo, lascia il posto a forme
alternative, diverse di organizzazione del lavoro, che segnano il passaggio
storico verso un sistema nuovo, post-fordista che, pur mantenendo inalterate
alcune caratteristiche della produzione, di fatto rivoluziona l’organizzazione
del lavoro.
In
questo momento di transizione, le imprese di ogni dimensione si trovano infatti
impegnate nell’applicazione delle nuove tecnologie e implicate nelle
possibilità e nelle problematiche connesse alla globalizzazione dei mercati.
Sono alle prese con nuove esigenze del mercato, che impongono la rivisitazione
dei sistemi produttivi, coinvolgendo le strategie, le attività e le modalità
di produzione, i tempi e i
metodi di organizzazione del lavoro. Ecco perché il sistema taylorista -
fordista standardizzato e stabile, tipico delle società moderne e non più
adeguato al mercato contemporaneo, viene soppiantato da nuove modalità
organizzative caratterizzate dalla ricerca della flessibilità. Essa rappresenta
da un lato il perno del nuovo sistema e la soluzione migliore per rispondere
alle richieste del nuovo mercato, dall’altro la causa di sconvolgimenti nella
compagine lavorativa.
Se
per lungo tempo e per tutta la modernità, il lavoro ha rappresentato delle più
importanti certezze della vita privata e sociale del singolo, l’elemento
regolatore del proprio progetto di vita, fortemente collegato con il valore del
riconoscimento di sé e del proprio ruolo sociale, oggi esso acquisisce forme
nuove e sempre più difficili da definire sociologicamente. D’altronde non si
vede come esso possa mantenere le caratteristiche del passato, quando
l’applicazione delle nuove normative sul lavoro impone una rivisitazione delle
forme contrattuali e delle condizioni lavorative che puntano alla massima
flessibilità.
In
questo scenario di mutamento resta costante e stabile la funzione di
riconoscimento della condizione di cittadino, nonché la costruzione
dell’identità sociale che passano pur sempre attraverso la conduzione di
un’attività lavorativa. In un sistema discontinuo e flessibile come quello odierno
diventa quasi contraddittorio riuscire a costruire la propria identità sociale
grazie al lavoro, con una serie di problemi che ne conseguono sul piano fisico,
psicologico e sociale, correlati con la salute.
Le
opportunità offerte dal lavoro flessibile acquisiscono un’accezione negativa
nel momento in cui hanno ricadute sulla personalità del lavoratore vita
quotidiana. Il lavoro atipico in cui l’autonomia e la libertà dei lavo
rappresentano la prima regola, i lavoratori devono essere più competenti, con
un’elevata qualificazione, e al contempo più esposti al rischio di precarietà
professionale e di vulnerabilità sociale, con forti ripercussioni sullo stato
di salute.
Il
processo di de-standardizzazione del lavoro insieme al progressivo sviluppo dei
sistemi informativi, dà vita all’individualizzazione dei rapporti di lavoro col
conseguente venir meno dei legami sociali e del senso di appartenenza,
fondamentali per lo sviluppo dell’identità collettiva e dell’integrazione
professionale prima e sociale poi.
Il
rischio più grande che ne consegue diventa un disorientamento personale e
sociale che porta a un continuo stato di
incertezza col conseguente accumulo di stress e di malessere vissuto.
Le
profonde trasformazioni del mercato del lavoro, l’innalzamento dei livelli di
studio e la diversificazione dei percorsi formativi, fanno sì che il processo
di transizione al lavoro sia sempre meno un percorso lineare e prevedibile, contrassegnato
da una sequenza ordinata e coerente di esperienze formative ed episodi
lavorativi. Quello di oggi è un mercato del lavoro più aperto e dinamico, ma
anche, meno trasparente e più precario, che richiede all’individuo, spirito di
iniziativa, una buona dose di spregiudicatezza, di calcolo, progettualità e
capacità di cogliere e interpretare le tendenze del mercato. Caratterizzato da
una forte richiesta di flessibilità nei confronti del lavoratore, le
possibilità correlate al lavoro, lo mettono in condizioni di situazioni sempre
nuove in cui deve prendere abilmente decisioni operative con un carico di
responsabilità notevole che caratterizza l’operatività del lavoro flessibile.
Tra i lavoratori emerge la sofferenza di chi ha paura di non soddisfare, di non
riuscire nel compito, di non essere all’altezza, di non rispettare tempi, ritmi,
modalità e livelli di conoscenza e d’informazione; c’è inoltre il timore di non
avere esperienza sufficiente e rapidità nell’acquisizione di nuove pratiche, né
di possedere capacità di adattamento alla cultura dell’impresa. Sono queste le
paure che si sommano a uno stile di vita stressante e stressato sono stati di
sofferenza che impediscono al lavoratore post-moderno di godere di una salute
equilibrata, portandolo a un rischio più elevato di malattie.
Nella
società contemporanea il lavoro precario, massima espressione dell’incertezza e
del rischio che la caratterizza, è affiancato anche da stati di salute precaria, vissuto da coloro che
operano in condizioni lavorative più stressanti e a costante rischio malattia
Si e
avuta in passato la tendenza a pensare che la sofferenza nel lavoro fosse
se stata attenuata dalla
meccanizzazione e dalla tecnologia, che avrebbero evitato il contatto diretto
con la materia tipica delle mansioni industriali, e avrebbero convertito la
manovalanza in operatori dalle mani pulite, trasformando gli operai in
impiegati”.
Come
appare evidente, la realtà dei fatti è altra storia. Anzitutto occorre rilevare
che, oltre alle nuove categorie di lavoratori precari oggi, nonostante le
tecnologie ci siano venute in aiuto e sebbene in molte aziende gran parte del
processo produttivo sia meccanizzato, permane ancora un esercito di lavoratori
che compie lavori in situazioni di estremo pericolo per il loro stato di
salute, in condizioni ancora rischiose e non troppo diverse da quelle del passato.
È il caso di operai manutentori del nucleare, delle imprese di pulizia, degli
allevamenti di polli e dei macelli industriali, delle aziende di trasloco e di
confezioni tessili. Con fattori di nocività piuttosto eterogenei, queste nuove
categorie di lavoratori esposti a diversi rischi di salute vivono in situazioni
di pericolo esattamente come prima dell’avvento della tecnologia, e vanno
tenuti in considerazione nelle riflessioni sul sistema di salute pubblica e di
cura e tutela della salute del lavoratore.
In
secondo luogo se da un lato dobbiamo ringraziare le tecnologie per esserci di
sostegno nella catena di montaggio e nell’esclusione dell’uomo da alcuni
comparti lavorativi estremamente rischiosi, dall’altra non dobbiamo dimenticare
coloro che ancora vivono situazioni lavorative così pericolose, né
sottovalutare i problemi di salute e sicurezza connessi alle nuove tipologie di
lavoro. Queste categorie di lavoratori fanno parte della compagine lavorativa e
rischia la propria salute sul posto di lavoro. In questo scenario occorre
chiedersi se sia utile ripensare e riformulare il concetto di sicurezza e
tutela della salute sul posto di lavoro.
A
conferma della preoccupante situazione stanno i dati che emergono dalle prime
ricerche sul tema dei rischi di salute nel lavoro precario. Nella realtà
lavorativa italiana va detto anzitutto che i precari sono soprattutto “adulti/giovani”
che si attestano sulla trentina d’anni, di cui una quota significativa vive con
i genitori e la stragrande maggioranza non ha figli. Una buona parte sono donne
che se arrivate alla soglia dei quaranta anni, soltanto per un hanno un figlio.
Ben il 76% lavora per un unico datore di lavoro con trattamenti economici
alquanto contenuti e con un rapporto di “dipendenza” piuttosto particolare.
Più
della metà dei precari «svolge un orario superiore a q standard, ossia più di
trentotto ore a settimana, soprattutto nel privato. Nonostante gli orari
lavorativi lunghi, ben il 46% [...] ha una retribuzione inferiore a mille euro
al mese. Tra questi, poco meno di un quarto guadagna meno di ottocento euro. Si
tratta soprattutto di lavoratori del privato e del privato sociale. I “Tecnici”
e gli “Intellettuali”, che svolgono orari lavorativi ben sopra dell’orario
standard, hanno redditi mediamente più elevati, ma comunque di gran lunga
inferiori a quelli dei loro colleghi dipendenti e mai superiori a
millecinquecento euro mensili». In generale poi la durata dei contratti è
piuttosto breve: il 28,3% ha un contratto della durata massima di sei mesi e il
56,5% di un anno, mentre soltanto una minoranza esigua può contare su contratti
di durata superiore.
Questo
testimonia una condizione piuttosto complessa che provoca nei lavoratori un
senso di insofferenza, di malcontento malessere generale. Questi stati
psico-fisici, gli psicologici del lavoro li prendono nella frustrazione,
rilevando come essa possa avere ricadute ne ve sulla qualità del risultato e
del compito svolto, nonché sulla salute generale del lavoratore che accusa
stati costanti di affaticamento se non addirittura malattie obiettivamente
diagnosticate.
Tra
i fattori che influiscono maggiormente sullo stato d’animo di chi la in queste
condizioni, emergono soprattutto gli aspetti legati ai trattamenti contrattuali
e alla mancanza di diritti previdenziali e di tutela. «In generale, sono
abbastanza soddisfatti dei rapporti personali che hanno con i loro e colleghi e
con i loro superiori; [...] I motivi di maggiore malcontento sono in legati
alla retribuzione, alla possibilità di crescita professionale, al coinvolgimento
nelle decisioni aziendali e alla garanzia delle tutele sociali» nonché ai ritmi di vita e alle condizioni di elevato
stress in cui svolgono la propri attività.
Altre
evidenze dello stato di malessere sono rintracciabili sia nel allungamento dei
tempi necessari per raggiungere una prima posizione occupazionale, sia nella
crescente distanza tra il tipo di carriera scolastica e lo sbocco
occupazionale. Nel percorso di avvicinamento a una condizione professionale più
stabile, si susseguono e si alternano sempre più spesso periodi di studio,
esperienze lavorative a carattere formativo e prestazioni professionali
remunerate, temporanee e occasionali.
I
lavoratori flessibili devono destreggiarsi in uno scenario di doppia incertezza
che riguarda sia le propensioni e capacità personali, sia la forte
preoccupazione di perdere il lavoro, che spesso li spinge ad accettare lavori
non strettamente collegati con i loro percorsi di studio.
I
recentissimi dati pubblicati dall‘Ires presentano i lavoratori atipici come i
più preoccupati in assoluto. Sono circa il 61,9% coloro che dichiarano un
elevato stato di preoccupazione rispetto alla possibilità di restare senza
lavoro, contro il 15,2% dei lavoratori con contratto standard. Per questo
trascorrono spesso periodi di iperlavoro
che non sono seguiti da periodi di riposo e la loro libertà nella gestione del
tempo è sovente limitata. Anche se contrattualmente non devono recarsi sul
posto di lavoro tutti i giorni alla stessa ora, nella realtà dei fatti i
lavoratori flessibili sono caldamente invitati a farlo comunque. Sono liberi di
decidere se prendersi una giornata ma poi, nei periodi di maggior attività,
restano al lavoro per giorni e settimane senza dedicare tempo ad altro. Se da
un lato, quindi esiste la libertà formale di decidere e stabilire autonomamente
modalità e ritmi di lavoro, dall’altro i committenti impongono loro
un’organizzazione operativa i cui margini di discrezionalità si rivelano
piuttosto ridotti.
A
conferma di questo si aggiungono altri dati interessanti. Nell’ultimo rapporto
CENSIS, accanto alla crescita dell’economia italiana emerge che il 33,8% degli
italiani lavora abitualmente in orari faticosi: di sera, di notte, nei
week-end, e a casa oltre l’orario abituale. A questa percentuale si aggiunge un
19,8% cui capita, invece, saltuariamente di dover lavorare in orari pesanti
(durante i pasti o nelle pause di lavoro), per un totale di circa otto milioni
centotrentottomila lavoratori, (vale a dire cinquantatre su cento). L’orario atipico
più diffuso è il lavoro di sabato, che interessa ben il 29,5% dei lavoratori
italiani, seguito dall’ attività serale (11% degli occupati), domenicale (6,5
%) da quella notturna, che coinvolge complessivamente ben il 5,6% del campione.
Questo ritmo di vita, come si è visto, viene tenuto per periodi di tempo estremamente
allungati e in condizioni ai limiti della resistenza fisica, psichica e
sociale. Lo svincolo da un preciso orario di lavoro spesso si trasforma frequentemente
in uno squilibrio che influenza negativamente la sfera privata cancellando di
fatto i confini tra tempo di lavoro e tempo di riposo e di svago. Se questo è
vero, se il lavoro pervade il tempo privato dei lavoratori, invadendo il loro
spazio di vita personale e determinando prestazioni lavorative intense con
giornate di lavoro prolungate ben oltre l’orario consueto, pare evidente che ci
si trova di fronte a soggetti post-moderni particolarmente a rischio.
Gli
spazi occupati dalle attività retribuite si impadroniscono anche dello spazio di
vita privata, impedendo una relazionalità e una socialità di cui l’essere umano
ha necessità. Nella scala dei bisogni umani, come insegnano le teorie di
Abraham Maslow e quelle di Ronald Inglehart, esiste “un bisogno di relazionalità
sociale rinvenibile in quell’area” [ ] di “bisogni sociali di
autorealizzazione, appartenenza e stima”. Senso di comunità, rapporti di fratellanza,
relazioni face-to-face, produzione
intersoggettiva di senso all’interno del mondo della vita quotidiana», insieme
a interazioni sociali soddisfacenti e all’autorealizzazione, sono fondamentali
per l’equilibrio fisico e sociale dell’essere umano.
Oggi,
lo stress da iperlavoro, con la conseguente inadeguatezza nelle capacità del
singolo di regolare ritmi di vita lavorativa con spazi di vita rappresenta uno
dei principali fattori a rischio malattia, rimanendo un componenti principali
dello stato di malessere, e indubbiamente non la sola: moltéplici sono le
conseguenze sullo stato di salute provenienti da uno stile di vita incerto e precario.
Anche
se i dati che emergono dalle ricerche condotte in questo ambito nei diversi
paesi europei, non rappresentano una realtà omogenea e non permettono
generalizzazioni teoriche, di fatto sembra esistere una relazione forte tra le
trasformazioni delle relazioni salariali e i rischi correlati alla salute e
alla sicurezza sul lavoro.
Nello
specifico, in una ricerca del 2002 condotta dall’Agenzia Europea per la
Sicurezza e la Salute sul Lavoro, emerge come la velocità dei cambiamenti e la
complessità delle modalità e delle condizioni lavorative infonda, in chi è
attivo, un senso di perdita di controllo sulla propria vita e sul proprio
lavoro. A ciò si aggiunge la pressione causata dall’accelerazione dei tempi di
lavoro che comporta inevitabilmente un aumento dello stress e della fatica
nervosa.
I
dati europei sulle forze di lavoro rilevano che le malattie emergenti
caratteristiche della post-modernità quali stress, depressione, ansia, (ma
anche violenza sui luoghi di lavoro, molestie e intimidazione) rappresentano
ben il 18% dei problemi di salute sul lavoro e che un quarto di questa
percentuale è costretta a un’interruzione delle attività pari o superiore alle
due settimane. Queste patologie appaiono non tanto legate all’esposizione a un
rischio specifico sul luogo di lavoro, quanto a un insieme di fattori
differenziati che vanno a insidiare ciò che solitamente viene definito
“benessere sul luogo di lavoro”.
Le
numerose e continue responsabilità legate al ruolo, i conflitti coi colleghi,
le ansie sul futuro del proprio contratto, il carico indefinito di compiti,
l’ambiente non sempre adeguato e i ritmi pressanti, sono altre possibili fonti
di stress che possono avere conseguenze sullo stato di salute e causare anche
comportamenti di carattere “difensivo”: dall’ assenteismo, all’ incapacità di
fronteggiare le situazioni nuove nei compiti assegnati, dalla difficoltà di
socializzazione alla somatizzazione corporea dell’incertezza.
Tutto
questo carico da lavoro ha notevoli costi anche per la società: le forme di
assenteismo e di richiesta d’indennizzo per malattia professionale, ove
previste da contratto, sono in considerevole aumento. L’Organizzazione Mondiale
della Sanità ha lanciato un allarme, stimando che sia addirittura il 30% della
popolazione mondiale attiva a essere affetta da disturbi mentali di tipo non
psicotico (magari non riconosciute nel DSM-IV), presentando una situazione
alquanto preoccupante.
Le
prestazioni saltuarie, fissate soprattutto dalle specifiche tipologie
contrattuali, hanno incrementato la gravità delle situazioni di stress,
(derivanti soprattutto dall’insicurezza per il futuro), che arrivano fino
all’ansia e a forme di depressione
di diversa gravità. Tutto questo ha ripercussioni anche sullo si di salute e
sulle speranze di vita: è stato già calcolato come i disoccupati di lunga
durata rappresentino la categoria sociale che ha speranze di vita minori e che
le loro storie personali sono caratterizzate da forti depressioni, ansie e
tentativi di suicidio.
I
disoccupati non sono comunque gli unici soggetti da valutare sotto questo
profilo. Gli studi condotti sul rischio di salute nei luoghi di lavoro, hanno
subito evidenziato come l’esecuzione di compiti che hanno una quotidianità
monotona, che sono ripetitivi o faticosi, che avvengono in condizioni insalubri
o di isolamento, aumentano le probabilità di incidenti dovuti soprattutto a
disattenzione, mancato controllo, indolenza o leggerezza nello svolgimento delle
attività.
Per
quanto concerne invece i rischi che accompagnano i cambiamenti venuti nelle
relazioni contrattuali, si può affermare che esistano forti differenze tra
lavoratori permanenti che hanno un contratto a tempo indeterminato lavoratori
flessibili che hanno contratti a termine, rispetto ai temi di sicure; e tutela
della salute sui luoghi di lavoro. A uno sguardo veloce sembra che i rischi
siano gli stessi per entrambe le categorie, ma in realtà come si è accennato
esiste una specificità caratteristica del lavoratore flessibile. Emerge dunque come questa categoria
di lavoratori sia molto meno informata rispetto agli eventuali rischi del
proprio lavoro, e che i corsi di formazione, eventualmente previsti e svolti
all’interno dell’organizzazione aziendale, non siano all’altezza
dell’informazione necessaria.
Se
si osservano poi le condizioni di lavoro a cui questi ultimi sono sottoposti la
situazione appare ancora più grave. Inoltre per quanto i lavoratori a tempo
indeterminato si confrontino con richieste ed esigenze di lavoro sempre più
impegnative, i lavoratori precari vivono condizioni in cui esiste un minor
controllo sui processi lavorativi e organizzativi perché inquadrati in attività
i cui processi non sono standardizzati, vivendo stati compositi di malessere
che si sommano alla prospettiva di dover cambiare frequentemente lavoro e
all’eventualità di over restare inattivi per lunghi periodi. Nello svolgimento
di mansioni temporanee dì breve durata, e di progetti che hanno un termine
temporale inoltre, il lavoratore la “percezione gruppale del rischio”, ovvero
l’occasione di percepire gli accordi e le soluzioni implicitamente o
esplicitamente adottate dal gruppo, nel caso si trovassero a fronteggiare
situazioni di pericolo e/o di emergenza.
Se a
tutto ciò si aggiunge l’indice di infortuni riscontrato nei lavoratori precari,
emerge un dato estremamente interessante rispetto agli interinali. «Pur essendo
difficilmente verificabile sulla base dei dati quantitativi a disposizione, la
casistica dimostra uno spostamento dei rischi a sfavore dei lavoratori
temporanei e dei subappaltatori, i quali risultano nel complesso meno protetti
e/o meno consapevoli dei rischi medesimi».
È stato
rilevato infine che nonostante possa esistere una differenza di età, di occupazione e di settore, tra
lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori atipici, un nesso tra le
condizioni ergonomiche critiche e i contratti atipici sembra sempre più
considerevole.
Di
fronte a uno scenario di questo tipo i medici chiedono aiuto nella definizione
di nuove tipologie di malessere provenienti dal lavoro e correlate all’impiego
e alle condizioni in cui si svolge. I medici e gli istituti di medicina del
lavoro cominciano a lanciare l’allarme, evidenziando come a parte una diffusa e
ormai nota svogliatezza nel riprendere i ritmi di lavoro dopo un periodo di riposo
e di vacanza, si debba fronteggiare il rischio di una serie di disturbi legati
allo svolgimento della propria attività, ancora non sempre riconosciuti come
tali. Si va dalle ormai accertate conseguenze provenienti stile di vita
lavorativa sedentario, (come obesità, aumento di colesterolo alle vere e
proprie “malattie da ufficio”, fino a l’emergenza di nuove forme di disagio
legate al terziario. Senza dedicare spazio alle problematiche provenienti da
una vita sedentaria che qui richiederebbero una riflessione ben ampia sugli
stili di vita, vale la pena dedicare qualche riga alle “malattie ufficio”. Tra
queste la più conosciuta è la sick
building syndrome (“sindrome da edificio malato”) che ha cause multifattoriali
e non è considerata una vera e propria malattia: si tratta piuttosto di una
serie di disturbi che affliggo passa molte ore all’interno di un edificio
chiuso. Questi sintomi colpi soprattutto l’apparato respiratorio, ma non solo:
fastidi agli occhi, spesso arrossati e irritati, sensazioni di occlusione e secchezza
di naso e gola, disturbi causati da tosse e senso di oppressione toracica;
pelle disidratata nonché sintomi legati al sistema nervoso con senso di apatia
e svogliatezza. Sulla base delle osservazioni mediche, sembra che questi
sintomi scompaiano una che le persone si siano allontanate dall’edificio in cui
lavorano.
Se
si osserva poi la struttura del luogo di lavoro e il suo mantenimento, vengono
riscontrati altri problemi di salute legati agli impianti di ventilazione
artificiale o di condizionamento dell’aria, come pure correlati alla man di
luce solare e alla respirazione costante e quotidiana di aria “viziata”.
Effettivamente
i medici dichiarano che alcuni agenti patogeni (come batteri e parassiti)
possono essere trasmessi grazie all’aria condizionata dell’ufficio causando
asma bronchiale, alveoliti allergiche estrinseche e polmoniti del legionario.
In
Italia, in base alla rilevazione Istat anni 2002-2 005, le persone con oltre 65
anni di età sono 11.379.341 su un totale di 56.993.742 abitanti (circa il 20
per cento della popolazione). Nella programmazione dei servizi occorre dunque
considerare specificamente i bisogni assistenziali che può esprimere
quest’ampia fascia di popolazione.
I
servizi sanitari e sociosanitari in favore delle persone anziane sono
finalizzati a rafforzare l’autonomia individuale, a prevenire la non
autosufficienza, a mantenere quanto più possibile la persona nel proprio
contesto familiare, nella propria casa, assicurando — al momento del bisogno —
assistenza qualificata in ospedale, in strutture residenziali, a domicilio. I
servizi sono organizzati in rete per poter garantire continuità delle cure e
della relazione.
I
servizi di assistenza agli anziani sono presenti in ogni ASL (in genere situati
nei distretti sanitari) e hanno una funzione di coordinamento per l’assistenza
sanitaria e sociale agli anziani e alle loro famiglie.
Di
grande importanza è l’apporto delle associazioni di volontariato e dei
familiari che affiancano il lavoro dei servizi pubblici.
Le
principali azioni previste dalla programmazione sanitaria nazionale riguardano
essenzialmente:
La
promozione dell’invecchiamento attivo, con interventi miranti all’adozione di
stili di vita favorevoli alla salute;
L’assistenza
territoriale integrata, finalizzata a prevenire, contrastare e accompagnare le
condizioni di disabilità e fragilità della popolazione anziana, valorizzando in
particolare il medico di famiglia;
L’assistenza
domiciliare;
La
residenzialità e semiresidenzialità, volta a creare un sistema di offerta
sempre più differenziata e di qualità, attraverso la rete delle residenze
sanitarie, delle residenze sociali e dei servizi di accoglienza;
L’assistenza
ospedaliera, nei termini di accoglienza e di dimissioni protette;
La
sicurezza, per azioni di prevenzione sociale degli anziani soli o a rischio.
Negli
ultimi decenni è sempre più pressante la richiesta di assistenza da parte delle
persone anziane non autosufficienti che, nella quasi totalità dei casi,
sono assistite dalla famiglia, con costi
economici, psicologici e sociali elevatissimi.
Una
situazione tale da poter affermare che la condizione delle persone in stato di
totale non autosufficienza rappresenta una vera e propria emergenza sociale.
Affrontare e saper dare una risposta a tale
condizione può essere considerata una delle sfide sociali di maggiore significato
del nostro tempo. In tale contesto, i servizi per anziani non autosufficienti
devono assicurare, dunque, risposte sanitarie, assistenziali, tutelari e di
socializzazione rispetto al grado e intensità del bisogno. La condizione di non
autosufficienza, tuttavia, non riguarda unicamente
la popolazione anziana, ma una fascia ben più ampia della popolazione,
comprendente i disabili fisici, psichici e sensoriali, ovviamente in relazione
alla specifica condizione e gravità della patologia.
Si
riporta, di seguito, una definizione di «non auto- sufficienza», che
costituisce la premessa per specifiche prestazioni sanitarie e sociali. È importante
ricordare che un nodo cruciale dell’assistenza alle persone non autosufficienti
è rappresentato dalla separazione degli assetti istituzionali tra i diversi
servizi:
Aspetti
sociosanitari: il Servizio sanitario nazionale
si occupa delle problematiche assistenziali con forte valenza sanitaria,
con finanziamento statale e regionale, responsabilità organizzativa attribuita
alle regioni e gestione affidata alle ASL;
Dei
servizi e degli interventi sociali: la responsabilità è attribuita agli enti
locali, finanziati da stato, regioni e comuni.
Inoltre,
come previsto dal decreto del presidente d consiglio dei ministri 308/2001, le
strutture destina agli anziani erogano prestazioni socio-assistenziali o sociosanitarie,
finalizzate al mantenimento e al recupero delle residue capacità di autonomia
della persona e sostegno della famiglia. In particolare:
Le
prestazioni socio-assistenziali sono attività relative alla sfera sociale con
lo scopo di aiutare la persona i stato di bisogno, con problematiche di disabilità
o di emarginazione; sono di competenza dei comuni, richiedono la partecipazione
alla spesa da parte dei cittadini che ne beneficiano e si esplicano attraverso
interventi di ospitalità alberghiera presso strutture residenziali rivolte a
pazienti anziani con limitazioni anche parziali dell’autonomia, non assistibili
al proprio domicilio (decreto del presidente del consiglio dei ministri 14
febbraio 2001);
Le
prestazioni sociosanitarie sono invece tutte le attività atte a soddisfare,
mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che
richiedono sia prestazioni sanitarie sia sociali per garantire, anche nel lungo
periodo, la continuità tra gli interventi di cura e quelli di riabilitazione
(decreto legislativo 229/1999 e successive modificazioni); tali prestazioni
comprendono:
—
prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, cioè le attività finalizzate alla
promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e
contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite e
acquisite;
—
prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, cioè tutte le attività del sistema
sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con
problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute. In
questa sede si affrontano i temi legati all’assistenza sociosanitaria e, in
particolare, i servizi e le prestazioni
offerte agli anziani non autosufficienti.
3.
I malati terminali, la donna e la maternità, salute mentale e dipendenze, assistenza
farmaceutica
Focus: Non autosufficienza
Numerose
sono le definizioni di «paziente non autosufficiente». In generale, il
sovrapporsi di una patologia con la condizione socioambientale, cognitiva e
psicoaffettiva della persona determina la comparsa e il livello della non
autosufficienza. L’OCSE ha precisato nel 2005 che i soggetti non
autosufficienti sono “gli individui con disabilità mentali o fisiche di lungo
periodo, che sono diventati dipendenti dall’assistenza nelle attività
fondamentali della vita quotidiana, la gran parte delle quali appartengono ai
gruppi più anziani della popolazione” e che «hanno bisogno di servizi e
interventi di long-term care». Anche il dibattito su cosa debba essere inteso
per long-term care (LTC) o “assistenza continuativa” è tuttora aperto.
Recentemente, l’COSE ha precisato che «seppure la maggior parte dei non
autosufficienti siano anziani, il concetto di assistenza continuativa include
anche servizi rivolti a una popolazione più giovane con disabilità fisiche e
mentali e necessità terapeutiche specifiche di giovani e giovani adulti».
Per
«assistenza alle persone non autosufficienti” o Jong-term care si possono
intendere anche «tutte le forme di cura alla persona odi assistenza sanitaria,
e gli interventi di cura domestica associati, che abbiano natura continuativa.
Tali interventi sono forniti a domicilio, in centri diurni o in strutture
residenziali a individui non autosufficienti».
Focus: L’indennità di
accompagnamento
L’indennità
di accompagnamento, prevista dalla legge 11 febbraio 1~80 n. 18, è la
provvidenza eoonomica riconosciuta dallo Stato, in attuazione dei principi
sanciti dall’art. 38 della Costituzione, a favore dei cittadìni la cui
situazione di invalidità, per minorazioni o menomazioni fisiche o psichiche,
sia tale da rendere necessaria un’assistenza continua; in particolare, perché
non sono in grado di deambulare senza l’assistenza continua di una persona,
oppure perché non sono in grado di compiere autonomamente gli atti quotidiani
della vita.
L’indennità
di accompagnamento ha la natura giuridica di contributo forfetario per il
rimborso delle spese conseguenti al tatto oggettivo della situazione di
invalidità e non è pertanto assimilabile ad alcuna forma di reddito;
conseguentemente è esente da imposte. Essa è a totale carico dello Stato ed è
dovuta per il solo titolo della minorazione, indipendentemente dal reddito del
beneficiario o del suo nucleo familiare.
L’importo
corrisposto (pari nel 2007 a 457,66 euro per 12 mensilità) è annualmente
aggiornato con apposito decreto del ministero dell’interno. Il diritto alla
corresponsione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello in cui è
stata presentata la domanda. Secondo quanto previsto dal decreto del presidente
della repubblica 698/1994 sui procedimenti in materia di riconoscimento delle
minorazioni civili e relativa concessione dei benefici economici, la domanda
per l’accertamento dell’invalidità e per la concessione dei relativi benefici
tra cui l’indennità di accompagnamento) va presentata alla competente
commissione medica per gli invalidi civili dell’ASL di residenza allegando la
certificazione medica comprovante la minorazione o menomazione con diagnosi
precisa e con l’espressa attestazione, ai fini dell’ottenimento dell’indennità
di accompagnamento, il richiedente è «persona impossibilitata a deambulare
senza l’aiuto permanente di un accompagnatore», oppure che è «persona che
necessita di assistenza continua essendo in grado di compiere gli atti quotidiani
della vita”. Non può ricevere l’indennità di accompagnamento chi è ricoverato
in un istituto con pagamento della retta a carico dei servizi pubblici da più
di un mese. Il modello della domanda è disponibile presso gli uffici relazioni
con il pubblico dell’ASL, i patronati, i sindacati e le associazioni di
categoria.
La
domanda va sottoscritta dal richiedente, cioè l’invalido, oppure dal suo legale
rappresentante (uno dei genitori, se si tratta di minore; il tutore o il
curatore, se si tratta di persona interdetta o inabilitata) pure ancora da
altra persona che rappresenti il richiedente in forza di specifica cura,
generale o speciale, ad agire in suo nome e per suo conto. Se il richiedente
non è in grado di firmare, non è né interdetto o inabilitato né ha nominato un
proprio rappresentante la domanda può venire sottoscritta, in presenza del
richiedente, da due testimoni, possibilmente non familiari, davanti a un
pubblico ufficiale (per esempio, un notaio o il segretario comunale) che
autentica le sottoscrizioni. Entro tre mesi dalla presentazione della domanda
la commissione medica deve fissare la data della visita medica; se tale temine
tra- scorre inutilmente il richiedente può presentare una diffida a provvedere
all’assessorato alla sanità della regione di residenza. Questi è tenuto a
fissare la visita entro nove mesi dalla data di presentazione delta domanda, ed
entro questo termine deve comunque concludersi l’intero procedimento di
accertamento sanitario.
In
sede di accertamento sanitario l’interessato può farsi assistere, a sue spese,
dal proprio medico di fiducia. L’esito dell’accertamento deve essere comunicato
all’interessato mediante il verbale di visita. Se viene riconosciuta
un’invalidità che dà diritto all’indennità di accompagnamento, la commissione
medica trasmette direttamente il verbale di visita alta regione (o ad altro
ente da questa delegato) per istruire la procedura dì pagamento dell’indennità.
L’eventuale ricorso contro il verbale di visita dall’esito negativo va
presentato entro due mesi dalla notifica alla commissione medica superiore
presso il ministero del Tesoro, che decide entro sei mesi, intendendosi in caso
di silenzio respinto il ricorso. Vi è ulteriore possibilità di tutela
giurisdizionale davanti al giudice ordinario.
Una
volta accertato dalla commissione medica il grado d’invalidità, la procedura di
verifica degli ulteriori presupposti che danno diritto al pagamento
dell’indennità di accompagnamento deve concludersi da parte della regione o
dell’ente da questa delegato entro sei mesi dal ricevimento del verbale di visita
da parte della commissione medica. Il decreto relativo alla concessione della
provvidenza economica può venire anch’esso impugnato con ricorso, sempre entro
due mesi dalla notifica, al comitato provinciale dell’INPS, che deve decidere
entro quattro mesi, intendendosi altrimenti rigettato il ricorso e salva sempre
la possibilità di ulteriore tutela avanti il giudice ordinario.
Il pagamento materiale della provvidenza avviene
a cura dell’INPS mediante accredito su conto corrente postale o bancario intestato
al beneficiano, oppure mediante riscossione presso l’ufficio postale indicato
dallo stesso richiedente, il quale ha la possibilità di indicare anche una
persona delegata alla riscossione. La prima quota mensile comprenderà anche
tutte quelle già maturate in precedenza a partire dal mese successivo a quello
di presentazione della domanda; successivamente saranno corrisposti anche gli
interessi legali maturati sulle somme dovute sempre con Fa medesima decorrenza.
Il
beneficiano della provvidenza è poi tenuto a comunicare all’INPS, entro trenta
giorni, ogni mutamento delle condizioni e dei requisiti previsti dalla legge
per la concessione della prowidenza goduta. Nel caso di godimento
dell’indennità di accompagnamento va comunicato il venire meno del requisito
della necessità di assistenza continua, oppure il venire meno della situazione
di assistenza a domìcilio o in un istituto a pagamento, per effetto di un
eventuale ricovero a titolo gratuito in un istituto dì cura.
Il
ricovero rilevante ai fini della dichìarazione è quello nei reparti di
lungodegenza o per fini niabilitativi, non il ricovero per terapie contingenti,
di durata connessa al decorso di una malattia. Per ticovero a titolo gratuito
s’intende quello in cui la retta-base sia a to
tale
carico di un ente o struttura pubblica anche se eventualmente la persona
ricoverata corrisponde una quota supplementare per ottenere un migliore
trattamento rispetto a quello «base». Il ricovero è, invece, a pagamento quando
l’interessato (o la sua famiglia) corrisponde tutta o anche solo una quota
della retta-base (e l’altra quota sia a carico dell’ente pubblico).
Entro
il 31 marzo di ogni anno deve altresì essere trasmessa all’lNPS, al comune o all’ASL
di competenza una dichiarazione di responsabilità, ai sensi della legge del 4
gennaio 1968 n. 15, in merito alla sussistenza o meno di ricovero a titolo
gratuito. Per gli invalidi civili il cui handicap non consente loro di autocertificare
responsabilmente è sufficiente produrre un certificato medico in cui sia indicata
espressamente la diagnosi della minorazione o patologia che non consentono al
soggetto di autocertificare responsabilmente.
Numeri & confronti: La cura a
lungo termine della popolazione anziana
L’incremento
della popolazione anziana ha suscitato nell’ultimo ventennio diffusa
sensibilità e interesse: l’attenzione si è concentrata sia sulle necessità di
riordino del sistema pensionistico, sia sulla domanda dei servizi medici e
assistenziali di cui l’anziano può necessitare in caso di perdita della propria
autonomia.
Benché
esteso anche a diverse aree dell’Asia orientale e sud orientale e nell’Europa
centrale e orientale, il fenomeno risulta particolarmente evidente nelle
economie industriali avanzate. In base alle proiezioni diffuse dal Bureau of Census (l’ufficio federale di
statistica statunitense), il numero delle persone appartenenti alla fascia di
età dei 65 anni e oltre crescerà negli Stati Uniti di oltre 2 volte e mezza tra
I 2000 e il 2050, portandosi poco al di sotto degli 87 milioni di unità. La
quota dei cittadini al di sopra degli 85 anni si più che triplicherà nello
stesso periodo, passando dall’i ,5 per cento al 5 per cento circa della
popolazione complessiva residente. Viceversa, l’incremento dei residenti nella
cosiddetta working age — cioè la
fascia di popolazione in età lavorativa, compresa tra i 20 e i 64 anni — non
supererà nel cinquantennio il 35 per cento: l’incidenza del gruppo sulla
popolazione totale fletterà dal 59 per cento nel 2000 al 53 per cento circa neI
2050.
L’Italia
si colloca ai primi posti nel processo di invecchiamento demografico. La
speranza di vita alla nascita ha raggiunto nel 2004 i 77,8 anni per gli uomini
e gli 83,7 anni per le donne; un ulteriore incremento è atteso nella
prospettiva del 2030, a 81,4 anni per gli uomini e 88 per le donne. Entro il
2050 la popolazione di età pari o superiore ai 65 anni si porterà dagli attuali
11,4 milioni a oltre 18 milioni, e gli ultraottantenni passeranno da poco più
di 2,9 milioni a 7,5 milioni. L’incidenza degli ultra sessantacinquenni sulla
popolazione totale salirà dal 9,5 per cento del 2005 al 34,4 per cento del
2050; quella degli ultra ottantenni passerà dal 5 per cento al 14,3 per cento.
Le
indagini Istat sul sistema sanitario e lo stato di salute d popolazione
italiana collocano poco sopra il 19 per cento l’incidenza dei disabili sul
totale dei sessantacinquenni e oltre; ipotizzando che questa percentuale si
mantenga stabile nel tempo è possibile anticipare un incremento nel numero
degli anziani i autosufficienti dai 2,2 milioni di unità del 2005 a 3,1 milioni
2030.
Anche
se non è facile quantificarle con precisione, le conseguenze economiche
dell’incremento della popolazione anziana non autosufficiente appaiono
sicuramente rilevanti.
In
una relazione pubblicata nell’aprile 2005 il Congressional Budget Office degli
Stati Uniti stima che le spese per le cure a lungo termine (long term care, in
sigla LTC) degli anziani siano destinate a salire da 123 miliardi di dollari
nel 2000 (1,3 per cento del PIL americano) a 346 miliardi nel 2040 (1,5 per
cento). La previsione è formulata nell’ipotesi, considerata coerente con gli
andamenti registrati negli Stati Uniti nell’arco del Novecento, che l’incidenza
dei disabili sul totale della popolazione anziana si riduca dell’1,1 per cento
l’anno tra il 2000 e il 2040, passando dal 25 per cento al 16 per cento; nel
caso in cui questa discesa non si verificasse, le spese per cure a lungo
termine supererebbero nel 2040 i 480 miliardi, corrispondenti al 2 per cento
circa del PIL statunitense.
Nel
caso dell’italia è un rapporto della Ragioneria Generale dello Stato a offrire
alcune indicazioni in merito alla situazione attuale e alle prospettive della
spesa per cure a lungo termine di competenza del settore pubblico. La
Ragioneria stima che la spesa ammontava nel 2004 all’1,56 percento del PIL;
poco più di un punto di PIL poteva essere attribuito alla fascia di età dei 65enni
e oltre. La metà circa degli esborsi era da ricondurre alla componente
sanitaria; seguivano le erogazioni per indennità di accompagnamento, con una
quota del 40 per cento; il resi duo 10 per cento era rappresentato da altre
prestazioni assistenziali. Un esercizio di previsione effettuato nell’ambito de
medesimo studio anticipa un incremento degli oneri per la cura a lungo termine
a carico del bilancio pubblico pari a circa ur punto percentuale di PlLtra il
2010 e il 2050, dall’1,54 per cen to al 2,47 per cento; appare inoltre evidente
una ricomposizio ne dell’aggregato a vantaggio delle fasce più anziane della p0
polazione (Figura 2).
A
conclusioni più pessimistiche giunge un’indagine del di partimento economico
dell’OCSE, che anticipa per il 2050 ui incremento della spesa pubblica per la
cura a lungo termine ~ 3,5 per cento del PIL nell’ipotesi che gli esborsi
crescano più velocemente del reddito, in linea con gli andamenti osservati negli
ultimi due decenni; al 2,8 per cento nell’ipotesi in cui una no specificata
politica correttiva intervenga a correggere la dinE mica della spesa.
Se
le stime di OCSE e Ragioneria contribuiscono a dare un’idea della maggior
pressione che — per effetto dell’invecchiamento demografico — è destinata a
scaricarsi sulle strutture dello stato sociale, resta invece in ombra il contributo
alle spese di cura offerto direttamente dall’anziano o dalla famiglia.
Un
tentativo di allargare l’orizzonte dell’analisi è contenuto n rapporto European
Study of Long Term Care Expenditure, predisposto per la Commissione Europea nel
febbraio 2003. Utilizzando statistiche nazionali ed elaborazioni proprie, gli
autori calcolano che nel 2000 solo il 23 per cento dei disabili italiani sessantacinquenni
e oltre era ricoverato in residenze o istituti di cura specializzati; il 37 per
cento beneficiava soltanto dell’assistenza offerta gratuitamente da familiari,
amici e volontari; il 40 per cento era assistito a domicilio con la
collaborazione di fornitori privati. Il contributo economico dell’anziano o della
famiglia alla copertura degli oneri di cura appare determinante anche in caso
di ricovero. Rielaborando statistiche di fonte Istat, l’Osservatorio Terza Età
segnala che soltanto nel 5 per cento dei casi l’accesso dell’anziano ai presidi
residenziali avviene a titolo gratuito: per il 62 per cento circa dei
ricoverati il soggiorno risulta interamente a carico dell’interessato o della
famiglia, mentre il restante 33 per cento gode di una copertura parziale delle
spese di carattere sanitario offerta dal Servizio sanitario nazionale.
«Tenuto
conto del reddito medio di una persona anziana e della retta media di un
presidio assistenziale — rileva ancora ‘Osservatorio — è verosimile ritenere
che per almeno il 35/40 per cento degli ospiti le famiglie provvedano a farsi
carico di una quota della retta mensile oscillante attorno ai 250 euro.»
Alla
luce di queste osservazioni, si comprende come il tema de!la protezione sociale
dell’anziano non autosufficiente sia da valutare congiuntamente a un insieme di
fenomeni, sociali e demografici, che contribuiscono a mettere in crisi la
funzione di sostegno tradizionalmente esercitata dalla famiglia.
La
comunicazione della Commissione Europea Una
nuova solidarietà tra le generazioni di fronte ai cambiamenti demografici,
uscita nel marzo 2005, offre una sintesi efficace delle problematiche cui i
paesi europei si troveranno a far fronte nei prossimi cenni nell’assistenza
alle persone molto anziane: «...occorrerà assistenza mirata, che in numerosi
paesi è assicurata dalle I glie, in particolare dalle donne, le quali dal canto
loro parte no in misura crescente all’attività lavorativa. Inoltre sempre F
gli, raggiunta l’età adulta, vivono lontano dai genitori. Le famiglie andranno
quindi maggiormente sostenute rispetto a oggi. Sarà compito dei servizi sociali
e delle reti di solidarietà e di assistenza a livello di comunità locali».
Resta
scarso il ricorso a coperture assicurative per cure a lungo termine. Pur a
fronte dei gravosi impegni finanziari potenzialmente nessi all’assistenza di un
anziano disabile, la diffusione di coperture assicurative long term care risulta
ancora assai scarsa in Italia; appare sporadica anche l’offerta di strumenti di
natura più propriamente creditizia, progettati in partnership con enti locali e
istituzioni non-profit.
Dal
punto di vista tecnico le compagnie offrono attualmente due tipi di copertura
per la cura a lungo termine, assimilabili rispettivamente ai modelli “vita” e “malattia”.
Nel primo caso il risparmio affluisce a un fondo che, al verificarsi della
situazione non autosufficienza, eroga all’assicurato un capitale o una rendita
predeterminata (sistema cosiddetto ad accumulazione). Nel secondo caso, il
premio pagato è utilizzato esclusivamente per far fronte ai rischi relativi
all’anno in corso (sistema cosiddetto partizione): al verificarsi dell’evento
assicurato, la compagnia risponde al contraente le spese socio-assistenzali
sostenute, a un massimo mensile pattuito e per tutto il periodo nel c permane
la condizione di non autosufficienza. Per le particolari caratteristiche, le
polizze cura a lungo termine di tipo «vita» risultatano più convenienti se
stipulate in età non avanzata, in modo da accumulare un capitale idoneo a far
fronte ai rischi di non sufficienza propri della terza e della quarta età; le
polizze cura a lungo termine «malattia» risultano invece più economiche se
stipulate in prossimità dell’utilizzo.
Il rapporto annuale dell’Associazione Nazionale
fra le Imprese Assicuratrici segnala che
le 26 compagnie attive in Italia nel Ramo IV-Permanent Health Insurance, una
tipologia entro la quale sono fatte rientrare anche i prodotti cura a lungo
termine, hanno raccolto nel 2005 premi per 24 milioni di euro, pari allo 0,03
per cento della produzione complessiva dei rami vita. La quasi totalità della
raccolta realizzata nell’anno è da ricondurre al settore delle assicurazioni
collettive, in cui i broker risultano praticamente il solo canale attivo di
vendita; gli sportelli bancari e postali intervengono soltanto nel collocamento
di polizze individuali, offrendo un contributo decisamente marginale.
La
scarsa diffusione delle coperture assicurative cura a lungo termine non è un
fenomeno soltanto italiano: nel caso degli Stati Uniti, il Congressional Budget
Office stima in soli 5,7 miliardi di dollari il contributo alla copertura delle
spese di assistenza offerto nel 2004 dall’assicurazione privata, pari al 2,7
per cento delle spese complessive per cure a lungo termine.
Un’eccezione
interessante è rappresentata dalla Germania, dove dal gennaio 1995 è stato
istituito uno specifico ramo di assicurazioni sociali contro il rischio di non
autosufficienza, strettamente collegato al modello dell’assicurazione malattia.
La riforma ha reso obbligatoria la copertura assicurativa cura a lungo termine
per una quota largamente prevalente della popolazione tedesca: al 31 dicembre
2005 essa interessava circa 79 milioni di cittadini su una popolazione
complessiva di 82,5 milioni. A fine 2004 i beneficiari delle prestazioni
risultavano poco più di 2 milioni: di loro, 1,38 milioni godevano di assistenza
domiciliare, mentre 0,67 milioni erano ricoverati in istituti. In base alle informazioni
fornite dal ministero della Salute e della Previdenza Sociale, le spese per
l’assicurazione sociale cura a lungo termine si attestavano nel 2004 a 16,8
miliardi di euro, ripartiti in misura quasi paritetica tra la cura domiciliare
(8,2 miliardi) e quella ospedaliera (8,6 miliardi). Per la cura a lungo termine
un futuro tra pubblico e privato
Benché
le proposte al riguardo non manchino, l’assenza di un programma finalizzato al
sostegno degli anziani non autosufficienti costituisce una lacuna vistosa del
sistema di welfare italiano. La rilevanza attuale e in prospettiva dei fenomeni
economici connessi all’invecchiamento demografico rende difficile immaginare
soluzioni che non poggino prevalentemente sull’utilizzo di risorse pubbliche.
La
possibilità che — parallelamente a un miglioramento del modello di welfare — si
sviluppi anche un sistema di assistenza finanziato dal risparmio personale
appare strettamente legata a due elementi: la disponibilità di un’articolata
gamma di prodotti assicurativi o finanziari; la predisposizione di idonee forme
di sostegno e incentivazione da parte dello stato o di altri soggetti operanti
nella sfera pubblica o del non-profit.
L’incentivazione
fiscale potrebbe contribuire in particolare a ridurre le resistenze esistenti
dal lato della domanda, favorendo l’accesso alle coperture cura a lungo termine
anche delle fasce più giovani della popolazione. La percezione del rischio di
non autosufficienza tende, infatti, tipicamente a manifestarsi in età
intermedia o avanzata; ne deriva un significativo incremento nel costo della
copertura assicurativa, che finisce spesso per scoraggiare le adesioni.
Il contesto lavorativo odierno della società
post-moderna si trova anche per la
salute della nuova categoria sociale dei precari. Uno e cui le dinamiche
economiche, sociali e culturali sono in rapida trasformazione a causa
dell’impiego delle tecnologie di ultima generazione e della globalizzazione dei
mercati. Come si è evidenziato, il sistema produttivo fordista in tutti i paesi
avanzati ha ceduto il posto al sistema post-fordista con la conseguente
apertura di un mercato del lavoro sempre più flessibile vede nascere nei
lavoratori nuovi problemi di salute. Tutti i paesi coinvolti si trova; ad
affrontare profonde trasformazioni che riguardano non solo la s mercato del
lavoro e l’occupazione, ma anche l’ambiente e gli aspetti nuove forme della
salute e della sicurezza sul lavoro. Nello specifico proprio il mondo del
lavoro è stato soggetto di radicali cambiamenti che ne hanno alterato il
profilo tradizionale, sconvolgendo il sistema di carriera la incentrata sul
posto fisso, su contratti a tempo indeterminato e su orari. Le nuove forme di
lavoro atipico offrono senza dubbio dei vantaggi alle imprese, che adattano
rapidamente la consistenza della forza lavoro ala variabilità della domanda del
mercato, e in molti casi anche ai lavoratori che si vedono offerta la
possibilità di accedere rapidamente al mercato de personalizzando la propria
strada professionale e pianificando a lo] mento la carriera. In questo sistema
però si possono riscontrare gli effetti collaterali, se così si può dire, di
cui abbiamo più o meno lungamente parlato che sono stati ben evidenziati nel
2002 dall’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul Lavoro.
Gli
effetti collaterali di un contratto di lavoro atipico coprono un ampio spettro
di ambiti personali e professioni che si caratterizzano per la precarietà,
l’insicurezza e soprattutto il rischio per la proprio equilibrio psico-fisico e
per il proprio stato di salute. L’eccessiva flessibilizzazione porta a una
minore attenzione verso la tutela degli stati di salute e di considerazione
verso le norme di sicurezza. Tutto ciò avviene sia perché le modalità
lavorative spesso sfuggono al controllo quotidiano del datore di lavoro, sia
perché le persone con contratti atipici e precari sono più esposte al rischio
di perdita dell’occupazione, hanno minore accesso alle opportunità formative,
trattamenti retributivi e condizioni di lavoro peggiori e, soprattutto, minori
tutele sia per quanto riguarda gli aspetti previdenziali, sia per quanto
concerne le garanzie contro infortuni e malattie professionali. L’intreccio di
questi fattori è sintetizzabile in un termine molto in voga tra gli studiosi,
flexicurity che in uno stesso concetto, vuole evidenziare la necessaria
compresenza dell’idea di flessibilità e sicurezza. Tale principio poggia su
quattro pilastri fondamentali: 1) la
creazione di “mercati di transizione”, che possano rendere piùfl
passaggi
tra occupazione e disoccupazione, tra forme di lavoro a k pieno e forme di
lavoro a tempo parziale, tra contratti di lavoro diji dente e contratti di
lavoro autonomo, tra il sistema formativo e quc occupazionale, tra lavoro e
pensione;
2) lo sviluppo di strategie che possano
sostenere l’occupazione attfa~
la
riorganizzazione degli orari di lavoro;
3) la pratica di processi di formazione a lungo
periodo che siano in gi
di
sostenere i lavoratori nei processi di cambiamento e durante tufi vita
lavorativa;
4) l’attivazione di garanzie di copertura previdenziale
e assistenziale, particolare per coloro che hanno carriere lavorative precarie
e frammentate.
Con
tale principio si cerca di evidenziare la necessità di ricorrere alla flessibilità
nel mercato del lavoro, senza minimizzarne i rischi sociali. Un approccio della
flexicurity ideato e pensato in questo modo, non si è mai tradotto in un
sistema di idee concrete e di misure operative da realizzare, ma la fili che ne
sta a fondamento ribadisce che la flessibilità non deve essere solo una “deregolazione”
delle condizioni contrattuali e di impiego. Al contrario, essa deve
rappresentare un cambiamento paradigmatico del mondo del lavoro, da accompagnare
con una serie di interventi istituzionali anche a livello di welfare.
Si
potrebbe immaginare la possibilità di fronteggiare le sfide in primo luogo, con
un’integrazione efficace tra la materia della salute e della sicurezza la
gestione delle complesse realtà contrattuali; in secondo luogo, con la predisposizione
di strumenti atti a garantire ai lavoratori flessibili un’adeguata conoscenza
dei rischi inerenti la propria attività e delle misure preventive a bili. Non
si può dimenticare inoltre che su questo terreno la legislazione corrente è
piuttosto inadeguata, dato che i monitoraggi e le patologie codificate sono
generalmente strutturali in riferimento alle tipologie di lavoro del periodo
fordista.
Una
strategia globale che punti alla salute e sicurezza sul luogo di lai dovrebbe
tenere presenti anche le nuove esigenze del lavoratore, noncli concezioni di
salute e malattia post-moderne, l’obiettivo unico potrebbe q di puntare al
“continuo miglioramento del benessere, sia esso fisico, morale, sociale, sul
luogo di lavoro”.
Il
raggiungimento di uno stato di benessere così concepito può essere seguito solo
attraverso il congiungimento di obiettivi complementari e diversificati, che
puntino anzitutto alla ridefinizione di tutte le tipologie di malattie professionali,
con relativo riconoscimento delle stesse, nonché a un’integrazione degli
infortuni sul lavoro con particolare attenzione alle peculiarità dei lavoratori
di nuova generazione. Questi interventi potrebbero strutturarsi sul
rafforzamento della prevenzione delle malattie professionali, attraverso
un’attenta analisi dei rischi nuovi ed emergenti, e di tutte le trasformazioni
sociali riguardanti le forme di occupazione e le modalità organizzative del
lavoro.
Le
famiglie italiane dispongono generalmente di un discreto livello di ricchezza
totale. Una parte assai ampia di questa ricchezza è mantenuta però in forme
scarsamente o per nulla liquide, in particolare la casa; ciò contribuisce a
spiegare perché molti nuclei familiari abbiano difficoltà a mantenere un tenore
di vita adeguato in età avanzata, quando i redditi calano e i bisogni
aumentano.
L’ultimo
censimento della popolazione segnala la presenza in Italia di circa 7,15
milioni di famiglie con capofamiglia di età superiore ai 65 anni; il 74 per
cento di esse risulta proprietaria almeno dell’abitazione di residenza.
Ipotizzando che il valore degli immobili posseduti oscilli mediamente tra i
163.000 e 213.000 euro (i valori sono tratti da Banca d’italia, Indagine sui
bilanci de/le famiglie italiane), si perviene a una stima del patrimonio
immobiliare complessivamente in possesso delle famiglie con capofamiglia
anziano compresa tra 860 e 1.100 miliardi.
Allo
scopo di agevolare almeno in parte la liquidazione di questa enorme massa di
ricchezza e sostenere i consumi delle fasce di età più avanzate, la legge
finanziaria per il 2006 ha introdotto nell’ordinamento italiano il prestito
vitalizio ipotecario. Lo strumento è mutuato dall’esperienza dei reverse
mortgages e dei lifetime mortgages, presenti da diverso tempo rispettivamente
sui mercati americano e inglese.
Anche
per l’italia il legislatore ha abbozzato a fine 2005 ur strumento assai simile
a quelli descritti con riferimento ai mercati anglosassoni, denominandolo
prestito vitalizio ipotecario. legge finanziaria 2005-2006 si limita, infatti,
a stabilire che il prestito ha per oggetto «... la concessione da parte di
aziende ed istituti di credito, nonché da parte di intermediari finanziari, ...
di finanziamenti a medio e lungo termine con capitalizzazione annua di
interessi e spese e rimborso integrale in unica soluzione a scadenza, assistiti
da ipoteca di primo grado su immobili residenziali, riservati a persone fisiche
con età superiore ai 65 anni compiuti». Non essendo stato seguito da alcun
decreto attuativo, lo strumento resta dunque in attesa di una più puntuale sistemazione
normativa.
Da
parte degli intermediari si avverte in particolare l’esiger di una normativa
secondaria che permetta di recuperare capi le e interessi in tempi certi e brevi
dopo il decesso del mutuatario; tale certezza costituisce un prerequisito
fondamentale per l’avvio di eventuali operazioni di cartolarizzazione dei
crediti, finalizzate a trasferire dagli intermediari al mercato una parte del
rischio immobiliare connesso all’erogazione di prestiti vitalizi. La novità e
la complessità dello strumento suggeriscono inoltre l’opportunità di definire
un insieme di regole a garanzia della correttezza della trasparenza del
rapporto contrattuale, con particolare rifE mento ai meccanismo di pricing, al
fine di assicurare ai mutua ri la necessaria protezione da truffe e raggiri.
L’esperienza
anglosassone segnala peraltro che — pur in p senza di un bacino di interesse
potenzialmente assai ampio — dimensioni effettive del mercato dei prestiti
vitalizi tendono a mantenersi contenute. Nel caso del Regno Unito, l’institute
of Actuaries stima che il patrimonio immobiliare libero da ipoteche p seduto
dalla popolazione sopra i 65 ammonti a circa 1.1001 miliardi di sterline; a
fronte di questa evidenza, il volume dei pre ti concessi sotto forma di
lifetime mortgage si è attestato nel 2C a 1,05 miliardi, pari allo 0,5 per
cento circa dei valore dei nuovi mutui accesi nel paese nei corso dell’anno.
Analogo il caso degli Stati Uniti, dove oltre 14 milioni di persone con più di
62 anni sono proprietarie di un’abitazione, ma solo 60.000 risultano
intestatarie di un reverse mortgage.
A
ridurre la richiesta di finanziamenti contribuisce sicuramente la riluttanza
dei potenziali clienti ad assumere un nuovo debito in tarda età, una volta che
abbiano interamente rimborsato Ogni altro prestito contratto in precedenza
Sono
tuttavia i costi a rappresentare il principale fattore disincentivante: dedotte
le voci di spesa richiamate in precedenza e in relazione all’età del
prenditore, l’ammontare del finanziamen to erogabile può scendere sotto il 30
per cento del valore dell’immobile conferito a garanzia. Con riferimento
all’offerta, la difficoltà a raggiungere dimensioni minime del business idonee
a giustificare le spese fisse — in particolare quelle relative al personale
specializzato nel collocamento — ha costretto diversi investitori statunitensi
ad abbandonare il mercato.
Le
condizioni perché anche in Italia si sviluppi un mercato dei prestiti alle
fasce più anziane della popolazione tuttavia non mancano. Si è già detto dello
squilibrio tra la ricchezza reale e finanziaria delle famiglie, che rende i
nuclei appartenenti alle fasce di età più avanzate sempre più house rich, casb poor (ricche in immobili, povere di liquidità); uno squilibrio
destinato ad accentuarsi nel futuro, per effetto della riduzione delle rendite
della sicurezza sociale. Crescono parallelamente le aspettative di vita e il
costo della salute, mentre il calo della natalità rende in prospettiva meno
stringente il movente ereditario.
Alla
luce delle dinamiche richiamate, appare particolarmente interessante il legame
tra prestito vitalizio e assistenza a lungo termine: per il mercato americano
sono già stati strutturati prodotti che consentono di finanziare il premio di
una polizza assicurativa per l’assistenza a lungo termine utilizzando gli
interessi maturati sulla linea di credito aperta a favore del cliente
attraverso un reverse mortgage.
Prima
dell’avvento dell’organizzazione post-fordista e dell’era del lavoro flessibile
la sicurezza sul lavoro e la tutela della salute erano affrontate come
problematiche da risolvere attraverso azioni ex-post mirate se non
all’eliminazione perlomeno al contenimento dei fattori di rischio presenti
nelle attività. Nell’era fordista è sempre prevalsa questa impostazione,
preferita alla prevenzione e alla possibilità di prevedere situazioni di
pericolo. Ora invece, nella società del rischio, nell’era della flessibilità,
si sente la necessità di affrontare i problemi anticipatamente, aggredendo
all’origine le possibili cause determinanti situazioni di pericolo e/o di
eventuali infortuni. Si tratta dunque di passare da un’accezione ex-post, se
vogliamo “in negativo”, della sicurezza e della salute sul lavoro, che risolve
i problemi dopo che sono accaduti (eliminando i fattori di rischio che hanno
causato l’evento infortunistico), a un’accezione ex-ante, “in positivo”, che si
fondi sulla prevenzione e che presupponga il coinvolgimerito preventivo tra le
parti, sulla base del presupposto che la salute e la sicurezza siano elementi
fondamentali per la qualità del lavoro. Questo ribaltamento di fronte
presuppone una concezione di qualità del lavoro e di valorizzazione delle
risorse umane, nell’ottica del miglioramento delle condizioni di vita
professionale, e anche personale e sociale. Se si vuole procedere in questa
direzione, l’attenzione va rivolta non più solo al progresso tecnologico e ai
grandi investimenti, ma anche alla capacità di riconoscere e rispettare i
limiti entro i quali poter configurare uno sviluppo tecnologico senza intaccare
il benessere dei lavoratori e nel rispetto della loro persona e del loro stato
di salute.
Con
questo obiettivo sarebbe interessante rivalutare le strategie avviatesi negli
anni Novanta sulla valorizzazione delle risorse umane, in termini di
miglioramento delle condizioni lavorative.
Lo
stato di benessere non può fondarsi soltanto sull’idea di condizioni fisiche
migliori ma, considerato che i bisogni rilevati dai lavoratori precari vertono
su aspetti legati al riconoscimento di sé e della propria identità sociale, e
dato che si ragiona sempre più in termini di salute olistica, esso deve puntare
anche al benessere psicologico e sociale. La salute così intesa no può
misurarsi semplicemente con strumenti tecnici correlati a fattori fisici
ambientali e non può derivare soltanto dall’assenza di infortuni e malattie
professionali. Essa si riferisce piuttosto alla ricerca della sicurezza e del]
salute in termini previdenziali, progettando e attivando ambienti professionali
e relazionali che siano rispettosi deI contesto sociale e portatori di u stile
lavorativo qualitativamente migliore. In questa ottica il problema della sicurezza
e della salute sul lavoro investe direttamente il processo di trasformazione
dell’organizzazione del lavoro, come pure gli interventi tecnici nella strutturazione
fisica degli spazi e delle postazioni di lavoro.
A
tal proposito sarebbe auspicabile anche un coinvolgimento sempre pi attivo dei
lavoratori nei processi decisionali che riguardano la vita quotidiana nel luogo
di lavoro e gli interventi da attuare.
Pur
trattandosi di idee ambiziose, questo progetto potrebbe rappresentar la nuova
fase di cambiamento e di intervento sulle problematiche correlate alla salute
sul posto di lavoro. D’altronde, dopo le lotte sindacali degli anni Sessanta e
Settanta sulla contrattazione collettiva sul problema e dopo 1 formalizzazione
istituzionale delle richieste di una salute migliore sui luoghi di lavoro,
accontentate prima dalle normative locali poi dai piani nazionali fino al D.
lgs. del 19 Settembre 1994, n. 626 sulla sicurezza, questa nuova fase deve
avviarsi aprendo la strada al dibattito. Lo scenario produttivo senza dubbio
più complesso, più articolato e sicuramente differenziato a suo interno, ma gli
inquadramenti legislativi non appaiono sufficienti a coprire tutte le
problematiche di salute correlate alle nuove forme di lavoro. Sicurezza e
salute sul posto di lavoro si inscrivono oggi nel quadro delle attività
economiche in trasformazione, della società post-moderna sempre pii complessa,
delle forme di occupazione sempre più diversificate.
È
indubbio che l’importanza di un posto di lavoro sano, sicuro e organizzato per
rispondere alle molteplici esigenze, rappresenti una determinante fondamentale
per il miglioramento della qualità della vita lavorativa. Il riscontro può
aversi sul piano della qualità dei prodotti e/o dei servizi aziendali, della
competitività dell’impresa e quindi anche dell’economia del Paese.
Dal
punto di vista economico certamente le difficoltà non mancano. Le imprese
grandi e piccole si trovano ad affrontare le spese per gli adegua menti, per
gli indennizzi, per i costi sociali derivanti dagli infortuni e dalle malattie
professionali, ma l’impegno verso un sistema di qualità produttiva
organizzativa permetterebbe di superare anche problematiche di questo genere.
Attraverso
l’acquisizione dei dati necessari alla valutazione dell’ambiente di lavoro, con
la ricostruzione dell’intero ciclo produttivo e della mappa dettagliata dei
rischi, si potranno avviare interventi necessari e delineare le strategie che
portano alla prevenzione. In tale ottica potrebbe rientrare la creazione di
canali informativi e l’attivazione di percorsi formativi ad hoc in materia di
sicurezza e salute sul lavoro.
Se
esiste una relazione così stretta tra salute e lavoro, e se il lavoro è così
centrale nella vita degli individui, l’attività produttiva che occupa una
cospicua parte della quotidianità di ciascuna persona, può essere una fonte di
rischio che va controllata, limitata e vigilata. D’altro canto il lavoro può
anche rappresentare un’opportunità per il miglioramento delle condizioni di
vita e per la promozione della salute. In sostanza si tratta di trovare il
giusto equilibrio tra condizioni di lavoro e vita esterna anche in vista
dell’attuazione di politiche preventive e di promozione della salute.
D’altronde
sono gli stessi attori della società post-moderna a reclamare riflessioni
basate sul presupposto preventivo. A tal proposito spesso si è evidenziato come
tutti gli individui in qualche modo siano costretti a interrogarsi sulle
problematiche della salute, anche alla ricerca di elementi che permettano
l’attivazione di interventi di autocura31. Tra questi elementi spiccano i
comportamenti preventivi, di cui gran parte degli individui, a livello pil~ o
meno approfondito hanno senz’altro sentito parlare. Sotto questo profilo, in
materia di sicurezza e salute sul lavoro, un ragionamento in termini preventivi
rientrerebbe nelle esigenze più volte espresse da coloro che vivono la
contemporaneità.
Già
il filosofo medievale Tommaso d’Aquino pose il problema della commisurazione
del tributo rispetto ai bisogni pubblici e della proporzionalità dello stesso
alla capacità contributiva individuale. A quell’epoca non esisteva naturalmente
l’esigenza di garantire un livello minimo di prestazioni sanitarie pubbliche e
le cure ai malati erano per lo più offerte da confraternite religiose e da enti
associativi a carattere mutualistico.
Tuttavia,
affermando la necessità di un equilibrio tra entrate e spese pubbliche,
equilibrio radicato sul principio di capacità contributiva, Tommaso d’Aquino
esprimeva un criterio che sarebbe sopravvissuto lungo il corso del tempo, fino
a essere incorporato nelle carte costituzionali delle principali democrazie
occidentali; un principio, inoltre, che si prestava a essere adattato
all’evoluzione dei bisogni e dei diritti all’interno della società.
La
causa del tributo, ossia la sua giustificazione in termini economico-giuridici
all’interno del sistema sociale, consiste proprio nell’essere a disposizione
per la soddisfazione di bisogni pubblici, che sono espressi dalle voci passive
del bilancio dello Stato.
Esiste
una stretta correlazione tra il principio di capacità contributiva — il
principio per cui ognuno di rispondere dell’obbligazione tributaria in ragione
della propria attitudine alla contribuzione, ossia della ~ ricchezza — e la
causa del tributo. Non a caso, i due p fili si compenetrano all’interno dell’art.
53 della Costituzione, in base al quale «tutti sono tenuti a concorrere alle
spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva». Il dovere di
concorso alle spese pubbliche è altresì tradizionalmente collegato al dovere di
solidarietà politica, economica e sociale solennemente sancito dall’art. 2
della nostra Costituzione.
La
spesa sanitaria rappresenta uno dei principali capitoli di spesa pubblica e uno
degli snodi fondamentali del welfare state. La nostra Costituzione, all’art. 3
stabilisce che «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli
indigenti..
I
principi testé accennati presentano un forte legame tra loro: difatti, le
imposte prelevate dalle classi sociali più abbienti servono al finanziamento di
una parte d spesa pubblica — quella sanitaria, per l’appunto — solitamente
fruita dalle classi sociali meno agiate.
Così,
specialmente nell’ambito descritto, si verifica una redistribuzione
(perequazione) di risorse a favore delle classi sociali più deboli, le stesse
che, proprio in ragione della loro ridotta capacità contributiva, partecipano
meno al finanziamento delle pubbliche spese in generale, e di quella sanitaria
in particolare.
Si è
dunque accennato alla funzione perequativa dei tributi nel quadro del
finanziamento della spesa sanitaria. Adesso prenderemo in considerazione alcune
misure fiscali previste a favore dei contribuenti che affrontano spese mediche,
per proprio conto o per conto delle persone legate da particolari vincoli
familiari, di lavoro ecc.
L’assistenza
sanitaria dei cittadini italiani all’estero è normata da regolamenti e convenzioni
internazionali, sulla base del principio di reciprocità.
La
legge che ha dato vita al Servizio sanitario nazionale (legge 833/1978)
assicura ai cittadini italiani l’assistenza sanitaria in Italia ma non
riconosce un diritto incondizionato alla copertura sanitaria fuori del
territorio nazionale.
Esistono
differenti modalità di erogazione dell’assistenza a seconda del motivo per cui
ci si reca all’estero (temporaneo soggiorno, cure ad alta specializzazione,
lavoro, studio ecc.).
Tutti
i cittadini italiani iscritti al Servizio sanitario nazionale che soggiornano
temporaneamente in. stati dell’Unione Europea hanno diritto a ricevere
prestazioni sanitarie in caso di urgenza presso le locali strutture pubbliche.
Oltre ai lavoratori dipendenti e autonomi, e ai loro familiari, hanno diritto
all’assistenza anche talune categorie di cittadini temporaneamente all’estero,
come i borsisti, i ministri del culto, i dipendenti pubblici e i militari in
servizio all’estero. Nell’Unione Europea e negli stati che hanno stipulato
apposite convenzioni bilaterali con l’Italia, anche i turisti beneficiano
dell’assistenza, solo per le cure urgenti. In quei casi le strutture sanitarie
locali erogano direttamente l’assistenza ai beneficiari. Naturalmente gli
interessi devono munirsi dell’apposita certificazione rilasciata dalle ASL.
Nei
paesi non convenzionati, i cittadini temporaneamente all’estero per motivi di
lavoro o di studio hanno diritto al rimborso delle spese mediche sostenute secondo
la procedura prevista dal decreto del presidente della repubblica 618/1980. Nei
paesi non convenzionati i cittadini temporaneamente all’estero per motivi
diversi dal lavoro o studio (turismo, motivi di fami ecc.) non hanno diritto al
rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero per cure mediche urgenti. Sarebbe,
pertanto, prudente tutelarsi con una polizza assicurativa privata contro eventi
sanitari imprevisti. Qualora invece essi si rechino all’estero allo scopo di ricevere
cure mediche (cure presso centri di alta specializzazione all’estero, trapianti
di organo, o casi in non sia possibile ricevere cure tempestive in Italia), devono
preventivamente mettersi in contatto con la propria ASL.
Che
cosa devo fare prima di andare all’estero per motivi di turismo o di svago per
tutelare la mia salute? Cosa devo fare se, durante un viaggio di questo tipo, mi
sento male?
Se
lo stato in questione appartiene all’Unione Europea, per ottenere l’assistenza,
il cittadino deve munirsi prima della partenza dall’Italia di un apposito modulo
denominato «tessera europea di assicurazione malattia» (TEAM). L’emissione e la
distribuzione della i sera europea di assicurazione malattia a tutti gli iscritti
al Servizio sanitario nazionale viene effettuata dal Ministero dell’Economia e
Finanze tranne che per gli assistiti della Lombardia per i quali è la Regione
che provvede a distribuirla
La
tessera europea di assicurazione malattia è entrata in vigore, anche in Italia,
dal i novembre 2004. Esibendo tale tessera nel paese di soggiorno temporaneo,
il cittadino italiano ha diritto al medesimo trattamento fornito ai cittadini
di quello stato.
Si
rammenta che la tessera europea di assicurazione malattia (o il certificato
sostitutivo provvisorio) permette a un cittadino in temporaneo soggiorno
all’estero di ricevere nello stato UE in cui si trova le cure «medicalmente
necessarie» e non solo le cure urgenti.
Nel
caso in cui il cittadino non abbia ricevuto la tessera europea di assicurazione
malattia e debba recarsi in uno stato europeo, fino al 31 dicembre 2005 doveva
rivolgersi presso gli uffici della competente ASL per il rilascio del
«certificato che sostituisce provvisoriamente la tessera europea»; dopo tale
data il certificato viene rilasciato solo in caso di furto o smarrimento della
tessera.
La
tessera distribuita ai cittadini italiani è contemporaneamente tessera
sanitaria (TS) per l’Italia e tessera europea di assicurazione malattia (TEAM).
La tessera sanitaria mostra, sul fronte, le informazioni già riportate sul
tesserino di codice fiscale e i dati sanitari riservati alla regione. La
tessera è riconoscibile anche dalle persone non vedenti, grazie all’uso di
caratteri in rilievo. Il retro della tessera sanitaria ha validità di tessera
europea di assicurazione malattie, dal 1 gennaio 2006, è utilizzata da chi si
reca in soggiorno temporaneo in uno degli stati dell’UE, oltre che dello Spazio
economico europeo (SEE: Norvegia, Islanda, Liechtenstein) e in Svizzera.
La
tessera ha validità 5 anni, salvo diversa indicazione da parte della Regione o
dell’ASL di assistenza. In prossimità della scadenza, l’Agenzia delle entrate provvede
automaticamente a inviare la nuova tessera a tutti i soggetti per i quali non è
decaduto il diritto all’assistenza.
Se
lo stato non fa parte dell’UE né dello SEE bisogna accertarsi se abbia siglato
o no un accordo con l’Italia in materia sanitaria. Infatti, esiste tutta una
serie di accordi bilaterali stipulati tra l’Italia e gli altri stati
extracomunitari per quanto riguarda l’assistenza sanitaria:
Argentina,
Australia, Brasile, Croazia, Slovenia, Principato di Monaco, Repubblica di San
Marino. Nel caso in cui lo stato non faccia parte dell’UE e neanche dello SEE,
è necessario farsi rilasciare dalla ASL l’attestato di copertura sanitaria in
quello stato.
In
tutti gli altri paesi con i quali lo Stato non ha firmato nessuna convenzione o
accordo i cittadini temporaneamente all’estero per motivi diversi dal lavoro o
studio non hanno diritto al rimborso delle spese sanitarie sostenute all’estero
per cure mediche urgenti. Pertanto, per i paesi non inclusi nell’Unione
Europea, come gli Stati Uniti o il Canada, per esempio, è consigliabile munirsi
di una apposita polizza assicurativa.
Mediamente
la polizza deve contenere: rientro in
Italia su aereo sanitario; anticipo di denaro in caso di furto o spese
improvvise per malattia o altro. Il viaggio di un familiare per raggiungere il
malato o l’infortunato è spesso previsto solo se c’è una degenza che eccede i
sette giorni: occorre verificare quali siano le spese sostenute per questo
familiare, perché quasi sempre riguardano solo il viaggio. Il rimborso delle
spese mediche è gravato da franchigia (assunzione di una parte del danno da
parte dell’assicurato) e riferito, in genere, ai casi di infortunio e non
malattia.
È
necessario ricordare che sono quasi sempre escluse dai rimborsi quelle
patologie di cui l’assicurato soffriva prima della partenza.
Quando
si torna dal viaggio occorre fare la richiesta di rimborso con raccomandata A/R
nei termini previsti dal contratto, allegando tutte le carte del caso, comprese
le ricevute per l’acquisto di farmaci.
Il rimborso da parte del Servizio sanitario
nazionale delle spese per visite o esami specialistici sostenuti durante una
vacanza all’estero dipende dal tipo di stato estero. Infatti, per le cure non
urgenti prestate in uno stato dell’Unione Europea il rimborso è previsto dal
Servizio sanitario nazionale unicamente se esiste un accordo bilaterale tra
l’Italia e lo Stato estero interessato che preveda un rimborso per quel tipo di
spese.
Quanto
al rimborso delle cure di alta specializzazione all’estero il Servizio
sanitario nazionale assicura tutte le prestazioni comprese nei livelli
essenziali di assistenza. Nel caso di prestazioni ad altissima specializzazione
non ottenibili in Italia in forma appropriata e tempestiva alla particolarità
del caso clinico si può richiedere una specifica autorizzazione dell’ASL, che
poi consente il rimborso delle spese in forma totale o parziale.
Il
servizio sanitario nazionale disciplina l’assistenza sanitaria dei cittadini italiani
e dei loro familiari durante la permanenza all’estero dovuta a motivi di
lavoro. È loro riconosciuta la piena tutela assicurativa sia in forma diretta,
sia in forma indiretta. Anche in questo
caso si possono presentare quattro situazioni:
1. Soggiorno
temporaneo: i lavoratori subordinati pubblici e privati), i lavoratori autonomi
e i lavoratori dei trasporti internazionali utilizzano la tessera europea di
assicurazione malattia (o il certificato sostituti-vo provvisorio).
2. Residenza: i lavoratori che trasferiscono per
motivi di lavoro la residenza all’estero (intesa come abituale dimora) hanno
diritto al rilascio da parte dell’ASL del modello E106, che assicura per sé e
per i propri familiari l’assistenza sanitaria secondo le stesse regole e gli
stessi livelli riconosciuti ai lavoratori residenti.
3. Stati convenzionati: nei paesi che hanno
stipulato accordi bilaterali con l’Italia, l’assistenza sanitaria per i
lavoratori e loro familiari che trasferiscono per motivi di lavoro la residenza
all’estero è assicurata in forma diretta o indiretta, a seconda di quanto
previsto dalla convenzione.
4. Paesi non convenzionati: l’assistenza
sanitaria all’estero è garantita dal decreto del presidente della repubblica
618/1980, che assicura la copertura assistenziale in qualsiasi paese del mondo
ai cittadini italiani che si recano all’estero in distacco lavorativo per brevi
periodi. Prima di partire, bisogna richiedere alla propria ASL di appartenenza
l’attestato previsto dall’art. 15 del decreto del presidente della repubblica
618/1980, contenente una dichiarazione del datore di lavoro, da dove risulti
l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale per sé e i familiari. Tale
dichiarazione dovrà essere presentata, in caso di necessità, al consolato
italiano competente unitamente alle fatture relative alle spese sanitarie
sostenute e alla domanda di rimborso; il consolato provvederà a trasmettere al
ministero della Salute la domanda di rimborso. Si hanno tre mesi di tempo dalla
data delle fatture per presentare domanda di rimborso ai consolati, che nel
caso di spese ingenti possono provvedere a degli anticipi fino al 50 per cento
del valore.
All’estero,
entro tre mesi dalla prestazione sanitaria ricevuta, è possibile richiedere il
rimborso per le spese sanitarie sostenute all’ambasciata o al consolato
territorialmente competente.
Non
rientrano tra le categorie assistite all’estero: le persone che già
usufruiscono nello stato estero di prestazioni sanitarie garantite da
un’assicurazione pubblica o privata contro il rischio malattia prevista dalla
normativa locale, né i lavoratori che hanno un’assicurazione sanitaria
garantita dal datore di lavoro.
Gli
studenti e i titolari di borsa di studio godono della copertura sanitaria
all’estero secondo due diverse modalità, a seconda dello stato prescelto:
1.
stati dell’Unione Europea, Norvegia, Islanda, Liechtenstein e Svizzera:
l’assistenza sanitaria è equivalente a quella dei lavoratori ed è assicurata
dalla tessera europea di assicurazione malattia (o in mancanza dal certificato
sostitutivo);
2. paesi non convenzionali: l’assistenza
sanitaria all’estero è garantita dal decreto del presidente della repubblica
618/1980, che assicura la copertura assistenziale ai cittadini italiani che si
recano in qualsiasi paese del mondo; prima di partire bisogna richiedere sempre
alla propria ASL l’attestato previsto dall’art. 15 del decreto.
Quando
ci si trova all’estero, entro tre mesi dalla prestazione sanitaria, è possibile
richiedere il rimborso per le spese sanitarie sostenute all’Ambasciata o al
Consolato territorialmente competente.
Se
si è emigrati residenti all’estero e durante uno dei soggiorni in Italia si ha
bisogno di assistenza sanitaria, occorre esibire una dichiarazione del
consolato italiano del luogo dove si risiede, che attesti lo status di
emigrato. L’assistenza sanitaria è concessa per un periodo di tempo non
superiore ai 90 giorni, anche cumulabili, per anno solare.
Per
tutti i cittadini la Costituzione italiana riconosce come fondamentale il
diritto alla tutela della salute, affermando, nell’art. 32: «la Repubblica
tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti... i cittadini devono collaborare
al mantenimento della salute, sia osservando i comportamenti richiesti
nell’interesse collettivo, sia partecipando alle spese necessarie, in rapporto
alle loro diverse capacità contributive». L’art. 3 afferma: «tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale... senza distinzione di razza, sesso, religione,
opinioni politiche, condizioni personali e sociali». Il diritto alla salute era
stato ribadito a livello internazionale dalla «Dichiarazione universale dei
diritti dell’uomo».
Il «Patto internazionale sui diritti economici,
sociali e culturali» del 1966 afferma che «ogni individuo ha diritto a un
livello di vita adeguato per sé è la sua famiglia che includa un’alimentazione,
vestiario e un alloggio, adeguati».
Nella
convenzione dell’QNU sui diritti dell’infanzia, approvata dall’assemblea
generale il 20 novembre 1989, è citato espressamente l’emigrante e la sua
tutela anche sanitaria.
Le
indicazioni costituzionali e quelle derivanti da patti e convenzioni
internazionali rispondono a una logica di solidarietà umana e di prevenzione
collettiva, ma non hanno una natura immediatamente attuativa; resta affidata al
legislatore nazionale l’individuazione e la determinazione degli strumenti, dei
tempi e dei modi di attuazione. Ciò ha fatto sì che per anni in Italia
l’immigrazione, non regolamentata né tutelata, abbia generato l’esclusione non
solo dalla normativa, ma anche dall’accesso ai servizi, anche dei più
elementari, di coloro che non avevano alcun diritto a prestazioni, pur vivendo
accanto a cittadini italiani nello stesso territorio.
Dalla
metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, a fronte di un diritto di
salute negato per legge agli immigrati clandestini o inaccessibile ai più dei
regolari (per complessi iter burocratici, o perché connesso ad alcune
condizioni giuridiche precise quali la residenza, la condizione lavorativa
ecc.), è stato il volontariato a supplire alla carenza di tutela della salute
da parte pubblica, garantendo di fatto un diritto all’assistenza sanitaria.
Con
la legge 39/1990, la cosiddetta «legge Martelli», sono state introdotte norme
sull’ingresso «il soggiorno in Italia per motivi non solo di lavoro, ma anche
di studio, di famiglia o di cure mediche. Sono cominciati così i
ricongiungimenti familiari, che tanta importanza hanno assunto negli anni
successivi nel modificare le
caratteristiche socio-demografiche della popolazione straniera presente in Italia. In particolare
l’art. 9, comma 12, stabilisce che: «i cittadini extracomunitari e gli apolidi
che chiedono di regolarizzare la loro posizione, sono a domanda assicurati al Servizio
sanitario nazionale e iscritti alla USL del comune di effettiva dimora».
Negli anni successivi vengono attuati vari
interventi legislativi che non vanno però a modificare, se non in piccola
parte, la legge 39. Il successivo
decreto in materia di immigrazione, il decreto legge 489/1995 (decreto Dini)
dal titolo: (Disposizioni urgenti in materia di politica dell’immigrazione e
per la regolamentazione ingresso e soggiorno nel territorio nazionale dei
cittadini dei paesi non appartenenti all’Unione Europea», dedica maggiore
attenzione alle problematiche sanitarie dei cittadini stranieri presenti in
Italia. Il decreto estende il diritto alle cure ordinarie e continuative e i
programmi di medicina preventiva, anche agli irregolari e ai clandestini. Vengono
inoltre erogate senza oneri a carico dei richiedenti, le prestazioni preventive, come quelle per
la tutela della maternità e della gravidanza.
Dopo l’entrata in vigore del trattato di
Maastricht (1993) e dell’accordo di Schengen (1997), un traguardo importante
per la tutela della salute dello straniero extracomunitario, si è raggiunto con
l’emanazione della legge 40/1998 (legge quadro sull’immigrazione, detta
anche «Turco-Napolitano») confluita con
decreto legislativo 286/1998 nel Testo
unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme
sulla condizione dello straniero», le cui disposizioni sanitarie rappresentano
una svolta rilevante rispetto al passato.
La motivazione di fondo della legge del 1998
partiva dalla consapevolezza che l’immigrazione rappresentava una risorsa
economica, demografica e culturale importante, che tale fenomeno era ormai
strutturale e necessitava di una politica di risposta ai bisogni di salute dei
nuovi cittadini. In particolare gli artt. 34, 35, 36 recano le disposizioni in
materia sanitaria, che affrontano i punti che avevano impedito allo straniero
di godere del diritto alla salute, che secondo la Costituzione dovrebbe essere
effettivamente garantito a ogni cittadino. Significativi sono stati i
cambiamenti sia per coloro che possono iscriversi al Servizio sanitario
nazionale, sia per i cittadini stranieri non in regola con le norme relative
all’ingresso e al soggiorno, i quali con l’emanazione di questa legge hanno
potuto godere di un diritto per tanti anni negato o nascosto.
Il Testo unico riconosce, a prescindere dalla
condizione giuridica, «i diritti fondamentali della persona umana» e sancisce
l’inclusione a pieno titolo degli immigrati in condizione di regolarità
giuridica nel sistema di diritti e doveri attinenti l’assistenza sanitaria, a
parità di condizioni e opportunità con il cittadino italiano, estendendo tali
diritti anche a coloro che sono presenti in Italia in situazione di
irregolarità giuridica e clandestinità. La legge Bossi-Fini (legge 189/2002, Modifica
alla normativa in materia di immigrazione e di asilo») non ha modificato questi
principi stabiliti dal Testo unico.
I principi e le disposizioni contenute nel
Testo unico hanno trovato maggiore concretezza applicativa con l’emanazione del
regolamento di attuazione (il decreto del presidente della repubblica
394/1999), che disciplina le modalità più opportune per garantire che le cure
essenziali e continuative e le modalità di erogazione nell’ambito delle
strutture della medicina nel territorio o nei presidi sanitari, pubblici e
privati accreditati. L’art. 43 contempla particolari procedure per evitare che
la condizione di clandestinità influisca sull’erogazione delle cure necessarie.
A questo proposito, il regolamento di attuazione prevede per la registrazione
delle prestazioni erogate a tali soggetti e per le eventuali prescrizioni
diagnostiche terapeutiche, l’utilizzo di un codice a sigla STP (straniero temporaneamente
presente), tale codice viene rilasciato da tutte le strutture sanitarie
pubbliche, è riconosciuto su tutto il territorio nazionale e identifica
l’assistito per tutte le prestazioni previste. È subordinato alla dichiarazione
d’indigenza, rilasciata dallo straniero attraverso la compilazione del modello
1.STP predisposto dal Ministero della Sanità, che rimane agli atti della
struttura che l’ha emesso. Lo straniero in possesso ditale codice è esentato
dal pagamento del ticket, per tutte le prestazioni di primo livello e per
quelle che sono in esenzione per i cittadini italiani, alle medesime condizioni
(patologia, età e reddito).
Ulteriori
chiarimenti e dettagli operativi al riguardo sono inoltre stati forniti dal
ministero della Sanità con la circolare n. 5 del 24/3/2000 che contiene le
indicazioni applicative del decreto legislativo 2286/1998. La circolare
fornisce la distinzione tra cure urgenti ed essenziali: sono urgenti «le cure
che non possono essere differite senza pericolo per la vita o danno per la
salute della persona»; essenziali «le prestazioni sanitarie, diagnostiche,
terapeutiche relative a patologie non pericolose nell’immediato e nel breve
termine, ma che nel tempo potrebbero determinare maggiore danno alla salute o
rischi per la vita».
Nei
piani sanitari nazionali degli ultimi anni, a partire da quello 1998-2000 (tale
documento, per la rilevanza che ha rivestito in termini di programmazione su
base nazionale, ha assunto un significato storico: per la prima volta, infatti,
la salute degli stranieri immigrati è stata riconosciuta tra le priorità del
Servizio sanitario nazionale e dell’intera collettività che esso tutela), è
ribadita la necessità di assicurare l’accesso delle popolazioni immigrate al
Servizio sanitario nazionale rendendo l’offerta di assistenza pubblica visibile
e facilmente accessibile. In particolare il piano 2006-08 dedica ampio spazio
«agli interventi in materia di salute degli immigrati e delle fasce sociali
marginali» ed evidenzia la necessità di promuovere politiche di prevenzione in
campo sanitario per giovani e minori, studi e ricerche sulla diffusione di
malattie infettive nonché interventi di formazione per gli operatori sanitari,
focalizzando l’attenzione sul settore materno-infantile, sugli infortuni sul
lavoro, sulle condizioni sanitarie delle popolazioni rom e sulle condizioni
delle popolazioni senza fissa dimora.
Chi
proviene da un paese straniero, e non appartiene all’Unione Europea, ha il
diritto, ma anche il dovere, di iscriversi al Servizio sanitario nazionale
italiano, che un tempo si chiamava «la mutua». Basta avere un regolare permesso
di soggiorno, richiesto per lavoro, motivi familiari, adozione, affidamento,
acquisto di cittadinanza, asilo politico o umanitario.
Per
iscriversi bisogna recarsi all’ASL del quartiere dove si risiede, presentando
il permesso di soggiorno, il codice fiscale e il certificato di residenza che
può essere compilato anche da soli (si chiama autocertificazione del
domicilio). Poi è possibile scegliere il medico di famiglia e il pediatra di
fiducia da una lista di nominativi che la ASL mette a disposizione dei
cittadini. L’iscrizione al Servizio sanitario nazionale vale fino allo scadere
del permesso di soggiorno, ma per mantenerla valida nel periodo di rinnovo del
certificato basta mostrare il cedolino rilasciato dalla questura che attesta la
richiesta. È poi precisato che, in mancanza di residenza, il cittadino
straniero e i suoi familiari a carico sono iscritti negli elenchi degli
assistibili dell’ASL nel cui territorio hanno effettiva dimora; per luogo di
effettiva dimora si intende quello riportato sul permesso di soggiorno. Tale
innovazione è volta a favorire l’iscrizione di quanti, a causa di una precarietà
economica o lavorati va, sono costretti a continui spostamenti sul
territorio nazionale, con corrispondenti
cambiamenti di alloggio.
Con l’iscrizione al Servizio sanitario
nazionale si ottengono gli stessi diritti e doveri dei cittadini italiani: è possibile
scegliere il medico di famiglia e il pediatra, fare tutte le visite e gli esami
specialistici che il medico riterrà opportuno prescrivere, essere ricoverati in
ospedale, fare un’operazione chirurgica e ottenere le ricette per acquistare i
farmaci. Non tutto è gratis. In alcuni casi, regola che vale per tutti, lo
Stato chiede di contribuire alla spesa sanitaria facendo pagare una somma di
denaro chiamata ticket.
L’assistenza sanitaria è garantita anche ai
familiari di primo grado a carico del capofamiglia — coniuge, fratelli,
genitori e figli — che soggiornano regolarmente in Italia.
Chi
risiede in Italia per motivi di studio, religiosi o è collocato alla pari, ha due possibilità:
procurarsi, prima di partire, un’assicurazione sanitaria riconosciuta dall’Italia
contro il rischio di malattie, infortunio o maternità, oppure fare un’iscrizione
volontaria al Servizio sanitario nazionale, pagando una quota fissa che però va
rinnovata ogni anno. Con quest’ultima formula sono assistiti anche i familiari
a carico. Chi ha un permesso di soggiorno di breve durata — per esempio, per
affari o turismo — e non ha un’assicurazione privata deve pagare per intero le
cure che riceve e gli esami che fa.
Anche
in assenza di un permesso di soggiorno valido (perché è scaduto, non è stato rinnovato,
oppure non è mai stato ottenuto) è possibile essere curati in ospedale o in
ambulatorio presentando la tessera STP (straniero temporaneamente presente),
che va richiesta all’ASL e prevede l’erogazione anche «ai cittadini stranieri
presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative
all’ingresso e al soggiorno» delle cure ambulatoriali urgenti o comunque
essenziali, anche continuative, per malattia e infortunio, e l’estensione dei
«programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e
collettiva». Inoltre l’articolo garantisce: la «tutela sociale della gravidanza
e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane» (comma 3,
lettera a), «la tutela della salute del minore in esecuzione alla Convenzione
sui diritti del fanciullo del 20/11/1989» (comma 3, lettera b), «le
vaccinazioni secondo la normativa e nell’ambito di interventi di campagne di
prevenzione collettiva autorizzati dalle regioni» (comma 3, lettera c), «gli
interventi di profilassi internazionale» (comma 3, lettera d), e «la
profilassi, la diagnosi, e la cura delle malattie infettive» (comma 3, lettera
c).
In
molte città, inoltre, è possibile rivolgersi anche alle associazioni in cui
lavorano medici e dentisti volontari.
Tutti
gli immigrati irregolarmente presenti in Italia che richiedono prestazioni
sanitarie gratuite o soggette a ticket non devono pagare perché si trovano in
condizioni di indigenza. Questa condizione deve essere attestata da un’autocertificazione
che va compilata su un apposito modulo (dichiarazione d’indigenza) al momento
della richiesta. Per ottenere le prestazioni gratuite o parzialmente gratuite
occorre eseguire le visite e gli esami nelle strutture pubbliche o
convenzionate.
Un
clandestino che va da un medico o in ospedale non rischia di essere denunciato.
Chi si rivolge a una struttura sanitaria riceverà le cure necessarie e non sarà
denunciato per il fatto di non avere il permesso di soggiorno.
Le
donne immigrate prive di permesso di soggiorno possono rivolgersi ai seguenti
servizi, nel rispetto della riservatezza:
Consultorio
familiare per: contraccezione (con pagamento ticket); gravidanza (prestazione
gratuita); certificazione per interruzione di gravidanza (prestazione gratuita);
controllo menopausa (con pagamento ticket). ~i ospedali per: controllo
gravidanza (assistenza e esami) (prestazione gratuita); assistenza al parto
(prestazione gratuita); interruzione di gravidanza (prestazione gratuita);
Spazi
prevenzione della lega tumore per esami dell’apparato genitale femminile per la
prevenzione (con pagamento ticket).
Ai
minori irregolari è garantita la tutela della salute in esecuzione della
convenzione sui diritti dell’infanzia, che prevede, per tutti i minori di 18
anni «il diritto al godimento del miglior stato di salute possibile e a
beneficiare dei servizi medici e di riabilitazione».
Tuttavia
i minori stranieri irregolari non possono essere iscritti al Servizio sanitario
nazionale e non possono usufruire del pediatra di libera scelta. Hanno però
diritto a usufruire delle cure mediche presso strutture sanitarie pubbliche,
quali ambulatori specialistici, ospedali, consultori pediatrici di zona. I
bambini di età compresa tra i O e i 6 anni, anche se irregolari, hanno diritto alle
cure mediche di base e specialistiche presso le strutture ospedaliere e
territoriali, in forma gratuita. Se dopo la nascita si richiede un permesso di
soggiorno temporaneo, per i sei mesi successivi si ha diritto all’iscrizione al
Servizio sanitario nazionale presso il distretto della zona di competenza e ad
accedere a tutte le cure previste per i bambini italiani, tra cui il pediatra
di base. Le vaccinazioni sono obbligatorie, il bambino può riceverle
gratuitamente presso i consultori e i centri di vaccinazione. Tutti i minori
irregolari con un’età superiore ai 6 anni hanno diritto fino al compimento del
diciottesimo anno a tutte le prestazioni di primo livello. Le prestazioni
specialistiche sono erogate in seguito al pagamento del ticket, a parità dei
cittadini italiani.
Chi
è ancora all’estero e vuole venire in Italia a curarsi, con un suo eventuale
accompagnatore, deve presentare una dichiarazione rilasciata dalla struttura
sanitaria italiana per ottenere uno specifico visto di ingresso e relativo permesso
di soggiorno per cure mediche. I requisiti che deve possedere tale
dichiarazione sono: il tipo di cura, la data d’inizio, e la durata del trattamento
terapeutico. Deve, inoltre, dimostrare di potersi pagare il vitto e l’alloggio
(per tutto il periodo di permanenza) e versare alla struttura, in genere l’ospedale,
il 30 per cento delle spese previste, come deposito. È inoltre necessario farsi
rilasciare dall’ambasciata italiana un visto di ingresso e un permesso di
soggiorno.
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[1] La
medicina sembra essere profondamente influenzata dai costumi, dai valori,
dall’economia e dalla politica delle società in cui si sviluppa. Il confine tra
la medicina e la società è sempre più sfumato e incerto. Per ripensare gli
scopi della medicina, occorre probabilmente ripensare nello stesso tempo i
valori della società.
[2] Dausset J., La medicine predictive et son ethique, in Pathologie et Biologie, 1997, pp. 199-204.
[3]
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[4]
Federici Raffaele, Premessa in
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[5]
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[6] D‘Auria Giuseppina, Etica,
salute e spiritualità: un progetto formativo nazionale ecm “itinerante”, in www.oltresalerno.it
– “Quelli dell’équipe” (archivio).
[7] Per approfondimento: D’Auria Giuseppina, Crediti assegnati negli eventi formativi dell’educazione continua in medicina: obblighi ed esenzioni per professioni socio-sanitarie, in www.oltresalerno.it – “Quelli dell’équipe” (archivio).
[9] DRG Sigla di diagnosis related group (raggruppamenti
omogenei di diagnosi nei ricoveri ospedalieri classificazione patologie che
presentano caratteristiche cliniche analoghe e che richiedono per loro
trattamento quantità omogenee dir sorse (in realtà, all’interno di ciascun gruppo
si possono anche ritrovare patologie con caratteristiche cliniche non esattamente
corrispondenti ma caratterizzate da un assorbimento di risorse simile). Per
assegnare ciascun paziente a un DRG sono necessarie attualmente le seguenti
informazioni minime: la diagnosi principE le di dimissione, l’età, il sesso, la
modalità di dimissione.
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